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lunedì 13 febbraio 2012

havel


HAVEL/ La vera fede di Vaclav?
Incontrare Dio sulla soglia

Angelo Bonaguro

 

giovedì 29 dicembre 2011

 
«Havel per me non è solo un’autorità morale, ma anche il prototipo dell’uomo di fede che, prendendo sul serio il proprio rapporto verso l’altro, vive con altrettanta serietà anche il rapporto con Dio» – ha scritto l’arcivescovo Duka in memoria del suo amico e compagno di detenzione nelle carceri della Cecoslovacchia comunista. E padre Halík, una delle personalità più in vista della Chiesa ceca, ha sottolineato che saremo giudicati «per la nostra fede resa visibile dalle opere, e non per le nostre opinioni religiose». Per lui Havel si inserisce nella «religiosità schiva» tipicamente boema, non per questo priva di autenticità. 
Non è possibile parlare del rapporto fra Havel e la trascendenza riducendolo ad una «religione etica moderna» come fu quella del primo presidente cecoslovacco Masaryk, il quale esercitò il suo carisma anche sul futuro padre del drammaturgo. Ripudiando il cattolicesimo tradizionale, percepito come legato all’odiato potere asburgico, V. M. Havel (1897-1979) fu attivo nella World Students’ Christian Federation, finendo poi per entrare in contatto con la massoneria.
Suo figlio, il drammaturgo Václav, conosce invece il cristianesimo in un ambito storico e sociale completamente diverso (il sistema post-totalitario e la lotta antireligiosa), grazie soprattutto ai coloriti personaggi che animano la comunità del dissenso, fra i quali gli amici filosofi che sono i veri destinatari delle famose «lettere a Olga» scritte dal carcere, coloro che raccolgono le sue riflessioni e lo accompagnano nell’affascinante ricerca della verità. 
Possiamo identificare l’anima della religiosità haveliana in una lettera dell’agosto 1980 dove, ribadendo di non essere «propriamente un cristiano e cattolico», parla di Dio come dell’«orizzonte senza il quale niente avrebbe significato e io stesso non esisterei nemmeno». In una successiva missiva accusa la mancanza dell’«ultima goccia» che gli permetterebbe di riconoscere «un Dio personale»,  pur ammettendo «una vicinanza al sentire cristiano». In carcere rispetta persino alcuni gesti di devozione, come il digiuno pasquale, e con la scusa di organizzare un Circolo degli scacchi permette a Duka di celebrare la messa durante il «torneo». 
Questo avvicinamento senza preconcetti alle tematiche religiose stupisce anche la comunità del dissenso in cui si diffonde la voce della sua presunta conversione, e ciò contribuisce a rafforzare la coscienza stessa della comunità, per la quale il cristianesimo rappresenta un’alternativa all’ideologia comunista.
Anche nei suoi testi teatrali emergono tematiche legate alla responsabilità, alla coscienza, alla vita nella verità, alle domande ultime che caratterizzano l’anima dell’uomo. Si prenda ad esempio uno dei primi testi, Difficoltà di concentrazione (1968), dove fa dire a un personaggio: «Dunque la felicità per un verso costituisce qualcosa di molto instabile, fuggevole, mutevole, mentre per un altro verso appare come qualcosa di notevolmente stabile, giacché l’uomo desidera sempre essere felice, quindi è una specie d’ideale verso il quale l’attività umana s’indirizza costantemente, ma che in sostanza l’uomo non può mai raggiungere appieno.
La felicità non è quindi qualcosa che ci venga dato una volta per tutte, bensì qualcosa che continuamente perdiamo e per la quale continuamente dobbiamo combattere... La chiave fondamentale per scoprire il mistero dell’uomo non la si trova nel cervello, ma nel cuore».
Alle stesse tematiche, soprattutto nei primi anni di presidenza, ritornano spesso i suoi discorsi ufficiali, come in quello pronunciato a Filadelfia il 4 luglio 1994, dove sottolinea che non basta ripetere all’infinito l’importanza dei diritti umani per fondare un ordine mondiale più giusto se si dimentica dove questi diritti sono radicati: «La via per la convivenza pacifica e la collaborazione creativa deve partire da ciò che costituisce la premessa di tutte le culture e che è situato nel profondo dei cuori e delle menti umane più di ogni idea politica, di ogni antipatia o simpatia, deve cioè partire dalla trascendenza... Nella vostra Dichiarazione di indipendenza si dice che il Creatore ha dato all’uomo il diritto alla libertà. Sembra che l’uomo possa coltivare questa libertà solo se non dimentica Colui che gliel’ha donata»
Come non ricordare l’affetto che lo legava a Giovanni Paolo II e al Dalai Lama (entrambi invitati in Cecoslovacchia già nei primi mesi dopo la caduta del Muro), o il binomio verità-libertà tratto dai suoi interventi e sul quale Benedetto XVI ha incentrato la visita nelle terre ceche nel 2009?
Negli ultimi mesi a Hrádecek, nella casetta di campagna, lo accudivano oltre alla moglie alcune suore che hanno raccolto il suo ultimo respiro. «Gli piaceva aver accanto le sue cose, la sua gente, amava l’ordine, i gladioli – ricorda suor Holíková. A volte accennava al fatto che l’uomo, quando si avvicina alla morte, va verso una nuova vita di cui sappiamo poco. La sera ci salutava dicendo: “Beh, che il Signore sia con noi, vedremo come andrà domani!”».
Al termine dell’omelia per il funerale, Duka ha citato il messaggio di Havel scritto per quest’anno dedicato a sant’Agnese di Boemia: «“Cara Agnese, grazie per aver steso la Tua mano a proteggerci il 25 novembre 1989. Per favore, continua a tenerla pronta, forse ne avremo ancora bisogno”. Che Agnese conduca te nel regno della Verità e dell’Amore dove regna Colui che è – come mi dicesti durante il nostro ultimo incontro». 


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Postato da: giacabi a 20:17 | link | commenti
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mercoledì, 03 novembre 2010

IDEE/ Václav Havel: solo lo stupore ci salva da una globalizzazione senz’anima


 
***
mercoledì 3 novembre 2010

Havel l’aveva già detto nel suo primo discorso di capodanno da primo presidente cecoslovacco democraticamente eletto (gennaio 1990): viviamo in un’epoca in cui i problemi dell’ambiente ci riguardano da vicino, ma “il peggio è che viviamo in un ambiente deteriorato moralmente”. Allora si riferiva all’eredità devastante del sistema totalitario, sia dal punto di vista ecologico che etico, un sistema che era stato assimilato e sostenuto dalle sue stesse vittime.

L’attenzione di Havel ai temi dell’ambiente non è nata ieri, ma non ha nulla a che vedere con soli che ridono o battaglie demagogiche: Havel intende l’ambiente come l’insieme delle relazioni tra esseri umani depositari di una cultura e l’oggettività in cui essi si muovono e della quale sono responsabili. Il drammaturgo ha esemplificato questo pensiero dandogli forma drammatica anche nella pièce Il risanamento (1987), dove un gruppo di architetti incaricato di ristrutturare un vecchio borgo si scontra con le varie anime dei progettisti e con la volontà della popolazione locale.

Inaugurando l’annuale appuntamento del Forum2000 (la fondazione e l'omonima conferenza che si tiene a Praga, ndr) tenutosi il mese scorso, e dedicato al “Mondo in cui vogliamo vivere”, Havel ha denunciato l’orgoglio della civiltà moderna che crede di poter fare a meno del senso del mistero. “Quando vado alla mia casetta di campagna”, ha detto l’ex presidente, quello che fino a poco tempo fa era chiaramente riconoscibile come città ora sta perdendo i suoi confini e la sua identità, per trasformarsi in un enorme agglomerato indistinto, senza vie e piazze ben definite, composto da “enormi centri commerciali, stazioni di servizio, giganteschi parcheggi, palazzoni destinati ad ospitare uffici e depositi di ogni tipo, e schiere di villette che sono apparentemente attigue ma allo stesso tempo disperatamente lontane”.

E in mezzo a tutto questo, a macchia di leopardo, si alternano zone di territorio che non sono nulla, né campi, né boschi né insediamenti umani. Ogni volta che si concede alle città di distruggere il paesaggio circostante per crearvi degli agglomerati che rendono la vita irriconoscibile, si scardina allo stesso tempo la rete delle comunità umane naturali, e sotto l’egida dell’omologazione internazionale si annullano le individualità e le identità. Alla fine di questo processo, “la collettività smisurata dei consumatori genera un nuovo tipo di solitudine”.
La causa di tutto questo - sostiene Havel - sta nel fatto che viviamo nella prima civiltà atea globalizzata, una civiltà che ha perso i suoi nessi con l’infinito e con l’eterno, e perciò preferisce il profitto immediato a quello a lungo termine. L’aspetto più pericoloso di questa civiltà atea è il suo orgoglio, che la rende irrispettosa verso il patrimonio trasmesso dalla natura e dai nostri antenati e che la fa sentire presuntuosamente onnisciente.

In questo modo, con il culto del profitto immediato e del progresso, “scompare il rispetto per il mistero e per l’incommensurabile, si perde il senso dell’infinito e dell’eterno, che fino a poco tempo fa costituivano i principali orizzonti delle nostre azioni. Abbiamo completamente dimenticato quello che le civiltà precedenti sapevano: che nulla è certo”.


Il drammaturgo sposta le sue riflessioni anche sulla recente crisi finanziaria, definendola un segnale istruttivo per il mondo contemporaneo, un monito contro la sicumera sproporzionata e l’orgoglio della civiltà moderna: l’azione umana non è totalmente prevedibile come credono molti inventori di teorie e concezioni economiche. E il dramma è che questi stessi sapientoni, invece di imparare la piccola lezione di umiltà da cui avrebbero dovuto capire che non tutto è sempre automaticamente concesso, pretendono di descrivere con lo stesso metodo le cause della crisi!

“Per secoli l’umanità ha vissuto in civiltà capaci di formare una cultura, dove gli insediamenti avevano un ordine naturale determinato da una sensibilità comunemente condivisa”, grazie alla quale l’ultimo fabbro medievale, quando gli chiedevano di forgiare un attrezzo, lo produceva secondo quello che oggi chiameremmo stile gotico, senza aver bisogno di un maestro o di un designer che gli insegnassero come fare. La nostra civiltà appare piuttosto come una delle tante conseguenze secondarie dell’orgoglio moderno, che crede di aver capito tutto e perciò di poter pianificare il mondo intero.
Secondo Havel, solo lo stupore e la consapevolezza che le cose non sono così ovvie può farci superare questo periodo oscuro. Questo stupore davanti al mistero del creato lo provoca a una serie di domande: qual è il significato di tutto ciò che esiste? È possibile il non-essere? “È possibile che le cose esistano perché noi possiamo stupirci, e che noi esistiamo perché ci sia qualcuno che si stupisca. Ma perché è necessario che vi sia qualcuno che si stupisce? E che alternativa c’è alla vita?”.

Un groviglio di interrogativi che agitano ancora l’animo di questo drammaturgo settantenne innamorato della vita, che non ha ancora smesso di cercare, e di stupire il suo pubblico, compreso quello delle multisale, perché da qualche mese si è messo in testa di fare del cinema..

Postato da: giacabi a 10:49 | link | commenti
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mercoledì, 27 gennaio 2010

«Cara Olga,
siamo inchiodati al paradosso
fra il mondo disperato e
l’Essere pieno di senso»
 ***

 
DI VACLAV HAVEL
 Cara Olga, fra le migliaia di avvenimenti stupefa­centi che formano il miracolo dell’Es­sere e della sua storia, l’evento che qui ho de­finito la costituzione o la genesi dell’«io» uma­no, ha indubbiamente un significato rivolu­zionario. È un evento cioè che, a differenza di tutti gli altri, tocca in modo speciale l’essenza medesima dell’Essere, l’«essere dell’Essere».
  L’uomo non è semplicemente un’entità fra le altre entità, un qualcosa di distinto rispetto al­le altre, ma è un’entità apertamente «differen­te ». Non si differenzia dalle altre unicamente per ciò che è (per il fatto di essere essenzial­mente più strutturata, ad esempio), ma so­prattutto per come è, per il fatto che il suo stesso essere è sostanzialmente diverso da tutto quello che esiste al di fuori di lui. (...) Essere gettati nel mondo ci rivela il nostro stato di separazione; essere gettati nell’origine dell’Essere, al contrario, risveglia in noi la trascendenza di sé così essenzialmente umana: il desiderio di oltrepassare tutti i propri orizzonti per attingere di nuovo la perduta pienezza dell’Essere, «possederla» di nuovo (e in questo modo superare il proprio stato di separazione), sfociando nell’esperienza della «quasi ­identificazione » quale contatto vigile, cioè totalmente consapevole di sé, con «l’Essere tout court », principio misterioso ed essenza di tutto ciò che è.
  (...) Dietro a tale concezione vi è una percezione di sostanziale ambiguità, di annientamento, della natura contraddittoria e paradossale della condizione dell’umana. La nostra «alterità» ontologica esprime soprattutto questo: solo l’uomo, ad esempio, si domanda quale sia il significato, ma unitamente a ciò non può mai giungere a una risposta soddisfacente (altrimenti significherebbe per lui non essere ciò che in realtà è, ossia, «essere separato dall’Essere»); soltanto l’uomo sperimenta, o meglio, attraverso la propria esperienza costituisce il mondo come qualcosa nel quale è stato gettato e nel quale è condannato a vivere, eppure, contemporaneamente, lui solo sa che soccombendo a tale esistenza nel mondo perde irrimediabilmente se stesso; lui solo è in grado di sperimentare in modo consapevole l’Essere quale reale sfondo a tutto ciò che esiste; tuttavia lui soltanto è, nello stesso momento, fatalmente al di fuori di questo Essere e condannato a non esservi mai pienamente all’interno.
  Ciò nonostante, il paradosso della natura contraddittoria dell’essere umano è che in essa si trova, contemporaneamente, la fonte di tutta la sua bellezza e della sua miseria, la sua tragedia e la sua grandezza, lo slancio drammatico e il continuo fallimento. Ritengo che le rappresentazioni degli archetipi religiosi rispecchino in maniera precisa le dimensioni dell’essenza ambigua dell’umanità: dall’idea di paradiso, attraverso «reminiscenze» di una perduta partecipazione all’integrità dell’Essere, all’idea della caduta del mondo quale atto peculiare dello «stato di separazione» (non è infatti l’albero della conoscenza la «cognizione di sé» che ci separa?), all’idea del giudizio finale quale confronto con l’orizzonte assoluto del nostro relazionarsi, fino all’idea della salvezza come trascendenza suprema, la «quasi­identificazione » con la pienezza dell’Essere al
 quale l’umanità tende costantemente.
  I l fatto, poi, che tutti gli effimeri tentativi dei fanatismi ideologi­ci di organizzare il «paradiso in terra» alla fine sfocino inevitabil­mente in un inferno in terra, è reso più che chiaramente dall’evocazio­ne che il regno di Dio non è «in questa terra». In realtà: una vita su questo mondo che sia relativa­mente sopportabile può essere ga­rantita unicamente da un’umanità orientata «al di là» di questo mondo, un’uma­nità che – in ogni suo hic e con ogni suo nunc – si relazioni con l’infinito, l’assoluto e l’eter­nità. Un orientamento incondizionato al hic e al nunc , per quanto sopportabile possa essere, trasforma senza speranza il «qui» e «adesso» in abbandono e disperazione e infine lì tinge del colore del sangue.
  Sì: l’uomo è inchiodato – come Cristo sulla croce – a un’intersezione di paradossi: teso fra l’ascissa del mondo e l’ordinata dell’Essere; da una parte, trascinato in basso dalla dispera­zione di un’esistenza nel mondo e dall’irrag­giungibilità dell’assoluto, dall’altra, egli sta in equilibrio tra il tormento di non conoscere la propria missione e la gioia di portarla a com­pimento, tra il nulla e la pienezza di senso. E come Cristo è di fatto vittorioso grazie alle sue sconfitte: l’uomo, attraverso la percezione del­l’assurdo, una volta ancora trova il significato; attraverso il proprio fallimento riscopre nuo­vamente la responsabilità personale; attraver­so la sconfitta di alcune condanne, vince per­lomeno su se stesso (come oggetto delle ten­tazioni terrene); attraverso la morte – la sua ultima e maggiore sconfitta – trionfa definiti­vamente sulla propria disgregazione: impri­mendo per sempre il proprio pro­filo nella «memoria dell’Essere», ritorna infine – senza rinunciare a niente della propria «alterità» – nel grembo dell’Essere integrale.
  L a medesima cosa vale – ciò va aggiunto per una questione di ordine – per queste mie riflessioni: esse sono una sconfitta perché non ho né scoperto, né espresso niente che non sia stato da tempo scoperto ed espresso cento volte meglio, eppure sono allo stesso tempo una vittoria, per essere almeno riuscito attraverso di esse, se non altro, (superando ostacoli più banalmente esteriori e profondamente interiori che non augurerei a nessuno che voglia scrivere), a sentirmi meglio ora di quando ho iniziato. È strano, ma forse adesso sono persino più felice di quanto lo sia stato negli ultimi tempi. In breve, mi sento bene e ti voglio bene.
 Un bacio da Vasek (4 settembre 1982)


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