HAVEL/ La vera fede di Vaclav?
Incontrare Dio sulla soglia
giovedì 29 dicembre 2011
«Havel
per me non è solo un’autorità morale, ma anche il prototipo dell’uomo
di fede che, prendendo sul serio il proprio rapporto verso l’altro, vive
con altrettanta serietà anche il rapporto con Dio» – ha scritto
l’arcivescovo Duka in memoria del suo amico e compagno di detenzione
nelle carceri della Cecoslovacchia comunista. E padre Halík, una delle
personalità più in vista della Chiesa ceca, ha sottolineato che saremo giudicati «per la nostra fede resa visibile dalle opere, e non per le nostre opinioni religiose». Per lui Havel si inserisce nella «religiosità schiva» tipicamente boema, non per questo priva di autenticità.
Non
è possibile parlare del rapporto fra Havel e la trascendenza
riducendolo ad una «religione etica moderna» come fu quella del primo
presidente cecoslovacco Masaryk, il quale esercitò il suo carisma anche
sul futuro padre del drammaturgo. Ripudiando il cattolicesimo
tradizionale, percepito come legato all’odiato potere asburgico, V. M.
Havel (1897-1979) fu attivo nella World Students’ Christian Federation,
finendo poi per entrare in contatto con la massoneria.
Suo
figlio, il drammaturgo Václav, conosce invece il cristianesimo in un
ambito storico e sociale completamente diverso (il sistema
post-totalitario e la lotta antireligiosa), grazie soprattutto ai
coloriti personaggi che animano la comunità del dissenso, fra i quali
gli amici filosofi che sono i veri destinatari delle famose «lettere a
Olga» scritte dal carcere, coloro che raccolgono le sue riflessioni e lo
accompagnano nell’affascinante ricerca della verità.
Possiamo
identificare l’anima della religiosità haveliana in una lettera
dell’agosto 1980 dove, ribadendo di non essere «propriamente un
cristiano e cattolico», parla di Dio come dell’«orizzonte senza il quale niente avrebbe significato e io stesso non esisterei nemmeno». In una successiva missiva accusa
la mancanza dell’«ultima goccia» che gli permetterebbe di riconoscere
«un Dio personale», pur ammettendo «una vicinanza al sentire
cristiano». In carcere rispetta persino alcuni gesti di
devozione, come il digiuno pasquale, e con la scusa di organizzare un
Circolo degli scacchi permette a Duka di celebrare la messa durante il
«torneo».
Questo
avvicinamento senza preconcetti alle tematiche religiose stupisce anche
la comunità del dissenso in cui si diffonde la voce della sua presunta
conversione, e ciò contribuisce a rafforzare la coscienza stessa della
comunità, per la quale il cristianesimo rappresenta un’alternativa
all’ideologia comunista.
Anche
nei suoi testi teatrali emergono tematiche legate alla responsabilità,
alla coscienza, alla vita nella verità, alle domande ultime che
caratterizzano l’anima dell’uomo. Si prenda ad esempio uno dei primi
testi, Difficoltà di concentrazione (1968), dove fa dire a un personaggio: «Dunque
la felicità per un verso costituisce qualcosa di molto instabile,
fuggevole, mutevole, mentre per un altro verso appare come qualcosa di
notevolmente stabile, giacché l’uomo desidera sempre essere felice,
quindi è una specie d’ideale verso il quale l’attività umana s’indirizza
costantemente, ma che in sostanza l’uomo non può mai raggiungere
appieno.
La
felicità non è quindi qualcosa che ci venga dato una volta per tutte,
bensì qualcosa che continuamente perdiamo e per la quale continuamente
dobbiamo combattere... La chiave fondamentale per scoprire il mistero dell’uomo non la si trova nel cervello, ma nel cuore».
Alle
stesse tematiche, soprattutto nei primi anni di presidenza, ritornano
spesso i suoi discorsi ufficiali, come in quello pronunciato a
Filadelfia il 4 luglio 1994, dove sottolinea che non basta ripetere
all’infinito l’importanza dei diritti umani per fondare un ordine
mondiale più giusto se si dimentica dove questi diritti sono radicati: «La
via per la convivenza pacifica e la collaborazione creativa deve
partire da ciò che costituisce la premessa di tutte le culture e che è
situato nel profondo dei cuori e delle menti umane più di ogni idea politica, di ogni antipatia o simpatia, deve cioè partire dalla trascendenza...
Nella vostra Dichiarazione di indipendenza si dice che il Creatore ha
dato all’uomo il diritto alla libertà. Sembra che l’uomo possa coltivare
questa libertà solo se non dimentica Colui che gliel’ha donata».
Come
non ricordare l’affetto che lo legava a Giovanni Paolo II e al Dalai
Lama (entrambi invitati in Cecoslovacchia già nei primi mesi dopo la
caduta del Muro), o il binomio verità-libertà tratto dai suoi interventi
e sul quale Benedetto XVI ha incentrato la visita nelle terre ceche nel
2009?
Negli
ultimi mesi a Hrádecek, nella casetta di campagna, lo accudivano oltre
alla moglie alcune suore che hanno raccolto il suo ultimo respiro. «Gli
piaceva aver accanto le sue cose, la sua gente, amava l’ordine, i
gladioli – ricorda suor Holíková. A volte accennava al fatto che l’uomo,
quando si avvicina alla morte, va verso una nuova vita di cui sappiamo
poco. La sera ci salutava dicendo: “Beh, che il Signore sia con noi,
vedremo come andrà domani!”».
Al termine dell’omelia per il funerale, Duka ha citato il messaggio di Havel scritto per quest’anno dedicato a sant’Agnese
di Boemia: «“Cara Agnese, grazie per aver steso la Tua mano a
proteggerci il 25 novembre 1989. Per favore, continua a tenerla pronta,
forse ne avremo ancora bisogno”. Che Agnese conduca te nel regno della
Verità e dell’Amore dove regna Colui che è – come mi dicesti durante il nostro ultimo incontro».
© Riproduzione riservata.
Postato da: giacabi a 20:17 |
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havel
IDEE/ Václav Havel: solo lo stupore ci salva da una globalizzazione senz’anima
***
mercoledì 3 novembre 2010
Havel
l’aveva già detto nel suo primo discorso di capodanno da primo
presidente cecoslovacco democraticamente eletto (gennaio 1990): viviamo
in un’epoca in cui i problemi dell’ambiente ci riguardano da vicino, ma
“il peggio è che viviamo in un ambiente deteriorato moralmente”. Allora
si riferiva all’eredità devastante del sistema totalitario, sia dal
punto di vista ecologico che etico, un sistema che era stato assimilato e
sostenuto dalle sue stesse vittime.
L’attenzione di Havel ai temi dell’ambiente non è nata ieri, ma non ha nulla a che vedere con soli che ridono o battaglie demagogiche: Havel intende l’ambiente come l’insieme delle relazioni tra esseri umani depositari di una cultura e l’oggettività in cui essi si muovono e della quale sono responsabili. Il drammaturgo ha esemplificato questo pensiero dandogli forma drammatica anche nella pièce Il risanamento (1987), dove un gruppo di architetti incaricato di ristrutturare un vecchio borgo si scontra con le varie anime dei progettisti e con la volontà della popolazione locale.
Inaugurando l’annuale appuntamento del Forum2000 (la fondazione e l'omonima conferenza che si tiene a Praga, ndr) tenutosi il mese scorso, e dedicato al “Mondo in cui vogliamo vivere”, Havel ha denunciato l’orgoglio della civiltà moderna che crede di poter fare a meno del senso del mistero. “Quando vado alla mia casetta di campagna”, ha detto l’ex presidente, quello che fino a poco tempo fa era chiaramente riconoscibile come città ora sta perdendo i suoi confini e la sua identità, per trasformarsi in un enorme agglomerato indistinto, senza vie e piazze ben definite, composto da “enormi centri commerciali, stazioni di servizio, giganteschi parcheggi, palazzoni destinati ad ospitare uffici e depositi di ogni tipo, e schiere di villette che sono apparentemente attigue ma allo stesso tempo disperatamente lontane”.
E in mezzo a tutto questo, a macchia di leopardo, si alternano zone di territorio che non sono nulla, né campi, né boschi né insediamenti umani. Ogni volta che si concede alle città di distruggere il paesaggio circostante per crearvi degli agglomerati che rendono la vita irriconoscibile, si scardina allo stesso tempo la rete delle comunità umane naturali, e sotto l’egida dell’omologazione internazionale si annullano le individualità e le identità. Alla fine di questo processo, “la collettività smisurata dei consumatori genera un nuovo tipo di solitudine”.
L’attenzione di Havel ai temi dell’ambiente non è nata ieri, ma non ha nulla a che vedere con soli che ridono o battaglie demagogiche: Havel intende l’ambiente come l’insieme delle relazioni tra esseri umani depositari di una cultura e l’oggettività in cui essi si muovono e della quale sono responsabili. Il drammaturgo ha esemplificato questo pensiero dandogli forma drammatica anche nella pièce Il risanamento (1987), dove un gruppo di architetti incaricato di ristrutturare un vecchio borgo si scontra con le varie anime dei progettisti e con la volontà della popolazione locale.
Inaugurando l’annuale appuntamento del Forum2000 (la fondazione e l'omonima conferenza che si tiene a Praga, ndr) tenutosi il mese scorso, e dedicato al “Mondo in cui vogliamo vivere”, Havel ha denunciato l’orgoglio della civiltà moderna che crede di poter fare a meno del senso del mistero. “Quando vado alla mia casetta di campagna”, ha detto l’ex presidente, quello che fino a poco tempo fa era chiaramente riconoscibile come città ora sta perdendo i suoi confini e la sua identità, per trasformarsi in un enorme agglomerato indistinto, senza vie e piazze ben definite, composto da “enormi centri commerciali, stazioni di servizio, giganteschi parcheggi, palazzoni destinati ad ospitare uffici e depositi di ogni tipo, e schiere di villette che sono apparentemente attigue ma allo stesso tempo disperatamente lontane”.
E in mezzo a tutto questo, a macchia di leopardo, si alternano zone di territorio che non sono nulla, né campi, né boschi né insediamenti umani. Ogni volta che si concede alle città di distruggere il paesaggio circostante per crearvi degli agglomerati che rendono la vita irriconoscibile, si scardina allo stesso tempo la rete delle comunità umane naturali, e sotto l’egida dell’omologazione internazionale si annullano le individualità e le identità. Alla fine di questo processo, “la collettività smisurata dei consumatori genera un nuovo tipo di solitudine”.
La
causa di tutto questo - sostiene Havel - sta nel fatto che viviamo
nella prima civiltà atea globalizzata, una civiltà che ha perso i suoi
nessi con l’infinito e con l’eterno, e perciò preferisce il profitto
immediato a quello a lungo termine. L’aspetto più pericoloso di questa
civiltà atea è il suo orgoglio, che la rende irrispettosa verso il
patrimonio trasmesso dalla natura e dai nostri antenati e che la fa
sentire presuntuosamente onnisciente.
In questo modo, con il culto del profitto immediato e del progresso, “scompare il rispetto per il mistero e per l’incommensurabile, si perde il senso dell’infinito e dell’eterno, che fino a poco tempo fa costituivano i principali orizzonti delle nostre azioni. Abbiamo completamente dimenticato quello che le civiltà precedenti sapevano: che nulla è certo”.
Il drammaturgo sposta le sue riflessioni anche sulla recente crisi finanziaria, definendola un segnale istruttivo per il mondo contemporaneo, un monito contro la sicumera sproporzionata e l’orgoglio della civiltà moderna: l’azione umana non è totalmente prevedibile come credono molti inventori di teorie e concezioni economiche. E il dramma è che questi stessi sapientoni, invece di imparare la piccola lezione di umiltà da cui avrebbero dovuto capire che non tutto è sempre automaticamente concesso, pretendono di descrivere con lo stesso metodo le cause della crisi!
“Per secoli l’umanità ha vissuto in civiltà capaci di formare una cultura, dove gli insediamenti avevano un ordine naturale determinato da una sensibilità comunemente condivisa”, grazie alla quale l’ultimo fabbro medievale, quando gli chiedevano di forgiare un attrezzo, lo produceva secondo quello che oggi chiameremmo stile gotico, senza aver bisogno di un maestro o di un designer che gli insegnassero come fare. La nostra civiltà appare piuttosto come una delle tante conseguenze secondarie dell’orgoglio moderno, che crede di aver capito tutto e perciò di poter pianificare il mondo intero.
In questo modo, con il culto del profitto immediato e del progresso, “scompare il rispetto per il mistero e per l’incommensurabile, si perde il senso dell’infinito e dell’eterno, che fino a poco tempo fa costituivano i principali orizzonti delle nostre azioni. Abbiamo completamente dimenticato quello che le civiltà precedenti sapevano: che nulla è certo”.
Il drammaturgo sposta le sue riflessioni anche sulla recente crisi finanziaria, definendola un segnale istruttivo per il mondo contemporaneo, un monito contro la sicumera sproporzionata e l’orgoglio della civiltà moderna: l’azione umana non è totalmente prevedibile come credono molti inventori di teorie e concezioni economiche. E il dramma è che questi stessi sapientoni, invece di imparare la piccola lezione di umiltà da cui avrebbero dovuto capire che non tutto è sempre automaticamente concesso, pretendono di descrivere con lo stesso metodo le cause della crisi!
“Per secoli l’umanità ha vissuto in civiltà capaci di formare una cultura, dove gli insediamenti avevano un ordine naturale determinato da una sensibilità comunemente condivisa”, grazie alla quale l’ultimo fabbro medievale, quando gli chiedevano di forgiare un attrezzo, lo produceva secondo quello che oggi chiameremmo stile gotico, senza aver bisogno di un maestro o di un designer che gli insegnassero come fare. La nostra civiltà appare piuttosto come una delle tante conseguenze secondarie dell’orgoglio moderno, che crede di aver capito tutto e perciò di poter pianificare il mondo intero.
Secondo
Havel, solo lo stupore e la consapevolezza che le cose non sono così
ovvie può farci superare questo periodo oscuro. Questo stupore davanti
al mistero del creato lo provoca a una serie di domande: qual è il
significato di tutto ciò che esiste? È possibile il non-essere? “È
possibile che le cose esistano perché noi possiamo stupirci, e che noi
esistiamo perché ci sia qualcuno che si stupisca. Ma perché è necessario
che vi sia qualcuno che si stupisce? E che alternativa c’è alla vita?”.
Un groviglio di interrogativi che agitano ancora l’animo di questo drammaturgo settantenne innamorato della vita, che non ha ancora smesso di cercare, e di stupire il suo pubblico, compreso quello delle multisale, perché da qualche mese si è messo in testa di fare del cinema..
Un groviglio di interrogativi che agitano ancora l’animo di questo drammaturgo settantenne innamorato della vita, che non ha ancora smesso di cercare, e di stupire il suo pubblico, compreso quello delle multisale, perché da qualche mese si è messo in testa di fare del cinema..
Postato da: giacabi a 10:49 |
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havel
«Cara Olga,
siamo inchiodati al paradosso
fra il mondo disperato e
l’Essere pieno di senso»
***
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