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mercoledì 1 febbraio 2012

giussani

Una nuova
intelligenza delle cose


di FRANCESCO VENTORINO
Nel motu proprio Ubicumque et semper, con il quale è stato istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, il Papa mostra perché è necessario che le Chiese di antica formazione si presentino al mondo contemporaneo con un nuovo slancio missionario. E suggerisce preziose indicazioni di metodo.
Benedetto XVI, ricordando quanto ha scritto all'inizio della sua prima enciclica Deus caritas est - e cioè che "all'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (n. 1) - afferma nel motu proprio istitutivo del nuovo dicastero: "Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l'inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita".
Il cristiano è un uomo graziato perché ha fatto un incontro grazie a cui gli si sono aperti gli occhi. Si è imbattuto in colui senza il quale tutto sarebbe privo di senso, privo di una ragione adeguata e di una vera e fondata speranza. Ha riconosciuto che la verità è Cristo, ha capito che fuori dal rapporto con lui non potrebbe più vivere e morire. Ebbene, un uomo raggiunto e cambiato da questo incontro, affronta con drammaticità tutto, dalle questioni personali a quelle dell'ambiente in cui studia o lavora, e più in generale a quelle della società in cui vive.
Don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione, diceva che questa drammaticità consiste nell'avvertire dovunque la mancanza di "qualcosa" di insostituibile: Cristo stesso, colui che non può essere sostituito da nessun altro. È il senso della sproporzione tra il modo in cui tutti affrontano la vita e il diverso approccio derivante dalla memoria dell'incontro con lui.
Non c'è niente di moralistico, insomma, nella evangelizzazione cristiana. Una vera consapevolezza di ciò che essa implichi ci libera anzi da ogni affanno e, per così dire, da noi stessi: l'evangelizzazione, infatti, non è altro che questo, lui che vive in me, la memoria di lui divenuta luce ai miei passi e gusto delle cose. Secondo il fondatore di Comunione e liberazione, la moralità consiste nel "non sottrarsi alla traccia dell'incontro", anzi, in modo più preciso e completo, "all'attrattiva dell'incontro": quel presentimento di verità che è esploso dentro di noi davanti a Gesù.
All'origine della missione del cristiano vi è dunque il passaggio dall'incontro a una intelligenza nuova delle cose. Questo passaggio, che dovrebbe essere naturalissimo, si imbatte spesso in una resistenza derivante dalla soggezione al potere. Il quale cerca di impedire che l'incontro fatto diventi storia, perché pretende di "determinare la vita con i suoi progetti, con i suoi paradigmi, per i suoi scopi": in una parola, "tende a ridurre il desiderio" (così scrive ancora don Giussani nel volume L'io rinasce in un incontro). Questa pressione si fa sempre più forte. Nel nostro tempo - leggiamo in Ubicumque et semper - anche presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo, si sono verificate delle trasformazioni sociali che "hanno profondamente modificato la percezione del mondo (...) e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell'uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale".
La verità intuita nell'incontro cristiano può divenire oggi mentalità personale solo attraverso un lavoro critico e un'ascesi continua, lavoro e ascesi impensabili al di fuori della Chiesa, corpo sociale in grado di incidere nella società, di divenirne forza trainante. L'opposizione personale al potere non si reggerebbe senza l'appartenenza a una unità più grande.
È per questo che Benedetto XVI ha istituito un nuovo consiglio pontificio che tenga desta la coscienza personale ed ecclesiale in questo tempo in cui - come scriveva Giovanni Paolo II nella Christifideles laici (n. 34) - "certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana". Ma la condizione perché questo accada "è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali"; proprio quelle che vivono in Paesi tradizionalmente cristiani.

Postato da: giacabi a 20:22 | link | commenti
cristianesimo, giussani, ventorino

lunedì, 25 aprile 2011
Auguro una Felice e Santa Pasqua a tutti voi
Volantone di Pasqua CL 2011
***
"Ma se Cristo non è risorto vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede" (1 Cor 15,14s). La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull'uomo, sull'essere dell'uomo e sul dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi. La nostra valutazione personale è l'ultima istanza. Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell'uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poichè allora Dio si è veramente manifestato.
Benedetto XVI

"L'Avvenimento non identifica soltanto qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente, definisce il presente, da contenuto al presente. Ciò che si sa o ciò che si sà diventa esperienza se quello che si sa o ciò che si ha è qualcosa che ci viene dato adesso: c'è una mano che lo porge ora, c'è un volto che viene avanti ora, c'è del sangue che scorre ora, c'è una resurrezione che avviene ora.  Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo."    
                                                                                      Mons. Luigi Giussani.

Postato da: graciete

Postato da: giacabi a 16:24 | link | commenti
benedettoxvi, giussani

sabato, 23 aprile 2011

Il luogo della verifica: l'esperienza umana

Autore: Graziola, Don Matteo
Fonte: Centro Culturale Rebora
Abbiamo svolto un percorso che dal senso religioso dell'uomo ci ha portato ad incontrare l'avvenimento di Cristo e la sua pretesa di essere la realizzazione di ciò per cui la vita è fatta. Abbiamo visto come questo avvenimento si prolunga nella storia attraverso il fenomeno della Chiesa; infine abbiamo cercato di identificare i fattori fondamentali di questo fenomeno e la coscienza che la Chiesa ha di sé come realtà umana che veicola il divino.

Ora dobbiamo porci una domanda fondamentale: tutto questo risponde al vero?
Il fenomeno della Chiesa è inconfondibilmente identificato, ma il messaggio per cui essa eccede la sua fenomenicità è vero o no? La Chiesa è veramente il prolungarsi di Cristo nel tempo e nello spazio?

Per rispondere a queste domande dobbiamo anzitutto chiarire i criteri necessari per poter dare una risposta.

Ciò che la Chiesa reclama come fattore giudicante

La Chiesa, come Gesù, si rivolge a quella che abbiamo chiamato ne Il senso religioso la esperienza elementare: vale a dire quel complesso di evidenze ed esigenze originali… con cui l'essere umano si protende sulla realtà.
La proposta della Chiesa vuole entrare nel dramma dell'universale confronto in cui l'uomo è proiettato da quelle evidenze ed esigenze.
Questa è la sfida della Chiesa: essa scommette sull'uomo, ipotizzando che il messaggio di cui essa è strumento, vagliato dall'esperienza elementare, rivelerà la presenza prodigiosa.
La risposta che il messaggio cristiano contiene alle esigenze del cuore umano sarà senza paragone rispetto a qualunque altra ipotesi.


Attenzione però che la Chiesa si rivolge all'esperienza stesso dell'uomo, non alle maschere di umanità dominanti le diverse forme di società. La Chiesa si vuole misurare con l'uomo che usa autenticamente del suo senso critico, si affida al giudizio della nostra esperienza sinceramente valutata: "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?", ebbe a dire Cristo stesso in un episodio del Vangelo.

Un criterio di giudizio utilizzato al culmine della sua espressione

La Chiesa ripete con Gesù che può essere riconosciuta credibile in nome di una corrispondenza alle esigenze elementari dell'uomo nella loro più autentica fioritura. È ciò che Gesù intendeva promettendo il 'centuplo' su questa terra. È come se, dunque, anche la Chiesa dicesse all'uomo: "Con me otterai una esperienza di pienezza di vita che non otterresti altrove".
Così la Chiesa mette audacemente alla prova se stessa, proponendosi come prolungamento di Cristo a tutti gli uomini.
Del resto ognuno di noi cerca proprio quella maggiore pienezza. È questo il criterio che ci guida, anche nelle minime scelte.
Ora, il messaggio della Chiesa nella storia dell'umanità proclama di avere come unico interesse portare a compimento l'anelito supremo dell'uomo. Senza chiedergli di dimenticare alcuno dei suoi desideri autentici, delle sue esigenze prime, promettendogli anzi un risultato molto superiore alle sue stesse capacità di immaginazione. Il centuplo.
Avendo lanciato nei secoli questa sua inaudita scommessa, la Chiesa non può barare.

La disponibilità del cuore

Nella sua proposta, come abbiamo detto, la Chiesa non può barare; non può consegnare un libro e delle formule in mano a degli esegeti soltanto. Essa è vita e deve offrire vita.
Anche l'uomo però non può accingersi ad una verifica di questa portata senza un impegno che coinvolga la vita. Se la Chiesa si pone come vita, vita pienamente umana e carica di divino, l'uomo dovrà impegnarsi con la vita ad accettare quella sfida.
Se la Chiesa non può barare, neanche l'uomo può barare.
Ciò che occorre è la disponibilità all'impegno e la 'povertà dello spirito' evangelica: povertà dello spirito è l'occhio teso a ciò che costituisce il tesoro dell'uomo, a quell'oro che occorre desiderare per poter trovare.

Al cammino di verifica affrontato con l'animo aperto e disponibile è promessa una realizzazione esistenziale che la Chiesa dichiara di saper ottenere in paragone o in sfida con qualunque altra proposta.
Il 'cento volte tanto' promesso dal Vangelo è solo l'alba della totalità. Il tutto è incommensurabilmente di più. Ma il centuplo è l'indicazione che il tutto si sta avvicinando.
Come suggerisce la liturgia della Chiesa: "Dio che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio".

Se, dunque, la Chiesa è una vita, bisogna coinvolgersi con la vita per poterla giudicare. Si tratta innanzitutto di convivere con la vita della Chiesa là dove essa è vissuta autenticamente, là dove essa è vissuta sul serio.
Per questo la Chiesa proclama i santi: per dare delle indicazioni di come sia possibile vivere sul serio la proposta cristiana.
Ed è per questo che la Chiesa usa anche suggerire con la sua approvazione associazioni, movimenti, luoghi non solo di culto, ma anche di incontro: se vengono vissuti per quello che sono possono far percepire che cosa sia una esperienza cristiana vera. Esperienza vera che comunque dovrebbe essere valutabile dovunque vi siano dei cristiani: in scuole, fabbriche, case, quartieri, parrocchie, in ogni ambiente.
Se la Chiesa in tutte le sue esperienze seriamente vissute, è davvero il prolungamento di Cristo, si dovrà poterne rilevare le caratteristiche di efficacia.
"Se prendete un albero buono anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l'albero" (Mt 12,33). "Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produce frutti buoni" (Mt 7,16-18).

Ci sono quattro categorie di "frutti" della presenza di Cristo nella vita della Chiesa attraverso i quali egli continua la sua azione nella storia, e che costituiscono sintomi della efficacia della Chiesa sulla vita e sulla storia dell'uomo. Sono i 'segni di riconoscimento' del valore divino della Chiesa. La Chiesa li ricorda nel Credo: "Credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica".

Unità

L'unità è la caratteristica prima di ciò che vive, come richiama il dogma del Dio uno e trino. "Tale unità non è in alcun modo confusione, come la distinzione non è separazione… L'unione vera non tende a dissolvere gli uni negli altri gli esseri che riunisce, ma a perfezionarli gli uni con gli altri" (H. De Lubac).

Tale caratteristica di vitalità unitaria, che siamo chiamati a verificare, proviene da quanto direttamente Gesù ci ha rivelato del suo essere e da quanto ci ha chiesto come partecipazione.
"Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato… Custodisci nel tuo nome colore che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi" (Giovanni 17).
"È l'auspicio che la comunità dei discepoli… perseveri in quella sfera divina che le è stata dischiusa da Gesù… l'unità è espressione e segno dell'essenza divina, un'immissione nell'unità di Dio e di Gesù… che si manifesta ed opera nell'amore. L'unità esistente tra Gesù e il Padre non è soltanto archetipo e modello, ma anche fondamento vitale e base di realizzazione dell'unità dei credenti… Si tratta di unità fondata in Dio, vivente del suo amore" (R. Schnackenburg).

a) Unità della coscienza
La caratteristica dell'unità anzitutto si documenta in una unità di coscienza nel percepire, sentire e valutare l'esistenza.
Si deve poter trovare nella Chiesa una lucidità nel senso dell'esistenza, per cui il principio da cui si giudica se stessi e il mondo è un'unica Presenza inequivocabile.
È una unità di atteggiamento che valorizza tutto, senza scandalizzarsi di nulla, senza dimenticare o rinnegare qualcosa: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché il mondo si salvi per mezzo di Lui" (Giovanni 3, 16-17).
Tale unità di atteggiamento si scontra con tutte le possibili parzialità. "Io sono la via, la verità, la vita" (Gv 14): l'affermazione di Gesù "è una rivelazione di altissima certezza, una parola sovrana, che a tutt'oggi non ha perduto nulla della sua forza illuminante" (R. Schnackenburg). Tale parola di 'altissima certezza' ricapitola in un atteggiamento unitario tutta l'esistenza dell'uomo e porta con sé una profonda possibilità di pace.
"Cristo ha abbattuto con la sua incarnazione il muro divisorio fra cielo e terra… Così è tolto per l'uomo redento ogni motivo di paura: l'angoscia è cacciata e superata una volta per sempre" (H. U. von Balthasar). Ciò non esime dalla lotta, ma offre tutti i mezzi per sostenerla. È l'unico antidoto all'esasperazione dell'angoscia umana e alla disperazione.

b) Unità come spiegazione della realtà
Tale unità di coscienza, venendo a contatto con le cose, gli avvenimenti, gli uomini, organicamente tende a comprenderle, in modo aperto a tutte le possibilità e adeguato ad ogni incontro.
"Questa è la meravigliosa sicurezza del cristiano, una sicurezza che annulla tutta l'evidente tragicità della vita insicura… Il cristiano può già fin d'ora guardare indietro con lo stesso sguardo di Dio, vedendo e abbracciando come trasfigurate tutte le realtà terrene" (Hugo Rahner). Il cristiano è chiamato ad affermare la realtà con un instancabile anelito di valorizzazione, perché il suo criterio di interpretazione unitaria del reale non è un principio intellettuale, ma una persona. Quella del cristiano è la certezza di essere affidati a che è veramente grande, veramente comprensivo: diventa unità di comprensione e di inclusività, diventa atteggiamento e principio di cultura.
È in tale abbraccio che l'uomo viene educato ad una maturità critica vera: "Esaminate ogni cosa, trattenete ciò che vale" (1 Tess 5,21). La Chiesa è in grado di offrire dunque una capacità di critica che, per le radici da cui fiorisce, non è rinvenibile altrove. È ancorata infatti in una radicale assenza di estraneità nei confronti di cose e persone, nell'apertura verso tutto e con il perdono.

c) Unità come impostazione di vita
La vita riceve dunque valore in ogni minimo dettaglio e ogni gesto acquista una dimensione comunitaria.
La comunità diviene così sorgente dell'affermazione della personalità: attribuisce valore alla proporzione tra il gesto del singolo e il disegno totale di Cristo. Ogni gesto ha così valore eterno, in quanto gesto responsabile per il destino del mondo.
La comunità, come mistero di comunione, diventa fattore determinante il singolo e il senso che ha di sé. Paradossalmente mai la vita e la responsabilità personale è così valorizzata come lo è in questa visione dell'uomo e della comunità.
· Il paradigma è nella liturgia: "La liturgia abbraccia tutto quello che esiste… tutto il contenuto e tutti gli avvenimenti della vita... la totalità corale della creazione, compresa e inserita nella relazione di preghiera a Dio... La liturgia è la creazione che crede e prega" (R. Guardini).
Come recita un inno di S. Ambrogio: "Orsù leviamoci animosi e pronti… Gesù Signore, guardaci pietoso quando, tentati, incerti vacilliamo: se tu ci guardi, le macchie si dileguano e il peccato si stempera nel pianto. Tu, vera luce, nei cuori risplendi".
· L'eco della liturgia è il concetto cristiano di lavoro: l'espansione del mistero della salvezza in ogni momento e attività. Il lavoro è il tentativo dell'uomo di investire di sé, del suo progetto, tempo e spazio, è il lento inizio di un dominio dell'uomo sulle cose, di un governo cui egli aspira realizzando l'immagine di Dio, 'il Signore'. Dopo l'illusione di autonomia dell'uomo (peccato originale), la realtà è divenuta ambigua, ostacolo all'espressione umana. Gesù Cristo è l'istante della storia in cui la realtà cessa di essere ambigua e ridiventa gloriosamente tramite a Dio. Gesù Cristo è il punto in cui storia e universo riprendono il loro vero significato. È la conseguenza della sua resurrezione. Per questo nel suo lavoro il cristiano fa continuamente l'esperienza del miracolo: la redenzione che comincia a svelarsi in un certo ambito.

2. Santità

È la seconda grande categoria di efficacia che occorre poter rilevare nella Chiesa.
Santo è l'uomo che realizza più integralmente la propria personalità, ciò che deve essere. È caratterizzato dalla coscienza del vero e dall'uso significativo della propria libertà. Rende la presenza di Cristo attuale in ogni momento, perché questa Presenza determina, in modo trasparente, ogni sua azione.
· Una vicenda emblematica è quella di Ermanno lo storpio, vissuto attorno all'anno 1000, Nato orribilmente deforme, a trent'anni diventerà monaco benedettino, mostrando un'incredibile letizia nell'incontro con ogni persona. Dotato di mente considerevole, scrisse numerosi trattati, oltre al testo della Salve Regina e dell'Alma Redemptoris. Lo si è chiamato 'la meraviglia del suo tempo'. Un'esistenza nel dolore come può divenire così ricca ed amabile? Quell'energia di adesione alla realtà ultima delle cose permette di utilizzare anche ciò che tutto il mondo intorno riterrebbe non utilizzabile: il male, il dolore, la fatica di vivere, l'handicap fisico e morale, la noia e persino la resistenza di Dio. Tutto ciò essere trasformato se vissuto in rapporto con la realtà vera, se 'offerto a Dio'. Diceva don Gnocchi, che alla sofferenza altrui ha dedicato la vita, che la felicità del mondo è data dal dolore umano offerto a Dio. Tale offerta è chiave di volta per il senso dell'universo. "Un cristiano non può essere un uomo rassegnato, dev'essere un uomo che assume la sofferenza nella carità e nella gioia" (Charles Moeller).

La santità si può sorprendere attraverso tre caratteristiche che la qualificano.

a) Il miracolo
Il miracolo è un avvenimento sperimentabile attraverso cui Dio costringe l'uomo a badare a Lui, ad accorgersi della Sua Realtà. È cioè un modo con cui Egli impone sensibilmente la sua Presenza.

1. Da questo punto di vista tutte le cose sono miracolo. È lo sguardo con cui Gesù guardava la natura: in lui la coscienza del nesso tra l'oggetto e il destino, il Padre, era di una trasparenza immediata. In lui ogni cosa sorgeva dal gesto creatore del Padre, ed era perciò miracolo.
2. Vi sono poi momenti particolari in cui Dio straordinariamente richiama il singolo. Può essere una improvvisa buona notizia, o anche un dolore imprevisto, a costituire un miracolo per il singolo, mentre per gli altri è interpretabile come casualità! Per questo occorre avvicinarsi al fatto con spirito religioso, cioè con un animo aperto a Dio: senza una precedente, almeno implicita simpatia per Dio, non si può cogliere un avvenimento come miracolo.
3. Il miracolo in un senso più ristretto e proprio è un fatto oggettivamente inspiegabile per tutti, che richiama non solo il singolo, ma la collettività alla Sua presenza.

b) L'equilibrio
L'equilibrio della santità non è imperturbabilità o appiattimento, ma è una ricchezza che ha la sua origine in una coscienza decisamente orientata a Dio. È una visione della vita di una semplicità grandissima: una sola Realtà investe della sua luce tutte le cose, per cui l'io si sente uno con tutte le cose e in tutte le cose, perfino di fronte alla morte. Tanto che il culmine della cultura medioevale sta nell'affermazione di S.Francesco di Assisi per cui anche la morte può essere chiamata 'sorella', in quanto sottoposta al disegno di Cristo Risorto.
Così la santità nella Chiesa realizza una comprensione e una compiutezza umane sorprendenti, una capacità di abbracciare tutto il reale alla luce di un unico criterio, senza terrori e dimenticanze.
L'origine dell'equilibrio della santità cristiana è dunque la straordinaria ricchezza dell'essere che è donato all'umanità. Nella santità cristiana "l'Assoluto non è da raggiungere…, piuttosto è Lui stesso che ha raggiunge noi, sopraffacendoci là dove la nostra capacità di immaginazione è alla fine" (H. U. von Balthasar). Non si tratta dunque di restringere l'orizzonte dell'esperienza umana, ma di allargarlo. L'equilibrio realizzato dalla santità cristiana proviene da una ricchezza che non è dell'uomo, ma di Dio.
È l'equilibrio dell'homo viator, è una dinamica destinata a rendere più completo e concreto il cammino, più pieno il pellegrinaggio su questa terra, poiché a noi si è affiancato, camminando con noi, Colui la cui pienezza spiega la vita e la dispensa a piene mani. "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?" (Lc 24).

c) L'intensità
"Il cristianesimo deve generare dei santi, cioè dei testimoni dell'eterno… Santo è chi riesce a farci intravedere l'eternità, malgrado la grave opacità del tempo" (H. De Lubac).
È ciò che è avvenuto nella storia della Chiesa in ogni tempo e in ogni condizione, in ogni continente e nella più sconcertante varietà delle circostanze.
La forma e la documentazione della santità nella Chiesa sono qualitativamente e quantitativamente presenti nella storia in modo incommensurabile e imparagonabile rispetto a qualsiasi altro luogo di esperienza religiosa.
"I santi sono la dimostrazione della possibilità del cristianesimo. Perciò possono essere guide su una strada verso la carità di Dio che sembra altrimenti impossibile. E Dio, fondando tutti i modi della santità, ha operato infinite possibilità, delle quali almeno alcune sono senz'altro agibili per me" (Adrienne von Speyr).
"Se furono beati coloro che vissero nei primi tempi e videro le tracce recenti del Signore, e udirono l'eco della voce degli Apostoli, siamo beati anche noi che abbiamo avuto in sorte di vedere il Signore rivelato nei suoi santi. I prodigi della grazia nel cuore dell'uomo, la sua potenza creativa, le sue risorse inestinguibili, i suoi molteplici effetti, noi li conosciamo come i primi cristiani non poterono conoscerli. Essi non sentirono mai nominare san Gregorio, san Bernardo, san Francesco e san Luigi… Perciò quando noi fissiamo i nostri pensieri sulla storia dei santi, non facciamo altro che approfittare di quel sollievo e di quel compenso alle nostre particolari tribolazioni, che nostro benigno Signore ha provveduto nella nostra necessità" (J. H. Newman).

Naturalmente si può passare accanto a tutto questo (al miracolo, all'equilibrio umano, all'intensità dell'esperienza della santità nella Chiesa) con un atteggiamento di perfetta estraneità. Ciò però significherebbe non aver voluto passare al vaglio della propria esperienza autentica le caratteristiche della Chiesa, così come essa stessa desidera. Per 'vedere' e per 'credere' gli occhi devono sapersi posare sul loro oggetto con uno sguardo animato da un minimo di capacità simpatetica, che è del resto la condizione naturale di ogni conoscenza. Occorre cioè il desiderio della verità.

Cattolicità

"Katholicòs, in greco classico, era usato dai filosofi per indicare una proposizione universale… La Chiesa non è cattolica perché attualmente è diffusa su tutta la faccia della terra e conta un gran numero di aderenti. Essa era già cattolica il mattino della Pentecoste, quando tutti i suoi membri erano contenuti in una piccola stanza; e lo sarà ancora domani, se apostasie in massa le facessero perdere quasi tutti i fedeli… La Chiesa, in ogni uomo, si rivolge a tutto l'uomo, comprendendolo secondo tutta la sua natura" (H. De Lubac).
La cattolicità è dunque una dimensione essenziale della Chiesa, ed esprime fondamentalmente la sua pertinenza all'umano in tutte le variabili delle sue espressioni. Ciò che essa proclama e l'esperienza cui introduce, possono essere veicolati e assimilati da qualsiasi cultura e mentalità. La Chiesa reclama per sé la prerogativa dell'umano genuino per cui qualsiasi cultura e mentalità può sperimentare la verità che la Chiesa proclama e l'esperienza che essa propone come il più adatto completamento di sé, come l'adempimento più adeguato. Il cattolicesimo infatti dichiara di corrispondere semplicemente a ciò cui è destinato l'uomo.
Chi legge la storia della Chiesa con animo aperto non può esimersi dal notare come l'esperienza cristiana abbia incessantemente assimilato e valorizzato tutto quanto mostrava una ricchezza autenticamente umana.
· La terminologia e le categorie mentali ebraiche furono subito messe a confronto con la cultura ellenistica. Lo scopo degli scrittori cristiani era soprattutto di mostrare l'accordo del messaggio cristiano con la ragione umana.
· Il monachesimo ha mostrato la capacità di assumere dati provenienti da diverse culture.
· Riguardo ai missionari dell'epoca moderna possiamo citare come esempio due gesuiti, Matteo Ricci e Roberto de Nobili. Il primo, designato alla fine del '500 per una missione in Cina, si era preparato con passione alla sua opera apostolica, cercando di conoscere i filosofi, la letteratura e le religioni della terra in cui stava per sbarcare. Morì in Cina nel 1610, onorato alla corte imperiale come astronomo e matematico e non cessò mai di predicare il cristianesimo, tentando sempre di mostrarne la concreta vivibilità, anche da parte di chi fosse stato cresciuto all'ombra di valori ben diversi da quelli occidentali, valori che la tradizione cristiana avrebbe aiutato a comprendere e non a sacrificare.
· Roberto de Nobili aveva introdotto lo stesso spirito di adattamento nella sua missione in India. Egli si era immedesimato seriamente nel modo di vivere e di pensare dell'India, e per tutta la vita cercò di introdurre il Vangelo nell'universo mentale indiano: conosceva il sanscrito, ma sapeva anche predicare nell'idioma popolare e valorizzò in coloro che convertiva tutte le abitudini indù che non fossero apertamente in contraddizione con il messaggio cristiano.
· Quando la Chiesa si assunse il compito di dirigere l'attività missionaria con una apposita istituzione - la Congregazione de Propaganda Fide nel 1622 - essa nelle istruzioni che invia ai missionari mostra di aver colto l'importanza di quelle esperienze: impone infatti la conoscenza delle lingue e delle culture del luogo e ricorda accoratamente che i missionari sono sul posto per proporre la fede e non per imporre una cultura particolare.
"Un tipo specifico di spiritualità cristiana deve emanare dal genio particolare del popolo di ogni paese. L'universalità qualitativa della Chiesa (che in nessuna terra è straniera ma è contemporanea a tutte le epoche e connaturale a tutte le civiltà) non è che l'armonia finale e la sintesi di tutte le civiltà, assunta dal Cristo, l'Uomo assoluta, nella sua pienezza" (H. De Lubac).

La cattolicità, come qualità intrinseca della Chiesa, deve essere dimensione personale di ogni cristiano. È quello che De Lubac annota parlando del padre Jules Monchanin, missionario in India: "Sapeva ascoltare: ascoltava con intensità, per cogliere la sorgente nascosta da cui sgorgavano le parole. E la sua risposta disvelava al suo interlocutore delle prospettive che lo attiravano ad una soddisfazione più intera. Mettendosi interamente al suo ascolto, gli dava anche la sensazione di essere pienamente compreso, lo spiegava in qualche modo a se stesso… Il suo metodo era quello medesimo di Gesù: proporre a tutti un mistero che supera tutti, ma in una forma così connaturale che ognuno vi possa attingere la sua vita e vi riconosca ciò che c'è in lui di più familiare e di segreto".

4. Apostolicità

È la caratteristica della Chiesa che indica la sua capacità di affrontare in modo organicamente unitario il tempo. È la dimensione storica. La Chiesa afferma la sua autorità unica di essere depositaria di una tradizione di valori che deriva dagli apostoli. Come Cristo ha voluto legare la sua opera e la sua presenza nel mondo agli apostoli, indicando uno di essi come punto di riferimento autorevole, così la Chiesa è legata ai successori di Pietro e degli apostoli (papi e vescovi).
Gli apostoli per la conservazione del loro messaggio non si sono affidati soltanto a delle scritture, ma anche a delle persone viventi. Così la tradizione, trasmessa dagli apostoli, è conservata come un deposito mediante la catena di una successione.
"Non si deve cercare presso altri la Verità, che è facile prendere dalla Chiesa, poiché gli apostoli accumularono in lei, come in un ricco tesoro, nella maniera più piena tutto ciò che riguarda la Verità, affinché chiunque vuole prenda da lei la bevanda della Vita" (S. Ireneo di Lione, II secolo).
· Il valore di tale successione apostolica sta nel carattere di miracolo che conferisce al fenomeno stesso della Chiesa. La resistenza costruttiva nel tempo proprio in quelle espressioni ideali e in quelle strutture è, nella dimensione storica della Chiesa, il miracolo più grande. La Chiesa afferma la sua capacità di affrontare il tempo non solo come forza di conservare un passato, ma, forte delle promesse di Gesù, come sfida all'avvenire. La superiorità della Chiesa sul tempo infatti è una sfida inimmaginabile, è dono che la Chiesa accoglie come tale, frutto della presenza di Gesù nel mondo fino alla fine dei tempi, realizzato dal suo Spirito.

Ricordiamo infine che la categoria dell'unità è l'orizzonte in cui si collocano tutte le altre: santità, cattolicità, apostolicità… L'umanità intera ha una origine, un destino, nella compagnia di quell'Uno che ha voluto rendersi dono umano perché non smarrissimo la strada.

Postato da: giacabi a 08:23 | link | commenti
chiesa, giussani

mercoledì, 20 aprile 2011

LA VERITA' E' IL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI

***
discorso di Don Francesco Ventorino durante l'incontro "La verità è il destino per il quale siamo stati fatti"
 
Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, «esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale – l’avrei sentita definire poi da don Giussani – ad affermare il significato di tutto» .

1. Ma la vita ha un destino?
Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso.
L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.
A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione.
Dietro questa ostinata negazione di un senso, di una verità e di un destino della vita c’è una paura – l’ha rivelata da tempo Gianni Vattimo –, è la paura che «se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». Perché «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?» .
Non ci sarebbe, dunque, altro fondamento delle leggi etiche e giuridiche se non il consenso sociale.
Oggi dietro la pretesa di equiparare le coppie di fatto, etero ed omo- sessuali, alla famiglia fondata sul matrimonio si nasconde la stessa paura: quella che si possa affermare la natura vera delle cose e la stessa diffidenza nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione voglia difendere «l’oggettività e la “datità” del vero».
Don Carrón agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione di quest’anno, come esempio di questa mentalità, citava Rorty, il quale afferma:
«Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo, nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, nessuna argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni» .
Niente “dato”, dunque, – concludeva don Carrón – tutto “convenzione”.
Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.

«Proporvi, o imporvi, delle verità – scrivevano quest’anno degli insegnanti di un liceo della mia città, Catania, a degli alunni che avevano chiesto delle certezze per vivere per morire – è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica» .
Questa rinuncia della scuola pubblica, laica e democratica, a proporre delle verità non è recente. Ricordo che quand’ero giovane insegnante di Religione nello stesso Liceo mi sono dovuto opporre, provocando uno scandalo generale, ad un Consiglio di classe, che si era trovato unanime nella decisione di punire in modo esemplare un ragazzo e una ragazza che erano stati sorpresi a baciarsi sullo scalone della scuola, adducendo questa motivazione che chiedevo fosse messa a verbale: «La scuola prima insegna che la morale non è altro che una convenzione sociale e poi vuole punire dei ragazzi che muoiono dalla voglia di baciarsi e che non avrebbero dovuto farlo solo per rispettare una convenzione che domani potrebbe cambiare [come di fatto è accaduto], magari quando loro non ne avranno più né la voglia, né la capacità».
Il Preside, intelligente, avendo intuito che io volevo rovesciare le parti e accusare loro di corruzione di minorenni, ha subito sospeso la seduta, comminando ai quei ragazzi solo la minima sanzione disciplinare.
Non ci si strappi le vesti poi, quando ci si trova – come accade spesso ai nostri giorni – di fronte alla violenza dei giovani contro se stessi e contro gli altri, né ci si affanni ipocritamente a cercare spiegazioni altrove e a trovare affannosamente dei rimedi efficaci.
L’unico rimedio serio sarebbe quello di impedire la corruzione morale derivante da un simile argomentare, che si ammanta arbitrariamente della dignità del pensiero “laico”. Ma il pensiero veramente laico ha tutt’altra profondità e grandezza, come vedremo.
Ci troviamo di fronte ad una dissoluzione dell’uomo caparbiamente perpetrata – come diceva don Giussani – pur di non riconoscere che la sua ragione è strutturalmente apertura al Mistero, grido e domanda di significato e di verità, pur essendo questo «un cammino di ricerca, umanamente interminabile»

2. La domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo
«Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista!», ha gridato una volta don Giussani qui a Rimini agli universitari di Comunione e Liberazione, perché è grande – Dio come è grande! – l’uomo, il giovane, il ragazzo quando guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene [...] un’adorazione. Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha fatti per Sé, cioè per la felicità, che è la bellezza come ha capito Leopardi nell’inno Alla sua donna, che è la verità» .
Perché non ha ragione, dunque, il nichilista? Perché egli andrebbe contro quel meglio di sé che gli viene su dal suo cuore, cioè da quel complesso di evidenze e di esigenze, che lo costituiscono strutturalmente e che gli impediscono di dire che la sua ragazza è un niente; anzi lo spingono ad una adorazione di quella misteriosa promessa che nella bellezza di lei si rende presente.
Il cuore è ciò che Pirandello, un vero laico e mio conterraneo, in Uno, nessuno e centomila, chiama quel “punto vivo” che è dentro di noi e che scatta quando qualcuno o qualcosa lo provoca. Vitangelo Moscarda, che è un banchiere, provocato dal suo amico, che proditoriamente lo accusa di essere un usuraio, e dalla risata cinica con cui sua moglie commenta questa accusa, reagisce così:

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento…: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; […] un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi» .
E più avanti dice:
«Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me… era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo». .
Don Giussani ha insistito per tutta la vita sull’importanza del cuore, di questo criterio oggettivo che abbiamo in noi:
«la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli» .
Questo è il criterio della verità ed il fondamento della nostra libertà:
«Se non si afferma la verità del nostro cuore, siamo preda degli avvoltoi che dominano il mondo. Ogni uomo è avvoltoio verso l’altro, rapinatore dell’altro; non solo i potenti, ma anche il compagno può essere il rapinatore della tua anima, sfruttatore di te, può tentare di strumentalizzarti. Non possiamo impedire questo, possiamo fare una sola cosa: essere noi stessi, essere il nostro cuore» .
Benedetto XVI, quando era il professore Joseph Ratzinger, in una conferenza pubblicata nel 1972, citava una dichiarazione di Hitler che proclamava il suo proposito di distruggere il cuore di ogni uomo:
«Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale, e dalle pretese di una libertà a autodeterminazione personale, di cui ben pochi sono all’altezza» .
Così Ratzinger la commentava:
«La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. […] La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà»
Il nichilismo dunque, come negazione di questo criterio del vero e del bene, di cui siamo dotati, sarebbe il principio di una vita disumana e della legittimazione di ogni violenza dell’uomo sull’uomo.
Don Giussani, leggendo Nietzsche, ne ha mostrato tutta la contraddizione:
«“Un giorno un viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio...”. Questa è la scelta che ha fatto l’uomo contemporaneo: chiudere la porta alla speranza, all’impeto ideale che gli alita alle spalle, acquattato in fondo al suo cuore, trasmessogli da sua madre e da tutto ciò che lo anticipa nella storia: questo evidente desiderio del vero, del reale, del certo.
L’uomo moderno se ne sente perseguitato come da un aguzzino “tetro e appassionato”, e ad un tempo ammette di essere costituito dal desiderio della verità, mentre si ribella alla natura del proprio cuore che è profezia di Dio» .
Dante ha stupendamente cantato nel Paradiso:
«Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra,
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’ al sommo pinge noi di collo in collo» .

Descrive così stupendamente l’esperienza umanissima (“io veggio ben”) dell’esigenza costitutiva del nostro cuore della verità, cui tende in tutto ciò che conosce, con la speranza fondata che essa ci sia e che sia possibile trovarla (“e giugner puollo”), perché altrimenti il nostro desiderio sarebbe un desiderio vano (“se non, ciascun disio sarebbe frustra”). E l’uomo sarebbe – come è stato detto da Sartre – «una passione inutile» .

3. L’avvenimento della verità
L’uomo è dunque domanda di verità. A questa domanda la realtà stessa si incarica di rispondere: la verità si lascia incontrare, accade: essa è l’imporsi della realtà nella sua evidente presenza!
«La verità – diceva don Giussani – è come la faccia di una bella donna, non puoi non dire che è bella, non riesci! […] La verità è una cosa che si impone inevitabilmente. Uno ha una frazione di istante per cui il cuore si commuove»
Essa spalanca la coscienza e il cuore dell’uomo e gli fa ritrovare se stesso e la sua libertà. Essa semplicemente è.
Ancora Luigi Pirandello, questo autore che non finisce mai di sorprendermi per la sua apertura ad ogni aspetto dell’umano e per la sua capacità di raccontare l’umana esperienza, nella novella Ciaula scopre la luna narra di un garzone mezzo scemo, costretto a lavorare in una miniera di zolfo, che una notte, portando il suo carico sulle spalle all’esterno di essa, giunto allo stremo delle sue forze, perché «non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora», fece la “scoperta” della luna, della sua «chiaria», della sua bellezza e in quell’avvenimento ritrovò se stesso, la sua umanità.
«La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. […]
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore» .

È una documentazione suggestiva di quanto scrive don Giussani ne Il senso religioso:
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine dell’umana coscienza» .

4. L’avvenimento cristiano.
Ma la persona umana, diceva ancora don Giussani, ha il potere di «fare i capricci di fronte all’essere».
«Il capriccio […] dell’uomo di fronte all’essere è un odio a se stesso e al proprio destino. […] Solo qui si rivela la cattiveria dell’uomo» .
La bellezza del mondo e la grandezza del nostro desiderio non vengono sempre accolti come una testimonianza convincente di Dio.
«È questa carenza atroce – diceva don Giussani – che si nota in voi, come giovani di oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità recettiva della bellezza. L’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi, così che ogni cosa che vi viene davanti è da usare per voi stessi, strumentalizzare» .
Incapaci, dunque di stupore, resistiamo all’estasi, cui tende a portarci la realtà.
Solo nell’esperienza di un grande amore diviene possibile superare questo capriccio di fronte all’essere, questo blocco nella reattività, che alla fine diviene odio a se stessi perché è odio al proprio destino. È in un rapporto, nel quale ci sentiamo affermati più di quanto non riusciamo a fare da noi stessi che rinasce l’amore e la stima per la realtà, a partire da quella per la nostra persona, e la certezza di un destino buono per la nostra vita e per il tutto.
L’uomo ha bisogno di rapporti nei quali il male proprio e quello del mondo non riesce ad insinuare il sospetto di poter essere fregato, perchè in essi si rende manifesta tutta la bontà della realtà e la sua convenienza. È un’esperienza che noi abbiamo fatto e che tutti desidereremmo fare, anche se pensiamo che sia impossibile e perciò vi abbiamo rinunciato.
Tommaso d’Aquino ha scritto pagine mirabili su questo argomento, quando ha affermato che all’uomo, che tende a Dio come al proprio destino, fu necessario che Dio stesso si facesse uomo per indurlo ad amarlo. Infatti
«nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona: è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile» .
Quasi riprendendo queste parole, Benedetto XVI, rivolgendosi l’anno scorso a Verona a tutta la Chiesa italiana, ricordava come oggi è più che mai necessario che attraverso la testimonianza dei cristiani emerga «soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Questa è la risposta della Chiesa allo scetticismo del mondo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità egli si accompagna a noi ed è possibile incontrarlo anche oggi.

L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! E l’uomo, quando l’incontra, può riconoscerla – come diceva don Giussani – per l’esperienza di corrispondenza con il proprio cuore, cioè di «soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra» .
Per descrivere efficacemente questa esperienza di corrispondenza e di soddisfazione don Giussani in Perché la Chiesa si è servito della finale della grande opera di René Grousset, Bilancio della storia, la cui lettura consigliava già ai primi giessini.
Questo autore, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?».
«È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena constato che al di fuori della soluzione cristiana […] ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».

«Accettabile [commenta don Giussani] perché l’umanità intera è ricapitolata in Cristo, senza tagli arbitrari, senza censure e dimenticanze» .
Parlando nel 1983 ad una televisione svizzera, don Giussani era tornato su questo tema:
«Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede».
Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva ancora il Papa a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene». Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda.

5. La bellezza cristiana è lo splendore della verità
«L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale» .
È della bellezza cristiana, dunque, dell’attrattiva e dello splendore che la verità assume nell’incontro cristiano, che l’uomo di oggi ha più che mai bisogno perché, come affermava il Papa stesso, quand’era ancora il cardinale Ratzinger, nel suo messaggio per la XXIII edizione di questo Meeting,
«la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo».
Ma riconosceva:
«La paura che […] la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà”, ha angosciato gli uomini del nostro tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori?» .
È necessaria, dunque, una bellezza che regga di fronte all’urlo di mia madre che chiede perché possa accadere che sua figlia muoia a trent’anni per dare la vita ad un figlio che a sua volta muore dopo pochi giorni. È necessaria una bellezza che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come l’uomo ne fa esperienza.
Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale.

Per questo nel suo messaggio Ratzinger poteva dire:
«Nella passione di Cristo […] l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo [è la stessa parola che aveva usato don Giussani nell’83]. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è “vera”, bensì proprio la verità. […] Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo nell’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza» .
E ancora:
«Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce» .
Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.
Noi ne sappiamo qualcosa: l’abbiamo vista nel volto di don Giussani.

Postato da: giacabi a 22:07 | link | commenti
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martedì, 12 aprile 2011

La trascuratezza dell'io

***
Luigi Giussani
Alla ricerca del volto umano,
Rizzoli, Milano 1996, pp. 9-11


Il supremo ostacolo al nostro cammino umano è la «trascuratezza» dell’io. Nel contrario di tale «trascuratezza», cioè nell’interesse per il proprio io, sta il primo passo di un cammino veramente umano.

Sembrerebbe ovvio che si abbia questo interesse, mentre non lo è per nulla: basta guardare quali grandi squarci di vuoto si aprono nel tessuto quotidiano della nostra coscienza e quale sperdutezza di memoria. Infatti, i fattori costitutivi del «soggetto» umano non si colgono in astratto, non sono un «pregiudizio» ma risultano evidenti nell’io in azione, quando il soggetto è impegnato con la realtà.

Dietro la parola «io» c’è oggi una grande confusione, eppure la comprensione di cosa è il mio soggetto è il primo interesse. Infatti, il mio soggetto è al centro, alla radice di ogni mia azione (è un’azione anche un pensiero). L’azione è la dinamica con cui io entro in rapporto con qualsiasi persona o cosa. Se si trascura il proprio io, è impossibile che siano miei i rapporti con la vita, che la vita stessa (il cielo, la donna, l’amico, la musica) sia mia.
Per poter dire mio con serietà occorre esser limpidi nella percezione della costituzione del proprio io. Nulla è così affascinante come la scoperta delle reali dimensioni del proprio «io», nulla così ricco di sorprese come la scoperta del proprio volto umano.

E nulla è così commovente come il fatto che Dio si sia fatto uomo per dare l’aiuto definitivo, per accompagnare con discrezione, con tenerezza e potenza il cammino faticoso di ognuno alla ricerca del proprio volto umano. Non solo nella generazione di ogni cosa e nel dominio dei destini e delle circostanze Dio dimostra la sua paternità, ma anche, e specialmente, in questo suo accostarsi, compagno imprevisto e imprevedibile, al cammino con cui ognuno cresce nella figura del proprio destino.

La prima constatazione all’inizio di ogni seria indagine circa la costituzione del proprio soggetto è che la confusione che oggi domina dietro la fragile maschera (quasi un flatus vocis) del nostro io viene, in parte, da un influsso esterno alla nostra persona. Occorre tenere ben presente l’influsso decisivo che ha su di noi quello che il Vangelo chiama «il mondo» e che si mostra come il nemico del formarsi stabile, dignitoso e consistente di una personalità umana. C’è una pressione fortissima da parte del mondo che ci circonda (attraverso i mass-media, o anche la scuola, la politica) che influenza e finisce per ingombrare - come un pregiudizio - qualsiasi tentativo di presa di coscienza del proprio io. Paradossalmente, se ci schiacciano un dito sul tram o a scuola siamo prontissimi a reagire, a montare in rabbia. Se invece avvenga, come avviene, che tutta schiacciata, letteralmente soppressa o così intimidita da rimanere come inebetita sia la nostra personalità, il nostro io, questo lo subiamo tranquillamente tutti i giorni.

L’esito di tale oppressione o intimidazione è evidente: ormai la stessa parola «io» evoca per la stragrande maggioranza un che di confuso e fluttuante, un termine che si usa per comodità con puro valore indicativo (come «bottiglia» o «bicchiere»). Ma dietro la paroletta non vibra più nulla che potentemente e chiaramente indichi che tipo di concezione e di sentimento un uomo abbia del valore del proprio io.

Per questo si può dire che viviamo tempi in cui una civiltà sembra finire: l’evoluzione di una civiltà, infatti, è tale nella misura in cui è favorito il venire a galla e il chiarirsi del valore del singolo io. Siamo in un’età in cui è favorita, invece, una grande confusione riguardo al contenuto della parola io.

La conseguenza inevitabile e letteralmente tragica di tale confusione in cui si «dissolve» la realtà dell’io è il «dissolvimento» del termine tu.

L’uomo di oggi non sa dire coscientemente «tu» a nessuno. In ciò sta la radice ultima e apparentemente nascosta della violenza e della ricerca di potere che oggi determinano largamente i rapporti usuali tra le persone: essi, infatti, si basano perlopiù sulla sistematica riduzione dell’altro a un disegno di possesso e di uso, sulla assenza di qualsiasi stupore e commozione per l’esistenza dell’altro.

Postato da: giacabi a 16:29 | link | commenti
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sabato, 09 aprile 2011

Don Giussani visto da... Giuliano Pisapia. Dalla Bassa a Rifondazione

***
di Giuseppe Frangi - pubblicato il 28 Febbraio 2005 alle 00:00
"Fu mio professore al liceo Berchet. Ha segnato la mia vita, facendomi capire l’amore per i più deboli".

Giuliano Pisapia, oggi deputato di Rifondazione Comunista, riconosce in don Giussani una delle persone che più hanno segnato la sua vita. Lo conobbe al liceo Berchet. «Entrò in classe e ci chiese se ritenevamo giusto che un genitore cattolico educasse i propri figli secondo quei principi. Uno di noi gli rigirò la domanda: lei ritiene giusto che un genitore comunista educhi il proprio figlio secondo i principi in cui crede? Don Giussani non ebbe un attimo di esitazione. E rispose di sì». Bastò quella risposta perché nascesse un rapporto imprevisto, tra quella combriccola di studenti refrattari a qualsiasi discorso religioso, e quel sacerdote dai modi così indefinibili. Erano gli anni di Gioventù studentesca e ai ragazzi Giussani propose un’esperienza insolita. «Ogni domenica andavamo nella Bassa milanese, una zona economicamente depressa. Nelle cascine facevamo vita di condivisione, si mangiava e si giocava. Poi parlavamo anche di fede, ma senza nessuna pretesa di indottrinamento», racconta oggi Pisapia. Come riusciva a convincervi? «Aveva una carica umana enorme. E bandiva tutte le formalità. La sua forza era il dialogo. Voleva che fossimo noi stessi, che avessimo il coraggio di difendere il nostro pensiero, anche se era contrario al suo. Non partiva mai dai dogmi, come facevano gli altri preti. Ci voleva liberi. Così con lui potevamo parlare di tutto, anche di questioni nostre che non c’entravano con la fede». Finito il liceo la strada di Pisapia e quella di Giussani si dividono. Che cosa accadde? «Era arrivata l’onda del 68. Io penso che sia stato richiamato all’ordine dalle gerarchie. Gliene parlai: come altri non capivo». E oggi che bilancio fa di quell’esperienza? «La vita non si fa con i “se”. Ma senza Giussani non so se avrei capito il senso di stare dalla parte dei deboli. E poi mi ha insegnato che l’esperienza conta di più di qualsiasi lettura. È un valore che ho ritrovato nella sinistra. Ma la prima volta che mi fu chiara fu in quei cortili della Bassa milanese».
Fonte dell'articolo: VITA.it

Postato da: giacabi a 16:14 | link | commenti
giussani

sabato, 08 gennaio 2011
La regola della vita è la sequela.
***
Diciamo che la regola della vita è la sequela. Se non
vi piace la parola, come non piace a me, potete anche
lasciarla via,l'importante è tenere il concetto.
Il concetto implica:
primo, qualcosa che si ha davanti;
secondo, qualcosa di cui cerchiamo di capire le parole;
e, terzo, qualcosa di cui cerchiamo di capire come fa
a farle, a viverle. L'insieme di questo si chiama sequela;

senza sequela, senza l'intensità di una sequela la
nostra vita non ha niente davanti, non sa cosa pensare
e non sa come fare; perciò identifica con il suo
pensiero quello che gli salta in mente (la reazione dei
suoi pareri) e identifica come regola del fare quello

che gli pare e piace (vale a dire, -ha come regola
l'istintività)
:
l'alternativa alla vita come sequela
è l'istintività,
vale a dire degrada, come uomo,
verso l'animalità.

Postato da: giacabi a 16:13 | link | commenti
esperienza, giussani, istintività

Per essere ragionevoli
***
Chi è costretto per spiegare a rinnegare o a dimenticare
qualcosa,
non è ragionevole. La ragione deve spiegare tutto

- La pazienzaè la capacità di portare tutto nel coraggio ragionevole di non rinnegare nulla,di non dimenticar nulla e - attenzione! - di non rifiutare nulla.
Sono tre parole importanti.
- Rinnegare: come i bambini piccoli a cui dici: ..Guarda che bella mela!" e
loro ,No!,,, perché fanno i capricci:
rinnegare quello che è evidente,
riguarda l'evidente.


Dimenticare: riguarda il fatto che la cosa non interessa al momento,
o per sostenere una certa posizione, o perché abbiamo interesse
a dimenticarla. Il dimenticare è l'eludere, eludere.

Mentre il rifiutare si dice di quando si comprende
una cosa, se ne comprende l'importanza, se ne
com
prende la necessità, ma le si sputa addosso.

don Giussani da: Si può vivere così   ed.Rizzoli

Postato da: giacabi a 09:43 | link | commenti
ragione, giussani

venerdì, 31 dicembre 2010
L'IO RINASCE IN UN INCONTRO L’effetto Chernobyl
L'IO RINASCE IN UN INCONTRO
L’effetto Chernobyl
***

Vorrei iniziare questa nostra conversazione osservando una differenza tra l’attuale generazione di giovani e quella che ho incontrato trent’anni fa: la differenza risiede in una debolezza di coscienza nei giovani di oggi; una debolezza cioè non etica, ma relativa al dinamismo stesso della coscienza.
Non per nulla, dopo tanti anni, abbiamo messo a tema l’influsso nefasto e decisivo del potere, della mentalità comune e dominante - dominante in senso letterale. È come se tutti i giovani d’oggi fossero stati investiti da una sorta di Chernobyl, di enorme esplosione nucleare: il loro organismo strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. È come se oggi non ci fosse più alcuna evidenza reale se non la moda - che è un concetto e uno strumento del potere. Così anche l’annuncio cristiano stenta molto di più a diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la mentalità dominante, la cultura onniinvadente, il potere, realizzano in noi una estraneità rispetto a noi stessi. Si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall’altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione.
La persona ritrova se stessa in un incontro vivo.
Se l’evidenza oggi più convincente sembra essere la moda, dove la persona può ritrovare se stessa, la propria identità originale? Quella che sto per dare è una risposta che non si attaglia solo alla situazione in cui siamo, ma è una regola, una legge universale (da quando e fin quando l’uomo c’è): la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, imbattendosi cioè in una presenza che suscita un’attrattiva e la provoca a riconoscere che il suo «cuore» - con le esigenze di cui è costituito - esiste. L’io ritrova se stesso nell’incontro con una presenza che porta con sé questa affermazione: «Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio, esiste». Perché, paradossalmente, l’originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini (questo è ciò che veramente mette in rapporto con chiunque e non fa sentire estraneo nessuno). L’uomo riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che suscita un’attrattiva e provoca un ridestarsi del cuore, un sommovimento pieno di ragionevolezza, in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo la totalità delle sue dimensioni - dalla nascita alla morte. La persona si ritrova dunque quando in essa si fa largo una presenza che corrisponde alla natura esigenziale della vita: solo così l’io non è più nella solitudine. Normalmente, dentro la realtà comune, l’uomo, come «io», è nella solitudine, da cui cerca di fuggire con l’immaginazione e i discorsi. Questa presenza che corrisponde alla vita è il contrario di un’immaginazione. L’incontro che permette all’io di riscoprire se stesso non è un incontro «culturale», ma vivente; non è un discorso fatto, ma un «fatto» vivente - che, beninteso, può palesarsi anche sentendo qualcuno che parla; quando costui parla, però, è con qualcosa di vivente che l’io è messo in rapporto, non con un’ideologia o un discorso disarcionato dalla forza della vita. Non si tratta, insisto, di un incontro culturale, ma esistenziale. Tale incontro porta con sé due caratteristiche che ne costituiscono l’inconfondibile verifica: introduce nella vita una drammaticità, che consiste nel percepire una provocazione al cambiamento di sé e nel tentare un inizio di risposta, e nello stesso tempo introduce almeno una goccia di letizia, anche nella condizione più amara o nella constatazione della propria meschinità. Insomma, per usare un’altra espressione, ciò che deve accadere perché l’io riscopra se stesso è un incontro evangelico, capace di ricostituire la vitalità dell’umano: come l’incontro di Cristo con Zaccheo.

Don Luigi Giussani (1 marzo 2005)

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giussani

lunedì, 06 dicembre 2010
Il sacrificio
Il sacrificio
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Il sacrificio è andare contro la menzogna. Andare contro la menzogna,fare la cosa in modo vero, leale, sincero,giusto: questo è il sacrificio. Per fare il vero, occorre il sacrificio: devi strapparti alla menzogna, devi resistere al torrente, meglio ancora alla frana della menzogna; devi star lì che passino tutti i detriti.
Infatti
senza sacrificio non ci può essere verità in un rapporto....

....."Senza sacrificio non c’è rapporto vero, che vuole dire che l’altro non è valorizzato secondo la sua natura: è affermato per il tuo gusto, per il tuo istinto, perché vuoi arraffare come l’avaro affanna il denaro. Che bugie! “perché è bello”: credo che sia l’aggettivo più normale per la bugia… pretesto, insomma.
Identifichiamo l'affermare una cosa con l'afferrarla: affermare una cosa è amore, affermare l'altro; afferrarla vuol dire piegarla a te, renderla schiava.
Perciò il sacrificio non è sospendere la volontà di qualche cosa, sospendere l'amore a qualcuno o a qualcosa, non è eliminare niente, ma arrestare la volontà che si sta comportando contro la natura della cosa."

«Il sacrificio più vero è riconoscere una presenza. Cosa vuol dire riconoscere una presenza? L’io, invece che affermare sé, afferma te. Questa è la dedizione più grande: “Nessuno ama tanto gli amici come chi dà la vita per l’amico”, è lo stesso che dar la vita. Affermare te per affermare l’io, per far vivere l’io, affermare te come scopo dell’agire dell’io, affermare te, è amore a te. […] Affermare l’altro implica il dimenticare se stessi; che è il contrario di essere attaccati a se stessi, allora ci si sacrifica all’altro. Il sacrificio più vero è riconoscere una presenza, vale a dire il sacrificio più vero è amare» (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, p. 392-394)

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giussani

sabato, 20 novembre 2010

Francesco Facchinetti parla di DON GIUSSANI

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"Luigi Giussani è una grandissima persona,
E' LA PERSONA CHE MI HA INSEGNATO A RITROVARE IL MIO IO"

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giussani

domenica, 24 ottobre 2010


Viaggiatori e vagabondi

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Autore: De Ponti, Claudio  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
"Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione,
ma la mia vita.
Perché l'amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l'ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell'inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo teme"
E. L. Masters - "George Gray", in Antologia di Spoon River

Nel rimpianto di George Gray per una vita che non ha saputo slanciarsi nella grande avventura della ricerca del significato è presente la consapevolezza che dare un senso alla propria esistenza è inevitabile per l'uomo e, nel caso ciò non avvenga, per paura o per pigrizia, l'umanità del vivere viene ridotta.

"La nave è in mano ormai al cuoco di bordo
e le parole che trasmette il megafono del comandante
non riguardano più la rotta
ma che cosa si mangerà domani"
S. Kierkegaard

Gli educatori devono deporre il grembiule e il cappello da cuoco per insegnare non solo a guardare ma anche a contemplare, non solo a vedere ma anche a capire, non solo a sentire ma anche ad ascoltare il segreto delle cose e della vita

"Se vuoi costruire un'imbarcazione,
non preoccuparti tanto di distribuire il lavoro tra gli uomini,
[…] vedi piuttosto di risvegliare in loro la voglia del mare".
A. De Saint-Exupéry

"Io mi concepisco come un uomo che ha cozzato in molti scogli,
ha evitato a malapena il naufragio passando in una secca,
ma conserva ancora la temerarietà di mettersi in mare
con lo stesso battello sconquassato,
mantenendo intatta l'ambizione di tentare il giro del mondo
nonostante queste disastrose circostanze".
D. Hume

Da una parte c'è tutta la grandezza del fulgore e del coraggio, una virtù necessaria per neutralizzare la tentazione dell'inerzia e della viltà. Spesso, infatti, bisogna avere la capacità di osare, sfidando quelle difficoltà che a prima vista sembrano insormontabili. D'altro lato, però, c'è anche l'incoscienza che viene scambiata per ardimento mentre è semplicemente temerarietà e può trascinarti in imprese assurde, scaraventando quel battello sugli scogli per un naufragio definitivo (cfr. l'ambiguità del film "L'attimo fuggente").

"Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolar la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che lo vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato in grado di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, quando l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace".
Lc (14, 28-32)

"Era come se mi fosse successo questo: un giorno, non so quando, mi avevano messo in una barca e poi mi avevano allontanato da una riva qualsiasi a me sconosciuta e mi avevano indicato la direzione verso un'altra riva, avevano messo i remi nelle mie mani inesperte e mi avevano lasciato solo. Remavo come potevo e navigavo, ma, quanto più andavo verso il centro del fiume, tanto più rapida si faceva la corrente che mi portava lontano dalla meta e sempre più spesso incontravo dei rematori che, come me, erano trasportati dalla corrente. Vi erano rematori solitari che continuavano a remare; vi erano rematori che avevano gettato via i remi; vi erano grandi barche, bastimenti enormi pieni di gente; alcuni lottavano con la corrente; altri vi si abbandonavano, e quanto più avanzavo, tanto più, guardando in giù, in direzione di tutta la fiumana dei naviganti, io dimenticavo la direzione che mi era stata indicata. Proprio in mezzo alla fiumana, nel fitto delle barche e dei bastimenti che scendevano lungo la corrente, finii col perdere del tutto la direzione e gettai i remi. Da tutte le parti, con allegria e con giubilo intorno a me, con le vele o con i remi i navigatori venivano giù veloci seguendo la corrente, assicurando a me, e assicurandosi tra di loro, a vicenda, che non vi poteva essere un'altra direzione. Ed io credetti loro e navigai per un po' insieme con loro. E fui portato lontano, così lontano che sentii il rumore delle cateratte contro le quali dovevo andare a infrangermi e vidi le barche che vi si infrangevano ed io tornai in me. A lungo non riuscii a capire che cosa mi era successo. Vedevo davanti a me soltanto la perdizione, verso la quale correvo e di cui avevo paura, da nessuna parte vedevo scampo e non sapevo che fare. Ma avendo gettato uno sguardo indietro, vidi innumerevoli barche che senza interruzione, ostinatamente, fendevano la corrente, mi ricordai della riva, dei remi e della direzione, e cominciai a remare indietro per risalire la corrente verso la riva".
L. Tostoj - Confessione

"È dolce stare in mare, quando son gli altri a far la direzione"
Jovanotti - "La linea d'ombra" (cfr. J. Conrad)

La linea d'ombra è quella che separa l'adolescenza dal cammino della maturità: tale passaggio è visto come un viaggio in mare dove, per la prima volta, si prende il comando della nave, si avverte il peso delle responsabilità e si è tentati di abbandonarsi a una condizione di non scelta, di accidia statica, di vuota attesa. Invece, allorché si matura e si supera la calma piatta e spettrale della linea d'ombra che ne bloccava la rotta paralizzando il viaggio, la vita si rimette in moto in virtù di una meta, di un ideale. Solo così, vivendo cioè con la coscienza di uno scopo, si doppia il capo della giovinezza diventando uomini, superando il demone dell'inerzia e del nulla
La minaccia più pericolosa per lo spirito umano infatti non è la tempesta che lo sconvolge, ma la bonaccia che lo addormenta spegnendone ogni speranza.

"El barco se hace pequeňo cuando se aleja en el mar…
cuando se aleja en el mar y quando si va perdiendo
qué grande es la soledad
No te vayas todavia, no te vayas, por favor…
que asta la guitarra mia llora quando dice adiòs
Ese vacio che deja el amigo que se va
es como un pozo sin fondo que se no puede llenar…"


"La barca si va facendo piccola quando si allontana sul mare
quando si allontana sul mare e quando si va perdendo,
che grande è la solitudine
Non andartene ancora, non andartene per favore
perché anche la mia chitarra piange quando dice addio
Questo vuoto che lascia l'amico che se ne va
è come un pozzo senza fondo che non si può riempire".
Canto popolare spagnolo - Sevillanas del adios

"La barca che si allontana e che porta l'amico diventa un punto sempre più piccolo, un punto lontanissimo all'orizzonte. Finché scompare. Ma quel punto va verso il suo destino, va verso la sua felicità. Noi siamo sulla riva, e non riusciamo a contenere lo struggimento che ci gonfia il cuore per l'amico che se ne va e che non potremo più stringere a noi. Ma lui va verso l'infinito. E questo è l'unico nostro conforto. Io non so dirti come questo accada, ma capisco che, qualche volta, non siamo noi che possiamo decidere il bene dell'amato. Dobbiamo essere sereni, pur nel dolore dello strappo, quando sappiamo che la persona che amiamo è felice. Laura cara, un altro ha preso il tuo ragazzo. Ma lui non ti ha tradito e non l'hai perso, se sai che la sua vita e affidata a chi può renderlo felice".
Mina - in Liberal, n. 6, 9 aprile 1998

Per il cristiano quella linea d'orizzonte è come il mistero […] è una terra ignota, da cui deve arrivare a lui uno che porta una ricchezza inimmaginabile. Eppure il cuore, che non riesce a immaginare questa ricchezza, questa giustizia, questo amore, questa verità, questa felicità, il cuore che non riesce a immaginarla, ne ha però struggente bisogno. È da quell'orizzonte che deve venire. E, infatti, a un certo momento, appare un punto all'orizzonte, sulla linea dell'orizzonte: è questa barca. Questo barquiňo, che è un punto, diventa sempre più grande, sempre più grande […] finché si vede un uomo, il barcaiolo, seduto dentro. La barca si avvicina alla riva, attracca, e l'uomo che stava aspettando abbraccia l'uomo che arriva. Il cristianesimo nasce così, come l'uomo che aspetta, che abbraccia l'uomo che arriva dall'altrimenti enigmatico e prima ignoto orizzonte".
L. Giussani - Realtà e giovinezza. La sfida


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tolstoj, giussani

giovedì, 23 settembre 2010

"La perfezione di un affetto, la perfezione di un lavoro, la perfezione di una preghiera, la perfezione di una fatica, di un impegno, la perfezione di un rapporto, di qualsiasi natura e tipo, coincidono o dipendono dalla tensione al sacrificio inerente. Senza sacrificio non c'è verità nel rapporto".

Don Giussani, Introduzione al CD delle laude filippine

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giussani

mercoledì, 22 settembre 2010
L’inizio del cristianesimo era fondato sul miracolo
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"Se siamo in un mondo scristianizzato,allora la nostra azione cristiana è come quella dei primi cristiani, è il paradigma più vicino. L’inizio del cristianesimo su che cosa era fondato? Sul miracolo. Sul miracolo era fondato. Questo è il tempo dei miracoli! Come san Pampurri: dobbiamo far pregare la gente per avere miracoli. Se si moltiplicano i miracoli, allora anche il cristianesimo si ridiffonde. Questa è la vera devozione alla Madonna, secondo me: i miracoli. « Madonna, facci i miracoli.» E i primi santi da pregare sono quelli della nostra terra e del nostro tempo."
Don Giussani dal libro di “Caterina “ ed.Rizzoli di A. Socci

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giussani

domenica, 19 settembre 2010

Perchè ci siamo messi insieme
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«Ci siamo messi insieme, piccoli o grandi, perché l’istante del vivere fosse veramente nostro e per sempre. La capacità di essere insieme, quasi fossimo una cosa sola, è la prospettiva più grande della nostra vita: la capacità eterna. Ci siamo messi insieme perché la forma da dare a quello che facciamo sia utile veramente, bella e sicura. Per questo la nostra unità è divina, cioè con Cristo.
La Madonna la protegga come ha fatto con Gesù.»

 
 
don Luigi Giussani, Avvenire, Milano, 17 ottobre 2003

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giussani

giovedì, 26 agosto 2010
Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore
di Stefano Alberto

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25/08/2010 - Il testo dell'intervento di Stefano Alberto, docente di Teologia all'Università Cattolica di Milano, sul tema del Meeting
«Una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo e nulla di più. Ah, come colmarlo questo abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. È come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale! È un desiderio di abbracciare le infinite possibilità!» (O. Milosz, Miguel Mañara, Milano 1998).
Al grido di Miguel Mañara, che abbiamo ascoltato l’anno scorso qui al Meeting, ha fatto eco due sere fa quello del Caligola di Camus nel suo dialogo col fido Elicone: «Ma io non sono folle e non sono mai stato così ragionevole come ora, semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno d’impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti... Ora so. Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, insomma di qualche cosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo». Camus stesso riprende l’apparente paradosso nell’affermazione, cara al ’68 francese: «Soyez réalistes, demandez l’impossible».

1. «Siate realisti, domandate l’impossibile»
Di quale realismo stiamo parlando? Non è piuttosto un’utopia, addirittura una pazzia? Ecco la risposta di Giussani, proprio nel commento al passo appena citato di Caligola: «Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga». In questo senso «l’impossibile» indica l’infinito e l’insoddisfazione insaziabile di Caligola esprime la tensione a questo infinito. È quanto Claudel fa dire a Pietro di Craon in Jeune fille Violaine: «L’insaziabile non può che derivare dall’inestinguibile».
E commenta Giussani: «Che l’uomo sia un animale insaziabile, vuol dire che il soggetto di questa realtà che si chiama uomo è un soggetto inestinguibile. Caligola parla di luna o felicità o immortalità. L’insaziabile non può derivare che da un inestinguibile. L’insaziabilità è il segno del Destino. Ecco emergere la grande parola, da cui nessuno, pur facendo qualsiasi sforzo, qualsiasi mossa, per quanto abile possa essere, nemmeno nel sonno, si può distaccare. Un Destino di immortalità si segnala nell’umana esperienza di insaziabilità».

2. «Misterio eterno dell’esser nostro»
Tale insaziabilità, l’inesauribilità dei desideri e delle domande ultime dell’uomo esaltano la contraddizione fra l’impeto delle esigenze e il limite della misura umana nella ricerca. È la drammatica consapevolezza espressa da Giacomo Leopardi in uno dei suoi Pensieri:
«Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana». Il sentimento di questa sproporzione è per Leopardi il contenuto di quella che egli chiama «la sublimità del sentire».
Ricordo con vivezza l’ultima volta che Giussani, il 22 maggio 1996, in occasione della uscita della raccolta dei canti più belli di Leopardi, da lui curata per la Biblioteca dello Spirito cristiano dal titolo suggestivo Cara beltà…, ebbe occasione, davanti agli studenti del Politecnico di Milano, di testimoniare le ragioni della sua amicizia con il poeta nata negli anni del Seminario. Attingerò in tre passaggi alla testimonianza di questa amicizia perché che cosa sia il cuore e dove porti lo sorprendiamo in noi, eccitati dalla testimonianza di amici così grandi. Proprio per introdurci alla sublimità del sentire leopardiano ci lesse quella che per lui era la strofa più bella della letteratura italiana, tratta dall’inno Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima: «Desideri infiniti,/E visioni altere/crea nel vago pensiere [vago: è l’Ulisse dantesco che sfida il mare infinito, oltre le colonne d’Ercole] /Per natural virtù, dotto concento/Onde per mar delizioso, arcano/Erra lo spirito umano,/Quasi come a diporto/Ardito notator per l’Oceano:/Ma se un discorde accento/Fere l’orecchio, in nulla/Torna quel paradiso in un momento./Natura umana, or come,/Se frale in tutto e vile,/Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?/Se in parte anco gentile/Come i più degni tuoi moti e pensieri/Son così di leggeri/Da sì basse ragioni e desti e spenti?».
Commenta Giussani: «È un contrasto insanabile e inconcepibile: "Natura umana", "Misterio eterno dell’esser nostro"; natura umana, se sei così banale come fai ad avere desideri di questo genere, pensieri di questo genere, così grandi? E se qualcosa di nobile c’è in te, che supera la corruzione, la corruttibilità della materia, come mai i più degni tuoi moti da sì basse cagioni – un dolore che viene al dente, un dolore all’orecchio – sono destati e spenti? La circostanza crea l’input, dà l’input per il grande sentimento, la stessa circostanza porta l’impossibilità a proseguirlo per la delusione che incute. Questa è la situazione che interessa Leopardi, che lui ha colto in se stesso».

3. «Non avanzeremo di un passo di là da noi stessi». L’impossibilità moderna
«Misterio eterno dell’essere nostro». Per Giussani il vero Leopardi è qui, non nella disperata negazione finale de La ginestra, per cui viene esaltato dalla cultura contemporanea come precursore del nihlismo. Ma ha ragione chi, come Natalino Sapegno ha spregiato le domande ultime di Leopardi, definite la sua "ossessione" trattandole come «la confusa e indiscriminata velleità riflessiva degli adolescenti, la loro primitiva e sommaria filosofia (che cosa è la vita? a che giova? Qual è il fine dell’universo? e perché il dolore?), quelle domande che il filosofo vero e adulto allontana da sé come assurde e prive di autentico valore speculativo e tali che non comportano risposta alcuna né possibilità di svolgimento»? Ha ragione Natalino Sapegno? No!, ci viene di rispondere di schianto, quelle domande sono le mie, le nostre, senza di esse non c’è vera umanità, né possibilità di grandezza espressiva. È quanto sostiene con forza la grande pianista russa Marija Judina: «Sono ben consapevole dei miei peccati e delle mie debolezze, ma ho l’ardire di pensare che la grandezza dell’uomo non sia principalmente nelle sue doti, bensì nell’impulso ad osare che nasce con lui e muore solo dopo di lui, nel suo cuore che ha sete di infinito; per tacitarlo – diceva citando Dostoevskij – bisognerebbe tagliare la lingua a Cicerone, cavare gli occhi a Copernico, lapidare Shakespeare...».
Eppure nel dramma di questo contrasto insanabile tra l’aspirazione ideale, la grandezza del proprio desiderio e la contraddittorietà delle realizzazioni storiche, l’uomo tende a cedere, per stanchezza e fragilità, per l’impazienza dell’attesa di una risposta compiuta o per la presunzione di essere lui stesso a darsela. Perché non riconosco la possibilità della risposta, tendo a ridurre o a svuotare di senso le domande ultime costitutive del mio umano. Dapprima è una disarticolazione tra la vita e la possibilità del suo compimento, tra la vita e il suo Destino, poi una separazione, infine una disperata negazione. La «saggezza» sta nel rimanere entro la propria misura: il non andare oltre se stessi diventa condizione necessaria per vivere. Una delle formulazioni più efficaci, e sicuramente più densa di conseguenze, è ancora quella classica del filosofo inglese David Hume che apre la sua opera fondamentale Il trattato sulla natura umana: «Fissiamo pure, per quanto è possibile, la nostra attenzione fuori di noi; spingiamo la nostra immaginazione fino al cielo o agli estremi limiti dell’Universo: non avanzeremo di un passo di là da noi stessi, né potremo concepire altra specie di esistenza che le percezioni apparse entro quel cerchio ristretto».
L’uomo che si rinchiude nei propri limiti finisce, orgoglioso o disperato, a coltivare questa illusione di autonomia, questa pretesa di autosufficienza in cui nulla è più veramente atteso. È quanto scrive Pavese in una sua ben nota poesia: «Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà…La lentezza dell’ora è spietata, per chi non aspetta più nulla» (C. Pavese, Lo steddazzu, 1936). L’esito amaro è, dopo la presunzione, la disillusione, anzi come grida Nietzsche, il disprezzo della propria umanità, ragione, libertà, sete di felicità, disprezzo cme condizione per superare l’uomo, tutto ridotto a nulla. Ecco il grido di Zarathustra nel paragrafo 3 della prefazione del libro omonimo: «Quale è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e per la vostra virtù. L’ora in cui diciate: "Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l’esistenza!". L’ora in cui diciate: "Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere". L’ora in cui diciate: "Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile!"».
Anche senza giungere al «disprezzo» di Nietzsche è chiaro che negare la possibilità che la vita sia movimento, impeto verso un compimento oltre se stessi, pone radicalmente in crisi la nozione di natura umana. La separazione tra Destino e vita, alla base del dualismo conoscitivo su cui tanto si è soffermato in questi ultimi tempi Carron (separazione tra sapere e credere) si riverbera nella crisi stessa del concetto di natura umana. Robert Spaemann ha evidenziato la "situazione di stallo" attuale a cui porta il dualismo di ermeneutica e scientismo rispetto alla questione di cos’è l’uomo. Il filosofo tedesco individua due estremi possibili, l’uno nella posizione di Sartre, l’altro in quella del biologo molecolare Dawkins. Da un lato, Sartre concepisce l’uomo come assoluta libertà priva di essenza e di essere: non c’è più natura come dato originale, essa è il prodotto, per così dire dello sguardo dell’uomo su di sé, senza possibilità di legami, anzi ribellione allo sguardo dell’altro ("l’inferno sono gli altri"). È un uomo senza natura, l’uomo è quello che si sente di essere (pensiamo alle conseguenze in termini di identità personale e sessuale, in termini di legami, di convivenza civile ecc..).
All’altro estremo l’uomo è ridotto deterministicamente ai suoi antecedenti biologici e genetici e considerato solo come urgenza di conservare e diffondere i suoi geni egoisti. «Sto considerando una madre come una macchina programmata a fare qualcosa in suo potere per propagare copie dei geni che porta dentro di sé», giacché «noi siamo macchine da sopravvivenza – robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste nate sotto il nome di geni». Da un uomo senza natura (Sartre) a un uomo che è solo natura (Dawkins) ridotto ai fattori scientificamente misurabili; gli estremi si toccano. Occorre per inciso rilevare che proprio nelle ricerche più avanzate, le cosiddette neuroscienze che studiano il rapporto tra mente e cervello si aprono spiragli interessanti nel dominio del attuale preteso assolutismo scientifico. Senza potere approfondire qui l’argomento basti accennare alle conclusioni di alcuni ricercatori che arrivano ad affermare che il cervello funziona in modo tale da generare credenze: «La domanda religiosa non è più pregiudizialmente rifiutata, semmai depotenziata: gli uomini hanno vissuto di talune credenze, ma la risposta alle domande dell’uomo, anche a quelle ultime, viene e verrà sempre più dalla scienza, evolutasi nel suo rapporto con la tecnologia in tecnoscienza… (che) ha prodotto una sorta di universalismo scientifico, per cui se una cosa ha il marchio della scienza viene considerata indiscutibile. È paradossale: in un mondo che non ammette alcun assoluto, funziona l’assoluto pratico dell’universalismo scientifico. Io non contesto la correlazione tra cervello e mente, dove la mente è la dimensione psichica in senso largo; ma mi rifiuto di considerare il rapporto tra cervello e mente nei termini di causa ed effetto. La rilevazione dei processi cerebrali non è la spiegazione totale del fenomeno mente. Qual è il fattore che impedisce questo appiattimento? La tradizione lo chiama anima. Oggi è diventata un tabù. Invece bisogna ritornare a parlarne riconoscendo che esiste una dimensione dell’uomo che non è puro cervello, né pura mente, né puro rapporto tra mente e cervello, ma un oltre, un altro, l’anima appunto, connessa in maniera strutturale al mio corpo».
Infatti ciascuno di noi, senza essere scienziato, a una attenta osservazione di sé in azione, scopre due realtà diverse irriducibili l’una all’altra (corpo e anima) e che costituiscono l’unità del soggetto; «tentare di ridurre l’una all’altra sarebbe negare l’evidenza dell’esperienza che diverse le presenta».

4. «Siccome torre in solitario campo tu stai solo gigante in mezzo a lei». Il cuore irriducibile
Nella confusione che ci troviamo a vivere con tante manifestazioni di quella, per dirla con Hannah Arendt «sorta di ribellione [dell’uomo] contro l’esistenza umana come [gli] è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che [l’uomo] desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto». In questo clima, in questo travaglio nessuno di noi può sottrarsi, pena la perdita di se stesso, a quell’impegno con la propria umanità dentro il reale, a riconoscere nell’esperienza quei fattori, anzi quel fattore che è, che opera continuamente in noi come criterio originale di giudizio. Anche in questo caso volgiamoci alla scoperta di questo fenomeno. Giussani lo coglie emergere in Leopardi ne Il pensiero dominante: «Dolcissimo, possente/Dominator di mia profonda mente;/Pensier che innanzi a me sì spesso torni./Di tua natura arcana/Chi non favella?Il suo poter fra noi/Chi non sentì? Pur sempre/Chi in dir gli effetti suoi/Le umane lingue il sentir proprio sprona,/Par novo ad ascoltare ciò ch’ei ragiona [anche se di questa cosa sempre se ne parla, essa è sempre nuova]/Come solinga è fatta/La mente mia d’allora/Che tu quivi prendesti a far dimora!/Ratto d’intorno al par del lampo/Gli altri pensieri miei/Tutti si dileguar. Siccome torre/In solitario campo,/Tu stai solo gigante, in mezzo a lei».
«In questo contrasto, che si dilata nel tempo», commenta Giussani, «nella evoluzione del tempo e dell’opera umana, c’è una cosa, c’è un fenomeno, il fenomeno di una cosa, che è come incorruttibile di fronte alla lotta dei contrasti, non riesce ad essere sgretolata, ne parlano tutti ed è sempre nuova. Immediatamente può prendere spunto dalla donna, la donna amata, perciò da qualche cosa che si ama, più grande del solito: tutto scompare quando uno fissa gli occhi in questa presenza». Ma «se il simbolo di tale fenomeno è la donna, il fenomeno è molto più dilatato e grande che l’occasione questo essere, che il tempo spazza via come spazza via me: questo fenomeno, possiamo dire, la sete di bellezza, la sete di verità, la sete di felicità, è il cuore… l’uomo percepisce dentro di sé una destinazione alla felicità, alla verità, alla bellezza, alla bontà alla giustizia. Tutti giudicano in base a queste cose, almeno – anche superficialmente – un po’ tutti. Ma quello che di fatto è più impressionante è che non si possono togliere: in mezzo alla ‘gran ruina’, per usare la parola dantesca, c’è questa cosa che si erge impetuosa, grandiosa: ‘Possente dominator di mia profonda mente’, ‘Ratto d’intorno intorno al par del lampo’; gli altri pensieri dell’uomo, di fronte a questo si dileguano… Quello che è interessante non è il riferimento tipicamente femminile in cui Leopardi vedeva e aspettava la risposta alla sua sete di felicità, ma è l’esistenza di questo fenomeno, il fenomeno di questo fattore, che il tempo e le vicende non riescono a definire, a ridurre sotto il loro dominio, disfacendolo… Tutti gli uomini lo vivono; se non vive questo fenomeno, l’uomo crepa d’inedia, di anoressia; nella misura in cui l’uomo non vive, non si accorge, non si alimenta di questa eccezione al naufragio universale, si annulla…».
L’ha accennato Marco nell’introduzione, tutti parlano di cuore, ma per lo più riducendolo a sentimento, a un fascio di reazioni, agli stati d’animo
. Capita spesso a ciascuno di noi. Si intende spesso il cuore come l’ambito dell’irrazionale soggettivo contrapposto all’ambito del razionale oggettivo, assecondando quella frattura tra sapere, razionalità scientifica, e credere, sentimento soggettivo, su cui a lungo si è soffermato Carrón in questi tempi. Voglio fare notare senza poterla e volerla qui sviluppare in modo adeguato che questa frattura dualistica è all’origine della crisi della nozione stessa di natura umana. Che viene o negata in nome di una libertà assoluta. Potremmo citare Sartre. Una libertà sciolta da ogni concreta fisicità, dai rapporti, dal riconoscimento dell’altro, dai condizionamenti storici e esistenziali. Una libertà assoluta che si autodetermina in tutto e per tutto. O invece una natura ridotta ai soli antecedenti genetici, misurabili, determinabili da una scienza che oggi si presenta, anche se con interessanti eccezioni, come l’unica depositaria di pretese certezze assolute. Che cosa resta di propriamente umano dunque?
Invitandoci alla lealtà con la nostra esperienza, Giussani ci aiuta a recuperare e a vivere come nessuno ha mai fatto nella contemporaneità, nessun pensatore, nessun educatore ci aiuta a recuperare e a vivere in modo nuovo e geniale il significato della nozione, che è biblica, di cuore. Tradizionalmente nella Bibbia, "cuore" indica la sede dell’impeto originale della persona, la fonte stessa della personalità cosciente e libera. Quella di Giussani è una concezione potentemente unitaria che, salvando la centralità del soggetto come criterio del giudizio, così cara alla sensibilità moderna e contemporanea, mette in luce l’oggettività, il dato strutturale di queste esigenze ed evidenze originali. Il cuore è un dato primordiale, "esperienza elementare" che costituisce il volto dell’uomo nel suo raffronto con tutta la realtà. Il cuore è il criterio di giudizio che è dentro di noi, immanente a noi, impronta interiore ma che non decidiamo noi. Ci è dato con il nascere uomini. Io ho dentro di me il criterio per sapere che cosa veramente mi corrisponde della realtà. In che cosa consiste, dunque, questo cuore o "esperienza elementare"? Rileggiamo una delle pagine più famose de Il senso religioso: «È un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. La natura lancia l’uomo nell’universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo – come strumento di tale universale confronto – di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende…Una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come impronta interiore. Così, quando essi diranno "io" utilizzeranno questa parola per indicare una molteplicità di elementi derivanti da diverse storie, tradizioni e circostanze, ma indubbiamente quando diranno "io" useranno tale espressione anche per indicare un volto interiore, un "cuore" direbbe la Bibbia, che è uguale in ognuno di essi, benché tradotto nei modi più diversi».
Qui sono poste le radici per il superamento di quell’esasperato soggettivismo, di quella affermazione di sé all’infinito (anarchia) che rappresenta anche per noi la tentazione più affascinante, «ma è tanto affascinante quanto menzognera. E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore… È molto più grande e vero amare l’infinito, cioè abbracciare la realtà e l’essere, piuttosto che affermare se stessi di fronte a qualsiasi realtà... Perché in verità l’uomo afferma veramente se stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare se stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé».
Non mi sono dato da me, sono fatto; è questa la prima evidenza che si ridesta nell’impatto con il reale. Pensiamo al bellissimo decimo capitolo de Il senso religioso. È nell’impatto con il reale che il cuore, questa complessa e pur semplice esperienza, è messo in moto, immediatamente. Il cuore emerge come «imponenza dei criteri con cui la ragione giudica se stessa (auto-coscienza)», come «i principi a cui essa si affida per essere e per esistere. In ogni singola esperienza, nella rilevazione dei criteri che giudicano l’esperienza stessa e con cui dall’esperienza si può giudicare il mondo, questa emergenza dei criteri ultimi per la ragione è immediatamente sensibile, è immediata, è automatica».
Qui l’affermazione che solo a prima vista sembra sorprendente: cuore si identifica con ragione, che è coscienza della realtà nella totalità dei suoi fattori, cuore si identifica con ragione nel suo senso pieno. È intelligenza, conoscenza affettiva, è la luce dell’intelligenza che viene colpita, affecta. La ragione si attua quando è colpita, non quando si impone. «Perché chiamarlo cuore invece di ragione? Perché il cuore è il luogo dell’affectus , ma l’affectus non è antitetico a ragione, è l’aspetto ultimo della ragione, della dinamica ragionevole. Per cui il cuore è la sede di quelle evidenze e esigenze originali che proiettano l’individuo sulla realtà... cercando di registrare come essa è – rendersi conto, l’autocoscienza – secondo la totalità dei suoi fattori… La ragione coglie la realtà sostenuta dall’affettività propria di un giudizio di corrispondenza tra la realtà e il cuore, le esigenze del cuore… Poi entra in gioco la spada della libertà, che può accettare questo, (e l’accettazione è amore, afferma l’essere, dice tu), o non accettare, (questa è menzogna, perché la logica di questo non accettare è il niente)».
Il contenuto dell’esperienza è la realtà, ma l’esperienza non è, come normalmente tutti ritengono, il semplice provare qualcosa. Ciò che si prova diventa esperienza quando è giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice.
«
Ogni esperienza implica l’esperienza elementare, cioè ogni esperienza è giudicata da qualcosa che c’è in essa e che si chiama esperienza elementare. è la percezione inevitabile di ciò che l’uomo in tutte le cose cerca: per la soddisfazione di sé (satisfacere): per essere completo».
L’uomo è educato dall’esperienza, non da ciò che prova. Questi criteri che fanno diventare ciò che proviamo esperienza sono infallibili. Certo sono infallibili come criteri, non come giudizi, ci può essere una infallibilità applicata male, o non applicata affatto, addirittura contraddetta, come tante volte ciascuno di noi sperimenta. Ma in ogni circostanza della vita, in ogni momento la realtà fa balzare fuori i criteri del cuore, l’esigenza ultima di essere veramente se stessi. Basta un istante, una delicatissima, ultima possibilità. Vorrei ricordare a questo proposito la vicenda, riportata da tutta la stampa, di Richard Rudd., inglese di 43 anni. Richard Rudd aveva sempre detto alla famiglia che se gli fosse accaduto qualcosa non avrebbe mai voluto essere tenuto in vita da una macchina. Ma si sbagliava. Dopo essere rimasto paralizzato nell’ottobre 2009 in un incidente in moto, il 43enne inglese autista di autobus, nel momento decisivo, nell’ultimo momento utile prima che staccassero le macchine ha fatto il possibile per far capire ai medici che non voleva morire. Con un segno della pupilla, per tre volte di seguito, ha detto sì al medico che gli chiedeva se voleva vivere ancora. E così è stato. Oggi, trascorsi nove mesi da quel momento cruciale, Rudd rimane paralizzato e bisognoso di cure costanti, ma riesce a comunicare con i familiari e le figlie, Charlott di 18 anni e Bethan di 14: sorride, muove gli occhi e la testa. Basta un istante, anche in circostanze estreme, dolorose, complicate, perché il cuore sia colpito e ridestato e manifesti potentemente la sua voce.
Facciamo un passo ulteriore. Abbiamo detto che la ragione, coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori, rigenera continuamente e utilizza come criterio ultimo che giudica il rapporto tra l’uomo e la realtà che sta sperimentando, principi che sono dentro di lui, il suo cuore. Domandiamoci: è proprio vero che questo è tutto? Per rispondere riprendiamo il famoso esempio della sveglia proposto da Giussani: «C’era dunque sul tavolo di casa sua una sveglia. Siccome lui era un bambino molto intraprendente e attivo, curioso, siccome il papà e la mamma erano andati via e c’era soltanto la sorella minore….ha visto la sveglia…, si è guardato attorno, ha preso la sveglia e l’ha smontata tutta. I pezzetti che si potevano contare… contati tutti erano 353… La sveglia era fatta di 353, ma quei 353 fattori non è più capace di metterli insieme. Perché? Perché gli manca l’idea della sveglia. Era un piccolo bambino e non un orologiaio svizzero… La ragione – che è la mente del bambino – non è capace di fare la sveglia… manca un fattore... l’idea della sveglia… In tal modo la ragione implica l’affermazione dell’esistenza del mistero, intendendo per mistero un fattore presente in ogni esperienza, che non appartiene ai fattori sperimentabili, numerabili, calcolabili, dell’esperienza stessa. L’idea della sveglia è oltre il livello dei pezzi. Non è un altro pezzetto, è un’altra cosa».
Senza la percezione e il riconoscimento del Mistero come fattore della realtà non c’è esperienza, di qualunque cosa si tratti. Il reale ci sollecita a ricercare qualcosa d’altro oltre quello che immediatamente ci appare, qualcosa d’altro che è il significato ultimo di ciò che appare. È la dinamica del segno. Bloccare questa dinamica alla reazione immediata, all’apparenza, come tante volte accade, sarebbe soffocare irragionevolmente l’impeto originale con cui il cuore, provocato, si protende sul reale.
Ritorniamo al dialogo tra Giussani e Leopardi per cogliere come Leopardi vive questo, soprattutto nell’inno Ad Aspasia, che è stata la sua fiamma più potente: «È come se egli dicesse: come sei stata bella, com’eri bella, ma la tua bellezza non era responsabile di se stessa: la tua bellezza era come l’estrema voce dell’espressione di un cuore che stava sotto, nascosto; oppure era come l’inizio di una prospettiva di cui non si vedeva la fine, oltre te, al di là di te».
Raggio divino al mio pensiero apparve,/Donna, la tua beltà. Simile effetto/Fan la bellezza e i musicali accordi,/Ch’alto mistero d’ignorati Elisi [Paradiso]/Paion sovente rivelar. Vagheggia/Il piagato mortal [l’uomo colpito da questa violenza d’amore] quindi la figlia/Della sua mente….
Commenta Giussani: «Non "è" un raggio divino; raggio divino al pensiero dell’uomo "appare" la sua bellezza. La bellezza del viso della donna è strumento di qualcosa d’altro. Quando il valore di una cosa sta, è situato in un’altra cosa, della prima cosa si dice che è un segno. "Vagheggia il piagato mortal quindi" quella che è figlia della sua mente: è la forza del suo cuore che investe quel volto che lo attrae e lo colpisce per la sua bellezza, ma lo investe creando una prospettiva, una prospettiva in esso che esso non ha… è un segno, è una realtà che è segno, che vale in quanto segno».

5. «Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto Signore io cerco» (Sal 27). Cristo, l’impossibile corrispondenza
Il cuore, di fronte alla realtà come segno, è costretto ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile, di un inarrivabile, e per questo non smette di essere esigenza di poter conoscere quell’incognita. Hannah Arendt acutamente osserva: «Il cuore umano è la dimora, ma non la patria». Ma quanto più un uomo ha il senso del mistero, tanto più si sente piccolo di fronte all’impossibile. Piccolo di fronte all’impossibile e grande nello struggimento di poter entrare in rapporto con lui. È la grandezza di Leopardi, che si manifesta nel vertice della sua espressione poetica, nell’inno Alla sua donna. A un certo punto della sua vita Leopardi intuì, presentì che il segno celebrato nell’inno Ad Aspasia era accaduto.
«Viva mirarti omai/nulla speme m’avanza;/S’allor non fosse, allor che ignudo e solo/Per novo calle a peregrina stanza/Verrà lo spirto mio…».
«Dunque, per un pezzo della sua vita – osserva Giussani - Leopardi aveva creduto di poterla vedere per la strada; poi disperò di poterla vedere viva in questo mondo e aggiunse: a meno che io ti possa vedere altrove, chissà dove, ma altrove. Che cosa, vedere? Che cosa credeva di poter vedere viva per la strada? La bellezza. Non Aspasia, non una delle decine di donne di cui si è innamorato, ma la Donna, con la D maiuscola, la Bellezza con la B maiuscola…». Quando Gaetano Corti, professore di Giussani, commentò in prima Teologia la frase del Prologo del Vangelo di San Giovanni «Il Verbo si è fatto carne», il presentimento avuto da Giussani alla lettura dell’inno fu chiaro: «Il Verbo si è fatto carne vuol dire che la Bellezza si è fatta uomo, la Giustizia si è fatta uomo, la Bontà si è fatta uomo, la Verità si è fatta uomo. "Quid est veritas? Vir qui adest". Cos’è la verità? Un uomo presente. Gesù era profetizzato dal genio di Leopardi milleottocento anni dopo la sua esistenza».
Ecco l’ultima strofa dell’inno Alla sua donna , quella che abitualmente Giussani ha recitato come ringraziamento alla Comunione: «Se dell’eterne idee/L’una sei tu cui di sensibil forma/ Sdegni l’eterno senno esser vestita,/E fra caduche spoglie/Provar gli affanni di funerea vita;/O s’altra terra ne’ superni giri/Fra mondi innumerabili t’accoglie,/E più vaga del Sol prossima stella/T’irraggia, e più benigno etere spiri;/Di qua dove son gli anni infausti e brevi,/Questo d’ignoto amante inno ricevi». Commenta Giussani: «D’ignoto amante inno ricevi. Ignoto amante. L’uomo ignoto amante di questa bellezza incarnata, che se non è per le vie del mondo, sarà da qualche parte, in qualche altra stella del cielo, in qualche mondo platonico. Ignoto amante: io ignoto amante di Te; Tu, Dio fatto carne, ignoto amante di me, ignorato da me, non conosciuto da me, non ricordato da me. Letteralmente questo è il messaggio cristiano, come l’ho conosciuto io, come lo è obiettivamente. Quello che Leopardi esprime come suprema esigenza di poter vedere e vivere il rapporto con la bellezza fatta carne, è accaduto duemila anni fa: Giovanni e Andrea rappresentano i primi interlocutori squassati dallo stupore di sentire quell’uomo parlare. Il genio di Leopardi s’accosta, quindi, al genio religioso di San Giovanni».

Ma l’uomo, che pure – come viene descritto dai più grandi padri della Chiesa, dai più grandi teologi, soprattutto quelli medioevali – l’uomo che pure è capax dei, desiderio naturale di vedere Dio. Mai l’uomo avrebbe potuto immaginare una risposta così al grido del suo cuore: «Di Te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 27). Risposta tanto impossibile a immaginarsi prima che accadesse come avvenimento storico, quanto supremamente conveniente nel suo libero e totalmente gratuito manifestarsi. Per Giovanni e Andrea, per i primi che lo seguirono «Gesù Cristo [...] si rivela come una presenza che corrisponde in modo eccezionale ai desideri più naturali del cuore e della ragione umani. Egli mostra la propria eccezionalità. Perché? Perché è l’uomo di fronte a cui il cuore umano avverte la corrispondenza per cui è naturalmente fatto, e che non prova mai, neanche di fronte alle cose più coinvolgenti e belle della sua esistenza – se non altro per un sospetto di brevità che adombra un’ultima tristezza. Nessuno è come Lui, devono riconoscere i suoi; per non crederti – dice san Pietro con la chiarezza di un impeto, secondo il suo temperamento – non dovremmo credere ai nostri occhi. Tale evidenza eccezionale non annulla, anzi esalta la libertà umana: dinanzi al "vieni e seguimi" ripetuto senza distinzioni a pescatori, mafiosi, prostitute, sapienti e politici, ognuno è chiamato a "svelare i profondi pensieri" del proprio cuore, a decidere se aderire al vero più che alla propria idea o al proprio tornaconto».
Gesù Cristo non si sostituisce al dramma del cuore umano, ma lo rende veramente possibile, perché si rivela come l’unica risposta totalmente corrispondente a tutte le esigenze costitutive del cuore e, rispondendovi, le ridesta e le purifica continuamente, a una condizione che viene molto bene inquadrata all’inizio, nell’introduzione di All’origine della pretesa cristiana: «Non sarebbe possibile rendersi conto di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo si pone infatti come risposta a ciò che son "io", e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Cristo diviene un puro nome».
Nell’incontro con Cristo l’io sperimenta una passione per il proprio destino, una tenerezza verso la propria sete di felicità impensabili da parte di chiunque, che si condensano in quella domanda che nessun uomo ha mai rivolto a un altro uomo: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà tutto il mondo e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?» (Mt 16,26; cfr. Mc 8,3ss.; Lc 9, 25s.). È nell’appartenenza a Lui che il cuore dell’uomo che cerca il suo Destino percepisce la corrispondenza ultima, altrimenti impossibile. Con tenerezza ha ripetuto in quell’ultima sera, in quell’ultima cena prima della sua morte: «Rimanete in me e io in voi... perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,4.6).
Realisticamente, l’uomo senza l’aiuto gratuito di Cristo, non riesce a vivere a lungo senza farsi del male, senza andare gravemente contro se stesso, quell’uomo che ha nel cuore lo stimolo dell’ideale, ma che ha anche dentro la sua realtà personale come una forza contraddittoria che cerca di trascinarlo. Di questa fragilità approfitta sempre il potere, qualsiasi potere, grande o piccolo, con il quale noi ci troviamo spesso conniventi. Nel libro che verrà presentato l’ultimo giorno qui al Meeting, il libro delle équipes degli anni 1986/1987 c’è un passaggio interessante sul potere: «Il potere fa addormentare tutti, il più possibile. Il suo grande sistema, il suo grande metodo è quello di addormentare, di anestetizzare, oppure, meglio ancora di atrofizzare. Atrofizzare che cosa? Atrofizzare il cuore dell’uomo, le esigenze dell’uomo, i desideri, imporre un’immagine di desiderio o di esigenza diversa da quell’impeto senza confine che ha il cuore. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadavere, cioè impotente». L’uomo è uno ma diviso, fugge dal suo cuore ("fugitivus cordis sui" dice Agostino) non usa, o usa male, o parzialmente (per il peccato originale) quei criteri che sono infallibili. Il cuore dell’uomo è tentato dal sogno, può atrofizzarsi, riducendo l’ampiezza infinita dei suoi desideri perché: “Le esigenze del cuore sono esigenze di felicità; senza la fede questa certezza di felicità non può essere ragionevole, ma acquista la forma, una forma che le dà il cuore stesso, prendendo pretesto da qualche presenza che non è ancora la grande Presenza (l’uomo per la donna, il bambino per la madre, i soldi per chi ama i soldi, l’esito politico per chi fa politica) e questo si chiama sogno; il cuore dell’uomo è tentato dal sogno; invece il cuore dell’uomo è fatto per la felicità. Se riconosce la grande Presenza, capisce che è dalla grande Presenza che può venire la ragione della certezza che i suoi desideri si attuino; perciò domanda con l’aiuto della grande Presenza di raggiungerli, così come essa vi ha dato forma eterna (195) [...] tutte le circostanze in cui l’uomo vive son tentazione di sogno oppure segni dell’ideale… L’uomo scopre che l’attrattiva che tutte le circostanze hanno è qualcosa di provvisorio che rimanda all’attrattiva definitiva e ultima della grande Presenza… Perciò il desiderio, che rappresenta l’essenza della speranza, è che Cristo venga, che, anche nelle circostanze provvisorie, Cristo sia più raggiunto, Cristo sia più glorificato…».

6. «Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14, 12)
L’ultimo punto è introdotto da un’altra frase detta in quell’ultima cena: «Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi».
«Rimanete in me e io in voi» è l’esperienza possibile oggi nell’appartenenza, attraverso il Battesimo, alla compagnia della Chiesa, in cui si manifesta la contemporaneità di Cristo, l’unica in grado di consentirci di stare davanti al reale da uomini. «Essere contemporanei a Cristo è l’unica condizione perché inizi realmente la conoscenza di Lui come consistenza di tutte le cose (Col 1), come inizio di un popolo nuovo (Gal 3), come criterio con cui affrontare la totalità dell’esperienza (cattolicità), e come origine di posizione culturale, di un punto di vista che permette di vagliare tutto e trattenere ciò che vale (1Ts 5)».
La compagnia cristiana è il luogo in cui l’esperienza di quella novità di vita, altrimenti impossibile altrove, inizia a manifestare nel tempo, come albore, non come giorno pieno, la realtà della promessa fatta da Cristo ai suoi, che corrisponde alla grandezza delle attese del nostro cuore: «Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14,12). Non si tratta certo della promessa di un successo mondano, di necessaria grandiosità di esiti, di una raggiungibile egemonia, soprattutto in questi tempi drammatici in cui la Chiesa, ferita per i limiti e i peccati dei suoi membri, è avversata con una insistenza che rende particolarmente attuale la cruda domanda di Eliot nei Cori da La Rocca: «Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue Leggi? Essa ricorda loro la vita e la morte e tutto ciò che vorrebbero scordare. È gentile dove sarebbero duri e dura dove essi vorrebbero essere teneri». Qual è dunque la grandezza dell’opera per cui vale la pena vivere rischiare edificare instancabilmente, morire. Sempre Eliot: «E se il sangue dei martiri deve fluire sui gradini, dobbiamo prima costruire i gradini e se il tempio deve essere abbattuto, dobbiamo prima costruire il tempio».
L’opera più grande è, in ogni tempo, in ogni cultura, in ogni frangente storico, il cambiamento, la rinascita dell’io nell’incontro con Cristo e la sua libera appartenenza a Lui, che investe, come ci ha ricordato Carrón qui a Rimini quest’anno, «il modo stesso di guardare, di percepire, di giudicare, di sentire di manipolare, di trattare la realtà (personale, sociale, culturale, politica)». Cristo stesso insiste nella sua promessa. «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva già nel presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e nel futuro la vita eterna» (Mc 10, 29s.).
I cristiani con il dono dello Spirito nel Battesimo consapevolmente vissuto in una compagnia ecclesiale viva, hanno la possibilità di cominciare a sperimentare la realtà in modo nuovo, ricco di verità, carico di amore: «Ed è proprio la realtà quotidiana a trasformarsi, è il tempo presente quello in cui si riceve "di più", sono i normali connotati dell’esistenza umana a essere mutati: l’amore tra un uomo e una donna, l’amicizia tra gli uomini, la tensione della ricerca, il tempo dello studio, del lavoro». Sono i connotati normali dell’esistenza umana attraverso cui noi camminiamo al Destino, senza censurare e rinnegare nulla, senza lasciarci imprigionare dalla bellezza delle cose transitorie, come ricorda un Prefazio della Liturgia ambrosiana, richiamato da Giussani nell’ultimo libro appena citato: «Dio forte e buono, accordandoci i beni che passano, tu ci sospingi al possesso della felicità che permane… e, mentre concedi le consolazioni della vita presente già prometti le gioie future, perché ci sia dato fin d’ora di pregustare un’esistenza perenne e la bellezza delle cose transitorie non ci imprigioni» (Prefazio, lunedì V quaresima).
Questo sguardo nuovo, sorgente di un’iniziativa generatrice di azioni e fatti di un’umanità diversa, è il contributo fondamentale del cristiano al mondo, anzi, come ha recentemente osservato Benedetto XVI (all’ultima Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici): «Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e di trasformazione».
Uno sguardo che è carico di ardore e di passione per Cristo, per cui la vita, in qualunque circostanza, in qualunque azione è dominata dallo struggimento che Lui si manifesti, secondo la bellissima esortazione di san Paolo ai Corinti: «L’amore di Cristo ci strugge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5,14s). Ogni azione, ogni fatica, ogni sacrificio, se vissuti nella commozione per il fatto che Egli dà la vita per noi (la carità), se diventa riconoscimento che la consistenza di tutto è Lui e grido che Egli si manifesti di più (si chiama offerta), tutto partecipa coscientemente al disegno di salvezza del mondo in Cristo. Così ogni azione, anche il gesto più umile e nascosto, può avere un valore e una dignità cosmica: dal lavare i piatti al guidare la Chiesa, dal badare a un bambino, al soffrire in un letto di ospedale, dallo stare in carcere, al governare un Paese. “Il punto di forza del cristianesimo – è una frase del nostro grande amico padre Me’n, prete ortodosso, di cui ricorre il 9 settembre il ventesimo anniversario del martirio – consiste proprio nel non negare nulla, ma nell’affermazione, nell’ampiezza, nella pienezza d’orizzonte che afferma tutto».

Così la grandezza dell’uomo, che rimane solo grido di totalità in Caligola, si compie come affermazione totale di amore in Miguel Mañara: «Io sono Mañara, colui che mente, quando dice, "io amo", e perché ho detto all’Eterno che l’amavo, il mio cuore è gioioso e le mie mani sono desiderabili come pane. Io sono Mañara e Colui che amo mi dice: "Queste cose non sono state [se ha rubato, se ha ucciso, che queste cose non siano state..]. Egli solo è"».
Lasciatemi concludere leggendo una lettera scritta nel 1993 da un grande amico, morto due anni orsono, Andrea Aziani, Memor Domini, a un suo compagno di avventura in Perù, in occasione di una vacanza di universitari. Essa bene testimonia la grandezza del cuore umano totalmente afferrato da Cristo e dall’amore per i fratelli e la possibilità di generazione di vita nuova che da questa affezione scaturisce:
«Caro Dado, un immenso abbraccio e un affettuosissimo ricordo. Come posso non dirti che mi manchi? Forse non ci crederai, ma il fatto è che a un certo punto si scopre che siamo veramente necessari (passi la parola) gli uni per gli altri. Ma, in realtà, ciò che è necessario è la nostra compagnia o, meglio, la nostra compagnia vocazionale. Per chi? Per noi stessi, per gli amici, per i nemici, per il mondo. Sono certo che in questo ‘bagno missionario’ di questi giorni emerga, cresca, potente e lieta in te – quindi in noi tutti – la coscienza, la certezza di quello che è Cristo in noi e per noi. O quam amabilis es bone Jesu. Sentivo nel ritiro di Avvento don Giussani scalpitare nel commentare questi versetti. Buon lavoro per questa ultima tappa. Che l’unità tra voi e fra tutti voi e il movimento sia il leitmotiv, il soggetto capace di rendere possibile e percepibile l’Avvenimento.
Che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi! Ma per questo, perché sia così, noi dobbiamo bruciare, letteralmente ardere di passione per l’uomo, perché Cristo lo raggiunga. Il fuoco ha da ardere, ti ricordi Santa Caterina? Grazie per la tua splendida, umile e generosa presenza e amicizia fraterna».
Auguro a tutti voi e a me questo ardore, domandiamolo ogni giorno.


Testo provvisorio in attesa di pubblicazione

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Postato da: giacabi a 08:32 | link | commenti
leopardi, giussani, milosz, aziani, judina

mercoledì, 25 agosto 2010

Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore

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SE UNO CI TIENE ALLA SUA VITA DOVREBBE ASCOLTARE QUESTO INTERVENTO

Postato da: giacabi a 16:42 | link | commenti
nietzsche, leopardi, giussani, carron, cl, senso religioso, milosz, judina

domenica, 22 agosto 2010
Il cuore
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«Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore. Quindi seguilo. Cosa vuol dire seguirlo? Vuol dire paragonare tutti gli incontri che fai con quello che il tuo cuore ti dice e, quando corrispondono, seguirli. Così, andando avanti non solo non avrai la paura che sia un’illusione, ma capirai che in effetti non è un’illusione. Che sia un’illusione, infatti, è un preconcetto, un sospetto».
don Giussani

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giussani

sabato, 21 agosto 2010
Per comprendere il Meeting
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Questo intervento di don Giussani aiuta a comprendere la portata di una proposta che sfida la ragione e la libertà di chi – oggi – organizza e partecipa al Meeting.

Io vorrei che facessimo emergere i fattori determinanti il volto adulto di questo fenomeno che ha dato origine alla più grossa manifestazione che abbiamo fatto in trent’anni: il Meeting di Rimini. Più grande, non appena quantitativamente, ma anche dal punto di vista della incidenza sulla opinione pubblica.

a. Da una parte, gente appassionata alla vita del movimento. Cosa vuol dire appassionata alla vita? Un adulto non può non essere appassionato a una vita, altrimenti o è un vecchio, oppure è un bambino. L’adulto è serio nella vita: la serietà nella vita è la passione per il significato.

L’adulto è una persona per cui il movimento è veicolo, o luogo di incontro, con il significato del proprio esistere, della propria persona.

b. In secondo luogo, amici tra di loro per delle circostanze che l’hanno permesso. Allora, una passione per la vita che renda capaci di amicizia. E l’amicizia è affrontare «insieme» i bisogni.
Ora, qual è l’accento particolare che fa capire la maturità di queste persone? E’ che, vivendo in una determinata situazione (la Rimini estiva), hanno notato l’assoluta, totale mancanza di presenza dei cristiani. Quanti anni è che Rimini è centro balneare di quel tipo? E’ bellissimo e tragico che della gente si sia domandata a un certo punto, improvvisamente o finalmente: «Non esiste presenza cristiana qua dentro».

c. Terza questione: allora, l’ideale della vita che hanno dentro, reso organico dalla amicizia e perciò reso coraggioso dall’amicizia, si impegna, cambia. Non esiste vera percezione ideale se non diventa energia di cambiamento, cioè affezione, energia di mobilitazione del tempo, e dello spazio, della realtà, in funzione dell’ideale. Quindi, si sono mossi per realizzare questa presenza.

Questa è la storia dell’adulto. Serio nella vita, che riconosce l’ideale, e perciò eminentemente sociale come temperamento, come fisionomia. Questo è l’ideale che unisce: è la risposta al bisogno del vivere che unisce la gente, che crea la società. L’amicizia: compagnia guidata al destino, come io la definisco sempre con i ragazzi. Percezione di una situazione come assenza del proprio ideale, e quindi impegno, perché questo sia, perché la presenza dell’ideale avvenga.

Così l’avvenimento nuovo inizia, la generazione dell’adulto comincia, l’adulto genera. Hanno creato un luogo dove si incontrava un soggetto. La presenza è questo: un luogo. La generazione dell’adulto, che rende presente la propria vita fuori di sé, è un luogo dove si incontra un soggetto. Un soggetto, una persona, una umanità, che aveva qualcosa da dire; una umanità con un messaggio. Questo è il vero figlio! Un padre non è padre perché permette alla donna di buttare fuori un feto. E’ veramente padre se crea una persona che si può incontrare come luogo di un messaggio, quando crea una persona che ha un messaggio dentro.

Dopo queste cose si può fare tutto: si può pulir la chiesa, scopar la chiesa, spolverare le panche, si può servire, coprire tutti i ranghi della dottrina, si può organizzare i chierichetti, si può organizzare la S. Vincenzo e tutto il resto: dopo. Perché se non è espressione di questo, allora siamo finiti, anche se facciamo tante cose! Se facciamo tante cose, produciamo tutt’al più una resistenza, facciamo un vallo di resistenza all’onda in piena, una resistenza che viene inevitabilmente travolta.
Giussani 
prima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli si svolge a Rimini dal 23 al 31 agosto 1980.
da:http://www.meetingrimini.org

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giussani, cl

venerdì, 20 agosto 2010

Ciò che definisce l’identità è l’appartenenza

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Ciò che ci deve muovere è quel presentimento di felicità che è la letizia del vivere. Allora il cerchio rosso dell’Icaro di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Quel cuore simboleggia che la figura di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qualcosa d’altro, dipende. Dipende da qualcosa d’altro. Se non ci fosse qualcosa d’altro, anche evanescentissimo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spiaccicherebbe, come, infatti, è il destino di questa fiaba nella mentalità pagana. Nella mentalità pagana, cioè nella mentalità mondana, l’Icaro è destinato a distruggersi a terra, perché il cuore non tiene, cioè le ali non tengono. Invece quel cuore è il simbolo del rapporto con qualcosa.
Una foglia lontana dal proprio ramo non è più una foglia. Che sia ancora foglia è la sopravvivenza di un’apparenza, perché incomincia a marcire! Allora vuole dire che per essere foglia deve essere legata al ramo, come il ramo al tronco; vale a dire, bisogna che appartenga! Questo è l’Icaro di Matisse, esile fin quanto volete, ma ha la percezione di appartenere a qualcosa d’altro.
Ciò che definisce l’identità, la forza e la letizia di un soggetto – o di una realtà – è la sua appartenenza, è ciò cui appartiene.

L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, Bur.

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matisse, giussani

mercoledì, 18 agosto 2010

COSSIGA
Oltre lo statista, il ricordo di un uomo alla ricerca della verità

martedì 17 agosto 2010                                                                 da www.sussidiario.it
MORTO FRANCESCO COSSIGA - Il viso ha ritrovato pace. Da tanto tempo il suo sorriso così bello si raggrinziva, era perennemente turbato. Le sue battute e le sue contumelie da morir dal ridere, le sue esplorazioni terrificanti della storia italiana e dei suoi segreti, non davano requie a lui stesso. Aveva un solo punto dove si riposava: annegando nell’abbraccio trinitario di amici cristiani. Un tempo papa Karol Wojtyla (è l’uomo di Stato che lo ha incontrato ufficialmente più spesso: ventitré volte, ma qualcuna l’hanno cancellata per non esagerare) e don Luigi Giussani. Oggi Benedetto XVI. Gli era amico da cardinale, ma un Papa – diceva Cossiga – può avere amici solo altri cardinali, e si sentiva in questa confessione un po’ di amarezza. Ma soprattutto di desiderio.
Aveva le stampelle, non stava in piedi, Cossiga, il 24 marzo del 2007 quando il Papa volle incontrare in San Pietro i ciellini. Andai a prenderlo di mattino presto in casa, e stava male, faceva freddo e non sarebbe dovuto uscire, pioveva a dirotto. Invece volle esserci e come un ragazzino si buttò in ginocchio davanti al Papa per prendere la sua benedizione. Aveva una sete tremenda di grazia. Era un mendicante bambino, lui che è stato uno degli uomini che sulla terra ha raccolto più cariche e titoli, più amicizie e onori. Era uno degli uomini al mondo meglio dotato di relazioni e più conosciuto e stimato a destra e a sinistra, in America e in Cina. Ma non era niente tutto questo sfavillio dinanzi al destino, senza Cristo vivo. Senza che Cristo gli potesse perdonare la morte di Moro, del quale lui mi disse ancora poco tempo fa con un sorriso che non dissimulava un bel niente tranne il dolore più grande del mondo e del sopramondo: “L’ho condannato a morte!”.
Sto condividendo qui il ricordo più forte e bello che ho del presidente Cossiga. Il suo essere l’essenza concreta dell’uomo europeo. Un uomo che è stato duemila anni fa greco e poi ebreo e cristiano. È stato travolto dalla modernità, si è aggrappato al cattolicesimo liberale di Rosmini e Newman. Ha sentito il peso di un moralismo insopportabile, infine il suo dovere di statista. La solitudine. Il monachesimo finale nella memoria amica di don Gius, Giovanni Paolo e Benedetto.
Un aspetto poco conosciuto è quello del suo affetto e della sua santa invidia per don Giussani. Desiderava avere la sua fede, gli obbedì nella scelta decisiva della sua esistenza; matto com’era avrebbe voluto acciambellarsi ai suoi piedi come il Gatto Mammone che si figurava essere per respirare lo stesso tepore della Santa Trinità ardente nel cuore di don Gius. (Uno così non si può non amare, anzi non si poteva non amare, bisogna usare il tempo passato adesso che è morto, ma non mi rassegno, non è giusto, ci dev’essere un’altra giustizia che fa risorgere dai morti).
Non mi intrattengo sul politico e sulla sua idea di politica. Lo faranno molto meglio altri. Mi interessa trasmettere la sua tenera e fanciullesca fede, lui che è stato uno degli uomini di Stato più colti del mondo. Era complicato nella testa, anche nella teologia aveva idee profonde e molto ingarbugliate esposte con perfezione dottrinale. Ma era evidente che non si vive di dottrina, ma di amicizia cristiana, la quale scioglie il cuore nell’Amore. Ecco l’amicizia che lui ha avuto la generosità di accordarmi ha avuto questo segno: in tutto, anche gustando del caffè o del gelato, del vino o un passo di poesia, o c’entra il cuore della realtà, il suo significato, oppure tutto è vanità. E per me, ma anche per lui – ha chiesto di iscriversi alla Fraternità di Comunione e Liberazione - don Giussani, la sua persona vivente anche dopo il suo trapasso, era il segno efficace di Dio nel mondo, di una felicità possibile anche ora, nonostante la nostra miseria, anzi esaltata ancora di più nella sua gratuità dalla nostra meschinità traditora.

Cossiga mi raccontò che fu Aldo Moro a indirizzarlo da don Giussani. Mi disse: «Ho conservato da qualche parte l’angolo di giornale dove segnò i numeri di telefono di Giussani e Formigoni, dicendomi, anzi ordinandomi di chiamarli e di incontrarli. Nel 1976 si era assunto in prima persona l’onere di condurre, pur essendo presidente del Consiglio, la campagna elettorale che minacciava di essere quella del sorpasso. Diceva che gli unici a capire il senso autentico di quello che poteva accadere erano loro, Giussani e Formigoni: e mi mandò da loro».
Quando Moro fu assassinato, Cossiga si ritirò da tutto. Voleva chiudere con la vita pubblica. Andò da don Giussani e gli chiese consiglio. Don Giussani, sempre discretissimo, quella volta lo aiutò a decidere per il rientro in politica, era la sua vocazione…
Ricordo ancora quando nell’ottobre del 2005 a Desio si inaugurava la piazza don Giussani, il paese natale. Nessuno credeva che sarebbe arrivato. Invece venne, e tenne un discorso bellissimo sotto la pioggia sferzante, con una bronchite che lo strozzava. Era così, Francesco Cossiga. Amava il Meeting. Indossò da presidente della Repubblica la maglietta dei militanti, spiritoso e serissimo: ci credeva.
 

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politica, giussani

domenica, 30 maggio 2010
Ciò che  manca oggi tra noi non è la Presenza

manca l’umano

 Cristo è risorto! Questo è l’annuncio che instancabilmente, da secoli,
la Chiesa ci rivolge. Questo è l’avvenimento che domina la storia, un
evento che nessuno sbaglio nostro o dei nostri fratelli può far fuori e
che tutto il male che possa capitare non può cancellare. Questo fatto è il
motivo della nostra speranza; è dunque questo fatto che deve dominare
in noi dal primo istante di questi giorni: la Sua presenza risorta. Non
sarebbe adeguato a tutti i fattori del reale, ora, uno sguardo sulla
nostra vita, sul sentimento di noi stessi, sul reale e sul mondo che non
cominciasse da questo riconoscimento; sarebbe menzognero, perché
mancherebbe il fattore decisivo di tutta la storia. Non c’è una novità più
grande, non c’è mai stata una novità più grande che il fatto che Cristo è
risorto.Per questo, nella misura in cui ci lasciamo invadere totalmente
da questa Presenza viva, ci lasciamo dominare da questa verità – che
è un fatto, non un pensiero creato da noi, ma un evento successo nella
storia –, noi vediamo cambiare il sentimento che abbiamo di noi stessi.
Ci ritroviamo insieme questi giorni per viverli sotto la pressione di
questa commozione, sotto l’onda tutta carica di questa commozione:
Cristo è morto e risorto per noi. Vi prego di lasciarGli spazio, cioè di
lasciarci trascinare da questo evento; non consentiamo che resti in noi
soltanto una parola. È successo: che luce, che respiro, che speranza
porta alla vita questo fatto! È il segno più evidente e più potente della
tenerezza del Mistero per ciascuno di noi, di questa carità sconfinata di
Dio per il nostro niente (compreso il nostro tradimento).
È la Sua presenza vittoriosa in mezzo a noi che ci spinge a continuare
il nostro percorso per cercare di superare sempre più la frattura tra il
sapere e il credere, affinché questo fatto riconosciuto dalla fede determini
la vita più di tutto il resto.Se invece questo fatto rimanesse soltanto a
livello pio o devoto, sarebbe come se non ci fosse stato, come se non
avesse tutta la densità di realtà per cambiare la vita, per incidere sulla
vita; e allora resteremmo determinati da tutto il resto, che ci travolge, che
ci confonde, che ci scoraggia, che ci impedisce di respirare, di vedere, di
toccare con mano la novità che Cristo risorto ha introdotto e introduce
nella nostra vita…
. La fede è il riconoscimento di questa Presenza eccezionale,
oggi resa carnalmente presente dai testimoni, dal popolo cristiano, dalla
Chiesa, che sarebbe impossibile se Lui non la generasse costantemente.
Ma l’anno scorso abbiamo approfondito che, malgrado tanti fatti
eccezionali che abbiamo visto, malgrado tanti testimoni che abbiamo
davanti, spesso dopo un istante ci sembra che tutto svanisca; e abbiamo
identificato la ragione in quella frattura tra il sapere e il credere che si
manifesta nella riduzione della fede a proiezione di un sentimento, a
un’etica o a una forma di religiosità estranea e opposta alla conoscenza.
La riduzione sta in ciò: la fede non viene più concepita e vissuta come
un percorso di conoscenza di una realtà presente, e questo ci rende
deboli e confusi come tutti. Una fede che non è conoscenza, che non è
il riconoscimento di una Presenza reale, non serve alla vita, non fonda
la speranza, non cambia il sentimento che noi abbiamo di noi stessi,
non introduce un respiro in ogni circostanza.E l’aspetto cruciale della
difficoltà l’avevamo identificato nella mancanza dell’umano: «Ciò che
manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da
testimoni!); manca l’umano.Se l’umanità non è in gioco, il cammino
della conoscenza si ferma.Amici, non manca la Presenza, manca
il percorso», il percorso introdotto dalla curiosità davanti a questa
Presenza, con la quale vogliamo entrare sempre di più in una conoscenza
approfondita….
Dopo un anno ci sono segni che rendono evidente che la frattura tra
sapere e credere non è ancora superata.
Il primo è che non si capisce il nesso tra l’avvenimento cristiano e
l’umano: si continua a percepirli come estrinseci l’uno all’altro. ……
non abbiamo capito il rapporto che c’è tra l’avvenimento cristiano e la messa
 in moto dell’io, non si capisce che il segno che ho fatto un incontro è che mi
metto al lavoro, perché il mio umano è ridestato. Il lavoro
 è il segno più evidente che il cristianesimo è un
avvenimento, cioè che avviene in me
qualcosa che mi ridesta.
Il secondo segno è che l’avvenimento cristiano non
 produce  una mentalità nuova. ………

È come se vedessimo su di noi gli effetti di quello che Charles Péguy
descrive in modo così suggestivo: «Per la prima volta, per la prima volta
dopo Gesù, noi abbiamo visto, sotto i nostri occhi, noi stiamo per vedere
un nuovo mondo sorgere, se non una città; una società nuova formarsi,
se non una città; la società moderna, il mondo moderno; un mondo, una
società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e) ingrandirsi, dopo
Gesù, senza Gesù. E ciò che è più tremendo, amico mio, non bisogna
negarlo, è che ci sono riusciti. [...] È ciò che vi pone in una situazione
tragica, unica. Voi siete i primi. Voi siete i primi dei moderni».
Dopo Gesù, senza Gesù. Non si tratta soltanto di un progressivo
allontanamento da una pratica religiosa; il segno per eccellenza della
emarginazione di Cristo dalla vita è una mortificazione delle dimensioni
proprie dell’umano, una concezione ridotta della propria umanità, della
percezione di sé, un uso ridotto della ragione, dell’affezione, della
libertà, una censura della portata del desiderio. Giussani ha utilizzato
tanti anni fa la metafora dell’esplosione nucleare di Chernobyl, che ha
prodotto questa alterazione nell’animo degli uomini: «L’organismo,
strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso.
Vi è come un plagio fisiologico».
Per questo mi domandavo:il cristianesimo è in grado di colpire il
nocciolo duro della nostra mentalità oppure riesce soltanto ad aggiungere
qualcosa di decorativo, di pio, di moralistico, di organizzativo a un io
già perfettamente costituito, refrattario a qualsiasi ingerenza?…..
È possibile in questa nostra
situazione la creatura nuova, qualcosa di veramente nuovo? Questa,
secondo me, è la sfida più grande che il cristianesimo ha davanti a sé
adesso: se – nella modalità in cui ci ha persuasivamente raggiunto: il
movimento – è in grado di perforare la crosta del modo con cui ciascuno
sta nel realeo se è condannato a rimanere estraneo, in fondo un’aggiunta.
Se non vi è un cambiamento nel modo di percepire, di giudicare la realtà,
vuol dire che la radice dell’io non è stata investita da alcuna novità, che
l’avvenimento cristiano è rimasto esterno all’io. Anche per noi la fede
può essere una cosa fra le altre, appiccicata, giustapposta, che convive
con il modo di vedere e di sentire di tutti.……
Ciascuno di noi può giudicare il lavoro di quest’anno, e verificare in
che misura questa novità è entrata nella radice del proprio io. Che novità
ha portato? Non sono nostri pensieri, non è una questione di opinioni, di
interpretazioni: se Cristo è entrato come novità nella radice del nostro io
e determina tutto in un modo nuovo, ce lo portiamo addosso nel modo
di vivere il reale. …..
Ma prima dobbiamo guardare in faccia l’obiezione cui accennavo
prima: a noi avvenimento e lavoro sembrano sempre in contrasto. Questo
è un esempio della distanza che a volte percepisco tra l’intenzione
di seguire don Giussani e il seguirlo veramente. Guardate quel che
dice a tutti quelli che contrappongono cristianesimo e lavoro: «Gesù
Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano [questa
affermazione già basterebbe], all’umana libertà o per eliminare l’umana
prova – condizione esistenziale della libertà –. Egli è venuto nel mondo
per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura
fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che
l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano,
invece di sciogliersi, se non sono salvati determinati valori fondamentali.
Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza
della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della
conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle
cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore),
il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della
giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione nella
storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla
religiosità nel tentativo della propria soluzione (“Chi mi segue avrà la
vita eterna e il centuplo quaggiù”). Non è compito di Gesù risolvere i vari
problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente
può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta questa
fatica, la cui funzione d’esistenza sta proprio in quel tentativo».
E ancora: «L’insistenza sulla religiosità è il primo assoluto dovere
dell’educatore, cioè dell’amico, di colui che ama e vuole aiutare l’umano
nel cammino al suo destino. E l’umano è inesistente originalmente,
se non nel singolo, nella persona. Questa insistenza è tutto quanto il
richiamo di Gesù Cristo. Non si può pensare di cominciare a capire il
cristianesimo se non partendo dalla sua origine di passione alla singola
persona».
E qualora non fosse abbastanza chiaro, don Giussani osserva che
il compito della Chiesa è lo stesso: «La Chiesa, dunque, non ha come
compito diretto il fornire all’uomo la soluzione dei problemi che egli
incontra lungo il suo cammino.Abbiamo visto che la funzione che essa
dichiara sua nella storia è l’educazione al senso religioso dell’umanità
e abbiamo visto anche come ciò implichi il richiamo a un giusto
atteggiamento dell’uomo di fronte al reale e ai suoi interrogativi,
giusto atteggiamento che costituisce la condizione ottimale per trovare
più adeguate risposte a quegli interrogativi. Abbiamo anche appena
sottolineato che la gamma dei problemi umani non potrebbe essere
sottratta alla libertà e alla creatività dell’uomo, quasi che la Chiesa
dovesse dar loro una soluzione già confezionata».10
Per questo il migliore omaggio che possiamo offrire a don Giussani
nel quinto anniversario della sua scomparsa è la nostra sequela, non
soltanto intenzionale, ma reale. Potremo vedere così come cinque anni
dopo la sua morte egli continua a esserci padre più che mai e, se noi ci
rendiamo veramente disponibili, a generarci.


Carrón agli Esercizi spirituali della Fraternità di Cl (Rimini, 23-25 aprile 2010)

Postato da: giacabi a 06:13 | link | commenti
cristianesimo, giussani, carron, cl

giovedì, 15 aprile 2010

Volere il potere
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Il testo dell'ultimo Taz&Bao, una frase di don Luigi Giussani sul potere.

di Tempi
Lei invita il cristiano a desiderare il potere... Sicuro! Qual è il nostro compito? Desiderare il potere per servire. Non c'è niente di più vicino al potere della parola amore. (...) Cosa vuol dire questo “servizio” se non il principio di sussidiarietà? Vedo che uno cade e corro a sollevarlo, perché lui non è più capace di alzarsi. Questa è sussidiarietà, cioè servizio. Il potere è questo servizio. Per questo il potere è la cosa più grande, più buona. Il potere si giudica sintomaticamente, se vive il principio di sussidiarietà o se è prepotenza (…). Il pericolo più imponente del potere è il prepotere, la prepotenza. Perché allora l'imitazione di Dio che è il Signore sparisce del tutto.

Don Luigi Giussani
, citato in S. Allevato, P. Cerocchi, La P38 e la mela, Itaca, p. 174

Postato da: giacabi a 14:26 | link | commenti
giussani

domenica, 04 aprile 2010

BUONA SANTA PASQUA
A TUTTI VOI

Postato da: giacabi a 08:02 | link | commenti (2)
benedettoxvi, giussani

mercoledì, 31 marzo 2010
Il cambiamento di mentalità


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Chi opera così, opera un cambiamento di mentalità la cui descrizione più bella è nella Lettera ai Romani, capitolo dodici, versetti 1 e 2, che noi vecchi ricordiamo con commozione perché il commento a questi due versetti di san Paolo è stato l'oggetto di una «Lettera aperta ai cristiani d'Occidente» di un grande teologo cecoslovacco perseguitato dal regime e incarcerato per dodici anni, che si chiamava Zverina. Di questo brano egli analizza anche la portata dei verbi in greco: cambiate -lui dice -cambiate la testa, cambiate il nous, il modo di ragionare, le categorie del ragionare; così da cambiare il vostro cuore: vi farà venire una metamorfosi del vostro cuore.

Il frutto principale di questo cambiamento di mentalità -la mentalità normale, del mille per mille degli uomini, come è? Guadagnare, mettere da parte, godere, piacere, riuscire ,
il vertice di questo cambiamento di mentalità è l'offerta della propria vita: se l'amore ne è la legge, il vertice è l'offerta della vita.


Luigi Giussani, Si può vivere così, Ed. Rizzoli


Postato da: giacabi a 14:51 | link | commenti
giussani

mercoledì, 24 febbraio 2010

GIUSSANI/ 2.
Rizzoli:al Berchet ci ha insegnato a capire le ragioni della vita
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don giussani1


Angelo Rizzoli
lunedì 22 febbraio 2010
Durante i suoi dieci anni di insegnamento al Liceo Berchet di Milano (1954-1964), don Luigi Giussani ebbe tra i suoi allievi anche Angelo Rizzoli, rampollo di una delle famiglie più in vista di Milano, nipote del fondatore dell'omonima casa editrice (Angelo era anche il nome di suo nonno) e figlio del presidente di quel Milan capace di portare per la prima volta in Italia la Coppa dei Campioni. Era appunto il 1957 quando Angelo Rizzoli (che nella sua vita divenne anche proprietario del Corriere della Sera) si iscrisse al Berchet e trovò poi come suo insegnante di religione Luigi Giussani, già presente da tre anni nel liceo milanese.
Dottor Rizzoli, cosa ricorda di quegli anni e del suo incontro con don Giussani?
Quando ero arrivato al Berchet lui c'era già da qualche anno. Sono rimasto colpito perché era un personaggio straordinario, con una personalità fortissima, soprattutto in confronto agli altri professori. Tenga anche conto che il Berchet di allora era la scuola più laicista di Milano (il partito radicale vinceva sempre le elezioni scolastiche), il liceo tradizionalmente del mondo ebraico (lo stesso preside del liceo era un ebreo).
E qual è stato l'impatto di don Giussani con un una realtà del genere?
C'era una parte laicista e radicale che lo ha profondamente contestato. Lo chiamavano “la bara volante”, per via del fatto che andava in bicicletta. Contestavano il suo linguaggio molto più “aggressivo”, molto più diretto di quello degli altri professori che alla fin fine si preoccupavano solo della loro lezioncina e non parlavano di quello che succedeva nel mondo, né del ruolo delle persone nel mondo. Si preoccupavano solo della paginetta scritta su cui poi interrogavano. Giussani invece parlava di altre cose e lo faceva con grande piglio.
Cosa l'ha colpita di Giussani?
Sono rimasto affascinato dalla sua vitalità, dal suo eloquio e dal suo modo di far capire che in quel momento la divisione della società tra liberalismo e marxismo doveva trovare una terza via che fosse il rispetto della libertà individuale, ma con una partecipazione alla vita comune, con l'invito alla solidarietà verso gli altri. Quello che poi trascinava di don Giussani era l'entusiasmo. Con lui  c'è stata una rivoluzione, perché con don Giussani si parlava di tutto. Per dei ragazzi ancora minorenni questa era una scoperta.
In cosa consisteva questa rivoluzione?
Con lui in classe c'era un dialogo sulla vita, sulle cose “vive”, non sulle cose “morte” come poteva accadere con il professore di latino o con quello di matematica.
Com'era don Giussani come professore di religione, rispetto anche agli altri che ha avuto modo di incontrare nella sua vita?
Era molto più colto degli altri. Nelle sue lezioni non si parlava solo di testi sacri e preghiere come avveniva di solito nelle altre scuole. Lui parlava di filosofia. Citava a memoria Maritain, Teilhard de Chardin, Mounier e Rilke. Si parlava della filosofia per parlare della vita, di come ognuno di noi doveva porsi davanti alla vita, davanti a se stesso e davanti agli altri. Da una parte l'individuo con la sua libertà, dall'altra gli altri individui con le loro esigenze, con il loro bisogno di solidarietà. Quello di cui ci parlava non era né l'individualismo egoista, né il collettivismo statale che annullava l'individuo. Cercava una terza strada, quella della persona umana che è capace di difendere la propria libertà, ma anche di rapportarsi con gli altri.
Era questo il Giussani educatore? Ci racconti la sua esperienza diretta.
Prima di incontrarlo, in classe eravamo come dei carcerati che dovevano soltanto stare zitti, buoni e tranquilli. Con don Giussani invece potevamo parlare, chiedere. Lui stesso ci faceva delle domande, ci parlava del mondo. Noi gli ponevamo delle domande che ingenuamente credevamo lo avrebbero messo in difficoltà, ma non ci riuscivamo. C'era questa “sfida” e lui ha sempre accettato di mettersi sul nostro stesso piano, ci ha insegnato cosa fosse la libertà.
Dal punto di vista religioso, Giussani l'ha in qualche modo aiutata a capire di più il messaggio cristiano?
Tutte queste cose che ho detto e che lui ci raccontava sono parte della rivelazione di Cristo. Lui non ne parlava mai come di una filosofia, ma come di un'interpretazione di nostro Signore.
La vita non le ha risparmiato nulla: la malattia, le false accuse, il carcere e la perdita della sua azienda. Il messaggio di Giussani le è stato di aiuto per affrontare tutto questo?
Mi ha aiutato sicuramente ad accettare tutto quello che ho ricevuto, comprese le ingiustizie, cercando sempre la strada per ritrovare giustizia, libertà e pace. Io non ho mai cercato la vendetta, che è un sentimento ignobile, ho sempre cercato di recuperare la mia libertà, la giustizia, la verità e la pace. Questi sono quattro elementi che mantengono in equilibrio la vita di un uomo.
A cinque anni dalla sua morte, secondo lei Giussani ha ancora qualcosa da dire a questo mondo?
Per chi lo vuole intendere, ha sicuramente qualcosa da dire. Continuo a pensare che il suo messaggio sia l'unico moderno e che Giussani stesso sia una figura di religioso moderno. Oggi si parla molto dei grandi santi della tradizione. Padre Pio, per esempio, è un santo arcaico, di una società arcaica, contadina. Giussani invece interpretava la Milano che stava passando dall'euforia dello sviluppo economico alla crisi del '68 e dell'autunno caldo. Lui era capace di spiegare quel momento con le sue parole, col suo pensiero. E sempre come testimonianza di nostro Signore Gesù Cristo. Mentre tutti contestavano le strutture della tradizione, per prima la Chiesa cattolica, don Giussani fece una battaglia straordinaria contro l'anarchia sessantottina. Pertanto è un personaggio non facilmente dimenticabile.
Il suo messaggio può essere un aiuto per chi cerca di vivere la propria fede oggi?
Certo, penso sia un aiuto per vivere la propria fede e capire le ragioni della propria esistenza. Penso ancora che lui avesse ragione nel dire che le ragioni della propria esistenza sono nel difendere la propria libertà individuale, ma anche nel tutelare l'esistenza degli altri soggetti, soprattutto quando più deboli. Questo è un messaggio che ho avuto allora, che non dimentico oggi dopo oltre 50 anni e che non dimenticherò mai. Giussani era davvero una figura straordinaria. Sono passati infatti i tempi di quando Giovanni Paolo II gli diceva che era un senza patria. Don Giussani è pienamente cittadino della Chiesa, anzi è un campione di modernità della Chiesa cattolica.
(Lorenzo Torrisi)

Postato da: giacabi a 09:05 | link | commenti
giussani


La fede può soddisfare la ragione e il cuore

***

di Redazione
Il Giornale anticipa un brano dell'introduzione che don Juliàn Carròn, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha scritto per il libro Vivere intensamente il reale. Scritti sull'educazione (Editrice La Scuola, pp.160, 9.50 euro)

Julián Carrón
«Fino dalla prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila anni”. Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere repertata e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento. Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo “quindi” è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola “razionalità”, usa la parola “cuore”. La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell’uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé».
Questo brano di don Giussani, che compare in questa antologia, tratto da uno dei suoi libri più noti, descrive quale fosse l’originalità della sua posizione nei confronti dei giovani, così come emerse fin dalla prima ora di insegnamento della religione cattolica, che lui chiamava «scuola di religione»: una fiducia totale. Molti anni dopo affermò che nel lungo arco della sua vita aveva scommesso tutto sulla «libertà pura» di chiunque avesse incontrato - e si possono contare a decine di migliaia le persone che aveva conosciuto -. Proviamo a immaginare quale stima un uomo debba nutrire per l’umanità di chi incontra sul suo cammino per rischiare tutto su di essa. Come è raro trovare uomini così, oggi! Proprio a causa di questa mancanza siamo arrivati a parlare di «emergenza educativa», tanto che la Chiesa italiana ha appena lanciato un programma decennale dedicato al tema dell’educazione.
Fin dall’inizio del suo impegno con gli studenti milanesi, a metà degli anni Cinquanta - prima come assistente della gioventù femminile e maschile di Azione Cattolica e poi come insegnante nel liceo Berchet -, Giussani ebbe chiaro che l’unico modo per rispondere alla sfida di un mondo che andava nella direzione opposta a quella della tradizione - e per il quale la fede e la ragione erano come due rette che non si sarebbero mai potute incontrare - era di indicare un metodo per cui le parole cristiane tornassero a essere una risposta convincente alla vita dei giovani. Il metodo educativo di don Giussani non era quello di ripetere idee giuste, ma piuttosto il tentativo di ridestare qualcosa che c’era nell’altro, provocandone la libertà. Questo era il suo modo di fare compagnia ai ragazzi, di essere loro amico. Il suo era un richiamo a quel fascio di esigenze ed evidenze originali del cuore - esigenze di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità - e un invito a un paragone continuo con esse. E per realizzare questo utilizzava tutto ciò che il genio dell’umanità aveva prodotto, dalla musica alla poesia. C’è un testo, tra i tanti di Giussani, che descrive il percorso di questa conoscenza e che compare in questa antologia. Il capitolo decimo de Il senso religioso. In esso si esprime il suo “genio” educativo, come un accompagnare dentro la profondità della realtà fino alla scoperta di un quid ultimo che la costituisce. Tutto parte dal rapporto con la realtà. La realtà agisce sulla ragione dell’uomo come un invito a scoprire il significato di tutto ciò in cui si imbatte. Interrompere questa dinamica è come bloccare la conoscenza. «Il modo con cui il reale si presenta a me è sollecitazione a qualche cosa d’altro. Il reale mi sollecita a ricercare qualche cosa d’altro, oltre quello che immediatamente mi appare. La realtà afferra la nostra coscienza in maniera tale che questa pre-sente e percepisce qualche cosa d'altro. Di fronte al mare, alla terra e al cielo e a tutte le cose che si muovono in esso, io non sto impassibile, sono animato, mosso, commosso da quel che vedo, e questa messa in moto è per una ricerca di qualcosa d’altro».
Giussani osserva che questa dinamica del segno non è completa, se non giunge sino al suo culmine: il riconoscimento stupefatto della realtà del Mistero che fa tutte le cose. «Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero». E ancora: «Il mondo è un segno. La realtà richiama a un’Altra. La ragione, per essere fedele alla natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l’esistenza di qualcosa d’altro che sottende tutto, e che lo spiega». .
È estremamente significativa la corrispondenza di questa posizione di Giussani con le preoccupazioni di un suo antico vescovo, quel Giovanni Battista Montini – futuro Paolo VI – che nella sua lettera pastorale per la Quaresima del 1957, intitolata Sul senso religioso, scriveva: «Il senso religioso è un’attitudine naturale dell’essere umano a percepire qualche nostra relazione con la divinità , come l’apertura dell’uomo verso Dio, l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino».
È questa una preoccupazione che mostra quanto fosse già allora urgente, e quanto lo sia ancor più oggi, il bisogno di educazione, così come la definisce Josef Andreas Jungmann, ripreso da Giussani: educare è «introdurre alla realtà, in definitiva alla realtà totale».

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martedì, 23 febbraio 2010

GIUSSANI:
Il carisma del maestro
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5° anniversario -
Chi sia stato don Giussani non è semplice dirlo. Poche parole non bastano a descriverne la ricchezza della personalità poiché egli è stato un uomo poliedrico. Ci avvicineremo percorrendo alcune strade concentriche che hanno segnato la sua esistenza. Egli è stato un lettore intelligente e precoce di poesia e letteratura. Durante le ore di lezione, citava a memoria intere poesie di Pascoli, di Leopardi, di Ada Negri e di altri autori a lui cari. Interessato al dramma inevitabile dell’esistenza umana, era un innamorato degli uomini: sempre desideroso di imparare, di trovare la strada per entrare dentro le loro vite, la loro mente e il loro cuore. Le parole degli scrittori erano, tra le altre, alcune vie di questo incontro. Era sicuro di una cosa: ogni uomo, nel fondo del suo essere, vive per le stesse esigenze di verità, di giustizia, di bene, di felicità che animano le ore dei suoi fratelli sulla terra. All’uomo che grida, che cerca, che non può negare a se stesso quel «più in là» di cui parla Montale, era diretta la sua attenzione profonda. Lo sviluppo compiuto di questa intuizione è contenuto nella sua opera che egli chiamerà «Il senso religioso». Colpiva in don Giussani la sua passione per la musica. Da piccolo, il padre lo portava con sé ad assistere a concerti d’organo o di polifonia, una passione che coltiverà poi in seminario attraverso la scuola di monsignor Nava. Egli ha così penetrato i segreti delle grandi opere: portava in classe grandi grammofoni per farci ascoltare la Quinta o la Settima di Beethoven, alcuni concerti di Mozart, ci introduceva a Brahms, Schubert e Chopin.
Nella musica vedeva il segno profondo della vita dell’uomo. Nei grandi artisti, nella loro opera leggeva la solitudine umana e, allo stesso tempo, la tensione verso l’incontro con altri uomini.
Don Giussani è stato sì un uomo curioso, che amava conoscere, ma soprattutto l’amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita. Egli è stato un grande studioso di teologia in seminario, l’ha penetrata con tale passione che i suoi insegnanti pensavano potesse diventare un grande teologo, uno dei più importanti del nostro Paese. Trascorse 8 anni nel seminario di Venegono, dove vi erano degli educatori che potevano, per la loro profondità e paternità, formare non solamente dei preti, ma educare degli uomini. Un episodio lo segnò profondamente. Quando da monsignor Gaetano Corti sentì commentare il versetto del Prologo del Vangelo di Giovanni, «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), cioè la Bellezza, la Giustizia, l’Amore, la Verità si è fatta carne, si ricordò in quel momento di una poesia di Leopardi. Era un inno non a una delle sue amanti, ma alla scoperta che ciò che cercava nella donna amata era qualcosa oltre essa. Quella di Leopardi fu, 1800 anni dopo san Giovanni, la mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto. L’allora rettore del seminario, Giovanni Colombo, futuro arcivescovo di Milano, che nutriva sentimenti di vera stima per Giussani, tentò per ben due volte di realizzare il progetto di tenerlo in seminario. Nel 1954 e poi nel 1965.
Giussani sentiva di essere chiamato ad altro.
È lui stesso a raccontarlo: dopo aver incontrato alcuni giovani studenti sul treno, trovandoli totalmente estranei alle cose più elementari del cristianesimo: «Mi venne… il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto… Abbandonai perciò l’insegnamento in seminario… e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato».
Don Giussani è stato soprattutto un grande educatore. La sua preoccupazione era trasmettere ai ragazzi in modo chiaro, affascinante e coinvolgente, quello che gli sembrava la Chiesa non riuscisse più a comunicare. Il patrimonio vitale che costituisce l’anima di ogni civiltà deve essere riscoperto e riguadagnato da ogni generazione. Tutta la vita del sacerdote lombardo è stata un’esistenza dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che sarà il tentativo del Vaticano II, un concilio pastorale che non volle semplicemente riproporre delle verità, ma soprattutto indicare una strada per viverle.
Egli non si stancò mai di ripetere che seguire Cristo non è negare la ragione, negare l’uomo, ma all’opposto è esaltarlo. Il cristianesimo non è una tradizione del passato, è una Persona presente che entra nella vita, in forza della ragione stessa del suo annuncio. Giussani era fermamente convinto che solo dall’interno del cristianesimo vissuto l’uomo scopre se stesso e le sue attese più radicali. Nessuno conosce l’uomo come Cristo, dirà la costituzione del Concilio «Gaudium et spes» (n. 22). Il suo tentativo è stato quello di portare la tradizione vivente della Chiesa negli ambienti della vita dell’uomo: nella scuola, nell’università, nella famiglia e nel lavoro. Tuttavia Giussani non ebbe vita facile. Egli era malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano un innovatore perché metteva insieme ragazzi e ragazze e favoriva la creazione di comunità nelle scuole, viste come una possibile causa dell’allontanamento dei giovani dalle parrocchie. Al tempo stesso era additato dagli innovatori come tradizionalista. In realtà don Giussani aveva orrore per ogni tradizionalismo come sguardo all’indietro.
Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una rottura con la storia precedente, quanto piuttosto una novità nella continuità.
Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità.
Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata.
Era fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. La vita perderebbe il suo asse fondamentale: la scoperta di essere creatura, di essere fatti da Dio, generati da qualcuno che ci precede, che ci attende e che ci vuole bene.
Combatté tuttavia anche ogni forma di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’ autorità. Don Giussani è stato un alto cantore di Cristo. Già negli anni del seminario iniziò con alcuni suoi compagni un piccolo gruppo, lo «Studium Christi»: una passione irrefrenabile per Gesù come avvenimento presente. La fede è riconoscere Cristo vivo qui ed ora, centro del cosmo e della storia, una persona che vale la pena seguire, che è luce che illumina la vita e calore che riempie interamente il cuore. Le parole della Scrittura erano spessissimo sulle labbra di Giussani: egli la leggeva, la meditava, ci si immedesimava. E immedesimava chi lo ascoltava. Amava tantissimo san Giovanni e san Paolo, forse perché li sentiva più vicini a sé. In Giovanni scopriva la forza della contemplazione dell’evento dell’incarnazione; in Paolo il grande slancio missionario. Don Giussani era un uomo profondamente lombardo e un prete profondamente ambrosiano. Tutta la sua vita è stata permeata dalla figura e dall’insegnamento di sant’Ambrogio che attraverso la liturgia e la grande tradizione della Chiesa ambrosiana giunse fino a lui.
L’ ambrosianità di don Giussani si esprimeva nel senso concreto dell’uomo peccatore e salvato. Era vivo in lui lo stupore per la misericordia di Dio più grande del nostro peccato. Amava tutto ciò che è bello, tutto ciò che è parola, che è canto, come era per Ambrogio, creatore degli inni. In lui ho rivisto un tratto tipico dei grandi preti ambrosiani:
una «fedeltà in piedi» non servile, ma reale e sacrificata all’autorità della Chiesa. Così è stato il suo rapporto con i due arcivescovi di Milano, Montini e Colombo, che videro la fioritura del movimento proprio negli anni del loro servizio pastorale, e con i papi che ha incontrato. Don Giussani è stato un grande uomo di cultura, un estimatore della ragione umana. Durante le ore di lezione colpiva la forza logica del suo parlare, la stringenza del suo ragionamento. Egli non si stancò di sostenere contro ogni riduzionismo che la ragione è apertura alla realtà in tutti i suoi fattori. Benedetto XVI in questi ultimi anni ha invitato ad «allargare la ragione». Mi ha fatto molto pensare a don Giussani. La ragione non è qualcosa che ci chiude in noi stessi ma è una finestra spalancata su una realtà nella quale non si finisce mai di entrare.
Dall’incontro con Cristo nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere nell’ambiente in cui vivono i cristiani. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità e alla missione, costituì l’anima della nuova Gioventù Studentesca nata intorno a Giussani. Egli ci ha sempre educati alla carità. Fin da piccoli andavamo nella Bassa milanese per stare con i bambini semplicemente, per educarci al fatto che Dio si è fatto uomo per stare con noi. Tutto nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la sua vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, opere di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie.Già dalla fine degli anni Sessanta don Giussani aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi. Ed infine, l’ultima parola che ha dominato la vita di don Giussani è stata la misericordia. Negli ultimi anni tutto si era tramutato in questa certezza: «Dio per l’uomo è misericordia». È stata l’insistenza maggiore in un numero impressionante di interventi, come un fiume in piena, in un uomo segnato dall’immobilità, dalla quasi totale impossibilità ad articolare la sua voce.
Colpisce la comunanza con la vita di Giovanni Paolo II, morto proprio nei primi vespri della festa della Divina Misericordia.
E 5 anni prima di morire Giussani scriveva:
«Di fronte a tutti i peccati della terra, sarebbe ovvio dire: Dio distrugga un uomo così. Invece, Dio muore per un uomo così, diventa uomo e muore per un uomo così, tanto che questa sua misericordia rappresenta il senso ultimo del mistero».

Massimo Camisasca
Tratto da Avvenire del 21 febbraio 2010

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giussani


GIUSSANI/ 1. Scola:
 la convenienza umana del cristianesimo
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lunedì 22 febbraio 2010
«Sono persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere. Invece non è impossibile, riaffrontandolo, approdare a qualche aspetto di conoscenza nuova».
L’intento, del tutto positivo, di Luigi Giussani è stato sempre quello di mostrare la cum-venientia del fatto cristiano con quell’«insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell’uomo coincide». Per riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea.
 Mi sembra particolarmente illuminante in proposito rileggere oggi un rilievo di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia all’inizio degli anni Cinquanta: «Una situazione che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro paese».
 Quando il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la società, Giussani percepisce con lucidità l’ondata di secolarizzazione che si sta per abbattere sull’Italia cattolica, i cui effetti saranno visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968.

Da dove poteva nascere un simile, profetico giudizio? Dalla percezione che tale presenza massiccia non era che l’eredità inerziale di un passato: «Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale».
Ma questa dignità culturale è impossibile se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo.
In Giussani è lo stesso dinamismo che regge l’insorgere e lo svilupparsi dell’esperienza e del pensiero. Una conferma questa del fatto che l’esperienza, quando è autentica, contiene il suo logos, non lo riceve dall’esterno, e a sua volta il pensiero, quando è integrale, non può che “rendere” la realtà in quanto tale.
In quest’ottica non sfugge come l’opera di Giussani superi di schianto ogni dicotomia e ogni estrinsecismo nel considerare il rapporto tra ragione e fede, tra natura e soprannaturale, tra umano e cristiano.
Sono i due polmoni della riflessione di Giussani. Nel suo appassionato insegnamento e nei suoi scritti, il sacerdote milanese non cessa di porre attenzione al frangente storico e culturale per comunicare un’esperienza/pensiero alla libertà del suo interlocutore. Una libertà che è sempre drammaticamente situata.
Realtà (quindi storia e cultura) e conoscenza (perciò ragione e fede) fanno l’esperienza dell’uomo aperto alla verità e desideroso di comunicarla. La verità infatti non è veramente conosciuta fin tanto che non è comunicata.
 Non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di “ soggetto” come implicato nel dono stesso dell’essere.
Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo: «Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni».
Dell’autore Angelo Scola sta per uscire la nuova edizione del libro Un pensiero sorgivo. Luigi Giussani, Edizioni Marietti 1820.

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lunedì, 22 febbraio 2010



GIUSSANI/ 3. Loi:
 era capace di guardare l'uomo dal di dentro
lunedì 22 febbraio 2010
«Quello che colpiva, di Giussani, era lo splendore che aveva negli occhi. Il filo diretto tra gli occhi e il cuore si vedeva, risaltava. Era tutt’uno col suo donarsi continuamente alla vita». Il poeta milanese Franco Loi ha conosciuto don Luigi Giussani nel 1960. A quell’epoca Loi stava facendo ricerche per l’ufficio stampa della Mondadori su alcune nuove figure carismatiche di personalità che attiravano l’attenzione dei giovani. Furono due conoscenti a presentargli il fondatore di Cl.
Franco Loi, come avvenne il suo incontro con don Giussani?
Mia moglie conosceva Cecilia d’Antonio, che nel ’60 era responsabile delle ragazze di Gioventù studentesca di Milano. È stato attraverso di lei che ho incontrato Giussani. Con un amico conosciuto in Mondadori a quel tempo, Ferruccio Parazzoli, volevamo fare una serie di inchieste sui giovani cattolici, socialisti e comunisti e sugli ideali che li muovevano. Incontrai Giussani e dopo di lui don Lorenzo Milani. Volevo, insomma, conoscere quelle persone che guidavano i giovani delle nuove generazioni.
E che cosa ricorda?
Quando lo vidi per la prima volta rimasi impressionato. Accadde vicino all’Università statale, in via Sant’Antonio se non ricordo male. Giussani aveva tenuto una lezione ad un gruppo di giovani. Mi avvicinai a lui accompagnato dai comuni amici. La prima cosa che mi colpì di lui fu quello che si dice, se non sbaglio, il carisma. Da lui veniva un’energia che non avevo mai sperimentato in altri. Fu come se sentissi vibrare, dentro di me, la sua emanazione spirituale.
Lei era cattolico?
No. Venivo dalla politica. Avevo dato le mie dimissioni dal Pci nel 1954, di cui ero stato anche responsabile di una sezione giovanile a Milano, perché c’era un andazzo che non mi piaceva. Problemi, diciamo, che sarebbero diventati evidenti più avanti. Don Giussani e io cominciammo a frequentarci. Le vorrei però raccontare un episodio che riguarda un mio amico di allora, Giulio Trasanna.
Lo scrittore Giulio Trasanna?
Sì. Poeta e scrittore molto noto negli anni ’30, aveva aderito al fascismo, anche se non era fascista convinto, e si professava ateo. Nel periodo di Natale del ’61 ero appena sposato, e invitai don Giussani a casa mia per un cena. C’erano anche altri amici e tra questi Trasanna. Fu una bella serata e si parlò di tutto: di fede, di rivoluzione, di chiesa, di politica. Lì si conobbero. Poi Trasanna, all’inizio del 1962, si ammalò di tumore e finì ricoverato in ospedale. Giussani andò a trovarlo. «Sai - mi disse Trasanna quando andai da lui - avevo torto sulla religione e sulla fede». Si era convertito. Giussani aveva la capacità di mettere l’uomo di fronte alle proprie responsabilità. Di prenderlo per mano e di condurlo di fronte alle cose ultime, a quello che conta davvero nella vita.
Che cosa la colpì del metodo di don Giussani come educatore?
L’accento sull’io, sulla persona. Giussani diceva già allora, e ha poi sempre ripetuto, che non si capisce Dio se non si capisce fino in fondo che cos’è l’uomo. È vero, e io stesso ne sono convinto ancora oggi. Gesù dice di amare il nostro prossimo come noi stessi, ma se manca l’io cade tutto. Se non si raggiunge la profondità di sé, non si può avere né un rapporto con Dio né un rapporto con gli altri uomini. Come possiamo amare un altro come noi stessi se non sappiamo chi siamo? Sembra scontato, invece è il punto cruciale perché la cultura dominante ha sempre attaccato l’uomo cercando di smantellare la coscienza di sé.
Secondo lei perché don Giussani è stato così persuasivo per tanti giovani?
Per via dello sguardo nuovo con cui riusciva spalancare le porte della propria e dell’altrui umanità. Cristo è venuto per questa mia umanità. Giussani era un uomo del fare, del muoversi nella vita. Ma sempre con la premessa di conoscere se stessi, altrimenti il rapporto con Dio «salta». Si riduce al più ad un rapporto con l’idea di Dio, ma non con Dio. Quando uno ha questo rapporto, diceva don Giussani, fa, agisce diversamente. Fate, esortava i giovani don Giussani; amate concretamente, vivete, e il fare vi aiuterà a crescere. Il fare fa imparare all’uomo qualcosa di sé, oltre che delle cose con cui lavora. È solo così che il rapporto con l’esterno non diventa un mero rapporto di uso, ma un rapporto reciproco di conoscenza.
Lei una volta ha detto che don Giussani era un poeta. Cosa intendeva dire?
Poeta, Giussani, lo era intimamente. La parola in lui era fondamentale: usava la parola in modo poetico, non intellettuale. Invece di usare termini difficili e dire cose che sono il prodotto di una lettura di libri, Giussani faceva sgorgare quel che diceva da se stesso e dalla sua esperienza di vita. Poiein, in greco, è fare. Il fare di Giussani era poetico perché era un fare spirituale, che muove dallo spirito e che tende a edificare lo spirito. Cresceva i ragazzi nella libertà. Per questo a volte mancò una sintonia, nel metodo, tra lui e la chiesa del suo tempo.
Giussani non ha mai smesso di ripetere una frase che aveva sentito da suo padre: «si può stare un giorno senza pane, ma non si può stare un giorno senza bellezza».
Certo. L’uomo vede e ama lo splendore interiore che emana dal di dentro di ogni essere. È quella la vera bellezza, spirituale, profonda. Non è l’esteriorità. Pensiamo a una rosa: è forma, aroma, colore. Ma perché ci attrae quella rosa lì? Le rose sono tante, ma ce ne attrae una, e quella che ci attrae è come se brillasse e fosse «per» noi. È questa la bellezza di cui ha sempre parlato don Giussani. E solo se amiamo questa bellezza possiamo amare in fondo ciò che ci unisce.
Lei cosa trattiene, ancora oggi, del suo rapporto con lui?
Lo splendore che Giussani aveva negli occhi. Esso esprimeva molto di più di tutto il suo sapere - ed era una persona colta. Il filo diretto tra gli occhi e il cuore si vedeva, risaltava. Era tutt’uno col suo donarsi continuamente alla vita.
Era questo il carisma che la colpì al vostro primo incontro?
No, il suo carisma era un’altra cosa ancora. Una spiritualità talmente realizzata che tutto il suo essere emanava questa vibrazione d’amore. Come se l’intera sua persona fosse spiritualmente vibrante. Solo qualche santo può aver avuto questa realizzazione piena del proprio essere al punto in cui, secondo me - ma posso anche sbagliarmi - era in don Giussani.
Secondo lei che cosa ha dato don Giussani alla Chiesa di oggi?
Il fare, stando in mezzo alla gente. Una volta - al di là della personalità di Giussani - sia il partito comunista sia la chiesa cattolica erano in mezzo alla gente. È per questo che la società era migliore. Entrambe, l’ideologia e la fede, facevano un’azione di elevazione delle persone perché tutti erano in rapporto continuo, vitale con esse. In quel periodo la gente aveva attorno a sé uomini che parlavano alla sua anima. Giussani era uno di questi. Sembra scontato: a chi deve parlare un prete se non all’anima? Invece non è così. Sa perché secondo me Giussani è riuscito a fondare il suo movimento a Milano?
Perché secondo lei?
Milano, con Torino, era la città operaia più importante d’Italia. La gente che lavora, che fa con le mani, ha un atteggiamento positivo e aperto nei confronti della vita e cresce spiritualmente, in modo indipendente dall’impulso ad agire bene. Oggi invece la gente non si incontra, si evita. E tutto congiura a sminuire un’esperienza reale. Ecco perché il carisma di Giussani è ancor più necessario oggi: lui andava là dove la gente vive, opera. Ed era capace di guardare l’uomo dal di dentro.
(Federico Ferraù)
 
da:   http://www.ilsussidiario.net/

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