La tradizione è
più moderna della modernità
di Fabrice Hadjadj - 04/03/2011
più moderna della modernità
***
Fonte: L'Osservatore Romano
La modernità dell'epoca di Péguy aveva ancora delle ambizioni umaniste. Ora tutto questo è finito. Il secolo trascorso tra l'epoca di Péguy e i nostri tempi ha posto le condizioni per una sparizione completa dell'umanesimo. Il fatto nuovo sta nella coscienza della finitezza non più individuale ma collettiva della specie umana. Il XX secolo, con Kolyma, Auschwitz e Hiroshima (adopero appositamente dei nomi propri perché i nomi comuni non sarebbero sufficienti a definire questi eventi), il XX secolo è stato allo stesso tempo l'era dell'apoteosi e poi della morte delle ideologie del progresso. Perché? Perché il progressismo è stato al potere e, invece di dare vita a una società più giusta, ha prodotto il totalitarismo. Quindi, come dice Rimbaud in Una stagione all'inferno: "A che serve un mondo moderno, se è per inventare veleni simili!". Se poi mettete al di sopra di queste catastrofi il darwinismo che ci spiega come l'umanità altro non sia che un bricolage dovuto alla casualità e alla competizione, diventa difficile credere nell'avvenire, nella storia e nella posterità.È questo il motivo per cui noi assistiamo a una crisi della modernità e stiamo andando verso il post-umano. Un post-umano che può assumere tre forme: una tecnocratica, unateocratica e una ecologica.Nel primo caso si tratta di creare un superuomo. Nel secondo caso si promuove un fondamentalismo che schiaccia la cultura umana, mentre nel terzo assistiamo a un ritorno alla cosiddetta Madre Natura. In ognuno di questi casi noi abbiamo perduto ogni speranza per l'uomo storico, colui che promuoveva la modernità. Non crediamo più nella continuità, nella cultura di lunga durata. La tecnocrazia, dal momento che esige l'efficienza, ci schiaccia immediatamente. La teocrazia ci proietta nell'aldilà. L'ambientalismoci fa ritornare ai cicli naturali.Questi tre errori si contrappongono l'uno agli altri, ma solo per farci cadere più facilmente in trappola. Denunciandone uno, si rischia sempre di cadere in un altro. È così che il demone gioca da tutti i lati della tavola di scopa.Questa situazione nuova di crisi della modernità ha tuttavia alcuni vantaggi notevoli: sposta le barriere di un tempo. Il figlio della Chiesa e il partigiano dei Lumi possono diventare alleati di fronte a questa distruzione massiccia della cultura umana. Il moderno può ammettere che la tradizione cristiana aveva qualcosa di buono. D'altronde - e ve lo accenno solo al volo - la prima occorrenza conosciuta dell'aggettivo basso latino moderni si incontra nel V secolo e serve a designare i cristiani. Ecco perché abbiamo assistito in Francia a una certa difesa della storia e della tradizione da parte di intellettuali piuttosto di sinistra (Max Gallo, Régis Debray, Alain Finkielkraut, e così via).Com'è possibile questa nuova alleanza? Potremmo spiegarla attraverso un semplice artificio logico e psicologico: di fronte al post-moderno, che rappresenta il nemico comune, i moderni e i sostenitori della tradizione formano un fronte comune.Ma esiste una ragione più profonda, legata alla lingua. L'amore per le parole, il gusto del linguaggio, la certezza che non sia un mezzo di comunicazione ma un luogo di verità e comunione, uno spazio in cui il mondo si raccoglie e che quindi dobbiamo sforzarci di curare e parlare bene, è questo ciò che unisce antichi e moderni contro la com dei tecnocrati, le bombe dei teocrati e i nitriti dei fanatici ambientalisti. Il linguaggio ha questo di singolare: nella sua essenza è allo stesso tempo tradizionale e moderno. È tradizionale perché il linguaggio è sempre ricevuto: parlo perché qualcuno ha parlato a me e parlo una lingua il cui nome rimanda a una nazionalità e quindi a una comunità che esiste attraverso i tempi. Il linguaggio, però, è allo stesso tempo anche moderno, perché è attraverso di esso che si può dire "Io", che ci si può affermare qui e ora, che si può protestare, che si possono inventare forme nuove.Noi non parliamo solo per ripetere, ma per cantare e dunque per variare, rinnovare, far risuonare il linguaggio in un modo nuovo. "Cantate al Signore un canto nuovo", dice il re David. Questa è l'essenza della parola: ci permette di sentire il comandamento antico e di cantare un canto nuovo, ed è ricevuta per poi essere nuovamente donata in maniera unica e personale.Ciò che è precipuo di una vera novità è che non ha bisogno di rompere con ciò che la precede per affermarsi. Se fosse stata nuova solo per spirito d'avanguardia o di rottura, apparterrebbe a quella forma mutilata di modernità che chiamiamo "moda". La moda propone novità di rottura con ciò che precede.Ecco perché queste novità diventano ben presto vecchiume: altre novità si affacciano all'orizzonte e la moda passa di moda. La novità mantiene la sua freschezza e la sua giovinezza non allontanandosi da ciò che la precede ma avvicinandosi alla fonte. Non è eccentrica: è originale. Questo vuol dire che non si allontana dal centro, che non cerca di trovare un posto soltanto in relazione a ciò che l'ha preceduta (che sia per prenderne le distanze oppure per avvicinarsene). La novità si volta verso l'origine.Parlare in maniera davvero nuova, come ha fatto Dante per esempio, non vuol dire rompere ma mettersi in comunicazione con l'origine della parola, e questa origine risiede in un duplice silenzio: il silenzio della morte e il silenzio dell'Eterno. Tutti coloro che hanno parlato con una forza nuova, tutti coloro che hanno cantato un canto nuovo, sono stati capaci di mettersi tra l'angoscia davanti al silenzio della morte e la speranza davanti al silenzio dell'Eterno: hanno attraversato l'inferno e sono stati abbagliati dal paradiso. Resta il fatto che la modernità della lingua è secondaria a confronto con la sua tradizione. Occorre innanzitutto imparare le regole prima di poter giocare. Colui che attacca i propri genitori può farlo solo se li ha prima ascoltati e se è a loro che ancora si rivolge.Eppure anche la tradizione della lingua è in funzione della sua modernità: l'apprendimento delle regole non è fine a se stesso, ma in funzione di una nuova partita da giocare. Noi non veniamo al mondo per ripetere ciò che ci hanno detto i nostri genitori, né tanto meno per insultarli, ma per dialogare con loro, per rispondere, per arricchire con la nostra melodia la grande corale della vita.Questa struttura della parola, allo stesso tempo moderna e tradizionale, permette di comprendere la tesi di Romano Guardini in La fine dell'epoca moderna. Secondo Guardini la modernità ha essenzialmente ripreso alcune realtà colte dal cristianesimo per rivoltarle contro il cristianesimo stesso. Sulla base della rivelazione della dignità della persona si costruisce l'individualismo. Sulla base della verità del libero arbitrio si costruisce il liberalismo. Sulla base dell'esigenza della giustizia sociale si costruisce il socialismo, e via discorrendo.La modernità riconosce un tal fiore evangelico, lo raccoglie e lo mette in un vaso. Il fiore viene addirittura valorizzato, tanto da sembrare persino più meraviglioso. L'isolamento gli dona una luminosità speciale, un profumo estasiante, tanto da far pensare che il fiore non abbia più niente a che vedere con le sue radici. La verità è invece che lo si condanna a marcire.L'oblio può funzionare solo per un certo periodo di tempo, abbastanza perché il progressismo arrivi a mascherare di essere soltanto un sostituto della speranza teologale.Ma cosa vediamo oggi? Ve l'ho detto: il crollo dei progressismi e, al contrario, la moda di un catastrofismo generalizzato, e quindi la crisi radicale della modernità. Sarebbe dovuta arrivare prima o poi, poiché tutte queste nozioni recise dalle loro radici e dal loro sole non possono fare altro che perdere a poco a poco la linfa vitale. Paradossalmente oggi la modernità può essere salvata solo facendo ricorso alla tradizione, e più specificamente alla tradizione ebraica e cristiana.Le speranze mondane sono morte. È impossibile partire da queste e riuscire ancora a credere in una via d'uscita per l'umano. Ma la speranza teologale non può morire. Non dipende dall'avvenire: dipende dall'eterno. Ricordo sempre questo: quando mi avvertiranno che alla fine del mondo non manca che un solo anno, non rinuncerò ad amare mia moglie, ad avere con lei un altro bambino, a fare scoprire agli altri miei cinque figli la poesia di Dante... Perché so che questa vita non serve per avere un futuro ma perché ciascuno abbia la vita eterna.Il modernismo, ossia la modernità che pretende di basarsi su se stessa, può quindi solo distruggere la modernità. È sempre spazzata via dal post-umano. Perché non si può giocare senza aver prima imparato le regole. In un attimo la protesta si spegne e lascia il posto al programma in codice o al verso dell'animale, perché siamo usciti dalla tradizione e dalla tradizione della parola. Da questo momento la modernità deve rivoltarsi contro il modernismo e la modernizzazione sistematica se vuole rimanere viva e umana. Deve ritrovare la sua tradizione, quella tradizione che riecheggia nel comandamento della Bibbia: "Cantate al Signore un canto nuovo".La tradizione non è così contrapposta alla modernità quanto si potrebbe immaginare, poiché la tradizione non è né conservatorismo né fascinazione del passato storico.Ciò che ha orientato verso la distruzione di ogni tradizione è stata proprio la conoscenza storica fine a se stessa: moltiplica le informazioni sul passato, ma solo per metterle in vetrina. Niente è più lontano dalla tradizione di un museo folkloristico. La verità è che la tradizione non consiste in una semplice trasmissione del sapere: è la trasmissione di un saper vivere.Io posso conoscere con grande precisione tutto ciò che ha fatto Gesù e posso persino sapere la Bibbia a memoria; posso addirittura essere il curatore di un grande museo del cristianesimo. Ma questo rapporto col museo non è un rapporto con la tradizione: la cultura non ha a che fare con il culto. L'erudito conosce la tradizione alla perfezione, ma non vive nella tradizione.L'anziana che prega Gesù vive nella tradizione, anche se conosce della tradizione quanto ne sa l'erudito. Nella tentazione di Gesù nel deserto, Satana cita a memoria il Deuteronomio, dimostrando di essere un esperto di esegesi storico-critica: vive nell'erudizione per evitare di entrare nella tradizione viva. D'altra parte la tradizione non è un conservatorismo. Un buon esempio ci è dato dal motu proprio di Giovanni Paolo II, Ecclesia Dei afflicta. Questo testo prende atto dello scisma provocato da monsignor Marcel Lefebvre e da quelli che chiamiamo "integralisti" o "tradizionalisti".Qual è il principio di questo scisma? Non l'amore per la tradizione, dice Giovanni Paolo II, ma l'amore per il conservatorismo, ossia per una forma di conservazione che vuole mantenere tutto assolutamente intatto, e che dunque pietrifica invece di conservare in vita. Lo sapete bene: se volete conservare tutto di un essere vivente, non potete mantenerlo in vita e siete costretti a congelarlo. "La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della tradizione che - come ha insegnato chiaramente il concilio Vaticano II - progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo". Il tradizionalismo si contrappone alla tradizione perché uccide l'organismo vivente per divenire un adepto del fossile. La vera tradizione non consiste nel conservare tutto di ciò che si faceva ieri, ma nel trasmetterne l'essenziale. E per poterlo trasmettere occorre saper riconoscere i segni del tempo e quindi adattarsi a certe nuove condizioni di trasmissione. Josef Pieper scrive con forza: "Una coscienza autentica della tradizione ci rende liberi e indipendenti di fronte a coloro che pretendono di esserne i "guardiani". Può accadere che questi famosi "difensori della tradizione", proprio per il fatto che si limitano a forme storiche, ostacolino quella che invece è la vera e necessaria trasmissione (che non può avvenire se non con forme storiche mutevoli)".La vera tradizione è una relazione viva col mistero, nella misura in cui questa relazione è ricevuta e trasmessa, come la parola e la vita, attraverso la parola e la vita, sin dall'origine. La tradizione è dunque più ancora che critica, perché è confronto con ciò che sfugge alla critica, con ciò che ci supera, con ciò che ci pone più interrogativi di quanti non ne poniamo noi, con ciò che ci chiama più di quanto noi sappiamo rispondere.Anche in questo la tradizione è più moderna della modernità: è sempre avanti, nella misura in cui si basa sulla speranza; non si regge sul futuro prossimo, ma sull'eterno, e dunque su ciò che risorge persino dopo la fine dei tempi. In questo la tradizione è ancora più giovane della modernità, perché la tradizione presuppone che i padri siano anche e prima di tutto dei figli e quindi dei bambini: non hanno avuto l'iniziativa della parola, non hanno inventato la vita, l'hanno soprattutto ricevuta.Il complesso di Edipo esiste solo fuori dalla tradizione. La rivolta dei Titani esiste solo fuori dalla tradizione. In seno alla tradizione il figlio non ha alcuna ragione di uccidere il padre perché scopre che suo padre è anche un figlio, che ogni originalità pura, ogni vero genio, è sempre filiale. Perché essere figlio dell'Eterno è infinitamente più grande che essere padre per un breve momento.Lo scrive anche Josef Pieper a proposito della speranza: "La gioventù dell'uomo che aspira all'eterno è per sua natura indistruttibile. Non è esposta né all'invecchiamento né alla delusione".
Postato da: giacabi a 16:32 |
link | commenti (1)
hadjadj fabrice
L’INEVITABILE CERTEZZA:
RIFLESSIONE SULLA MODERNITÀ
***
Incontro con Fabrice Hadjadj “Se anche mi confermassero che nel dicembre 2012 ci sarà veramente la fine del mondo, ciò non mi impedirebbe di avere un figlio in novembre, e di scrivere poesie, e di piantare un albero, perché non faccio queste cose solo per l’avvenire terreno, le faccio perché è già partecipare alla vita eterna”. Brillante, sapido e accattivante negli esempi, pronto a far riaffiorare il filo del discorso quando un approfondimento sembra avergli fatto lasciare il seminato. Il filosofo (e non solo) francese Fabrice Hadjadj, in un auditorium gremito, ha rilanciato il tema del Meeting. Don Stefano Alberto, docente di Teologia all’Università Cattolica di Milano, ha parlato di “argomento primordiale”. “Nel dibattito odierno la certezza è vista come un pericolo – ha annotato don Stefano – mentre al Meeting avvengono incontri fra uomini certi, da cui nascono progetti e prospettive nuove. Si tratta di un’eccezione come vorrebbero alcuni osservatori o di un durevole cammino, utile a ciascuno di noi e al nostro popolo? Siamo qui per rispondere a questa domanda”.
Hadjadj ha individuato tre ragioni che oggi portano a rifiutare la parola “certezza”: perché è una parola superata in quanto siamo nel tempo dell’incertezza; perché le certezze ideologiche del XX secolo hanno generato il totalitarismo, distrutto la libertà e i popoli; perché è mortifera in quanto è vista come una “Medusa che gela l’acqua, ci affascina e ci pietrifica”. La vita, piuttosto, è più vicina all’acqua, inafferrabile, sfavillante e capricciosa, come la donna del duca di Mantova del Rigoletto: mobile qual piuma al vento. Scettici e relativisti, secondo Hadjadj, negano che possano esserci certezze, al massimo possono ammettere che ciascuno ha le sue. Ma senza punti fermi non potremmo fare neanche un passo. Per uscire dalle contraddizioni, bisogna capirsi su cosa intendiamo quando parliamo di certezze. “La certezza è solidità – ha spiegato Hadjadj – ma non la solidità della pietrificazione bensì quella del nostro cammino”. Ciò che non fa vivere, per il filosofo francese, non è la certezza ma il dubbio. “Se voi non foste certi che io non sia un terrorista norvegese pronto a spararvi – ha esemplificato – non potremmo andare avanti nella nostra riflessione. Lo stesso Aristotele associa il dubbio a ciò che incatena e la certezza a ciò che libera”. Per questo motivo gli scettici, nella pratica, finiscono per essere sempre conformisti: siccome non c’è alcuna certezza, non cambiano niente.
È la certezza che mette in movimento, ma cosa garantisce che non costruisca la strada dei carri armati e dei cannoni del totalitarismo, come avvenne per il comunismo e il nazismo? La certezza non può basarsi su sentimenti interiori o su propri pensieri perché finirebbe per essere mutevole come loro. L’esempio dell’attrazione per una bella donna è illuminante. Davanti a lei un uomo promette amore solido e indistruttibile, “ma – ha sorriso, scusandosi, Hadjadj – si tratta di una solidità che si trova al di sotto della cintura e che finirà per rammollirsi. L’amerà sempre, ma per una notte”. Se vorrà davvero amarla per sempre, quell’uomo dovrà appoggiarsi su qualcuno che prima di lui ha davvero amato fino alla morte. La vera certezza ha bisogno di un’evidenza, qualcosa che non abbiamo deciso noi, che ci è data, che, dicono i francesi “spacca gli occhi”, cioè non ci gratifica ma ferisce e sconvolge i piani.
Perché è inevitabile questa certezza? Perché un giorno o l’altro dovremo guardarla tutti in faccia, anche se cerchiamo di evitarla, e ne abbiamo paura visto che sfugge al nostro potere. Si è impotenti, davanti a questa certezza, di una impotenza che “ci fa uscire dalla logica della concorrenza e entrare nella logica della comunione”.
Secondo Hadjadj il nostro tempo vive una specifica incertezza che è quella della morte dell’umanesimo. L’umanesimo, rompendo con la tradizione, ha rincorso la moda che, per sua natura, è il culto di ciò che prima o poi sarà antiquato, retrò. Un iPhone dell’ultima generazione è un futuro fossile, un corona del rosario sarà sempre di attualità.
Gli stessi elementi positivi della modernità (fede nell’uomo e fiducia nell’avvenire), a detta di Hadjadj, sarebbero il frutto di una riduzione, di una censura, di una voluta dimenticanza dell’origine: sono valori cristiani privati delle loro radici. E come una rosa che, tagliata dal ramo, resta bella e luminosa per qualche tempo ma poi spande per la casa un odore di marcio, così certi valori orizzontali per un po’ stupiscono ma poi mandano cattivo odore. Il primo valore a crollare è stato la fiducia nel progresso. Kolyma, Auschwitz, Hiroshima ne sono le testimonianze storiche, che hanno fatto dire ad Arthur Koestler, nel 1979, “che l’umanità deve vivere nella prospettiva della sua scomparsa”. “Ai nostri giovani – ha detto amaramente Hadjadj – è inutile parlare di lavoro, futuro, riuscita sociale. Sentono di non aver più tempo e allora chiedono il successo facile”. I tempi lunghi della cultura e della politica non hanno più nessuna garanzia. Un artista poteva pensare al suo successo presso i posteri e un eroe confidare nella gloria postuma, ma oggi ci sono solo le star che durano uno zapping.
Davanti a tutto questo è inutile proporre un nuovo umanesimo o un nostalgico ritorno alle tradizioni. “In questo clima – ha affermato il filosofo – il demonio propone alla nostra stupidità tre opzioni contrarie fra loro: il tecnicismo, l’ecologismo, il fondamentalismo”. Sono tre modi di abbandonare l’uomo e la storia e che partono dalla prospettiva della scomparsa dell’uomo stesso. Il superuomo pensa che il tecnicismo ci salverà; l’ecologista sogna di rivivere nei fiori e negli uccelli; il fondamentalista si rifugia in uno spiritualismo disincarnato. Tutti e tre separano il logos divino dalla carne, quando invece, secondo Hadjadj, la rivelazione di Dio nel Logos incarnato, dovrebbe essere vista, anche dai miscredenti, “come un’alleata dell’uomo e dell’ordine della realtà”.
In questa ora tragica, cosa ha da dirci il Verbo incarnato con la sua croce? “Che non arriveremo mai alla felicità – ha risposto il filosofo francese – ma pure che valiamo più della felicità”. Hadjadj ha richiamato il buon ladrone che fece del tutto per andare all’inferno ma che accoglie la misericordia di Dio ed è il primo a finire in paradiso. “Ma Dio non ci rimette mai sulla dritta via – ha spiegato il filosofo – si serve dei nostri vagabondaggi per inventare la strada unica di ciascuno”.
“Nel mezzo dell’incertezza del postmoderno l’unica immensa certezza è quella che aveva capito don Giussani e cioè che c’è qualcosa e non niente. Bisogna partire da questa certezza della vita presente”. La vita, il presente dicono “che ho ricevuto la vita da un altro e l’ho ricevuta per darla ad un altro”. Questa è la maturità, l’attitudine a comunicare la vita, una comunicazione che l’uomo fa diversamente dagli animali. “Lucidamente egli esige delle ragioni per dare la vita”, infatti perché far nascere per soffrire e morire? Questa mancanza di ragioni, il catastrofismo dilagante hanno dei contraccolpi sociali: in Europa non si nasce più. “Sono fatto per dare la vita ma non percepisco più chiaramente le ragioni per dare la vita. La prospettiva della nostra sparizione ci obbliga a ricercare una ragione più alta per dare la vita in modo più lucido, gratuito, divino”. Una prima risposta a questa domanda, Hadjadj l’ha trovata nella circoncisione degli Ebrei: “Il segno dell’alleanza con l’invisibile, una cicatrice fatta ad immagine delle stimmate del Risorto, una ferita che lascia passare la luce”.
Ma resta la contraddizione del dolore, della morte, in una parola dell’oscurità. “Non posso rispondervi chiaramente – ha confessato il filosofo – tuttavia intuisco che questa oscurità che non viene dai nostri difetti ma che è strutturale non è solo privazione di luce ma è anche la possibilità di partecipare all’opera della luce”. Dio oltre ad illuminarci vuole che siamo noi stessi chiarore, diversamente “saremmo i prodotti della sua opera, mentre Dio ci vuole collaboratori alla sua opera”. Il deserto di umanità in cui ci troviamo è come il “segno che siamo fatti per scavare fino alla sorgente, è una chiamata per diventare noi stessi, gli uni per gli altri, canali della sorgente”.
Infine Hadjadj ha aggiunto un terzo aggettivo a quelli già usati per definire la “certezza”. “La certezza è apocalittica, non nel senso oggi comune di catastrofica, ma nel suo significato di ‘rivelazione’. Dopo il crollo delle ideologie e oltre le incertezze della post modernità, ci resta un’immensa ed inevitabile certezza di apocalisse, un’esistenza feconda che manifesta la gloria attraverso la croce, che porta una rivelazione fin nel cuore della catastrofe”. Don Stefano, concludendo l’incontro, ha parlato di “un percorso esigente a cui siamo stati invitati, nella consapevolezza che nel dramma della nostra vita quotidiana non siamo soli; apocalisse vuol dire che Gesù è fra noi, davvero, e con lui il cammino di ciascuno diventa un’immensa certezza”
giovedì 25 agosto 2011
da: www.meetingrimini.org/?id=676&id_n=11694
Postato da: giacabi a 17:41 |
link | commenti
hadjadj fabrice
Hadjadj: ecco il dramma della certezza
***
INT.
Fabrice Hadjadj
giovedì 25 agosto 2011
Fabrice Hadjadj
parlerà oggi al Meeting di Rimini sul tema «L’inevitabile certezza:
riflessione sulla modernità». La nostra fede, ed è un pensiero che
Hadjadj condivide con don Luigi Giussani, «non
può più essere ideologica, fondata su di una semplice eredità, o legata
ad una sorta di arruolamento fideistico, senza implicare un lavoro
personale di verifica». E come non si può essere cristiani fuori dalla storia, così non lo si può essere fuori dal dramma. «La nostra - dice Hadjadj a ilsussidiario.net - è una certezza drammatica. E come tale è apocalittica..»
La modernità ha prodotto il massimo dell’incertezza, o piuttosto ha dato all’uomo delle false certezze: da dove passa allora la strada per ricostruire la certezza?
È vero, la modernità ha proposto diverse false certezze. Si può affermare che ciò che ha segnato in modo negativo la modernità è una sorta di rottura, ma si tratta di una rottura che ha anche molti aspetti positivi. Essa ha trasformato in valori alcuni elementi essenziali del cristianesimo: penso per esempio alla libertà umana, alla giustizia sociale, alla dignità della persona, all’uomo che si assume interamente la responsabilità della propria vita.
Sono verità che appartengono realmente al patrimonio cristiano.
La modernità ha valorizzato questi fattori e per un istante ne siamo stati affascinati: pensiamo a quando prendiamo un fiore e lo mettiamo in vaso, e proprio per questo possiamo ammirarlo. La modernità è questo, e facendo questo ci ha permesso di prendere coscienza di queste dimensioni del cristianesimo. Ma il problema è che quando tagliamo il fiore per ammirarlo, ne decretiamo la morte. È quello che è accaduto con la modernità. I suoi punti di forza sono stati credere nel progresso e nella costruzione della società perfetta. In questo tragitto, la fede in Dio è divenuta fede nell’uomo.
E qual è l’esito finale dell’umanesimo moderno?
Questa modernità è collassata: le sue certezze, da umanistiche divenute atee, si sono distrutte. Questa modernità è implosa dall’interno, perché i progressismi sono divenuti totalitarismi, ed in più è stata contestata dall’«esterno»: dal darwinismo, che pensa che l’uomo sia frutto del caso, un «bricolage» dell’evoluzione, e dalla prospettiva della sparizione dell’umanità per mano dell’uomo stesso, come è avvenuto a Hiroshima. Allora è venuto il momento del post moderno: un post-umanesimo che non è meno pericoloso delle false certezze della modernità.
Per quale motivo?
La modernità ha prodotto il massimo dell’incertezza, o piuttosto ha dato all’uomo delle false certezze: da dove passa allora la strada per ricostruire la certezza?
È vero, la modernità ha proposto diverse false certezze. Si può affermare che ciò che ha segnato in modo negativo la modernità è una sorta di rottura, ma si tratta di una rottura che ha anche molti aspetti positivi. Essa ha trasformato in valori alcuni elementi essenziali del cristianesimo: penso per esempio alla libertà umana, alla giustizia sociale, alla dignità della persona, all’uomo che si assume interamente la responsabilità della propria vita.
Sono verità che appartengono realmente al patrimonio cristiano.
La modernità ha valorizzato questi fattori e per un istante ne siamo stati affascinati: pensiamo a quando prendiamo un fiore e lo mettiamo in vaso, e proprio per questo possiamo ammirarlo. La modernità è questo, e facendo questo ci ha permesso di prendere coscienza di queste dimensioni del cristianesimo. Ma il problema è che quando tagliamo il fiore per ammirarlo, ne decretiamo la morte. È quello che è accaduto con la modernità. I suoi punti di forza sono stati credere nel progresso e nella costruzione della società perfetta. In questo tragitto, la fede in Dio è divenuta fede nell’uomo.
E qual è l’esito finale dell’umanesimo moderno?
Questa modernità è collassata: le sue certezze, da umanistiche divenute atee, si sono distrutte. Questa modernità è implosa dall’interno, perché i progressismi sono divenuti totalitarismi, ed in più è stata contestata dall’«esterno»: dal darwinismo, che pensa che l’uomo sia frutto del caso, un «bricolage» dell’evoluzione, e dalla prospettiva della sparizione dell’umanità per mano dell’uomo stesso, come è avvenuto a Hiroshima. Allora è venuto il momento del post moderno: un post-umanesimo che non è meno pericoloso delle false certezze della modernità.
Per quale motivo?
L’attuale post-umanesimo presenta tre dimensioni: tre filosofie errate che sembrano antitetiche, ma che in realtà sono profondamente in relazione. L’ecologismo,
per il quale l’uomo è il predatore della natura. Esso auspica il
regresso dell’uomo fuori dalla storia, verso i cicli naturali; il tecnicismo,
l’idea cioè che la tecno scienza può fabbricare un superuomo, un uomo
nuovo competitivo e performante. Ma è chiaro che questo superuomo in
realtà è un sotto-uomo, perché viene a dipendere dal mercato. Infine
viene l’esito di una fuga in avanti dell’umanesimo, per cui si arriva ad
una sorta di deismo fondamentalista.
In che modo questi post-umanismi ostacolano il riconoscimento della verità cristiana?
Producendo una frammentazione, di dislocazione interna alla verità cristiana, che è qualcosa di essenzialmente equilibrato, facendo coesistere perfettamente la verità e la ragione, la carne e lo spirito, la storia e l’eternità. In questo campo di rovine, dove tutte le speranze e le utopie progressiste moderne sono collassate, ci rendiamo ormai conto che se vogliamo ancora salvare l’uomo non possiamo più fare ricorso alla modernità, ma nemmeno possiamo rivolgerci alla postmodernità. Comprendiamo sempre di più che un vero umanesimo non può che fondarsi sull’idea che l’uomo, così come è dato, contiene un mistero, è stato desiderato da Dio, riscattato da Lui.
Lei guarda più a sant’Agostino, a san Tommaso d’Aquino o a Pascal?
Sono molto più vicino ad Agostino e a Tommaso che a Pascal. Ho sicuramente un debito immenso nei confronti di Tommaso d’Aquino in ragione della sua metafisica e della sua filosofia dell’essere, ma per lo stile sono piuttosto orientato verso Agostino, per il senso straordinario che egli ha dell’esistenza come un canto, per il «pensiero musicale» che ha della teologia e della vita umana.
E in che cosa è debitore di don Giussani?
Buona parte del mio pensiero era già formata quando ho incontrato Giussani, ma l’incontro che ho avuto con i suoi scritti è stato per me una grande conferma. In lui ho trovato un padre, un fratello, qualcuno con cui mi sono sentito in consonanza totale.
Quali sono le ragioni di questa stima così profonda?
In un’epoca di distruzione di certezze e di incertezza radicale sulla vita dell’uomo, don
Giussani dice: guardate che il vostro cristianesimo, la vostra fede,
non può più essere ideologica, non può più essere fondata su di una
semplice eredità, o legata ad una sorta di arruolamento fideistico,
senza implicare un lavoro personale di verifica. La certezza, è come se
dicesse Giussani, deve essere radicata nel concreto dell’esistenza.
Il titolo del Meeting di quest’anno esorta a ripartire proprio
dall’esistenza, dal fatto dell’esistenza. È questa l’assise di ogni
certezza.
Può la certezza diventare definitiva – o «immensa», come dice il titolo del meeting?
Ma che cosa vuol dire che una certezza è immensa? Non vuol dire certo una certezza a mia misura. Quindi non è una certezza che io possiedo, che domino, che costruisco, ma è piuttosto una certezza che mi prende, mi conquista, mi supera, e che in un qualche modo mi sfugge. È interessante l’idea di una certezza che mi sfugge... ma mi sfugge proprio perché è più grande di me! È questa la certezza che dissipa l’oscurità, non una certezza dalla quale possiamo trarre motivo d’orgoglio; è «immensa» una certezza che mi induce alla missione, e che mi spinge a prendere su di me il rischio di una esistenza pienamente vissuta, ricevuta e data.
Dove sbagliamo?
Nel fatto che spesso abbiamo della certezza un’immagine «minerale»: qualcosa di inerte e solido. Occorre invece ritrovare delle immagini viventi della certezza. La grande certezza è quella che viene a distruggere tutte le piccole certezze fatte a mia misura, per aprirmi a qualcosa che a sua volta mi butta nell’ignoto, ma anche mi dona un’ ebbrezza, un’esaltazione della vita, un’apertura all’incontro e alla comunione con ciò che mi supera.
Ieri è stato rappresentato in teatro l’adattamento di un suo testo (Job ou la turture par le amis). È una novità per lei? Che cosa le piace del teatro?
In realtà, la mia prima vocazione è stata la poesia. Ho iniziato facendo letteratura e poesia, la filosofia è venuta dopo. Ho sposato un’attrice, e chi mi ha portato nel teatro è stata innanzitutto mia moglie. Ho scritto il mio primo pezzo di teatro all’inizio del nostro matrimonio. l’amore per il teatro non è soltanto una concezione estetica, ma un dato che appartiene innanzitutto al mio vissuto. Il teatro è il luogo di una parola incarnata, di una parola che non e semplicemente concettuale ma che si fa vita. Ed è per questo che il teatro ai miei occhi ha in sé qualcosa di essenzialmente cristiano.
E tocca anch’esso il tema della certezza.
Sì, perché la certezza umana è una certezza drammatica. Come tale è apocalittica: sempre attraverso il dramma, attraverso la catastrofe, viene donata una rivelazione.
da: www.ilsussidiario.net
Può la certezza diventare definitiva – o «immensa», come dice il titolo del meeting?
Ma che cosa vuol dire che una certezza è immensa? Non vuol dire certo una certezza a mia misura. Quindi non è una certezza che io possiedo, che domino, che costruisco, ma è piuttosto una certezza che mi prende, mi conquista, mi supera, e che in un qualche modo mi sfugge. È interessante l’idea di una certezza che mi sfugge... ma mi sfugge proprio perché è più grande di me! È questa la certezza che dissipa l’oscurità, non una certezza dalla quale possiamo trarre motivo d’orgoglio; è «immensa» una certezza che mi induce alla missione, e che mi spinge a prendere su di me il rischio di una esistenza pienamente vissuta, ricevuta e data.
Dove sbagliamo?
Nel fatto che spesso abbiamo della certezza un’immagine «minerale»: qualcosa di inerte e solido. Occorre invece ritrovare delle immagini viventi della certezza. La grande certezza è quella che viene a distruggere tutte le piccole certezze fatte a mia misura, per aprirmi a qualcosa che a sua volta mi butta nell’ignoto, ma anche mi dona un’ ebbrezza, un’esaltazione della vita, un’apertura all’incontro e alla comunione con ciò che mi supera.
Ieri è stato rappresentato in teatro l’adattamento di un suo testo (Job ou la turture par le amis). È una novità per lei? Che cosa le piace del teatro?
In realtà, la mia prima vocazione è stata la poesia. Ho iniziato facendo letteratura e poesia, la filosofia è venuta dopo. Ho sposato un’attrice, e chi mi ha portato nel teatro è stata innanzitutto mia moglie. Ho scritto il mio primo pezzo di teatro all’inizio del nostro matrimonio. l’amore per il teatro non è soltanto una concezione estetica, ma un dato che appartiene innanzitutto al mio vissuto. Il teatro è il luogo di una parola incarnata, di una parola che non e semplicemente concettuale ma che si fa vita. Ed è per questo che il teatro ai miei occhi ha in sé qualcosa di essenzialmente cristiano.
E tocca anch’esso il tema della certezza.
Sì, perché la certezza umana è una certezza drammatica. Come tale è apocalittica: sempre attraverso il dramma, attraverso la catastrofe, viene donata una rivelazione.
da: www.ilsussidiario.net
Postato da: giacabi a 20:53 |
link | commenti
hadjadj fabrice
Il cuore
***
***
Fabrice Hadjadj, 28 agosto 2010, Meeting di Rimini
Postato da: giacabi a 16:54 |
link | commenti
desiderio, hadjadj fabrice
L’uomo va infinitamente al di là dell’uomo
Breve riflessione sul transumano
***
Breve riflessione sul transumano
***
1. Perché siamo qui convenuti? È per una cerimonia di protocollo, un po’ formale, nella quale ciascuno eserciterà la sua funzione ma nessuno avrà portato con sé il suo cuore? È per aprire una nuova « finestra di dialogo », come se si trattasse di moltiplicare i mezzi di comunicazione oppure di dare l’impressione di essere aperti e tolleranti? Forse sto rompendo la piacevolezza delle convenienze. Eppure non ho nessuna intenzione di essere provocatorio, ma solo di porre una domanda molto semplice. Il mio scopo non è di essere eccentrico, ma di rivolgermi da uomo ad altri uomini, al di là delle etichette e delle agende all’ordine del giorno. Ora, essere uomo è anzitutto questo: non solo vivere, ma porsi la domanda sulle ragioni per cui si vive. E questa domanda sorge in modo quanto mai brutale per la tensione straziante nella quale l’uomo si situa: desidera la gioia nella verità e nell’amicizia eppure sa che morirà. Sì, tutti, ciascuno di noi che siamo qui ora, che siamo ministri o uscieri, aspiriamo a una felicità che sia condivisa. E nello stesso tempo tutti noi che siamo qui ora, che siamo ambasciatori o addetti al servizio d’ordine, siamo fisicamente votati alla corruzione. Ed è per questo che sotto la luce degli spot e malgrado la potenza dei microfoni e delle altoparlanti, siamo circondati da fitte tenebre e da un grande silenzio….
2. Porre questa domanda è certamente ciò che appartiene all’uomo fin dalla sua origine. L’uomo è un animale che si stupisce per il fatto di esistere. Siamo delle scimmie più evolute, dei primati che abbiano raggiunto un massimo di complessificazione? Perché il massimo della perfezione per un primate starebbe in una suprema agilità nello spostarsi di ramo in ramo, o nell’abilità con cui sa procursi delle banane. Ma non sta per nulla in questa capacità di restare senza fiato, questa facoltà che vi lascia con gli occhi sgranati, stupefatto, impotente di fronte alla vertiginoso fatto d’essere vivo. Essa non sta per nulla in questa tendenza contemplativa che, per esempio, giunge a farvi ammirare tanto le zebrature di una tigre da farvi dimenticare di proteggervi dai suoi artigli.
C’è chi dice che l’uomo sia emerso sugli altri animali nel corso dell’evoluzione per una sua maggiore capacità d’adattamento all’ambiente. E nello stesso tempo l’uomo si documenta essere un grave inadattato: invece di vivere in santa pace seguendo il suo istinto, l’uomo cerca un senso, decifra il mondo come fosse una foresta di simboli, desidera qualcosa al di là di esso, non per forza un altro mondo, ma qualcosa che sia come un penetrare nel segreto di questo mondo, per abbracciarne il mistero, per bere alla sorgente da cui scaturisce.
Tutti noi che siamo qui ora abbiamo perciò la sensazione di essere dei passeggeri, o dei passanti. Non solo per il fatto che siamo mortali; ma anche perché desideriamo oltrepassare qualcosa nella nostra stessa vita, e non necessariamente in direzione di un altrove, perché questo non sarebbe altro che turismo, e il turismo, in materia di spiritualità, è molto più frequente di quanto non immaginiamo. Desideriamo piuttosto oltrepassare il limite nell’intensità di essere qui ed ora, gli uni nei confronti degli altri, vorremmo essere, in fondo, gli uni per gli altri, senza ipocrisie, in una verità e un’amicizia profonde (ammettiamolo, non appena si gratti un pochino la vernice del decoro, siamo ben lontani da questa verità e da una simile amicizia, perché esse suppongono che cadano finalmente tutte le maschere, e che siamo messi spiritualmente a nudo)
Nietzsche lo richiama: «Ciò che nell’uomo è grande, non è di essere un fine, ma di essere ponte : ciò che nell’uomo può essere amato è questo suo essere un passaggio, e una caduta.» Questa frase di Nietzsche fa pensare a Rousseau, secondo il quale l’uomo si distingue dagli altri animali non tanto per la sua perfezione, ma per la sua « perfettibilità », dove sembra soprattutto riprendere un’affermazione di Pascal: « Sappiate che l’uomo va infinitamente al di là dell’uomo. »
3. Porre la domanda dell’uomo che cerca un al di là riveste oggi, in questo luogo, un particolare significato. Perché noi stiamo vivendo oggi la radicale crisi dell’umanesimo. È senza dubbio la crisi più grande fra quelle a cui dobbiamo far fronte oggi: ben più gande di quella finanziaria, di quella ecologica o di quella religiosa è questa crisi antropologica e finanche metafisica. Noi ci troviamo a un punto unico della storia, tanto che i richiami a un nuovo umanesimo, inteso come un ritorno all’illuminismo, possono essere solo segni di cecità.
Quando si pretende fondare l’umanesimo sull’uomo stesso, accade una cosa analoga di quando si pretende erigere una costruzione senza alcun fondamento esterno: non può che crollare. Per potersi reggere, l’edificio deve avere del suolo. Per potersi reggere, l’uomo ha bisogno di un Cielo. Chiamo Cielo una speranza. Gli altri animali si riproducono per istinto. L’uomo ha bisogno di ragioni per poter trasmettere la vita. Senza delle ragioni, senza una speranza, forse non si suiciderà, perché c’è in lui come un’inerzia che lo trascina a continuare la sua corsa come una massa nello spazio vuoto, ma senz’altro non darà la vita ad altri, dal momento che non si capisce perché fare figli se è perché marciscano. La speranza non è una ciliegina sulla torta, occorre che si dichiari nella nostra stessa carne, nel nostro stesso sesso. Gli ebrei lo sanno bene: è nel loro sesso che si trova il segno dell’alleanza con l’Eterno, perché se non credo in questa alleanza, che senso ha continuare l’avventura umana, perché ostinarsi ad alimentare questo carnaio?
Ecco cosa rende l’uomo quest’animale singolare fra tutti: deve tendere al Cielo per poter andare a letto bene con la sua donna.
È in questo – molto semplicemente – che l’uomo va infinitamente al di là dell’uomo. L’uomo cerca le sue ragioni per vivere al di là di se stesso. Aspira a una gioia che non possiede ancora veramente, e si aspetta che a compierla sia qualcosa, diciamolo, di « soprannaturale ». Possiamo prendere a prestito un verbo inventato da Dante, e dire che l’uomo è fatto per «trasumanare ».
4. Ma «trasumanare » come? Come è da intendersi questo «transumanesimo »? Questa parola risuona in modo del tutto particolare fra queste mura. Perché il sostantivo « transumanesimo » è stato forgiato nel 1957 dal biologo Julian Huxley, il primo direttore generale dell’UNESCO. L’interessante è che il primo direttore generale dell’UNESCO intendeva il senso di «transumanesimo » in modo molto diverso da Dante. Il suo pensiero è anzi radicalmente all’opposto di quello della Divina Commedia. Ma ha il vantaggio di manifestare l’unica alternativa che si ponga oggi nel mondo moderno.
Fratello di Aldous Huxley, l’autore del “Il mondo nuovo” [A brave New World], ci si potrebbe attendere che Julian Huxley fosse immune da qualunque tentazione eugenista. Ma è l’esatto opposto. Non è che Julian Huxley fosse inconseguente, anzi è stato di un’estrema coerenza. Nel 1941, nello stesso periodo in cui i nazisti sterminavano con il gas i malti di mente, Julian Huxley scriveva, con una certa audacia: « Una volta che si siano comprese appieno le conseguenze della biologia evolutiva, l’eugenetica diverrà inevitabilmente parte integrante della religione futura, o di quel complesso di sentimenti, quale che sia, che potrà in futuro prendere il posto della religione organizzata. » Queste affermazioni furono scritte nel 1941. Ma è solo nel 1947, quando Julian Huxley è già direttore dell’UNESCO, che vengono pubblicati in francese. E senza che vi fosse cambiata una sola virgola. Certo, Huxley era antinazista, social-democratico e sopratutto antirazzista (senza che questo gli impedisse di scrivere, nello stesso testo citato sopra: «Considero come altamente probabile che i negri autentici abbiano un’intelligenza media leggermente inferiore a quella dei bianchi o dei gialli. ») ma Huxley pretendeva di sostituire le religioni tradizionali con la religione delle biotecnologie.
Certo, non siamo qui per mettere sotto processo a Julian Huxley. Vorrei solo mettere in luce un’ideologia così diffusa da non aver risparmiato neppure questo luogo, e anzi che ha avuto come suo illustre rappresentante il suo primo direttore generale. Se nel 1957 il direttore generale dell’UNESCO inventa il termine « transumanesimo », è per non dover più usare il termine « eugenetica », un termine divenuto difficile da maneggiare dopo l’eugenismo nazista. Ma la cosa che è intesa è la stessa: la redenzione dell’uomo in forza della tecnica. Cito il testo del 1957 nel quale compare per la prima volta questo termine: « Noi dobbiamo mirare alla qualità delle persone e non alla quantità: per questo è necessario applicare una politica di concerto che impedisca al flusso montante della popolazione di sommergere le nostre speranze di un mondo migliore. » Il mondo migliore di Julian non è molto distante dal mondo nuovo di Aldous. Si tratta proprio di migliorare la « qualità » degli individui, così come si migliora la « qualità » dei prodotti, e quindi probabilmente, di eliminare o impedire la nascita di tutto ciò che appaia anormale o deficiente.
5. Vedete dunque che è la definizione stessa di uomo ad essere in gioco in questo nostro incontro. E perciò l’avvenire stesso dell’uomo. L’uomo cerca un al di là. Per essenza è transumano. Ma come si compie il trans del transumano? È in forza della cultura e dell’apertura al Trascendente? O è in forza della tecnica e della manipolazione genetica? Avviene grazie al mistero della parola? O grazie alla volontà di potenza? Certo, l’UNESCO è un’organizzazione mondiale la cui missione è la protezione e lo sviluppo delle culture. Ma è anche, come tutte le organizzazioni attualmente esistenti, divorata dalla logistica tecnocratica, cioè dal desiderio di risolvere dei problemi invece di riconoscere il mistero. Prova ne sia l’ambiguità di cui testimonia il suo primo direttore generale.
Ebbene, la mia domanda è semplice: dobbiamo scegliere come direttore Julian Huxley oppure Dante? La grandezza dell’uomo risiede nel facilitare la vita con la tecnica? Oppure la sua grandezza sta in questa ferita, quest’apertura che è come un grido verso il Cielo, questa domanda a ciò che realmente ci trascende? Vi prego di notare che un transumanesimo di cui l’uomo sia l’artefice non è un vero transumanesimo: non permette di andare verso un al di là, ma costringe a un al di qua, riducendo l’uomo a un oggetto tecnico performante. Ma, voglio ripeterlo, la meraviglia che è l’uomo non sta nella sua performance, perché allora non sarebbe che una prodezza meccanica, e bisognerebbe buttare nella spazzatura tutti i deboli. La meraviglia che è l’uomo sta nella sua presenza stupita. Non è nella sua efficienza, ma nell’epifania del suo volto, qualunque sia, anche se è deforme, anche se è il volto di un crocifisso.
6. La nostra modernità è arrivata a questo punto estremo perché abbiamo ormai la possibilità di realizzare il transumanesimo nella sua accezione tecnologica, e possiamo considerare gli uomini che noi siamo come degli esseri arcaici e obsoleti, rappezzati con poca perizia. Ma questo punto estremo costituisce anche una grazia. Ci permette di accogliere meglio ciò che costituisce la nostra umanità: non uno sviluppo orizzontale della nostra potenza, ma un’elevazione verticale della nostra parola.
Questa è l'opportunità offerta dal Cortile dei Gentili, il prendere cioè atto della novità di questa situazione. Non si tratta affatto solo di un « dialogo fra credenti e non credenti ». Si tratta di porre la questione dell’uomo, e di riconoscere che ciò che ne fa la specificità non è di essere un super-animale più potente degli altri, ma piuttosto di essere quel ricettacolo che accoglie ogni creatura con amore, per orientarla con la sua parola, la sua preghiera, la sua poesia, verso la misteriosa sorgente da cui fluisce
di Fabrice Hdjadj
“Il Cortile dei Gentili”, Parigi, UNESCO, il 24 marzo 2011-04-16
da:Centro Culturale della Svizzera Italiana Editoriale
Postato da: giacabi a 07:39 |
link | commenti
hadjadj fabrice
|
||||||
|
||||||
«Quaresima,
per riscoprire una vita meravigliosa»
***
per riscoprire una vita meravigliosa»
***
di Antonio Giuliano
09-03-2011
«L’apologetica, il rendere ragione della fede, comincia dentro di noi. Prima di guardare la pagliuzza nell’occhio dell’ “ateo”, proviamo a interrogarci sul nostro credo. Potremmo comprendere che la fede non è un semplice privilegio, ma un’esigenza d’amore. E la Quaresima è il tempo che ci aiuta a riscoprire l’essenziale, la vera gioia, quel senso di meraviglia dinanzi a tutto ciò che ci circonda». Che lo sguardo di Fabrice Hadjadj sia quello di un innamorato, stupito dalla realtà, basta vedere con quali occhi osserva la moglie e i suoi cinque piccoli figli che gli saltellano intorno mentre parla. Ma svela tutta la sua fama di pensatore lucido, quando argomenta sulla fede con chiarezza disarmante e una schiettezza che spiazza facilmente l’interlocutore. Filosofo francese convertitosi al cattolicesimo, Hadjadj, quarantenne di origini tunisine, nei giorni scorsi è intervenuto all’Università Cattolica di Milano su invito del Centro culturale di Milano per parlare di “Modernità e modernismo. A proposito del senso religioso”.
I suoi libri continuano a far molto “rumore”. Solo in Italia nell’ultimo anno sono stati pubblicati quattro testi: Mistica della carne (Medusa), Farcela con la morte (Cittadella) La terra strada del cielo (Lindau) La fede dei demoni (Marietti). Si cimenta con argomenti spinosi come il Maligno e le seduzioni della carne. Troppo difficile, visto il periodo, non cedere alla tentazione di chiederle come vive lei la Quaresima…
È un tempo di penitenza, ma spesso ci si inganna sul suo significato. La penitenza non ha come scopo la sofferenza, ma la gioia. D’altra parte la parola penitenza non viene da pena, ma da una parola latina che significa “ritorno”. È un tempo in cui si ritorna all’essenziale, ci si sbarazza di tutto quello che ci appesantisce per scoprire la gioia di Gesù Cristo, morto e risorto per tutti. Ogni persona è chiamata a vivere eternamente. Per questo si deve ricercare non la gioia per se stessi, ma quella che deriva dalla comunione con gli altri. Personalmente vivo già senza televisione, ma in questo periodo l’unico film che con mia moglie vediamo è Shoah di Claude Lanzmann su Auschwitz e i campi di concentramento: dura 9 ore, ma è un’opera grandiosa. Per il resto cerco di stare più con la famiglia e di pregare più intensamente, specie attraverso l’adorazione eucaristica.
La Chiesa raccomanda tre armi spirituali per riscoprire l’essenziale: digiuno, preghiera, carità.
Certo. Anche se il pericolo è di intendere queste pratiche in maniera farisaica: si potrebbero praticare tutte e non cogliere il senso della Quaresima. Se infatti si digiuna non è per privarsi. Ma per essere ancora più affamati di Cristo. Se si prega non è semplicemente per domandare delle cose, ma per entrare nella comunione con Colui che è la sorgente di ogni cosa. Sant’Agostino diceva che la preghiera non ha altro scopo che di far crescere in noi il desiderio della beatitudine. E quanto alla carità, non si tratta di dare soldi per sbarazzarsi del povero: ma di condividere e andare incontro a chi abitualmente non incontriamo. Essere vivi è essere aperti a quello che viene a sorprenderci. Se tutta la nostra vita si svolge dentro un programma, all’interno di una pianificazione, si diventa macchine.
Da quale tentazione devono guardarsi di più i credenti oggi?
Se guardiamo alle tre tentazioni di Gesù nel deserto vediamo che sono tutte legate tra di loro: c’è sempre il rischio di passare da una fede solo materiale a una disincarnata (lo spiritualismo), o a una fede che confonde carne e spirito. Mi guarderei bene dalla tentazione diabolica di inseguire la gloria umana piuttosto che quella divina. Un esempio è credere di servire la Chiesa facendo una propaganda in stile pubblicitario, dimenticando che il fine non è farsi dei clienti, ma incontrare delle persone. Non condivido la nuova evangelizzazione preoccupata soltanto delle tecnologie digitali: queste possono servirci, ma non sono essenziali. Il cristianesimo non è una tecnica di comunicazione ma una vita di comunione basata sull’incontro con una Persona, Cristo. E dunque la migliore “tecnica” sarà sempre di andare due a due e incontrare le persone fisicamente: non a caso tutti i sacramenti suppongono la prossimità fisica. Dal momento in cui i preti sono focalizzati solo sulle preoccupazioni tecnologiche, abbiamo perso di vista l’essenzialità dei sacramenti.
Lei insiste molto sulla figura di Satana di cui si parla ancora poco anche nelle chiese. Il suo ultimo libro è addirittura dedicato a La fede dei demoni (Marietti, pp. 252, euro 25)…
Non sono io che insisto, ma è il Vangelo. Come nei telefilm ci sono i “profiler”, persone che cercano di dare un volto a chi ha commesso il crimine, anche per noi cristiani è molto importante conoscere il profilo del Maligno. Uno dei grandi errori è quello di pensare che il male radicale si trovi nell’ateismo o nel peccato della carne. Che cosa ci dice il Vangelo? Il Nemico per eccellenza non è né ateo, né ha carne. È un errore focalizzarsi solo sull’ateismo perché vuol dire dimenticarsi che il primo pericolo è una fede senza carità, una fede demoniaca. Se io non ho carità per tutti allora la mia fede diventerà una fede orgogliosa che è quella del demonio. Ripeto spesso che non è un caso se Gesù si rivolge a scribi e farisei: non erano atei, ma gli specialisti della fede, eppure furono quelli che lo crocifissero.
Lei non ama parlare molto della sua conversione, perché?
Non mi piace essere aneddotico e retrospettivo. La conversione è un punto di partenza non di arrivo. È come una nascita. Però non si può chiedere ai convertiti solo quel che è successo al momento del parto. Mi sono interrogato spesso sul mio battesimo che è stato qualcosa di straordinario. Però mi si domanda meno del mio matrimonio che pure è il compimento del mio battesimo. Potrei scrivere mille pagine sulla mia conversione. Ma se le dicessi ciò che mi ha fatto diventare cristiano sarei prigioniero di qualcosa che è passato. Io devo sempre poter dire che se sono cristiano è anche grazie a lei che mi sta di fronte. Ciò che fonda la fede è innanzitutto la meraviglia dinanzi a ciò che mi circonda.
Che cosa l’affascina di più del cristianesimo rispetto ad altre religioni?
Sono persuaso dal mistero della Trinità: Dio è una comunione di tre persone e questo vuol dire che nel cristianesimo la sapienza non è una conoscenza, ma un incontro, con Gesù, che si completa in una comunione di persone. Non è una teoria o uno stato di serenità come in altre filosofie. Mi piace ripetere che nel cristianesimo i nomi propri sono più importanti dei nomi comuni e i volti sono più importanti delle idee. Il cristianesimo mi dice che ogni volto è sconvolgente e soprattutto non elimina nulla dell’esperienza concreta. Questo mi conduce all’altro grande mistero: l’Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne significa che non si può più separare la carne dallo spirito.
Se dovesse raccontare ciò che sta vivendo a un “ateo” da che cosa partirebbe?
Penso che bisogna innanzitutto evitare le etichette. È molto difficile definirsi "ateo". Ma se qualcuno si definisse così, per essere coerente non dovrebbe divinizzare nulla al posto di Dio, nessun altro idolo: denaro, tecnica, comunismo… Oggi va di moda dire “sono ateo”, “sono omosessuale” e così via… Nessuno dice: “sono un uomo”. L’importante per il credente è comprendere che dinanzi a sé c’è sempre un uomo. Uno che come me è esposto al peccato e alla morte e che forse ha un po’ meno coscienza del mistero. Ma come me è uno circondato da un non-conosciuto. Prima di porre degli argomenti con un “ateo”, bisogna sentire e vivere questa fraternità umana: si è capaci di ridere insieme? E di cantare insieme? Solo a partire da questo momento potremmo dialogare. I cristiani dicono che non bisogna dormire con una ragazza prima di aver trascorso tutto il tempo del fidanzamento e nello stesso tempo però ci sono cristiani che dicono che bisognerebbe argomentare con l’ateo senza passare da un periodo di “fidanzamento”: è una contraddizione totale.
Nel suo libro Mistica della carne (Medusa) affronta il tema della sessualità, un argomento su cui la Chiesa è spesso osteggiata…
È normale che ci sia opposizione. Il problema è che spesso l’insegnamento della Chiesa viene trasmesso male. Due sono gli errori principali. Da un lato si dice che la sessualità è “neutra” e va incanalata con il rispetto, con l’amore, ecc., … Così si fa passare una morale che concepisce la sessualità come un impedimento. Mentre la Chiesa dice che la sessualità in se stessa è buona, però va colta in tutta la sua profondità. Oggi si parla tanto di liberazione sessuale, ma in realtà viviamo una mutilazione della sessualità. Anche un castrato può avere relazioni sessuali, ma è una sessualità che non è aperta alla vita. E oggi viviamo nel regno dei castrati. L’altro errore è di cadere nell’ossessione sessuale. Cioè parlare ai giovani di “morale sessuale” e non dell’avventura eroica della vita cristiana. I giovani non accetteranno la morale sessuale se non si mostra loro lo scopo. Spesso si resta sul discorso del divieto, della regola: è un discorso farisaico. La morale è come la grammatica: è importante che ci sia per parlare, ma non si parla per fare grammatica. Se vogliamo interessare i ragazzi alla grammatica, dobbiamo innanzitutto mostrare loro la poesia della vita cristiana. È questa la vera sfida.
Postato da: giacabi a 09:00 |
link | commenti
hadjadj fabrice
|
||||||
|
||||||
«Quaresima,
per riscoprire una vita meravigliosa»
***
per riscoprire una vita meravigliosa»
***
di Antonio Giuliano
09-03-2011
«L’apologetica, il rendere ragione della fede, comincia dentro di noi. Prima di guardare la pagliuzza nell’occhio dell’ “ateo”, proviamo a interrogarci sul nostro credo. Potremmo comprendere che la fede non è un semplice privilegio, ma un’esigenza d’amore. E la Quaresima è il tempo che ci aiuta a riscoprire l’essenziale, la vera gioia, quel senso di meraviglia dinanzi a tutto ciò che ci circonda». Che lo sguardo di Fabrice Hadjadj sia quello di un innamorato, stupito dalla realtà, basta vedere con quali occhi osserva la moglie e i suoi cinque piccoli figli che gli saltellano intorno mentre parla. Ma svela tutta la sua fama di pensatore lucido, quando argomenta sulla fede con chiarezza disarmante e una schiettezza che spiazza facilmente l’interlocutore. Filosofo francese convertitosi al cattolicesimo, Hadjadj, quarantenne di origini tunisine, nei giorni scorsi è intervenuto all’Università Cattolica di Milano su invito del Centro culturale di Milano per parlare di “Modernità e modernismo. A proposito del senso religioso”.
I suoi libri continuano a far molto “rumore”. Solo in Italia nell’ultimo anno sono stati pubblicati quattro testi: Mistica della carne (Medusa), Farcela con la morte (Cittadella) La terra strada del cielo (Lindau) La fede dei demoni (Marietti). Si cimenta con argomenti spinosi come il Maligno e le seduzioni della carne. Troppo difficile, visto il periodo, non cedere alla tentazione di chiederle come vive lei la Quaresima…
È un tempo di penitenza, ma spesso ci si inganna sul suo significato. La penitenza non ha come scopo la sofferenza, ma la gioia. D’altra parte la parola penitenza non viene da pena, ma da una parola latina che significa “ritorno”. È un tempo in cui si ritorna all’essenziale, ci si sbarazza di tutto quello che ci appesantisce per scoprire la gioia di Gesù Cristo, morto e risorto per tutti. Ogni persona è chiamata a vivere eternamente. Per questo si deve ricercare non la gioia per se stessi, ma quella che deriva dalla comunione con gli altri. Personalmente vivo già senza televisione, ma in questo periodo l’unico film che con mia moglie vediamo è Shoah di Claude Lanzmann su Auschwitz e i campi di concentramento: dura 9 ore, ma è un’opera grandiosa. Per il resto cerco di stare più con la famiglia e di pregare più intensamente, specie attraverso l’adorazione eucaristica.
La Chiesa raccomanda tre armi spirituali per riscoprire l’essenziale: digiuno, preghiera, carità.
Certo. Anche se il pericolo è di intendere queste pratiche in maniera farisaica: si potrebbero praticare tutte e non cogliere il senso della Quaresima. Se infatti si digiuna non è per privarsi. Ma per essere ancora più affamati di Cristo. Se si prega non è semplicemente per domandare delle cose, ma per entrare nella comunione con Colui che è la sorgente di ogni cosa. Sant’Agostino diceva che la preghiera non ha altro scopo che di far crescere in noi il desiderio della beatitudine. E quanto alla carità, non si tratta di dare soldi per sbarazzarsi del povero: ma di condividere e andare incontro a chi abitualmente non incontriamo. Essere vivi è essere aperti a quello che viene a sorprenderci. Se tutta la nostra vita si svolge dentro un programma, all’interno di una pianificazione, si diventa macchine.
Da quale tentazione devono guardarsi di più i credenti oggi?
Se guardiamo alle tre tentazioni di Gesù nel deserto vediamo che sono tutte legate tra di loro: c’è sempre il rischio di passare da una fede solo materiale a una disincarnata (lo spiritualismo), o a una fede che confonde carne e spirito. Mi guarderei bene dalla tentazione diabolica di inseguire la gloria umana piuttosto che quella divina. Un esempio è credere di servire la Chiesa facendo una propaganda in stile pubblicitario, dimenticando che il fine non è farsi dei clienti, ma incontrare delle persone. Non condivido la nuova evangelizzazione preoccupata soltanto delle tecnologie digitali: queste possono servirci, ma non sono essenziali. Il cristianesimo non è una tecnica di comunicazione ma una vita di comunione basata sull’incontro con una Persona, Cristo. E dunque la migliore “tecnica” sarà sempre di andare due a due e incontrare le persone fisicamente: non a caso tutti i sacramenti suppongono la prossimità fisica. Dal momento in cui i preti sono focalizzati solo sulle preoccupazioni tecnologiche, abbiamo perso di vista l’essenzialità dei sacramenti.
Lei insiste molto sulla figura di Satana di cui si parla ancora poco anche nelle chiese. Il suo ultimo libro è addirittura dedicato a La fede dei demoni (Marietti, pp. 252, euro 25)…
Non sono io che insisto, ma è il Vangelo. Come nei telefilm ci sono i “profiler”, persone che cercano di dare un volto a chi ha commesso il crimine, anche per noi cristiani è molto importante conoscere il profilo del Maligno. Uno dei grandi errori è quello di pensare che il male radicale si trovi nell’ateismo o nel peccato della carne. Che cosa ci dice il Vangelo? Il Nemico per eccellenza non è né ateo, né ha carne. È un errore focalizzarsi solo sull’ateismo perché vuol dire dimenticarsi che il primo pericolo è una fede senza carità, una fede demoniaca. Se io non ho carità per tutti allora la mia fede diventerà una fede orgogliosa che è quella del demonio. Ripeto spesso che non è un caso se Gesù si rivolge a scribi e farisei: non erano atei, ma gli specialisti della fede, eppure furono quelli che lo crocifissero.
Lei non ama parlare molto della sua conversione, perché?
Non mi piace essere aneddotico e retrospettivo. La conversione è un punto di partenza non di arrivo. È come una nascita. Però non si può chiedere ai convertiti solo quel che è successo al momento del parto. Mi sono interrogato spesso sul mio battesimo che è stato qualcosa di straordinario. Però mi si domanda meno del mio matrimonio che pure è il compimento del mio battesimo. Potrei scrivere mille pagine sulla mia conversione. Ma se le dicessi ciò che mi ha fatto diventare cristiano sarei prigioniero di qualcosa che è passato. Io devo sempre poter dire che se sono cristiano è anche grazie a lei che mi sta di fronte. Ciò che fonda la fede è innanzitutto la meraviglia dinanzi a ciò che mi circonda.
Che cosa l’affascina di più del cristianesimo rispetto ad altre religioni?
Sono persuaso dal mistero della Trinità: Dio è una comunione di tre persone e questo vuol dire che nel cristianesimo la sapienza non è una conoscenza, ma un incontro, con Gesù, che si completa in una comunione di persone. Non è una teoria o uno stato di serenità come in altre filosofie. Mi piace ripetere che nel cristianesimo i nomi propri sono più importanti dei nomi comuni e i volti sono più importanti delle idee. Il cristianesimo mi dice che ogni volto è sconvolgente e soprattutto non elimina nulla dell’esperienza concreta. Questo mi conduce all’altro grande mistero: l’Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne significa che non si può più separare la carne dallo spirito.
Se dovesse raccontare ciò che sta vivendo a un “ateo” da che cosa partirebbe?
Penso che bisogna innanzitutto evitare le etichette. È molto difficile definirsi "ateo". Ma se qualcuno si definisse così, per essere coerente non dovrebbe divinizzare nulla al posto di Dio, nessun altro idolo: denaro, tecnica, comunismo… Oggi va di moda dire “sono ateo”, “sono omosessuale” e così via… Nessuno dice: “sono un uomo”. L’importante per il credente è comprendere che dinanzi a sé c’è sempre un uomo. Uno che come me è esposto al peccato e alla morte e che forse ha un po’ meno coscienza del mistero. Ma come me è uno circondato da un non-conosciuto. Prima di porre degli argomenti con un “ateo”, bisogna sentire e vivere questa fraternità umana: si è capaci di ridere insieme? E di cantare insieme? Solo a partire da questo momento potremmo dialogare. I cristiani dicono che non bisogna dormire con una ragazza prima di aver trascorso tutto il tempo del fidanzamento e nello stesso tempo però ci sono cristiani che dicono che bisognerebbe argomentare con l’ateo senza passare da un periodo di “fidanzamento”: è una contraddizione totale.
Nel suo libro Mistica della carne (Medusa) affronta il tema della sessualità, un argomento su cui la Chiesa è spesso osteggiata…
È normale che ci sia opposizione. Il problema è che spesso l’insegnamento della Chiesa viene trasmesso male. Due sono gli errori principali. Da un lato si dice che la sessualità è “neutra” e va incanalata con il rispetto, con l’amore, ecc., … Così si fa passare una morale che concepisce la sessualità come un impedimento. Mentre la Chiesa dice che la sessualità in se stessa è buona, però va colta in tutta la sua profondità. Oggi si parla tanto di liberazione sessuale, ma in realtà viviamo una mutilazione della sessualità. Anche un castrato può avere relazioni sessuali, ma è una sessualità che non è aperta alla vita. E oggi viviamo nel regno dei castrati. L’altro errore è di cadere nell’ossessione sessuale. Cioè parlare ai giovani di “morale sessuale” e non dell’avventura eroica della vita cristiana. I giovani non accetteranno la morale sessuale se non si mostra loro lo scopo. Spesso si resta sul discorso del divieto, della regola: è un discorso farisaico. La morale è come la grammatica: è importante che ci sia per parlare, ma non si parla per fare grammatica. Se vogliamo interessare i ragazzi alla grammatica, dobbiamo innanzitutto mostrare loro la poesia della vita cristiana. È questa la vera sfida.
Postato da: giacabi a 08:59 |
link | commenti
hadjadj fabrice
3 marzo 2011
VERSO IL CORTILE/6
Fabrice Hadjadj.
Caro ateo, non cedere ai nuovi idoli...
Una
sana "sfida" all’ateo, perché sia davvero senza idoli. E rimanga capace
di aprirsi a «un’attesa dell’inatteso» che può avere il volto di
Cristo, il Dio rifiutato dai credenti del suo tempo. Fabrice Hadjadj,
filosofo francese convertitosi al cristianesimo, interverrà questa sera
all’Università Cattolica, su iniziativa del Centro culturale di Milano
(Aula Magna, ore 21), su "Modernità e modernismo. A proposito del senso
religioso".
Dio. Possiamo parlarne con ii non credenti?
«Bisogna riconoscere che la prima difficoltà consiste nel discuterne coi credenti. Ce lo insegna il Vangelo: Gesù non si rivolge ad atei, ma agli specialisti della fede, scribi e farisei. Egli vuole rivelare loro il mistero del Padre. Ma essi non lo comprendono, addirittura finiscono per crocifiggerlo. Facciamo fatica ad ammettere che furono alcuni credenti a metter a morte il Figlio di Dio. Quando si crede bisognerebbe lottare per non ridurre Dio a un piccolo idolo domestico. Questo nome dovrebbe aprirci la gola come un abisso. E invece lo pronunciamo come una banalità concettuale. Se lo pronunciassimo con la vertigine dell’innamorato! Prima della mia conversione non sopportavo che si pronunciasse la parola "Dio": la consideravo come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suonava come un modo per evitare i problemi e misconoscere la tragedia della vita».
Come "verificare" l’idea, spesso confusa, di Dio?
«Egli non abolisce il dramma dell’esistenza ma lo compie. È quanto rivela il mistero della Croce. I credenti vi crocifiggono sopra Dio e Dio grida a Dio: Perché mi hai abbandonato? Non è qualcosa di abissale? Non è forse vero che questo distrugge ogni nostro idolo e ci riporta al dramma dell’"amore forte come la morte"? È necessario che i credenti riconoscano tale dramma e vivano il secondo comandamento, il quale ci domanda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intenderlo meglio».
Parla per esperienza?
«Sì. La mia fu anche una conversione "linguistica". Ho scoperto che il significante "Dio" corrispondeva alla verità del "Sì" di Friedrich Nietzsche e dell’"Aperto" di Rainer M. Rilke. E che non era un atteggiamento poetico o un concetto filosofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. "Dio" non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Non si tratta di una strategia di marketing. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri finiscono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene».
Lei ha definito la spiritualità «un trucco del diavolo». Su cosa confrontarci con gli atei?
«Sulla sessualità. Nel mio <+corsivo>Mistica della carne <+tondo> mostro che il sesso ci rimanda alla profondità autentica, fino alle viscere di Dio. In principio Dio crea l’uomo a sua immagine, maschio e femmina, in modo che la loro relazione sessuale, con la sua fecondità naturale, diventi l’immagine della Trinità. Qualunque sia il punto di partenza, anche una margherita o una lumaca, se ne parliamo correttamente, dobbiamo risalire a Dio: non va relegato nelle altezze ma va fatto comparire nel più "basso". Il cristianesimo è il contrario dello spiritualismo, e spiritualità dell’incarnazione: il Verbo si è fatto carne e si dona a noi mediante un atto spirituale e carnale, l’eucaristia. I sacramenti sono i tocchi di Cristo. Certo, per andare verso Dio dobbiamo recarci da quel prete che ci sta antipatico, da quel cristiano che ci dà fastidio sulla sedia accanto, da quel povero per invitarlo a tavola».
Di recente l’apologetica ha ripreso quota. Ma lei non ha scritto parole tenere nei suoi confronti …
«Non ho niente contro l’apologetica. È quanto cerco di fare io stesso proprio adesso. Ma vi è il pericolo di restare al livello del dibattito delle idee. Il cristianesimo non riguarda un’ideologia: è una vita. E la sua anima si trova nell’amore. Quando separiamo l’amore dalla verità cadiamo nel sentimentalismo. E se allontaniamo verità e amore, scadiamo nel dogmatismo. La Verità propria del cristianesimo è una Persona, non una teoria. E Dio stesso non è una natura anonima, ma una comunione di Persone. Molte saggezze filosofiche pretendono che la realizzazione dell’uomo consista in una conoscenza teorica o in uno stato di serenità. Il cristianesimo propone altro: un incontro. Per fare buona apologetica serve questo: prima del confronto ideale, meravigliamoci del volto del nostro interlocutore; e anche se lui non ha compreso nulla e alla fine ci infastidisce, continuiamo ad ammirare in lui la meraviglia che Dio contempla e che lui stesso, l’ateo, ignora».
Nel suo libro-intervista Benedetto XVI sottolinea il rapporto, positivo e fecondo, tra cristianesimo e modernità. Quali gli aspetti di tale relazione che arricchiscono la fede?
«La modernità pone due esigenze. La prima è di natura critica: l’uomo moderno rifiuta di ricevere qualcosa solo perché trasmesso dai suoi genitori. Reclama delle ragioni e vuole comprendere. Ma può essere ambigua: o conduce ad un ripiegamento mortale su se stessa oppure guida ad una maggior intelligenza della fede. Secondo: l’uomo moderno desidera una pienezza "qui e ora". Perciò rompe con l’aldilà. Ora, il nodo è che noi non siamo mai "qui e ora" a noi stessi. Il tempo fugge e, quando siamo da qualche parte, progettiamo di andare altrove. Manchiamo alla presenza. Non siamo mai gli uni con gli altri. Per essere del tutto presenti, dovremmo coincidere con l’essere e poter dire: "Io sono colui che sono". Questo è il privilegio dell’Eterno. Per questo volgersi verso di Lui non è fuggire il "qui e ora", ma approcciarsi ad esso e cercare di essere più presenti a tutto e a tutti».
Nel suo "La fede dei demoni" lei critica i "nuovi atei" come Michel Onfray, esempio dell’ateo "sbagliato" che "non cerca più". I non credenti sono tutti così?
«Va rimproverato agli atei di non essere ciò che loro pretendono di essere. Un ateo è qualcuno "senza dio", uno che deve disfarsi di tutti gli idoli, sforzandosi di non rendere il proprio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappresenta qualcosa di veramente difficile. Quando si abbandona il Dio trascendente, ci si confeziona altri idoli: ragione, razza, rivoluzione, mercato ... Visto che non siamo Dio ma esseri di desiderio, abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le nostre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzatomi di ogni idolo, mi è rimasta la disponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibilità consiste in un’apertura all’incontro. Eraclito la definiva "l’attesa dell’inatteso", un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attraverso una moltitudine di testimoni: la "tradizione apostolica". Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fino a me».
Dio. Possiamo parlarne con ii non credenti?
«Bisogna riconoscere che la prima difficoltà consiste nel discuterne coi credenti. Ce lo insegna il Vangelo: Gesù non si rivolge ad atei, ma agli specialisti della fede, scribi e farisei. Egli vuole rivelare loro il mistero del Padre. Ma essi non lo comprendono, addirittura finiscono per crocifiggerlo. Facciamo fatica ad ammettere che furono alcuni credenti a metter a morte il Figlio di Dio. Quando si crede bisognerebbe lottare per non ridurre Dio a un piccolo idolo domestico. Questo nome dovrebbe aprirci la gola come un abisso. E invece lo pronunciamo come una banalità concettuale. Se lo pronunciassimo con la vertigine dell’innamorato! Prima della mia conversione non sopportavo che si pronunciasse la parola "Dio": la consideravo come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suonava come un modo per evitare i problemi e misconoscere la tragedia della vita».
Come "verificare" l’idea, spesso confusa, di Dio?
«Egli non abolisce il dramma dell’esistenza ma lo compie. È quanto rivela il mistero della Croce. I credenti vi crocifiggono sopra Dio e Dio grida a Dio: Perché mi hai abbandonato? Non è qualcosa di abissale? Non è forse vero che questo distrugge ogni nostro idolo e ci riporta al dramma dell’"amore forte come la morte"? È necessario che i credenti riconoscano tale dramma e vivano il secondo comandamento, il quale ci domanda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intenderlo meglio».
Parla per esperienza?
«Sì. La mia fu anche una conversione "linguistica". Ho scoperto che il significante "Dio" corrispondeva alla verità del "Sì" di Friedrich Nietzsche e dell’"Aperto" di Rainer M. Rilke. E che non era un atteggiamento poetico o un concetto filosofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. "Dio" non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Non si tratta di una strategia di marketing. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri finiscono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene».
Lei ha definito la spiritualità «un trucco del diavolo». Su cosa confrontarci con gli atei?
«Sulla sessualità. Nel mio <+corsivo>Mistica della carne <+tondo> mostro che il sesso ci rimanda alla profondità autentica, fino alle viscere di Dio. In principio Dio crea l’uomo a sua immagine, maschio e femmina, in modo che la loro relazione sessuale, con la sua fecondità naturale, diventi l’immagine della Trinità. Qualunque sia il punto di partenza, anche una margherita o una lumaca, se ne parliamo correttamente, dobbiamo risalire a Dio: non va relegato nelle altezze ma va fatto comparire nel più "basso". Il cristianesimo è il contrario dello spiritualismo, e spiritualità dell’incarnazione: il Verbo si è fatto carne e si dona a noi mediante un atto spirituale e carnale, l’eucaristia. I sacramenti sono i tocchi di Cristo. Certo, per andare verso Dio dobbiamo recarci da quel prete che ci sta antipatico, da quel cristiano che ci dà fastidio sulla sedia accanto, da quel povero per invitarlo a tavola».
Di recente l’apologetica ha ripreso quota. Ma lei non ha scritto parole tenere nei suoi confronti …
«Non ho niente contro l’apologetica. È quanto cerco di fare io stesso proprio adesso. Ma vi è il pericolo di restare al livello del dibattito delle idee. Il cristianesimo non riguarda un’ideologia: è una vita. E la sua anima si trova nell’amore. Quando separiamo l’amore dalla verità cadiamo nel sentimentalismo. E se allontaniamo verità e amore, scadiamo nel dogmatismo. La Verità propria del cristianesimo è una Persona, non una teoria. E Dio stesso non è una natura anonima, ma una comunione di Persone. Molte saggezze filosofiche pretendono che la realizzazione dell’uomo consista in una conoscenza teorica o in uno stato di serenità. Il cristianesimo propone altro: un incontro. Per fare buona apologetica serve questo: prima del confronto ideale, meravigliamoci del volto del nostro interlocutore; e anche se lui non ha compreso nulla e alla fine ci infastidisce, continuiamo ad ammirare in lui la meraviglia che Dio contempla e che lui stesso, l’ateo, ignora».
Nel suo libro-intervista Benedetto XVI sottolinea il rapporto, positivo e fecondo, tra cristianesimo e modernità. Quali gli aspetti di tale relazione che arricchiscono la fede?
«La modernità pone due esigenze. La prima è di natura critica: l’uomo moderno rifiuta di ricevere qualcosa solo perché trasmesso dai suoi genitori. Reclama delle ragioni e vuole comprendere. Ma può essere ambigua: o conduce ad un ripiegamento mortale su se stessa oppure guida ad una maggior intelligenza della fede. Secondo: l’uomo moderno desidera una pienezza "qui e ora". Perciò rompe con l’aldilà. Ora, il nodo è che noi non siamo mai "qui e ora" a noi stessi. Il tempo fugge e, quando siamo da qualche parte, progettiamo di andare altrove. Manchiamo alla presenza. Non siamo mai gli uni con gli altri. Per essere del tutto presenti, dovremmo coincidere con l’essere e poter dire: "Io sono colui che sono". Questo è il privilegio dell’Eterno. Per questo volgersi verso di Lui non è fuggire il "qui e ora", ma approcciarsi ad esso e cercare di essere più presenti a tutto e a tutti».
Nel suo "La fede dei demoni" lei critica i "nuovi atei" come Michel Onfray, esempio dell’ateo "sbagliato" che "non cerca più". I non credenti sono tutti così?
«Va rimproverato agli atei di non essere ciò che loro pretendono di essere. Un ateo è qualcuno "senza dio", uno che deve disfarsi di tutti gli idoli, sforzandosi di non rendere il proprio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappresenta qualcosa di veramente difficile. Quando si abbandona il Dio trascendente, ci si confeziona altri idoli: ragione, razza, rivoluzione, mercato ... Visto che non siamo Dio ma esseri di desiderio, abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le nostre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzatomi di ogni idolo, mi è rimasta la disponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibilità consiste in un’apertura all’incontro. Eraclito la definiva "l’attesa dell’inatteso", un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attraverso una moltitudine di testimoni: la "tradizione apostolica". Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fino a me».
Lorenzo Fazzini
Postato da: giacabi a 15:37 |
link | commenti
hadjadj fabrice
La tradizione è più moderna della modernità: Modernismo e senso religioso (di FABRICE HADJADJ).
pubblicata da Comiucap: Institutions Universitaires de Philosophie il giorno venerdì 4 marzo 2011 alle ore 15.33
La modernità dell'epoca di Péguy aveva ancora delle ambizioni umaniste. Ora tutto questo è finito. Il secolo trascorso tra l'epoca di Péguy e i nostri tempi ha posto le condizioni per una sparizione completa dell'umanesimo. Il fatto nuovo sta nella coscienza della finitezza non più individuale ma collettiva della specie umana. Il XX secolo, con Kolyma, Auschwitz e Hiroshima (adopero appositamente dei nomi propri perché i nomi comuni non sarebbero sufficienti a definire questi eventi), il XX secolo è stato allo stesso tempo l'era dell'apoteosi e poi della morte delle ideologie del progresso. Perché? Perché il progressismo è stato al potere e, invece di dare vita a una società più giusta, ha prodotto il totalitarismo. Quindi, come dice Rimbaud in Una stagione all'inferno: "A che serve un mondo moderno, se è per inventare veleni simili!". Se poi mettete al di sopra di queste catastrofi il darwinismo che ci spiega come l'umanità altro non sia che un bricolage dovuto alla casualità e alla competizione, diventa difficile credere nell'avvenire, nella storia e nella posterità.
È questo il motivo per cui noi assistiamo a una crisi della modernità e stiamo andando verso il post-umano. Un post-umano che può assumere tre forme: una tecnocratica, una teocratica e una ecologica.
Nel primo caso si tratta di creare un superuomo. Nel secondo caso si promuove un fondamentalismo che schiaccia la cultura umana, mentre nel terzo assistiamo a un ritorno alla cosiddetta Madre Natura. In ognuno di questi casi noi abbiamo perduto ogni speranza per l'uomo storico, colui che promuoveva la modernità. Non crediamo più nella continuità, nella cultura di lunga durata. La tecnocrazia, dal momento che esige l'efficienza, ci schiaccia immediatamente. La teocrazia ci proietta nell'aldilà. L'ambientalismo ci fa ritornare ai cicli naturali.
Questi tre errori si contrappongono l'uno agli altri, ma solo per farci cadere più facilmente in trappola. Denunciandone uno, si rischia sempre di cadere in un altro. È così che il demone gioca da tutti i lati della tavola di scopa.
Questa situazione nuova di crisi della modernità ha tuttavia alcuni vantaggi notevoli: sposta le barriere di un tempo. Il figlio della Chiesa e il partigiano dei Lumi possono diventare alleati di fronte a questa distruzione massiccia della cultura umana. Il moderno può ammettere che la tradizione cristiana aveva qualcosa di buono. D'altronde - e ve lo accenno solo al volo - la prima occorrenza conosciuta dell'aggettivo basso latino moderni si incontra nel V secolo e serve a designare i cristiani. Ecco perché abbiamo assistito in Francia a una certa difesa della storia e della tradizione da parte di intellettuali piuttosto di sinistra (Max Gallo, Régis Debray, Alain Finkielkraut, e così via).
Com'è possibile questa nuova alleanza? Potremmo spiegarla attraverso un semplice artificio logico e psicologico: di fronte al post-moderno, che rappresenta il nemico comune, i moderni e i sostenitori della tradizione formano un fronte comune.
Ma esiste una ragione più profonda, legata alla lingua. L'amore per le parole, il gusto del linguaggio, la certezza che non sia un mezzo di comunicazione ma un luogo di verità e comunione, uno spazio in cui il mondo si raccoglie e che quindi dobbiamo sforzarci di curare e parlare bene, è questo ciò che unisce antichi e moderni contro la com dei tecnocrati, le bombe dei teocrati e i nitriti dei fanatici ambientalisti. Il linguaggio ha questo di singolare: nella sua essenza è allo stesso tempo tradizionale e moderno. È tradizionale perché il linguaggio è sempre ricevuto: parlo perché qualcuno ha parlato a me e parlo una lingua il cui nome rimanda a una nazionalità e quindi a una comunità che esiste attraverso i tempi. Il linguaggio, però, è allo stesso tempo anche moderno, perché è attraverso di esso che si può dire "Io", che ci si può affermare qui e ora, che si può protestare, che si possono inventare forme nuove.
Noi non parliamo solo per ripetere, ma per cantare e dunque per variare, rinnovare, far risuonare il linguaggio in un modo nuovo. "Cantate al Signore un canto nuovo", dice il re David. Questa è l'essenza della parola: ci permette di sentire il comandamento antico e di cantare un canto nuovo, ed è ricevuta per poi essere nuovamente donata in maniera unica e personale.
Ciò che è precipuo di una vera novità è che non ha bisogno di rompere con ciò che la precede per affermarsi. Se fosse stata nuova solo per spirito d'avanguardia o di rottura, apparterrebbe a quella forma mutilata di modernità che chiamiamo "moda". La moda propone novità di rottura con ciò che precede.
Ecco perché queste novità diventano ben presto vecchiume: altre novità si affacciano all'orizzonte e la moda passa di moda. La novità mantiene la sua freschezza e la sua giovinezza non allontanandosi da ciò che la precede ma avvicinandosi alla fonte. Non è eccentrica: è originale. Questo vuol dire che non si allontana dal centro, che non cerca di trovare un posto soltanto in relazione a ciò che l'ha preceduta (che sia per prenderne le distanze oppure per avvicinarsene). La novità si volta verso l'origine.
Parlare in maniera davvero nuova, come ha fatto Dante per esempio, non vuol dire rompere ma mettersi in comunicazione con l'origine della parola, e questa origine risiede in un duplice silenzio: il silenzio della morte e il silenzio dell'Eterno. Tutti coloro che hanno parlato con una forza nuova, tutti coloro che hanno cantato un canto nuovo, sono stati capaci di mettersi tra l'angoscia davanti al silenzio della morte e la speranza davanti al silenzio dell'Eterno: hanno attraversato l'inferno e sono stati abbagliati dal paradiso. Resta il fatto che la modernità della lingua è secondaria a confronto con la sua tradizione. Occorre innanzitutto imparare le regole prima di poter giocare. Colui che attacca i propri genitori può farlo solo se li ha prima ascoltati e se è a loro che ancora si rivolge.
Eppure anche la tradizione della lingua è in funzione della sua modernità: l'apprendimento delle regole non è fine a se stesso, ma in funzione di una nuova partita da giocare. Noi non veniamo al mondo per ripetere ciò che ci hanno detto i nostri genitori, né tanto meno per insultarli, ma per dialogare con loro, per rispondere, per arricchire con la nostra melodia la grande corale della vita.
Questa struttura della parola, allo stesso tempo moderna e tradizionale, permette di comprendere la tesi di Romano Guardini in La fine dell'epoca moderna. Secondo Guardini la modernità ha essenzialmente ripreso alcune realtà colte dal cristianesimo per rivoltarle contro il cristianesimo stesso. Sulla base della rivelazione della dignità della persona si costruisce l'individualismo. Sulla base della verità del libero arbitrio si costruisce il liberalismo. Sulla base dell'esigenza della giustizia sociale si costruisce il socialismo, e via discorrendo.
La modernità riconosce un tal fiore evangelico, lo raccoglie e lo mette in un vaso. Il fiore viene addirittura valorizzato, tanto da sembrare persino più meraviglioso. L'isolamento gli dona una luminosità speciale, un profumo estasiante, tanto da far pensare che il fiore non abbia più niente a che vedere con le sue radici. La verità è invece che lo si condanna a marcire.
L'oblio può funzionare solo per un certo periodo di tempo, abbastanza perché il progressismo arrivi a mascherare di essere soltanto un sostituto della speranza teologale.
Ma cosa vediamo oggi? Ve l'ho detto: il crollo dei progressismi e, al contrario, la moda di un catastrofismo generalizzato, e quindi la crisi radicale della modernità. Sarebbe dovuta arrivare prima o poi, poiché tutte queste nozioni recise dalle loro radici e dal loro sole non possono fare altro che perdere a poco a poco la linfa vitale. Paradossalmente oggi la modernità può essere salvata solo facendo ricorso alla tradizione, e più specificamente alla tradizione ebraica e cristiana.
Le speranze mondane sono morte. È impossibile partire da queste e riuscire ancora a credere in una via d'uscita per l'umano. Ma la speranza teologale non può morire. Non dipende dall'avvenire: dipende dall'eterno. Ricordo sempre questo: quando mi avvertiranno che alla fine del mondo non manca che un solo anno, non rinuncerò ad amare mia moglie, ad avere con lei un altro bambino, a fare scoprire agli altri miei cinque figli la poesia di Dante... Perché so che questa vita non serve per avere un futuro ma perché ciascuno abbia la vita eterna.
Il modernismo, ossia la modernità che pretende di basarsi su se stessa, può quindi solo distruggere la modernità. È sempre spazzata via dal post-umano. Perché non si può giocare senza aver prima imparato le regole. In un attimo la protesta si spegne e lascia il posto al programma in codice o al verso dell'animale, perché siamo usciti dalla tradizione e dalla tradizione della parola. Da questo momento la modernità deve rivoltarsi contro il modernismo e la modernizzazione sistematica se vuole rimanere viva e umana. Deve ritrovare la sua tradizione, quella tradizione che riecheggia nel comandamento della Bibbia: "Cantate al Signore un canto nuovo".
La tradizione non è così contrapposta alla modernità quanto si potrebbe immaginare, poiché la tradizione non è né conservatorismo né fascinazione del passato storico.
Ciò che ha orientato verso la distruzione di ogni tradizione è stata proprio la conoscenza storica fine a se stessa: moltiplica le informazioni sul passato, ma solo per metterle in vetrina. Niente è più lontano dalla tradizione di un museo folkloristico. La verità è che la tradizione non consiste in una semplice trasmissione del sapere: è la trasmissione di un saper vivere.
Io posso conoscere con grande precisione tutto ciò che ha fatto Gesù e posso persino sapere la Bibbia a memoria; posso addirittura essere il curatore di un grande museo del cristianesimo. Ma questo rapporto col museo non è un rapporto con la tradizione: la cultura non ha a che fare con il culto. L'erudito conosce la tradizione alla perfezione, ma non vive nella tradizione.
L'anziana che prega Gesù vive nella tradizione, anche se conosce della tradizione quanto ne sa l'erudito. Nella tentazione di Gesù nel deserto, Satana cita a memoria il Deuteronomio, dimostrando di essere un esperto di esegesi storico-critica: vive nell'erudizione per evitare di entrare nella tradizione viva. D'altra parte la tradizione non è un conservatorismo. Un buon esempio ci è dato dal motu proprio di Giovanni Paolo II, Ecclesia Dei afflicta. Questo testo prende atto dello scisma provocato da monsignor Marcel Lefebvre e da quelli che chiamiamo "integralisti" o "tradizionalisti".
Qual è il principio di questo scisma? Non l'amore per la tradizione, dice Giovanni Paolo II, ma l'amore per il conservatorismo, ossia per una forma di conservazione che vuole mantenere tutto assolutamente intatto, e che dunque pietrifica invece di conservare in vita. Lo sapete bene: se volete conservare tutto di un essere vivente, non potete mantenerlo in vita e siete costretti a congelarlo. "La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della tradizione che - come ha insegnato chiaramente il concilio Vaticano II - progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo". Il tradizionalismo si contrappone alla tradizione perché uccide l'organismo vivente per divenire un adepto del fossile. La vera tradizione non consiste nel conservare tutto di ciò che si faceva ieri, ma nel trasmetterne l'essenziale. E per poterlo trasmettere occorre saper riconoscere i segni del tempo e quindi adattarsi a certe nuove condizioni di trasmissione. Josef Pieper scrive con forza: "Una coscienza autentica della tradizione ci rende liberi e indipendenti di fronte a coloro che pretendono di esserne i "guardiani". Può accadere che questi famosi "difensori della tradizione", proprio per il fatto che si limitano a forme storiche, ostacolino quella che invece è la vera e necessaria trasmissione (che non può avvenire se non con forme storiche mutevoli)".
La vera tradizione è una relazione viva col mistero, nella misura in cui questa relazione è ricevuta e trasmessa, come la parola e la vita, attraverso la parola e la vita, sin dall'origine. La tradizione è dunque più ancora che critica, perché è confronto con ciò che sfugge alla critica, con ciò che ci supera, con ciò che ci pone più interrogativi di quanti non ne poniamo noi, con ciò che ci chiama più di quanto noi sappiamo rispondere.
Anche in questo la tradizione è più moderna della modernità: è sempre avanti, nella misura in cui si basa sulla speranza; non si regge sul futuro prossimo, ma sull'eterno, e dunque su ciò che risorge persino dopo la fine dei tempi. In questo la tradizione è ancora più giovane della modernità, perché la tradizione presuppone che i padri siano anche e prima di tutto dei figli e quindi dei bambini: non hanno avuto l'iniziativa della parola, non hanno inventato la vita, l'hanno soprattutto ricevuta.
Il complesso di Edipo esiste solo fuori dalla tradizione. La rivolta dei Titani esiste solo fuori dalla tradizione. In seno alla tradizione il figlio non ha alcuna ragione di uccidere il padre perché scopre che suo padre è anche un figlio, che ogni originalità pura, ogni vero genio, è sempre filiale. Perché essere figlio dell'Eterno è infinitamente più grande che essere padre per un breve momento.
Lo scrive anche Josef Pieper a proposito della speranza: "La gioventù dell'uomo che aspira all'eterno è per sua natura indistruttibile. Non è esposta né all'invecchiamento né alla delusione".
(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2011)
Postato da: giacabi a 14:49 |
link | commenti
hadjadj fabrice
La purezza del diavolo
di Rodolfo Casadei
Intervista a Fabrice Hadjadj
Conosce alla perfezione le verità della dottrina cristiana e non ne dubita. È perfettamente casto e non ha mai commesso un peccato di lussuria in vita sua. Dona gratuitamente del suo senza esigere contropartite materiali. Eppure è il nemico assoluto di Dio e dell’uomo, menzognero, omicida e tessitore di inganni. È il diavolo, l’angelo ribelle. Questo ritratto geniale e sconcertante di Satana si trova nelle pagine di La fede dei demoni, l’ultimo libro di Fabrice Hadjadj tradotto in italiano (da Marietti).
Lo scrittore francese parte di qui per sviluppare una tesi suggestiva: l’ateismo e i peccati della carne, frutto dell’ignoranza e della debolezza umana, non sono i mali peggiori. Molto più gravi per le loro conseguenze sono gli spiritualissimi peccati propri del diavolo, soprattutto quando vengono compiuti dai cristiani: superbia, invidia, odio e disprezzo, vizi dello spirito, sono la base delle più grandi sciagure e di permanenti divisioni fra gli uomini. Per questo il diavolo li ispira continuamente. Dopo l’estate italiana dei giudizi sprezzanti distillati da tribune cristiane, delle gare di purezza e di sputtanamenti fra politici, difficile dare torto ad Hadjadj. Il quale indica anche la strategia per respingere l’assalto diabolico: affidarsi all’incarnazione, cioè alla carne di Cristo e alla carne di Maria, prefigurata nel Genesi come la donna che senza sforzo o paura schiaccia il serpente demoniaco sotto il proprio tallone. Contro ogni superbia, imparare da Maria l’apertura alla Grazia. Perché Maria è accoglienza della Parola di Dio che si fa carne, mentre il diavolo è il contrario dell’accoglienza. È orgoglioso, trae tutto da sé e non vuole ricevere.
Fabrice Hadjadj, il diavolo non è ateo, e perciò, lei dice, l’antitesi fondamentale non è quella fra teismo e ateismo, ma quella fra conoscenza e riconoscimento di Dio. Cosa vuol dire?
Anzitutto va notato che il primo riconoscimento di Gesù Cristo come figlio di Dio nel Vangelo non è quello di san Pietro o degli altri apostoli, ma dell’indemoniato di Cafarnao. Nella sinagoga di quella città un indemoniato incontra Gesù e il diavolo che possiede quell’uomo dice: «Io so chi sei tu, il Santo di Dio». Notare questo ci obbliga a rimetterci in discussione, perché forse non abbiamo le idee chiare sull’identità del nemico radicale e della natura della vera lotta: che non è quella contro l’ateo o il libertino, ma contro un’intelligentissima creatura spirituale. Un puro spirito, ovvero uno spirito impuro che è puro spirito. Pertanto non sarà appellandosi alla mera spiritualità che lo si potrà affrontare: quella è una specialità del demonio, che ha per progetto di ridurre il cristianesimo a uno spiritualismo. Lo scopo del mio libro non è soltanto di ricordare che la fede non è mera conoscenza, ma è riconoscimento che anima il cuore; è anche ricordare che la fede non è evasione in un mondo etereo, ma incarnazione. Dio ha voluto donarci la sua Grazia attraverso la carne, ed è nella carne e attraverso la carne che noi lo raggiungiamo. I grandi teologi ce l’hanno spiegato: il primo peccato del diavolo è stata l’invidia, scaturita dal fatto di sapere che il Verbo si sarebbe incarnato. Satana è inorridito all’idea che Colui che era spirito, e dunque aveva una connivenza speciale con gli angeli come lui, potesse farsi carne, e che gli angeli, puri spiriti, avrebbero dovuto adorare la carne, una carne umana.
Lei distingue fra la fede come dono di Grazia, che gli uomini sperimentano, e la fede come perspicacia dell’intelligenza naturale, che attribuisce ai demoni. In cosa sono differenti?
Gli angeli, compresi quelli caduti, hanno un’intelligenza più sviluppata della nostra. A loro i segni dell’agire di Cristo e della Chiesa sono sufficienti per ammettere che c’è qualcosa che viene da Dio. Per quanto attiene alla fede come dono di Dio, la fede che opera attraverso la carità, questa passa attraverso motivi di credibilità, perché l’atto di fede non annulla la ragione, non è un salto nell’assurdo. Ma i motivi ragionevoli non sono sufficienti a costringere l’intelligenza umana alla fede. L’uomo entra in essa attraverso una sorta d’umiltà, di abbandono. Al cuore della fede come dono c’è un atto di amore: non c’è semplicemente l’intelligenza che riconosce un fatto oggettivo, come nel caso dei demoni, ma un’intelligenza che chiama in causa il cuore e implica un atto di volontà. La volontà pone un atto di adesione, di fiducia, in una sorta di penombra. La fiducia, come ogni atto di amore, non si colloca né in piena luce né nelle tenebre, ma in una penombra. Nel Credo noi non diciamo: «Credo che Dio è così e cosà, è onnipotente e creatore». Noi diciamo: «Credo in Dio». Ed è l’“in” del modo accusativo del latino: «Credo in unum Deum». Cioè c’è un movimento per andare verso. Invece i demoni dicono: «Credo Deum», credo Dio. Cioè c’è l’intelligenza ma manca il cuore. E siccome è una fede prodotto delle sole forze del soggetto, è automaticamente orgogliosa. Lo si è visto a Cafarnao: il diavolo dice «io so chi se Tu». La prima parola è “io”.
Oggi succede un fatto curioso: la maggioranza della gente non crede nel diavolo come realtà teologica, ma allo stesso tempo è sedotta e intimorita dall’immagine della sua potenza. Film e telefilm propongono in continuazione il tema delle forze malefiche soprannaturali, e tanti si rivolgono a maghi e guaritori convinti di essere vittime di spiriti malvagi. Perché questa contraddizione?
Perché quando si abbandona il giusto rapporto con una realtà, immediatamente si manifestano due errori opposti. L’umanità è entrata nel razionalismo, ma il razionalismo non soddisfa il cuore umano. Di conseguenza si produce una reazione uguale e contraria: l’invasione dell’irrazionale. Il razionalismo ha detto: il Mistero è irrazionale, nessun rapporto con esso è possibile. La conseguenza è stata una reazione che instaura un rapporto ossessivo e anarchico con le forze delle tenebre. E che riconosce la potenza del diavolo, ma non la sua intelligenza: lo raffigura folcloristicamente come un caprone, lo associa ai sacrifici di animali. Ma il diavolo agisce più attraverso la sua intelligenza che attraverso la forza, la sua specialità è provocare due o più derive opposte, è orchestrare quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato “strutture di peccato”: peccati che non sono in rapporto con un’intenzione umana univoca, ma che si creano per l’opposizione di due o più parti. Pensiamo alla Spagna, dove la reazione alle stragi anticristiane è stato il fascismo e da lì tre anni di guerra civile. Pensiamo al trionfo del nulla in tivù: nessuno l’ha deciso a tavolino, eppure si ha l’impressione che qualcuno l’abbia orchestrato. Il fatto è che il diavolo distingue perfettamente l’errore dalla verità, e moltiplica coscientemente gli errori per giocarci. Noi invece, anche quando siamo nell’errore, crediamo di essere nella verità, e ci teniamo. Il diavolo non ci tiene, ed è per questo che è capace di manovrare e di creare strutture che ci spingono a commettere cose che vanno al di là delle nostre intenzioni coscienti.
Lei semina il dubbio anche riguardo a parole feticcio sia del cristianesimo che della modernità come “dono” e “amore”. Lei dice che donare è cosa buona solo a condizione che il dono non nuoccia a chi lo riceve, e che il valore dell’amore dipende dal valore di ciò che si ama. Dunque anche il dono e l’amore possono essere astuzie diaboliche?
A don Luigi Giussani veniva rimproverato di usare poco la parola “amore”, e lui rispondeva che nella nostra cultura era diventata una parola equivoca. Aveva ragione. Oggi viviamo in un’eresia dell’amore. Il primato dell’amore è un’invenzione cristiana, ma il diavolo distorce la cosa così: purché sia amore, tutto è legittimo. Se una donna si innamora di un boa constrictor e desidera sposarlo, fa bene, perché è amore. Nel nome dell’amore, si perde di vista l’oggettività dell’amore. Perché amare non è semplicemente avere dei sentimenti per l’altro, è anche volere il bene dell’altro. Quando amo io debbo chiedermi: “Qual è il bene per l’altro?”. Ciò che conta di più è questa oggettività.
E per quanto riguarda il dono?
Intorno al dono effettivamente si è installata tutta una retorica moderna, dovuta soprattutto alla realtà dell’economia capitalista, per cui il dono appare come un argine alla logica del mercato. Ora, non è il dono in quanto tale ad essere una cosa cattiva, ovviamente, ma la logica del “dono di sé”, perché al centro mette il “sé”. Il punto non è dare se stessi all’altro, il punto è il bene dell’altro. Non devo donare me stesso all’altro, devo ridonare l’altro a se stesso. E ciò implica il Bene. L’ha detto perfettamente Heidegger: «L’amore predispone uno spazio affinché l’altro possa donarsi all’altro, non solo a me che lo amo. E affinché possa essere se stesso, e non è se stesso se non nella sua relazione col bene». La seconda cosa che va sottolineata è che il dono non è mai principio in una creatura. Il proprio di una creatura è di ricevere prima di donare. La creatura non ha l’iniziativa del dono, ce l’ha il Creatore. Come si legge nella lettera di san Giacomo: «Dio ci ha amato per primo». Se si dimentica questo, il dono entra in una logica demoniaca. Il diavolo è uno che vuole dare senza dover ricevere. Accetta la natura con cui Dio l’ha creato, ma rifiuta la Grazia, perché vuole dare da se stesso, con le sue proprie forze. La sua è una posizione di ebrezza e di orgoglio: io non ricevo, io do da me stesso, senza bisogno della Grazia. Il peccato del diavolo e di quanti sono sotto la sua influenza è di voler fare il bene con le sole proprie forze e secondo i propri piani. Pensiamo ai totalitarismi: hanno cercato di dare all’umanità una società perfetta, ma a partire dai propri piani, senza considerare il carattere irriducibile dell’altro, la singolarità di ogni essere umano. Il totalitarismo consiste nel voler dare all’uomo tutto, ma a partire da una teoria, da un’ideologia, e dunque in maniera totalmente riduttiva e soffocante, come si è visto nella storia.
Lei considera due errori opposti di ispirazione diabolica anche la riduzione del cristianesimo a cristianità, cioè a istituzione secolare, e l’opzione di una Chiesa dei pochi e dei puri, che rinuncia programmaticamente a influire politicamente. Cosa bisognerebbe fare per non cadere nella duplice trappola?
Che i due errori siano diabolici si vede da una cosa: un cristianesimo politicamente realizzato cadrebbe nell’orgoglio di sé, così come il ripiegamento su di sé di una piccola Chiesa di gente pura che ha rinunciato al potere provocherebbe un settario orgoglio spirituale. E l’orgoglio, lo sappiamo, è un caratteristico peccato del diavolo. Nel primo caso, la riduzione del cristianesimo a istituzione secolare ci impedirebbe di donare veramente il nostro cuore, ridurrebbe il paradosso cristiano a slogan, trasformerebbe la vocazione a essere martiri in vocazione a essere signori. Nel secondo caso, l’accontentarci di una piccola Chiesa di puri farebbe di noi una setta che guarda la società dall’alto in basso con disprezzo, e che dimentica che Cristo non è venuto per i cristiani, ma per tutti gli uomini.
***
Il primo avversario della Chiesa non è l’ateo», perché Satana non dubita di Dio né della sua dottrina. Intervista a Fabrice Hadjadj
Conosce alla perfezione le verità della dottrina cristiana e non ne dubita. È perfettamente casto e non ha mai commesso un peccato di lussuria in vita sua. Dona gratuitamente del suo senza esigere contropartite materiali. Eppure è il nemico assoluto di Dio e dell’uomo, menzognero, omicida e tessitore di inganni. È il diavolo, l’angelo ribelle. Questo ritratto geniale e sconcertante di Satana si trova nelle pagine di La fede dei demoni, l’ultimo libro di Fabrice Hadjadj tradotto in italiano (da Marietti).
Lo scrittore francese parte di qui per sviluppare una tesi suggestiva: l’ateismo e i peccati della carne, frutto dell’ignoranza e della debolezza umana, non sono i mali peggiori. Molto più gravi per le loro conseguenze sono gli spiritualissimi peccati propri del diavolo, soprattutto quando vengono compiuti dai cristiani: superbia, invidia, odio e disprezzo, vizi dello spirito, sono la base delle più grandi sciagure e di permanenti divisioni fra gli uomini. Per questo il diavolo li ispira continuamente. Dopo l’estate italiana dei giudizi sprezzanti distillati da tribune cristiane, delle gare di purezza e di sputtanamenti fra politici, difficile dare torto ad Hadjadj. Il quale indica anche la strategia per respingere l’assalto diabolico: affidarsi all’incarnazione, cioè alla carne di Cristo e alla carne di Maria, prefigurata nel Genesi come la donna che senza sforzo o paura schiaccia il serpente demoniaco sotto il proprio tallone. Contro ogni superbia, imparare da Maria l’apertura alla Grazia. Perché Maria è accoglienza della Parola di Dio che si fa carne, mentre il diavolo è il contrario dell’accoglienza. È orgoglioso, trae tutto da sé e non vuole ricevere.
Fabrice Hadjadj, il diavolo non è ateo, e perciò, lei dice, l’antitesi fondamentale non è quella fra teismo e ateismo, ma quella fra conoscenza e riconoscimento di Dio. Cosa vuol dire?
Anzitutto va notato che il primo riconoscimento di Gesù Cristo come figlio di Dio nel Vangelo non è quello di san Pietro o degli altri apostoli, ma dell’indemoniato di Cafarnao. Nella sinagoga di quella città un indemoniato incontra Gesù e il diavolo che possiede quell’uomo dice: «Io so chi sei tu, il Santo di Dio». Notare questo ci obbliga a rimetterci in discussione, perché forse non abbiamo le idee chiare sull’identità del nemico radicale e della natura della vera lotta: che non è quella contro l’ateo o il libertino, ma contro un’intelligentissima creatura spirituale. Un puro spirito, ovvero uno spirito impuro che è puro spirito. Pertanto non sarà appellandosi alla mera spiritualità che lo si potrà affrontare: quella è una specialità del demonio, che ha per progetto di ridurre il cristianesimo a uno spiritualismo. Lo scopo del mio libro non è soltanto di ricordare che la fede non è mera conoscenza, ma è riconoscimento che anima il cuore; è anche ricordare che la fede non è evasione in un mondo etereo, ma incarnazione. Dio ha voluto donarci la sua Grazia attraverso la carne, ed è nella carne e attraverso la carne che noi lo raggiungiamo. I grandi teologi ce l’hanno spiegato: il primo peccato del diavolo è stata l’invidia, scaturita dal fatto di sapere che il Verbo si sarebbe incarnato. Satana è inorridito all’idea che Colui che era spirito, e dunque aveva una connivenza speciale con gli angeli come lui, potesse farsi carne, e che gli angeli, puri spiriti, avrebbero dovuto adorare la carne, una carne umana.
Lei distingue fra la fede come dono di Grazia, che gli uomini sperimentano, e la fede come perspicacia dell’intelligenza naturale, che attribuisce ai demoni. In cosa sono differenti?
Gli angeli, compresi quelli caduti, hanno un’intelligenza più sviluppata della nostra. A loro i segni dell’agire di Cristo e della Chiesa sono sufficienti per ammettere che c’è qualcosa che viene da Dio. Per quanto attiene alla fede come dono di Dio, la fede che opera attraverso la carità, questa passa attraverso motivi di credibilità, perché l’atto di fede non annulla la ragione, non è un salto nell’assurdo. Ma i motivi ragionevoli non sono sufficienti a costringere l’intelligenza umana alla fede. L’uomo entra in essa attraverso una sorta d’umiltà, di abbandono. Al cuore della fede come dono c’è un atto di amore: non c’è semplicemente l’intelligenza che riconosce un fatto oggettivo, come nel caso dei demoni, ma un’intelligenza che chiama in causa il cuore e implica un atto di volontà. La volontà pone un atto di adesione, di fiducia, in una sorta di penombra. La fiducia, come ogni atto di amore, non si colloca né in piena luce né nelle tenebre, ma in una penombra. Nel Credo noi non diciamo: «Credo che Dio è così e cosà, è onnipotente e creatore». Noi diciamo: «Credo in Dio». Ed è l’“in” del modo accusativo del latino: «Credo in unum Deum». Cioè c’è un movimento per andare verso. Invece i demoni dicono: «Credo Deum», credo Dio. Cioè c’è l’intelligenza ma manca il cuore. E siccome è una fede prodotto delle sole forze del soggetto, è automaticamente orgogliosa. Lo si è visto a Cafarnao: il diavolo dice «io so chi se Tu». La prima parola è “io”.
Oggi succede un fatto curioso: la maggioranza della gente non crede nel diavolo come realtà teologica, ma allo stesso tempo è sedotta e intimorita dall’immagine della sua potenza. Film e telefilm propongono in continuazione il tema delle forze malefiche soprannaturali, e tanti si rivolgono a maghi e guaritori convinti di essere vittime di spiriti malvagi. Perché questa contraddizione?
Perché quando si abbandona il giusto rapporto con una realtà, immediatamente si manifestano due errori opposti. L’umanità è entrata nel razionalismo, ma il razionalismo non soddisfa il cuore umano. Di conseguenza si produce una reazione uguale e contraria: l’invasione dell’irrazionale. Il razionalismo ha detto: il Mistero è irrazionale, nessun rapporto con esso è possibile. La conseguenza è stata una reazione che instaura un rapporto ossessivo e anarchico con le forze delle tenebre. E che riconosce la potenza del diavolo, ma non la sua intelligenza: lo raffigura folcloristicamente come un caprone, lo associa ai sacrifici di animali. Ma il diavolo agisce più attraverso la sua intelligenza che attraverso la forza, la sua specialità è provocare due o più derive opposte, è orchestrare quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato “strutture di peccato”: peccati che non sono in rapporto con un’intenzione umana univoca, ma che si creano per l’opposizione di due o più parti. Pensiamo alla Spagna, dove la reazione alle stragi anticristiane è stato il fascismo e da lì tre anni di guerra civile. Pensiamo al trionfo del nulla in tivù: nessuno l’ha deciso a tavolino, eppure si ha l’impressione che qualcuno l’abbia orchestrato. Il fatto è che il diavolo distingue perfettamente l’errore dalla verità, e moltiplica coscientemente gli errori per giocarci. Noi invece, anche quando siamo nell’errore, crediamo di essere nella verità, e ci teniamo. Il diavolo non ci tiene, ed è per questo che è capace di manovrare e di creare strutture che ci spingono a commettere cose che vanno al di là delle nostre intenzioni coscienti.
Lei semina il dubbio anche riguardo a parole feticcio sia del cristianesimo che della modernità come “dono” e “amore”. Lei dice che donare è cosa buona solo a condizione che il dono non nuoccia a chi lo riceve, e che il valore dell’amore dipende dal valore di ciò che si ama. Dunque anche il dono e l’amore possono essere astuzie diaboliche?
A don Luigi Giussani veniva rimproverato di usare poco la parola “amore”, e lui rispondeva che nella nostra cultura era diventata una parola equivoca. Aveva ragione. Oggi viviamo in un’eresia dell’amore. Il primato dell’amore è un’invenzione cristiana, ma il diavolo distorce la cosa così: purché sia amore, tutto è legittimo. Se una donna si innamora di un boa constrictor e desidera sposarlo, fa bene, perché è amore. Nel nome dell’amore, si perde di vista l’oggettività dell’amore. Perché amare non è semplicemente avere dei sentimenti per l’altro, è anche volere il bene dell’altro. Quando amo io debbo chiedermi: “Qual è il bene per l’altro?”. Ciò che conta di più è questa oggettività.
E per quanto riguarda il dono?
Intorno al dono effettivamente si è installata tutta una retorica moderna, dovuta soprattutto alla realtà dell’economia capitalista, per cui il dono appare come un argine alla logica del mercato. Ora, non è il dono in quanto tale ad essere una cosa cattiva, ovviamente, ma la logica del “dono di sé”, perché al centro mette il “sé”. Il punto non è dare se stessi all’altro, il punto è il bene dell’altro. Non devo donare me stesso all’altro, devo ridonare l’altro a se stesso. E ciò implica il Bene. L’ha detto perfettamente Heidegger: «L’amore predispone uno spazio affinché l’altro possa donarsi all’altro, non solo a me che lo amo. E affinché possa essere se stesso, e non è se stesso se non nella sua relazione col bene». La seconda cosa che va sottolineata è che il dono non è mai principio in una creatura. Il proprio di una creatura è di ricevere prima di donare. La creatura non ha l’iniziativa del dono, ce l’ha il Creatore. Come si legge nella lettera di san Giacomo: «Dio ci ha amato per primo». Se si dimentica questo, il dono entra in una logica demoniaca. Il diavolo è uno che vuole dare senza dover ricevere. Accetta la natura con cui Dio l’ha creato, ma rifiuta la Grazia, perché vuole dare da se stesso, con le sue proprie forze. La sua è una posizione di ebrezza e di orgoglio: io non ricevo, io do da me stesso, senza bisogno della Grazia. Il peccato del diavolo e di quanti sono sotto la sua influenza è di voler fare il bene con le sole proprie forze e secondo i propri piani. Pensiamo ai totalitarismi: hanno cercato di dare all’umanità una società perfetta, ma a partire dai propri piani, senza considerare il carattere irriducibile dell’altro, la singolarità di ogni essere umano. Il totalitarismo consiste nel voler dare all’uomo tutto, ma a partire da una teoria, da un’ideologia, e dunque in maniera totalmente riduttiva e soffocante, come si è visto nella storia.
Lei considera due errori opposti di ispirazione diabolica anche la riduzione del cristianesimo a cristianità, cioè a istituzione secolare, e l’opzione di una Chiesa dei pochi e dei puri, che rinuncia programmaticamente a influire politicamente. Cosa bisognerebbe fare per non cadere nella duplice trappola?
Che i due errori siano diabolici si vede da una cosa: un cristianesimo politicamente realizzato cadrebbe nell’orgoglio di sé, così come il ripiegamento su di sé di una piccola Chiesa di gente pura che ha rinunciato al potere provocherebbe un settario orgoglio spirituale. E l’orgoglio, lo sappiamo, è un caratteristico peccato del diavolo. Nel primo caso, la riduzione del cristianesimo a istituzione secolare ci impedirebbe di donare veramente il nostro cuore, ridurrebbe il paradosso cristiano a slogan, trasformerebbe la vocazione a essere martiri in vocazione a essere signori. Nel secondo caso, l’accontentarci di una piccola Chiesa di puri farebbe di noi una setta che guarda la società dall’alto in basso con disprezzo, e che dimentica che Cristo non è venuto per i cristiani, ma per tutti gli uomini.
Postato da: giacabi a 12:16 |
link | commenti
heidegger, amore, hadjadj fabrice
MEETING/ Hadjadj: Ecco perché il nostro "terribile" desiderio di felicità non è vano
***
INT.
Fabrice Hadjadj
sabato 28 agosto 2010
«Basta
premere la mano contro la propria gola e sentire la pulsazione del
sangue nelle nostre arterie. È il segno che la nostra vita deve divenire
come un fiume: entrare in rapporto con la sorgente tramite tutti i
ruscelli della nostra storia e sgorgare senza posa in offerta». In
questa lunga intervista il filosofo francese Fabrice Hadjadj, oggi al
Meeting Rimini per presentare il libro di don Luigi Giussani L’io rinasce in un incontro, parla con il sussidiario del cuore umano, continuamente in bilico tra l’assurdo e la grazia.
“Quella
natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Secondo lei,
in che senso il titolo del Meeting di quest’anno è una sfida per i
nostri giorni?
La sfida è riconoscere in sé un desiderio che non viene da sé.
È molto sorprendente il cuore, soprattutto per un individualista. Non
parlo a livello spirituale o sentimentale. Parlo proprio del miocardio.
Abbiamo in noi questo organo che batte un tempo che non abbiamo deciso
noi, una specie di direttore d’orchestra al quale è attaccata tutta la
nostra vita fisiologica. Si tratta di ossigenare il nostro sangue
certamente, il che associa il cuore alla respirazione, il “poema della
respirazione”, dice Rilke, poiché l’inspirazione e l’espirazione ci
elargiscono questo insegnamento ammirabile: la vita non sta
nell’indipendenza, nell’isolamento, nell’autonomia, sta in un movimento
(un teologo direbbe in una “pericoresi”) dove non si finisce mai di
ricevere e di donare. Ecco immediatamente ridotte a nulla tutte le
pretese d’indipendenza!
Don Giussani dice che il semplice fatto che il nostro cuore esiste è una provocazione.
Ha
perfettamente ragione. Basta premere la mano contro la propria gola e
sentire la pulsazione del sangue nelle nostre arterie. È il segno che la
nostra vita deve divenire come un fiume: entrare in rapporto con la
sorgente tramite tutti i ruscelli della nostra storia e sgorgare senza
posa in offerta. La promessa si trova del resto in Isaia: Ecco, io dirigerò la pace verso di lei come un fiume (Is 66, 12). E anche nel Vangelo: Chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo cuore
(Gv 7, 38). Certamente questa promessa può fare paura. Certuni
preferiscono ridursi ai loro piccoli bidoni di acqua stagnante. In ogni
caso, ciò che è certo è che il cristianesimo non è una serie di norme
soffocanti, è al contrario il “desiderio di cose grandi”, talmente
grandi che superano la capacità umana. Per accoglierle bisogna accettare
di essere dilatati, di essere persino squarciati.
È proprio necessario richiamare la “natura” per definire il cuore dell’uomo?
Il
termine “natura” viene da “nascere”. Esser nato è aver ricevuto
l’esistenza e quindi non essere l’origine del proprio essere. Avere
una natura è aver ricevuto alla nascita una certa struttura di
esistenza, un dinamismo, una tendenza che è in me e di cui non sono
l’artefice. Ritroviamo quanto abbiamo detto del cuore: il centro del mio
essere non è sotto il mio controllo, ciò che ho di più intimo mi
rimanda ad un altro che non sono io. Io
mi sveglio con i miei desideri: bere un caffè, sfogliare il giornale,
guadagnare più soldi, baciare Caterina Murino, ma ecco, c’è in me anche
un’altra cosa, questo terribile desiderio di felicità.
Perché lo chiama “terribile”?
I
soldi possono darmi la felicità? Può farlo Caterina? Se questo
desiderio di felicità non trova vie d’uscita, finisce per farmi
distruggere la cosa che avevo inizialmente desiderato: siccome questa
cosa non è la “cosa grande”, glielo rinfaccio e la getto via. Oppure
distrugge me stesso: siccome mi accontento di cose piccole,
accordo loro un valore che non hanno e soffoco il mio cuore. Attenzione,
non voglio dire che Caterina Murino, creata ad immagine di Dio (e che
immagine!), sia una cosa piccola. Ma per potere essere in accordo con il
mio cuore, bisognerebbe che Caterina fosse piena di grazia, di verità,
di eternità persino (come la sua fragile bellezza mi lascia
intravedere). Bisognerebbe che Caterina fosse divina. Non posso farci
niente. È nella mia natura (nella natura di ogni uomo per poco che
ascolti un pochino il proprio cuore). Dante l’ha capito molto bene. C’è
in noi il desiderio della Cosa Grande che è Dio stesso. Ma questo
desiderio di Dio non deve portarci a disprezzare le creature
(disprezzare le creature sarebbe necessariamente disprezzare il loro
Creatore). Al contrario:
il desiderio di Dio ci fa desiderare la divinizzazione delle creature.
Pertanto desiderare “cose grandi” non significa respingere una Beatrice
nana, né fantasticare di una Beatrice di due metri e quaranta, bensí
desiderare una Beatrice tale “che Dio parea nel suo volto gioire” (Paradiso XXVII, 105).
Oggigiorno
siamo convinti che le idee “forti” non hanno alcun diritto o potere su
di noi. Al meglio, se esse ne hanno su qualcuno, questo è riservato
all’ambito privato, non al pubblico. È lo stesso anche per il
cristianesimo? Deve esso limitare la sua “pretesa” sull’uomo?
Affermare
che le idee forti non hanno alcun potere su di noi, ecco qui un’idea, e
una idea debole. L’uomo non è un animale governato dagli istinti. Ciò
che per l’uomo gioca il ruolo dell’istinto è la sua ragione. Egli è
cioè sempre orientato da idee, buone o cattive, idee di tutte le
fattezze (e di tutte le contraffazioni). L’uomo inizia pertanto sempre
con l’essere un ideologo (almeno dopo il peccato originale). Utilizza
termini astratti. Ad esempio dice “va bene”. Così, in una conversazione
qualsiasi. Ma “va bene” è qualcosa d’astratto ed enorme, è una
questione immensa nella sua bocca e non se ne rende conto perché è un
ideologo. Di fatto, dovrebbe uscire dall’ideologia ed andare verso la
realtà, cioè domandarsi: cosa è veramente, realmente, “bene”? Si tratta
semplicemente di prendere coscienza delle parole che sono già lì, sulla
nostra lingua, tra le nostre parole più quotidiane e riscoprire il loro
peso concreto.
Qual è questo peso?
Don Giussani amava ripetere queste parole del salmista: Sei tu, Signore, l’unico mio bene (Sal 16, 2). Questa è concretezza per quanto se ne dica! Ciò traccia un cammino, afferma concretamente in cosa consiste il mio bene,
e mi conduce ad atti che impegnano la mia vita. Ma questa parola
possiede anche qualcosa d’esorbitante. È la ragione per cui don Giussani
aggiungeva: “Una frase così carica e così perentoria, così definitiva e
totalizzante, chi la può ripetere?” (L’io rinasce in un incontro, p. 59).
E per quanto riguarda la sfera privata, che gode di un diritto assoluto?
Per
quanto concerne le “convinzioni private”, si tratta di un’invenzione
borghese: il piccolo possidente vuole affermare che possiede una
proprietà che è proprio sua e che non appartiene a nessun altro. Ma,
allo stesso tempo, finisce per rendersene conto: questa proprietà è
morta se egli non ci accoglie nessuno. Ogni
spazio privato si realizza solamente nell’ospitalità. E così diventa
pubblico. Al contrario, prendete un giardino pubblico: esso assume tutto
il suo valore quando, ad esempio, siete con una ragazza seduti su una
panchina, o con un vecchio amico, in una conversazione intima. Ogni
spazio pubblico si realizza solo nell’incontro tra persone. E così
diventa privato. Riporto questi esempi per mostrare che la
separazione pubblico/privato è una finzione molto artificiale. È
letteralmente una mutilazione poiché tale finzione dichiara: ciò che
avete nel vostro cuore non dovete gridarlo nelle piazze. Ma se non c’è
più comunicazione tra il vostro cuore e le vostre parole, non siete più
un uomo. Siete una carpa. Ed abboccate a tutti gli ami.
Lei
ha scritto che la pretesa cristiana è di “prendere il potere sul tuo
cuore, cioè conquistarti senza ledere né la tua intelligenza, né la tua
volontà ma, al contrario, di rinforzarle”. Come possiamo vivere la
“pretesa” totale della verità incontrata senza rinunciare a noi stessi?
La
risposta si trova nella sua domanda: non c’è incontro che se ci sono
due esseri ben distinti. Allora, incontrare la verità non è
un’alienazione ma un compimento. Se le dico: “Dio vuole tutto di te”,
lei si spaventerà perché comparerà il desiderio di Dio al suo, e il suo è
stretto, possessivo, riduttivo. Ma le ripeto quanto ho detto: “Dio
vuole tutto di te”, sottolineo, “tutto di te”, cioè te stesso
completamente, senza mutilazioni, senza diminuzioni, senza alienazione, e
dunque te stesso con la tua anima e il tuo corpo, con la tua
intelligenza e la tua volontà, con tutta la tua libertà, e persino con
una libertà infinitamente più alta, perché sbarazzata da tutto ciò che
ti è di ingombro. Ciò ci riconduce alle parole del salmo che si canta ai
vespri della domenica: Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: domina fino al cuore dei tuoi nemici
(Sal 109, 2). Se forzo il nemico, se lo piego con una anche piccola
seduzione psicologica, dominerò forse il suo corpo, ma non il suo cuore.
Dominare
fino al cuore è la pretesa più terribile e allo stesso tempo
l’intenzione più dolce. Perché non ci sono altri mezzi per dominare fino
al cuore che di farsi amare liberamente ed intelligentemente, ossia
rispondendo alle “esigenze del cuore”. Il catechismo della Chiesa
cattolica lo dice chiaramente: “Vivere in cielo è essere con Cristo. Gli
eletti vivono in lui, ma conservando, anzi, trovando la loro vera
identità, il loro proprio nome” (Catechismo, §1025). Perché questo? Perché “l’io nasce e rinasce in un incontro”. Perché io sono me stesso solo nella mia relazione con il mio Creatore e, tramite lui, con le altre creature. Essere originale non è fare l’eccentrico. È volgersi verso l’origine e vivere nel suo zampillio sorgivo.
La
meraviglia sembra essere la dimensione più adeguata alla forma
originale della nostra ragione. Come possiamo ritrovare questa
dimensione per salvare la ragione?
La
grandezza dell’intelligenza è effettivamente quella di saper sentirsi
stupida. Attenzione: sentirsi stupida non significa essere stupida.
Infatti, colui che è veramente stupido è al contrario colui che crede di
sapere tutto, che ha risposte per tutto. Chi si sente stupido si mette in ascolto ed impara. Un proverbio ebraico dice: “Chi è saggio? Chi sa imparare da ogni cosa”.
C’è quindi un legame tra stupore e stupidità. È qui - stupendosi,
sentendosi stupida - che la ragione si apre a quanto la supera, a ciò
che è incontro vivo, che è al di là del calcolo (ma non disprezziamo il
calcolo, questa capacità di soppesare il reale che è anch’essa un
mistero - dobbiamo solamente sottomettere il calcolo alla lode, come
nella musica). Il problema non è quindi come fare per riscoprire questa
dimensione.
Perché dice questo?
Perché
non si tratta di fare. Se ci limitiamo al “fare”, rimaniamo nell’ambito
del nostro potere, delle nostre capacità, e ci si chiude allo stupore.
Non si tratta di fare, ma di essere. L’essere è infatti, in fondo,
stupore. Per rendersene conto bisogna sapersi abbandonare al riposo,
vivere - almeno un giorno alla settimana, un momento nella giornata - la
benedizione del shabbat, che si potrebbe anche chiamare la nostra
essenza domenicale. Fermate tutto (Fermatevi! Sappiate che io sono Dio,
dice il salmo 45) e guardate un fiore, un paesaggio, ascoltate un
quartetto di Mozart (o di Haydn), contemplate il volto di un bambino…
Ammirate persino una bottiglia, una semplice bottiglia, come sa
ammirarla Morandi, non con una genialità speciale, ma con un ampio
respiro, con il cuore aperto e disponibile (il che è ancor meglio della
genialità), ed ecco apparire il mistero, l’incomprensibilità della
presenza di questa bottiglia… Anche la bottiglia più piccola è una
bottiglia gettata in mare, che nasconde un messaggio del creatore di
tutte le cose.
L’anno scorso lei ha concluso la sua intervista al sussidiario
con queste parole: “Occorre che l’azione inizi con un gesto di
gratuità. Se questa gratuità non è presente, non sarò mai nella
direzione dell’essere”. Da dove può venire questa gratuità?
Non mi ricordo d’averlo detto. Forse perché era proprio un “gesto di gratuità”… La
gratuità può avere due sensi. C’è la gratuità dell’assurdo. E c’è la
gratuità della grazia. Tutto ciò che facciamo, tutti i nostri calcoli,
tutti i nostri progetti, devono sfociare nell’una o nell’altra di queste
gratuità. Hai trovato un buon lavoro, e poi? Sposi una donna, e poi?
Hai dei bambini, e poi? O non c’è nessun senso, e ti ritrovi nella
gratuità dell’assurdo. Oppure tutto ciò ha il senso d’un amore, un amore
che dà la vita, e ti ritrovi nella gratuità della grazia. O l’una o
l’altra. Ma prima ancora di capire la gratuità riguardo alla finalità
dell’esistenza, essa può essere capita a partire dalla sua stessa
presenza: come è possibile che io sia qui? Da dove mi arriva questo
dono? È un regalo avvelenato? Anche qui: o riconosco la grazia di
essere, oppure trovo assurda l’esistenza (ma in quest’ultimo caso mi
contraddico, perché sfrutto l’esistenza per disprezzare l’esistenza -
questa è la mia propria assurdità). Il
rendimento di grazie è il fondamento di ogni azione perché, se non
riconosco la grazia di essere, allora tutto quanto potrò fare sarà
dell’ordine del disprezzo dell’essere, del regressione, della negazione.
Questo potrà assumere un’apparenza umanistica, presentarsi come
un’utopia di società perfetta; in verità, giacché non vedo l’esistenza
come una grazia, quest’utopia sarà il trionfo del nulla: il suo
fondamento sarà il risentimento. Sotto pretesto di costruire un
superuomo o una super-società, l’impresa sarebbe la distruzione della
società e dell’uomo.
Lei presenterà il libro di don Giussani L’io rinasce in un incontro. Cosa le ha suggerito la lettura di questo libro? Condivide la scelta del titolo?
Sapete,
se io ho incontrato la gente di Cl è stato perché quelle persone hanno
trovato delle affinità tra il mio modo di porre le questioni e quello di
don Giussani. Io non lo conoscevo per nulla soltanto due anni fa. Poi
mi hanno chiesto di fare una presentazione a Parigi del libro Si può vivere così? (era
l’aprile 2009). In quel momento ho potuto sperimentare quell’affinità
di pensiero. Quello fu un vero incontro, per l’appunto. Mi colpì la
semplicità, la forza, la tangibilità concreta delle sue parole. Così, la
lettura di L’io rinasce in un incontro è stata la continuazione
della stessa onda. Ogni volta che leggo don Giussani non è che trovi
delle nuove idee, perché abbiamo lo stesso radicamento in san Tommaso e
la poesia e soprattutto (io questo lo devo al teatro) un senso analogo
del dramma. No, quello che io trovo, cosa che è molto meglio, è la
novità delle idee che io possiedo già, una sorta di energia, di slancio
missionario, di spinta nel comunicarle e nel viverle nella
«drammaticità e la letizia…». Quanto al titolo del libro, ha la sua
evidenza. Un’evidenza che si immerge nelle profondità di Dio. Cosa
sappiamo noi di quelle profondità? Dio è Trinità. Egli è unico in tre
Persone. Il padre genera il Figlio nella comunione con lo Spirito. Così
che Dio stesso è eternamente nascita e incontro. Una nascita ed un
incontro infinito….
Postato da: giacabi a 08:46 |
link | commenti
hadjadj fabrice
IL PARADISO CHE VI FA PAURA
***
Il filosofo Hadjadj spiega che, più del peccato, il male è la saccente indifferenza. Contro - idee sulla pedofiliaFabrice Hadjadj non ha niente del bigotto. Scrittore, saggista, filosofo impenitente della mistica della carne, della violenza della fede, è convinto che viviamo in una società antisessuale, dove il sesso è ridotto a un fatto di consumo, e pensa che per rifondare la sessualità serva la fede, anzi la vera fede, la fede nel Dio fatto uomo, e nell’amore cristiano. Hadjadj si dichiara un “ebreo di nome arabo e di confessione cattolica”. E’ un quarantenne che viene da una famiglia di ebrei tunisini: suo padre, maoista militante in gioventù, visse l’arrivo in Francia all’insegna della ribellione contro il patriarcalismo della comunità d’origine. Il figlio, ragazzo esemplare, ne ha voluto seguire le orme, ma in modo paradossale: converten- dosi al cristianesimo dopo essersi impregnato degli ideali politici rivolu zionari e di quegli estetico-letterari dei grandi nichilisti, come Friedrich Nietzsche e Georges Bataille. Da allora è diventato cattolico: credente, osservante, praticante, purificato dalla fede in Cristo e devoto sino al punto da andare a messa in un semplice po- meriggio di giovedì sfidando il deserto spirituale del Quartiere Latino per celebrare il mistero dell’Annunciazione. Dopo la conversione al cristianesimo, Hadjadj ha sposato una ra- gazza del Midi, un’attrice che recita volentieri le sue pièces di teatro, gli ha dato quattro figlie e ora aspetta il quinto: “Elles sont l’ostensoir de Dieu dans ma vie”, scrive Hadjadj nel suo ultimo libro, “sono loro, molto più che i miei libri, il mio vero cammino di fede”. E che sia convinto lo si vede dal- la luce che gli brilla negli occhi appena lei lo raggiunge in un bar dell’Odéon.
Hadjadj è un padre felice, che par- la senza riserve dell’esperienza della gioia che si dischiude come un regalo inatteso ogni volta che la figlia Marthe gli sorride. “E’ una bambina solare, piena di energia” dice lo scrittore sorseggiando un caffè. “Per me è un’esperienza nuova, che sto impa- rando a poco a poco”, confessa, e di sicuro dev’essere anche molto coinvolgente se Hadjadj ha deciso di dedicarle un saggio ad hoc, dopo il successo di “La profondeur des sexes pour une mystique de la chair”, uscito da Seuil nel 2008 e da poco tradotto in italiano dalle Edizioni Medusa (“Mistica della carne”). Considerato una delle duecento personalità cattoliche più influenti di Francia, il professor Hadjadj (che oltre a scrivere per il teatro insegna in un liceo di Tolone) ha vinto nel 2010 il premio del Sindacato degli editori di letteratura religiosa per un libro semiautobiografico sul tema della conversione, “La Foi des démons ou l’athéisme dé- passé”(Editions Salvator), in cui la testimonianza del neofita traduce la novità teologica della dottrina cristiana – una fede che presuppone l’amore e l’abbandono – e identifica il vero nemico non nell’ateo che nega l’esistenza di Dio o la divinità di Gesù Cristo, ma nell’indifferente apatico. Cioè in colui che, pur proclamandosi fedele, ha smesso di cercare la verità, nel “cristiano demoniaco” che apre la possibilità di perdizione nel cuore stesso del cristianesimo: “Il principio radicale della colpa non è nell’ignoranza atea o nella debolezza della carne, non spetta né ai libertini né ai lussuriosi, ma agli stessi credenti, ai puri spiriti, ai farisei capaci di perfezione demoniaca, in nome della loro fede orgogliosa, sicura della propria salvezza e sprezzante verso gli altri peccatori”.
Dopo l’inferno, Hadjadj adesso pensa al paradiso. “Le paradis à la porte” è il suo nuovo libro, atteso per l’autunno, un saggio teologico e critico al tempo stesso, in cui si parla di Kafka, Proust, Baudelaire, Yves Bonefoy. Hadjadj è partito da una domanda semplicissima: perché rifiutiamo il paradiso e preferiamo l’inferno? “Il diavolo rifiuta il paradiso non perché non sappia cosa sia, ma perché nella gioia c’è qualcosa che disturba. La gioia rompe la contentezza, aprendo una ferita radicale. Meglio ripiegarsi in se stesso, allora, restando entro i limiti della contentezza. Un uomo contento di sé è quasi un insulto in francese, eppure l’espressione fa proseliti, perché la gioia del paradiso è lacerante”.
Proust, spiega Hadjadj, racconta l’incapacità di un’esperienza di presenza totale nel presente. Bisogna aver perso il presente, per trovare la presenza delle cose. “I veri paradisi sono tutti paradisi perduti, tant’è vero che solo con la parola e la memoria ciò che ho vissuto diventa presente in una realtà spirituale superiore”. Questa è la lezione della “Recherche”. Ma la letteratura è un fallimento, simula una presenza più intensa, però finisce a sua volta per fallire perché astratta, parziale, soggettiva,
tanto che per Proust il letterato migliore è colui che coglie la relatività della letteratura. Per spiegare tutto questo, Hadjadj cita la scena del primo bacio a Albertine, nel “Côté des Guermantes”, dove il narratore descrive la frammentazione dell’esperienza, la confusione tra la pelle, la bocca, la lingua, il paesaggio marino di Balbec, e spiega che l’uomo, pur essendo superiore alla scimmia, non ha sviluppato l’organo del bacio.
Nella galleria di Hadjadj c’è anche posto per Kafka, che parla esplicitamente di paradiso, come accade attraverso la parabola della legge nel “Processo”. Lì c’è un uomo che vuole entrare in questa legge radicalmente trascendente, e un guardiano che gli dice che non può farlo, non può varcare quella porta. “L’uomo che pure è un po’ perverso resta al suo posto e al- la fine viene condannato a morte, ma
prima di morire, insiste: avrei dovuto varcare la porta delle legge, ma non ho potuto, e che è successo a quelli che ci sono riusciti? ‘Questa porta è solo per te’, gli risponde il guardiano, prima di chiuderla e condannarlo a morte. Kafka non vuol dire che il paradiso non esiste, ma descrive l’esperienza lacerante del restare sulla so- glia, che presuppone la realtà della trascendenza e al tempo stesso il suo carattere inaccessibile”.
Perfetta metafora dell’uomo moderno? “Sì”, ammette Hadjadj, con “la differenza che l’inaccessibilità per Kakfa non è agnostica, ma è vissuta come qualcosa che ci chiama in continuazione, che ci tiene in allerta per una convocazione permanente e senza scampo. Certo, poi c’è anche l’altro esempio – in ‘America’ – dell’ingresso in paradiso come ingresso nella banalità. Ma l’essenza della scrittura, diceva Kafka, è la preghiera e la preghiera consiste proprio nell’e- sercizio della soglia, perché risponde alla posizione della parola che chiede qualcosa che essa stessa non può raggiungere”.
Da Kafka a Dante il passo è breve, anche se all’apparenza inconsueto. Hadjadj cita dal quinto canto dell’Inferno la storia di Paolo e Francesca che, presi dalle avventure di Lancillotto e Ginevra, si lasciano conquistare dall’amore e non lessero oltre: “La bocca mi baciò tutto tremante (…) quel giorno più non vi leggemmo avante”. Lo stesso errore, non leggere oltre, secondo Hadjadj avviene per chi si ferma all’Inferno senza leggere il Purgatorio, a dir suo “chiave di volta della Divina Commedia, per- ché tutto il percorso di Dante è un Purgatorio, la discesa agli inferi è una purificazione, mentre il Paradiso è la cantica sua più eccessiva, con la violenza della beatitudine di Bea- trice che (canto XXIV ndr) l’ammoni- sce: se tu vedessi il mio volto, saresti cenere, se tu sentissi il nostro canto,
saresti annientato…”. Se questo è “il paradiso” che Hadjadj ha in mente, un luogo di beatitudine violenta, di vocazioni irraggiungibili, di trascendenza inaccessibile, corrisponde benissimo alle lacerazioni dell’uomo contemporaneo, conscio di un senso che lo soverchia, ma ormai per lui inattingibile. Come leggere allora la nostra indifferenza verso la trascendenza? E quale eco ritrovare nelle polemiche sulla pedofilia, che molti interpretano come un attacco contro l’ultimo baluardo della vita spirituale e un tentativo di strappare la chiesa alla sua gloria, per gettarla nel fango delle umane miserie? “Le questioni sono due” risponde Hadjadj, che resta sempre un sistematico. “La prima è quella del paradiso. Ed è un problema impossibile da schivare, perché se rifiuto il paradiso di Dio, non posso evitare di costruirmene un altro, e così arriviamo ai paradisi artificiali di Baudelaire. Non possiamo sfuggire alla sua vocazione, e se pretendiamo di uscirne, finiamo per costruirne un ersatz, un sostituto. La seconda questione è la pedofilia. L’uomo contemporaneo nega la trascendenza, è vero. Oggi però il problema è un altro, lo si è visto col caso Polanski e in Francia soprattutto col caso di Outreau, l’intero villaggio del profondo nord accusato di pedofilia; un’accusa diventata un fenomeno di massa che travalica la chiesa. E’ considerato un reato orribile e anzi, alcuni autori ci hanno spiegato che provoca una sorta di panico morale, che impedisce di riflettere spingendo la gente a lanciare accuse, a inchiodare i presunti responsabili sul banco degli imputati, a linciarli mediaticamente. Ma prima di parlare di in- differenza verso la metafisica, io mi domando perché di fronte a un reato grave come la pedofilia viviamo questa situazione di panico diffuso? Perché questa risposta emotiva?”. La risposta? “Ci sono due risposte possibili”, dica: “La prima è la psicologia dell’irremissibile: vale a dire, una violenza subita da piccoli è un trauma che distrugge per sempre. Infliggere una sevizia sessuale su un bambino è peggio che l’infanticidio, perché significa devastare una psiche. Gli psicologi parlano di resilienza, per dire remissione: si tratta di un perdono vero e proprio, che permette a chi ha subito una violenza di vedere la ferita convertirsi in cammino. E’ questo, del resto, il mistero della passione di Cristo, con la piaga della crocifissione che diventa luminosa: in altri termini, non si tratta di cancellare il dramma che si è vissuto, ma di farlo diventare luce”.
Eppure, il panico diffuso non si può interpretare solo in chiave teologica. “No, infatti la causa vera sta nella nostra concezione della società che non offre più argomenti razionali per condannare la pedofilia”. Addirittura? “La nostra concezione della società si fonda infatti sul contratto sociale: perciò, la comunità naturale, le famiglie, i legami intragenerazionali, la tradizione non hanno più senso. Esiste infatti solo l’individuo ‘senza qualità’, che entra in società attraverso la libertà di un contratto puramente individuale. Così, siamo arrivati a una sorta di immanenza e di egalitarismo puro, con le madri che vogliono essere amiche delle figlie e loro concorrenti in fatto di giovinezza, il che è un’altra forma di pedofilia. Rifiutiamo ogni trascendenza, non solo divina, ma umana. Sospettiamo come inautentico ogni rapporto di autorità. E il fatto che il padre
stia su un piano diverso dal figlio, e l’adulto su un piano diverso dal bambino, diventa intollerabile in questa situazione di immanenza generalizzata. Per questo, ci si può anche domandare: in fondo perché un adulto non dovrebbe poter andare a letto con un bambino? Perché un padre non dovrebbe portarsi a letto la propria figlia? Dal momento in cui abbiamo spezzato la gerarchia delle generazioni, siamo entrati in una logica puramente orizzontale; perduta la verticalità, abbiamo svilito i padri e smarrito persino il senso della paternità. Ma a partire da questa logica in cui tutti sono sullo stesso piano, non c’è più alcun motivo razionale di vietare la pedofilia. Tant’è vero che, negli anni Ottanta, alcuni intellettuali francesi di sinistra, fra i quali Daniel Cohn- Bendit, firmarono su Libération un manifesto in difesa della pedofilia. Così, siamo passati da un estremo all’altro. Dopo l’egalitarismo, la rivoluzione culturale, la liberazione sessuale, non sappiamo più come argomentare contro la pedofilia”. Allora perché tanto scandalo per i preti pedofili? “Perché l’uomo sente che è un peccato e un reato, ed entra nel panico, scegliendo il linciaggio anziché la risposta razionale, poiché non capisce più perché sia impossibile.E’ un punto radicale. La prima legge per Sigmund Freud era il divieto dell’incesto. Ma Freud non spiega perché: il divieto dell’incesto è una legge indeducibile, un’evidenza primaria fondata su un principio primo assiomatico e indimostrabile. Se così non fosse, se ci fosse un’altra legge che la legittimasse, il divieto di incesto non sarebbe una legge primaria. Ma il fatto è che l’uomo è una creatura con un rapporto speciale nei confronti di quella che Tommaso d’Aquino chiamava la ‘ragione d’origine’, vale a dire il padre suo creatore o genitore. Solo che nel momento in cui l’uomo diventa un demiurgo, rifiutando la dimensione di creatura nei confronti di un creatore, avrà tendenza a negare la legge primaria del divieto di incesto, uscendo dalla verticalità per entrare nell’orizzontalità indifferenziata, e ognuno finirà per andare a letto con chiunque”.
La chiesa però resiste. Oggi è l’ultimo baluardo della verticalità e della ragione naturale. “A forza di affermare la morale naturale, la chiesa rischia di trascurare la misericordia soprannaturale. E questo secondo me è un pericolo in termini di fede e di mistica cristiana. Certo, è giusto combattere la liberalizzazione dell’aborto, e oggi persino Simone Veil insiste per dire che abortire non è un diritto. Ma una cosa è lottare contro la deriva individualistica, altra cosa è annunciare la redenzione per le donne che hanno abortito e per i medici abortisti. Cristo è venuto anche per loro, mentre ora corriamo il rischio che l’annuncio della morale naturale si trasformi in una durezza farisaica. La chiesa è l’ultimo baluardo della trascendenza, e ha anche rivelato la perfezione dell’infanzia. E se la pedofilia oggi ci scandalizza e ci getta nel panico è perché noi continuiamo a essere cristiani, la nostra società continua ad essere impregnata di cristianesimo. Nel mondo antico, come del resto ancora oggi in Africa e in gran parte del mondo non cristiano, i bambini erano trattati come esseri inferiori, a volte come schiavi, spesso come prede, perché erano considerati incompiuti, imperfetti. ‘Lasciate che i bambini vengano a me’, disse Gesù, e da allora è accaduto qualcosa di rivoluzionario. Nel Vangelo c’è anche scritto: se non diventerete come bambini non entrerete a far parte del regno dei cieli. L’infanzia a quel punto diventa il simbolo stesso della perfezione cristiana, l’icona della verità. E’ questo il paradosso del cristianesimo: una vita spiritualmente piena e ancora incompiuta”. Oggi però i cristiani hanno difficoltà a sottrarre i loro figli ai costumi dominanti e pure i preti confessano di non saper sfuggire alle lusinghe di un mondo senza Dio. “Per questo domina il panico. L’ultimo rifugio per noi cristiani erano i collegi religiosi, e adesso scopriamo che sono diventanti luoghi di perdizione…”.
DA il foglio
Postato da: giacabi a 10:37 |
link | commenti
pedofilia, hadjadj fabrice
Contro i seminari del Nulla
J’ACCUSE. Per il filosofo francese la Chiesa è maestra di laicità, soprattutto quando la ragione viene piegata alla fede nel nichilismoHadjadj: contro i seminari del Nulla
DI FABRICE HADJADJ Non appena il senso della contemplazione diminuisce anche quello della politica viene meno, poiché essa finisce per mancare il suo scopo, o, più semplicemente, per smarrire il senso della vita. Il buon governo, se non è subordinato alla vera Trascendenza, scompare. L’iperpoliticizzazione anticristiana della Rivoluzione francese alla fine ha condotto a una depoliticizzazione generalizzata. La citoyenneté chiusa all’Eterno degenera in «teatrocrazia», per riprendere un termine platonico. In assenza di quella tensione verso il Cielo che la nobilita, la politica è presto assorbita dall’economia, dalla spettacolarizzazione, dagli interessi particolari, dal culto di Adone o quello di Mammona, e infine si tramuta in tirannide, che può assumere forme diverse fino all’ultima che è la tirannia dei diritti dell’uomo nell’oblio di quelli di Dio, cioè quella di un individuo tiranno di se stesso, ridotto a una bestia cinica, cieca e infelice, a una pecora senza pastore. La separazione tra Stato e Chiesa non è tanto un pericolo per la Chiesa, che detiene le promesse della vita eterna, quanto per lo Stato e la nazione, contro i quali possono invece prevalere le porte degli inferi: «Riempile di spavento, Signore – canta il re Davide –, riconoscano le genti di essere mortali» (Sal 9,21). E papa Gregorio XVI ricorda benevolmente: «Scosso per tal maniera il freno della santissima Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni e si mantengono ferme la forza e l’autorità di ogni dominazione, si vedono aumentare la sovversione dell’ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento di ogni legittima potestà». L’autorità perde tutta la sua forza nel momento in cui non conduce più alla gioia ultima, perché è di tale gioia che abbiamo bisogno. Tali osservazioni, tuttavia, non fanno appello a una confusione di Stato e Chiesa. Una teocrazia che confondesse la causa di Dio con una qualsivoglia causa particolare, e la saggezza dei principi con l’infallibilità del Papa, sarebbe infatti non meno funesta. La Chiesa è cattolica, transnazionale e transculturale: essa intrattiene pertanto con i governi nazionali rapporti di sussidiarietà, che si traducono, in concreto, nella condivisione dello stesso territorio e nella vicinanza spaziale. E poiché sa che la coercizione non può produrre l’atto di fede, non lega l’esercizio del potere politico a una confessione religiosa, ma chiede solo che quest’ultimo, per sua natura laico, dia a ogni individuo la possibilità di accogliere liberamente la Buona Novella della salvezza: «Chi non è contro di noi è per noi», dice il Signore (Mc 9,40). Né separazione né confusione, quindi, ma distinzione e subordinazione. Bisogna rendere a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio, senza dimenticare che Cesare è di Dio, e che tutto ciò che gli diamo dev’essere utilizzato per il regno di Dio. Eppure, le aberranti posizioni condivise anche da molti cristiani odierni tradiscono la mancata comprensione di quest’ultima evidenza: secondo loro, infatti, la politica può essere agnostica e la religione circoscrivibile alla sola sfera privata. Così, per non parlare di cose che rischiano di irritare la gente, costoro si condannano alle conversazioni futili e alle storielle piccanti, divenendo in tal modo complici della società della disperazione. Come può il legno che è stato sminuzzato in tanti piccoli stuzzicadenti servire per la costruzione di una nave? E le fibre di cellulosa ridotte a carta igienica, come possono fornire un supporto adatto a una lettera d’amore? Analogamente una politica agnostica, che degrada la ragione a mero strumento di calcolo utilitaristico, promuovendo il relativismo morale e l’estetismo mondano, non predispone alla piena realizzazione della persona. L’istruzione pubblica, in particolare, corrisponde esattamente a un massacro pianificato delle menti. In fin dei conti, poiché l’uomo, nonostante tutto, arde dal desiderio dell’assoluto, e i giovani che essa stessa ha formato non hanno imparato a coltivare questa caccia con giustizia e rigore, essa favorisce un’irruzione dell’irrazionale, con la sua triste sequela di suicidi, sette rimbecillenti e violenze fanatiche. Le nostre scuole, che con la scusa della laicità e della tolleranza ambiscono a mostrarsi irreligiose, si tramutano surrettiziamente in scuole coraniche o buddiste, quando non in seminari del Nulla. I nostri programmi di filosofia, che eludono sistematicamente le questioni dell’esistenza di un Principio Primo e dell’immortalità dell’anima umana, invitano invece a sguazzare in credenze stupide quali la reincarnazione o gli omini verdi, o nella ridicola bigotteria dell’attuale scientismo, che consiste nell’immaginare che la materia sia intelligente, che si organizzi da sola e che il caso sia in grado di produrre un ordine che trascende la nostra stessa ragione... Con tutto questo come potrebbe il nostro regime non essere quello di una lotteria? da: www.avvenire.it del 29/04/10 |
Nessun commento:
Posta un commento