Fede fra ragione e sentimento
***
Durante
il Congresso Solvay, alcuni dei partecipanti più giovani decisero di
passare la serata insieme nel salone del nostro albergo. C’ero anch’io, e
Wolfgang Pauli. Poco dopo ci si avvicinò Paul Dirac. “Einstein continua a parlare di Dio”, disse uno di noi, non ricordo chi. “Che senso ha? Chi l’avrebbe mai detto che uno scienziato come Einstein sia tanto abbarbicato ai miti della religione?” “Einstein non è niente in confronto a Planck”, ribatté qualcun altro. “Da
come parla si direbbe che non veda contraddizione alcuna tra religione e
scienza: a suo parere le due cose sono perfettamente compatibili.”
Mi
chiesero se sapessi qualcosa di più preciso sulle idee di Planck circa
il rapporto tra scienza e religione, e che cosa pensassi io stesso al
proposito. Avevo parlato con Planck solo qualche volta, e perdipiù di
argomenti strettamente tecnici; però conoscevo bene alcuni amici intimi
di Planck, che mi avevano parlato molto dell’atteggiamento del grande
studioso su queste cose. Penso di aver risposto più o meno così:
“Credo
che Planck ritenga religione e scienza del tutto compatibili perché si
occupano di due aspetti diversi del reale. La scienza, studiando il
mondo oggettivo e materiale, esige una grande accuratezza nelle
affermazioni che facciamo sulla realtà oggettiva e nell’individuazione
dei rapporti che intercorrono tra le diverse manifestazioni di questa
realtà. La religione invece si occupa del mondo dei valori: tratta del
mondo come dovrebbe essere, e non del mondo come è. La scienza si
applica a distinguere il vero dal falso; la religione distingue invece
il bene dal male, l’azione buona da quella cattiva. La scienza è il
fondamento della tecnologia, la religione è la base dell’etica. In poche
parole, mi sembra che il conflitto tra scienza e religione, che scoppia
essenzialmente nel Settecento, nasca da un equivoco: o, più
esattamente, dal fatto che si è voluto attribuire alle immagini e alle
parabole della religione il valore di enunciati scientifici. È evidente
che si tratta di un’operazione priva di senso.
Io ho imparato dai miei genitori a distinguere tra aspetti soggettivi e
aspetti oggettivi del mondo: degli uni si occupa la religione, degli
altri la scienza. La scienza è per così dire il modo in cui affrontiamo e
discutiamo il lato oggettivo del reale. La fede religiosa è invece
l’espressione delle decisioni soggettive con cui scegliamo i criteri
mediante i quali ci proponiamo di agire e di vivere. È vero che
normalmente prendiamo queste decisioni a seconda degli atteggiamenti del
gruppo — famiglia, nazione o cultura — cui apparteniamo. I fattori
ambientali hanno dunque un peso decisivo, ma si tratta pur sempre di
decisioni soggettive e dunque non rette dal criterio di ‘verità’ o
‘falsità’. Planck, mi pare, ha fatto uso di questa libertà finendo per
schierarsi a fianco della tradizione cristiana. Ciò
significa che i suoi pensieri e le sue azioni, che soprattutto
attengono alla sfera delle scelte personali, s’inquadrano perfettamente
nell’alveo di questa tradizione: nessuno si sogna di criticarlo, per
questo. Planck, insomma, ritiene che l’aspetto soggettivo del reale sia
nettamente distinto da quello oggettivo. In quanto a me, devo confessare
che questa distinzione così rigida mi lascia perplesso: non credo che
una distinzione così netta tra fede e conoscenza si possa mantenere
anche sul piano del pensiero collettivo”.
Anche Wolfgang era, come me, poco convinto. “Certamente
una distinzione del genere non può durare a lungo. Le religioni nascono
per inquadrare in una dimensione spirituale, basata in gran parte su
valori e concetti di tipo religioso, tutte le conoscenze di una società.
È necessario che questa dimensione spirituale sia alla portata anche
degli individui più modesti: basta che le immagini e le allegorie della
religione comunichino anche solo un’ombra vaghissima dei valori e delle
idee su cui essa si fonda. Ma, per persuadere l’individuo a vivere
secondo questi valori, occorre convincerlo che la dimensione spirituale
comprende tutte le conoscenze dell’uomo. Ed ecco che ‘credere’ non
equivale tanto ad ‘accettare acriticamente’ quanto ad ‘affidarsi alla
direzione’ dei valori istituzionalizzati. Questo è il motivo per cui
tutta la società è messa a rischio ogni volta che nuove conoscenze
minacciano di sconvolgere l’antico ordine spirituale. La separazione
completa tra conoscenza e fede può essere tuttalpiù una misura
d’emergenza che apporta un sollievo solo momentaneo. Credo
che nella nostra cultura occidentale si possa benissimo arrivare, in un
futuro non troppo remoto, al punto in cui le immagini e le allegorie
delle religioni avranno perso ogni forza di convinzione anche presso le
persone più modeste; e quando ciò accadrà ho paura che gli antichi
valori etici crolleranno come un castello di carte, e che gli uomini
perpetreranno orrori inimmaginabili. In conclusione, non
condivido la filosofia di Planck, anche se la ritengo valida da un punto
di vista logico e rispetto l’etica che ne deriva.
“Sono,
in questo, più vicino a Einstein, per cui Dio è in qualche modo
presente nelle leggi immutabili della natura. Einstein ha una
sensibilità particolare per il principio d’ordine che governa la natura,
e che egli scopre nella semplicità delle leggi naturali: semplicità che
egli ha percepito con grande immediatezza elaborando la teoria della
relatività. Certo, c’è una bella distanza da qui alle religioni
tradizionali; comunque, non credo che Einstein sia legato a una
qualsivoglia tradizione religiosa, e ho l’impressione che il concetto di
un Dio personale gli sia completamente estraneo. Secondo Einstein non
esiste separazione tra scienza e religione: il principio d’ordine
partecipa contemporaneamente della sfera soggettiva e di quella oggetti
va: mi sembra, questo, un punto di partenza di gran lunga migliore.”
“Ma
un punto di partenza per che cosa?” chiesi io. “Puoi dirti d’accordo
con Einstein solo a patto di fare, della percezione di questo principio
d’ordine, una faccenda strettamente personale: e ciò significa che da
questa impostazione non si esce.”
“Forse
non è così”, mi contraddisse Wolfgang. “Tieni presente che i progressi
che la scienza ha compiuto da due secoli a questa parte hanno senza
dubbio modificato il modo di pensare degli uomini: e ciò anche al di
fuori dell’Occidente cristiano. Direi
quindi che quanto ci dice la fisica ha un’importanza più che marginale.
E lo scontro tra la scienza e la dimensione spirituale offerta dalle
varie religioni è nato proprio dall’idea di un mondo oggettivo che
funziona secondo meccanismi suoi nello spazio e nel tempo secondo
rigorose leggi causali. Se la scienza andrà oltre questa angusta
impostazione — come ha fatto con la teoria della relatività e, in misura
forse maggiore, probabilmente farà con la teoria dei quanti — allora
muterà ancora una volta il rapporto tra la scienza e quel che le
religioni cercano di esprimere. Ho l’impressione che la scienza,
rivelando nel corso degli ultimi trent’anni nuove e più profonde
interrelazioni tra le cose, abbia conferito al pensiero umano
un’acutezza nuova. Prendi ad esempio il concetto di complementarità, che
secondo Bohr è fondamentale nell’interpretazione della teoria dei
quanti: si tratta di un concetto non certo ignoto alla filosofia, per
quanto espresso forse in modo meno incisivo. Ma la novità consiste
proprio nel fatto che questo concetto è entrato nelle scienze esatte:
l’idea che gli oggetti materiali siano completamente indipendenti dal
modo in cui li osserviamo si è rivelata nient’altro che un’astrazione,
un prodotto dell’intelletto che non trova corrispettivo in natura. Nelle
filosofie e nelle religioni d’Oriente troviamo invece l’idea di un puro
soggetto di conoscenza, di fronte al quale non vi è oggetto: anche qui
siamo probabilmente di fronte a un’astrazione pura, non corrispondente
ad alcuna realtà mentale o spirituale. Se applichiamo queste riflessioni
a un più ampio contesto, direi che probabilmente saremo costretti a
seguire, in futuro, una via di mezzo tra queste due posizioni estreme e,
forse, la via che Bohr ci indica con il suo concetto di
complementarità. E qualsiasi sistema di pensiero fondato su questa
impostazione si mostrerà non solo più tollerante verso le religioni di
ogni tipo, ma, godendo di una più ampia prospettiva potrà portare un suo
contributo anche al mondo dei valori.”
Intervenne
a questo punto Dirac che, appena venticinquenne, non apprezzava appieno
la virtù della tolleranza. “Non capisco perché mai stiamo a parlare di
religione”, disse. “Se siamo onesti — e in quanto scienziati l’onestà è
un nostro preciso dovere — non si potrà fare a meno di ammettere che
qualsiasi religione è una congerie di asserzioni false, prive di ogni
fondamento reale. L’idea stessa di Dio è un prodotto dell’immaginazione
dell’uomo. Capisco perfettamente che l’uomo primitivo, più esposto alle
incontrollabili forze della natura, abbia personificato queste forze
mosso dalla paura. Ma oggi ne sappiamo di più sull’universo, e non
abbiamo più bisogno di questi espedienti. Vi assicuro che non riesco a
capire in cosa può esserci utile postulare l’esistenza di una divinità
onnipotente; capisco solo che un postulato del genere non porta ad altro
che a sterili interrogativi: perché Dio permette resistenza del male e
del dolore, o lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, o altri
mali che Egli avrebbe potuto facilmente evitare? Se oggi esiste ancora
un insegnamento religioso, sappiamo benissimo che ciò avviene non perché
la religione ci convinca, ma per tenere tranquille le classi
subalterne. È più facile governare dei sudditi disarmati e pacifici
piuttosto che individui insoddisfatti che protestano; ed è più facile
sfruttarli, anche. È già stato detto: la religione è come l’oppio: i
popoli si cullano con sogni visionari dimenticando le ingiustizie e lo
sfruttamento reali. Di qui l’alleanza tra le due grandi forze politiche
dello Stato e della Chiesa. Entrambe trovano comoda l’illusione che un
Dio buono ricompensi — se non in questo mondo, nell’altro — coloro che
non si sono levati contro l’ingiustizia ma che si sono sottomessi
docilmente e magari con gratitudine ai doveri che vengono loro imposti. E
questo è il motivo per cui dire onestamente e francamente che Dio è
solo una creazione dell’immaginazione degli uomini è considerato il più
nero di tutti i peccati mortali.”
“Non
si può giudicare la religione, come tu fai, solo in base alla
strumentalizzazione politica che ne viene fatta”, obiettai. “Questo
perché ogni cosa di questo mondo è suscettibile di strumentalizzazione:
anche l’ideologia comunista di cui poco fa ti sei fatto portatore. Tieni
presente che sempre esisteranno le società degli uomini, e che deve
per forza esistere una lingua comune in cui parlare della vita e della
morte, e della più ampia cornice in cui si svolge il nostro esistere.
Questa ricerca di una lingua comune ha portato, nella storia,
all’elaborazione di forme spirituali dotate necessariamente di grande
forza di persuasione: come altrimenti avrebbero potuto tanti uomini
vivere con esse e per esse durante tanti secoli? Non si può liquidare
sommariamente la religione sulla base di considerazioni come le tue. Ma
forse tu sei così critico perché senti il bisogno di un’altra e nuova
religione in cui non si dia l’idea di un Dio personale”.
“Io
non apprezzo nessun mito religioso — rispose Dirac — se non altro
perché si contraddicono l’un l’altro. Sono nato in Europa e non in Asia
solo per caso: non vedo perché ciò dovrebbe costituire un criterio di
giudizio per stabilire che cosa è vero o in che cosa dovrei credere. Io
posso credere solo in ciò che è vero. E in quanto al retto
comportamento, posso giungere a stabilirlo per mezzo della ragione
soltanto in base alla situazione in cui mi trovo: poiché vivo in società
con altri, devo attribuire a questi gli stessi diritti che reclamo per
me. Cerco di essere equo: non mi si può chiedere altro. E le chiacchiere
sulla volontà di Dio, sul peccato e sul pentimento, su un mondo oltre
questo verso il quale dobbiamo tendere, ad altro non servono che a
nascondere questa nuda verità. Credere in Dio c’incoraggia a pensare che
Dio vuole che noi ci sottomettiamo a una forza superiore: idea
utilissima per mantenere certe strutture sociali che magari hanno avuto
senso in passato, ma che certo non hanno più posto nel mondo moderno.
Trovo inaccettabili tutti questi discorsi sulla cornice più ampia e
compagnia bella. La vita, in fondo, è come la scienza: vivere significa
incontrare difficoltà e cercare di superarle. E le difficoltà si
vincono solo una alla volta: la tua cornice più ampia non è che una
sovrastruttura mentale aggiunta a posteriori.”
La
discussione andò avanti su questo tono per un bei pezzo. Stranamente,
Wolfgang non disse più una parola. Vedevo che ogni tanto cambiava
espressione, o sorrideva con l’aria di chi la sa lunga, ma sempre senza
intervenire. Alla fine fummo noi a dovergli chiedere il suo parere. Ciò
lo sconcertò per un attimo, ma si riprese subito. “Beh, direi che anche
il nostro amico Dirac ha una religione, e il primo comandamento di
questa religione è ‘Dio non esiste e Paul Dirac è il suo profeta’.”
Tutti scoppiammo a ridere, anche Dirac, e poco dopo la compagnia si
sciolse.
Qualche
tempo dopo, credo a Copenaghen, parlai di questo con Bohr. Egli prese
immediatamente le difese di Dirac. “Trovo degno di lode — disse — che
Paul si sia battuto senza compromessi per difendere tutto ciò che si può
esprimere con linguaggio chiaro e logico. Egli è convinto che ciò che
si può esprimere, si può esprimere con chiarezza: o, per dirla con
Wittgenstein, che ‘su ciò di cui non si può parlare si deve tacere’.
Dovresti vedere i manoscritti che mi invia Dirac: la grafia è così
chiara, l’assenza di correzioni così assoluta, che solo il guardarli è
fonte di piacere estetico. Se suggerisco l’opportunità di cambiamenti
anche minimi, Paul se la prende moltissimo e comunque non cambia nulla.
Il suo lavoro è del resto estremamente brillante. Siamo andati di
recente insieme a una mostra di pittura dove c’era una marina di Manet
tutta giocata su stupende sfumature di grigio e di blu: si vedeva in
primo piano una barca accanto alla quale stava, nell’acqua, una forma
grigia non immediatamente riconoscibile. ‘Quella cosa lì è
inammissibile’, ha commentato Paul. Riconosco che si tratta sì di un
modo piuttosto strano di accostarsi all’arte, ma non per questo del
tutto infondato. Nell’arte, come nella scienza, ogni particolare va
descritto con la massima chiarezza e attenzione: non c’è posto per il
caso.
“Tuttavia
la religione è qualcosa di più complesso. Come per Dirac, l’idea di un
Dio personale mi è estranea. Dobbiamo però tener presente che la
religione impiega la lingua in modo diverso dalla scienza: la lingua
della religione è, semmai, più vicina a quella della poesia. È vero che
siamo portati a credere che la scienza si occupi di informazioni
relative a fatti oggettivi, mentre la poesia tratta essenzialmente di
fatti soggettivi: ne concludiamo quindi che se la religione vuole
occuparsi di verità oggettive bisogna che adotti gli stessi criteri di
verità della scienza. Ma per parte mia trovo la divisione del mondo in
una sfera oggettiva e una soggettiva operazione troppo arbitraria. Da
sempre le religioni hanno parlato per immagini, per parabole, per
paradossi: ciò significa che non vi è altro modo per riferirsi a quel
tipo di realtà cui la religione si applica. Ciò, naturalmente, non
significa che si tratti di una realtà solo immaginaria. E questo modo di
ripartire il reale in una sfera oggettiva e una soggettiva non credo ci
possa portare molto lontano.
“Ecco
perché sostengo che i progressi compiuti dalla fisica negli ultimi
decenni hanno esercitato un influsso liberatorio sul pensiero: perché
hanno dimostrato che i concetti di ‘soggettivo’ e di ‘oggettivo’ sono
oltremodo problematici. Tutto comincia con la teoria della relatività.
In passato, dire che due eventi sono simultanei era considerato un
enunciato significativo e oggettivo, comunicabile con facilità e
verificabile da qualsiasi osservatore. Oggi sappiamo che nel concetto di
simultaneità è incluso un aspetto soggettivo: due eventi che appaiono
simultanei a un osservatore in quiete non sono necessariamente
simultanei per un osservatore in movimento. Tuttavia la teoria della
relatività non relativizza integralmente il reale: è oggettiva in quanto
ogni osservatore può dedurre, ricorrendo a calcoli, che cosa un altro
osservatore ha percepito in passato o percepirà in futuro. Siamo
comunque molto lontani dal concetto classico di descrizione oggettiva.
“Questa
lontananza si fa ancora maggiore nella meccanica quantistica. Ancora
possiamo impiegare il linguaggio ‘oggettivo’ della fisica classica per
avanzare enunciati relativi ad alcuni fatti osservabili. Possiamo ad
esempio dire che una pellicola fotografica è stata esposta, o che si
sono formate goccioline d’acqua. Ma sugli atomi non possiamo dire nulla.
E le previsioni che possiamo eventualmente avanzare sulla base di
queste scoperte dipendono dal nostro modo di porci nella situazione: e
in quest’ambito l’osservatore ha libertà di scelta. Naturalmente, non fa
differenza se l’osservatore sia un uomo, un animale o una macchina:
però non è più possibile avanzare previsioni senza tener conto
dell’osservatore o delle modalità d’osservazione. In questo senso ogni
processo fisico ha un aspetto soggettivo e uno oggettivo. Oggi sappiamo
che il mondo oggettivo della scienza ottocentesca era in effetti solo
una riduzione, una idealizzazione, che non rappresenta tutto il reale. È
probabile che in futuro si dovrà ancora, nell’accostamento al reale,
distinguere tra sfera soggettiva e sfera oggettiva, e tracciare una
linea di separazione tra questi due ambiti. Ma dove esattamente corre
questa linea di separazione dipende dal modo in cui si guarda alle cose:
in una certa misura siamo liberi di stabilire questo confine. Ecco
perché capisco benissimo l’impossibilità di parlare di questioni
religiose impiegando un linguaggio oggettivo: e che religioni diverse si
esprimano ricorrendo a differenti forme spirituali è un’obiezione priva
di fondamento. Sono forme diverse ma forse complementari l’una
all’altra, sebbene possano escludersi a vicenda, e tutte necessario per
dare un’idea delle vastissime possibilità inerenti al rapporto dell’uomo
con il principio d’ordine.”
“Ma
se si fa una distinzione così recisa tra i linguaggi della religione,
della scienza e dell’arte — chiesi — che significato si può attribuire a
enunciati apodittici quali ‘esiste un Dio vivente’ o ‘esiste un’anima
immortale’? Che cosa significa ‘esiste’ in un linguaggio di questo tipo?
La scienza, come Dirac, non può accettare queste formulazioni. Forse
posso meglio illustrare l’aspetto epistemologico del problema ricorrendo
a un’analogia. In matematica, come tutti sanno, s’impiega un’unità
immaginaria: la radice quadrata di –1, i. Sappiamo che i
non figura tra i numeri naturali: nondimeno, alcune importanti branche
della matematica, ad esempio la teoria delle funzioni analitiche, si
fondano su questa unità immaginaria; si fondano, cioè, sul fatto che la
radice quadrata di – 1 esista veramente. Tu saresti disposto ad
accettare il fatto che l’enunciato ‘esiste la radice quadrata di – 1’
equivale a ‘esistono importanti relazioni matematiche che si possono
utilmente rappresentare semplicemente introducendo il concetto di radice
quadrata di – 1’? Tieni presente che tali relazioni matematiche
esisterebbero comunque anche senza l’introduzione di questo concetto: e
proprio questo è il motivo per cui questo tipo di matematica si rivela
di grande utilità anche nella scienza e nella tecnologia. Nella teoria
delle funzioni, ad esempio, ha importanza fondamentale l’esistenza di
leggi matematiche che reggono il comportamento di due variabili
continue. È possibile rendere più comprensibili queste relazioni
introducendo il concetto astratto di radice quadrata di – 1: ciò sebbene
tale concetto non sia di per sé indispensabile e non abbia un correlato
reale tra i numeri naturali. Egualmente astratto è il concetto di
infinito, che ha anch’esso un peso importantissimo nella matematica
moderna. Anch’esso non ha un corrispettivo reale, e solleva perdipiù
gravi problemi. In conclusione, la matematica introduce livelli sempre
più elevati di astrazione che ci permettono di comprendere ambiti sempre
più vasti. Comunque, tornando alla domanda che ti ho rivolto prima, è
corretto considerare l’espressione ‘esiste’ impiegata dalle religioni
solo come un altro, per quanto differente, tentativo di conseguire
livelli di astrazione ancora più elevati? Un tentativo di facilitare la
nostra comprensione di certe connessioni universali? Dopotutto le
connessioni sono reali, a prescindere della forma spirituale in cui si
cerca di ordinarle.”
“La
tua analogia è accettabile solo da un punto di vista epistemologico —
ribattè Bohr — ma da altri punti di vista è del tutto inadeguata. In
matematica possiamo mantenere le distanze tra noi e il contenuto dei
nostri enunciati: l’analisi matematica in definitiva è un gioco al quale
possiamo decidere di giocare o meno. La religione, invece, ha come
oggetto noi stessi, la vita e la morte: le premesse su cui si fonda sono
intese a dirigere le nostre azioni e quindi, se non altro
indirettamente, la nostra stessa esistenza. Non possiamo osservare la
religione impassibili, dall’esterno. Inoltre, è impossibile separare il
nostro atteggiamento di fronte alle questioni religiose
dall’atteggiamento con cui ci poniamo di fronte alla società. Anche se
la religione fosse solo la sovrastruttura spirituale di una determinata
società umana, è da stabilire se non sia proprio la religione la forza
che per tutta la storia ha plasmato la società, oppure se non sia la
società che, una volta formatasi, sviluppa nuove strutture spirituali
adattandole al livello delle proprie conoscenze. Oggi l’individuo è più
libero che in passato di scegliere liberamente il quadro spirituale in
cui far rientrare i suoi pensieri e le sue azioni; e questa libertà
rispecchia il fatto che i confini tra le varie culture e le varie
società si stanno facendo più fluidi e incerti. Ma anche se l’individuo
cerca di conseguire la massima indipendenza sarà sempre condizionato —
consapevolmente o meno — dalle strutture spirituali esistenti. Infatti
bisogna che egli possa parlare della vita e della morte, o della
condizione umana, con gli altri individui che compongono la società in
cui egli vive; e poi deve educare i suoi figli secondo le norme tipiche
di quella società. L’individuo non può certo raggiungere questi
obiettivi se indulge a sofismi epistemologici. Anche qui, tra il
pensiero che indaga criticamente il contenuto di una certa religione e
l’azione fondata sulla deliberata accettazione di questo contenuto,
esiste una complementarità. E un’accettazione di questo genere, se
consapevole, conferisce all’individuo forza e fiducia nei suoi scopi, lo
aiuta a vincere i dubbi e, nella sofferenza, lo conforta consolandolo
con la sensazione di trovarsi al riparo sotto un tetto che tutto
abbraccia. Così la religione contribuisce a rendere più armoniosa la
vita sociale ricordandoci, con il linguaggio delle immagini e delle
parabole, della più ampia cornice in cui la nostra vita è inserita.”
“Tu
continui a parlare di libera scelta individuale — obiettai —
paragonandola alla libertà di scelta che ha il fisico atomico nel
progettare i suoi esperimenti in questo o quel modo. In fisica classica,
però, questa libertà non esiste. Ciò significa che gli aspetti
caratteristici della fisica moderna hanno una più diretta rilevanza con
il problema del libero arbitrio? Come sai, spesso si ricorre
all’impossibilità di determinare completamente i processi atomici per
ricavarne l’effettiva esistenza del libero arbitrio o dell’intervento
divino.”
“Ho
l’impressione che questo modo di accostarsi al problema si fondi su un
equivoco o, meglio, sul fatto che si confondono diverse questioni che, a
parer mio, comportano differenti, per quanto complementari, modi di
guardare alle cose. Parlando di libero arbitrio, ci riferiamo a una
situazione in cui occorre prendere delle decisioni. Questa situazione ne
esclude altre: quella in cui, ad esempio, analizziamo le motivazioni
delle nostre azioni, o quella in cui studiarne i processi fisiologici,
ad esempio i processi elettrochimici che hanno luogo nel cervello. O,
se preferisci, si tratta di situazioni complementari: quindi, chiedersi
se le leggi naturali determinano gli eventi in modo assoluto o solo
statistico non è questione che abbia rilevanza diretta con il problema
del libero arbitrio. È ovvio che i diversi modi di guardare alle cose
devono, alla lunga, convergere in un quadro complessivo: il che equivale
a dire che bisogna giungere a considerarle frazioni della stessa realtà
non in contraddizione tra loro. Quando si parla di intervento divino, è
evidente che non ci riferiamo alla determinazione di un evento in senso
scientifico, ma resistenza di un collegamento significativo tra questo
evento e altri, o tra questo evento e il pensiero umano. Ora, questo
collegamento intellettuale rientra nella realtà a buon diritto quanto il
principio scientifico della causalità: sarebbe rozzamente semplicistico
ascriverlo esclusivamente alla sfera soggettiva del reale. Anche qui le
scienze naturali ci offrono una situazione analoga da cui possiamo
trarre utili insegnamenti. Esistono ben note relazioni biologiche che
descriviamo riferendoci non a un principio di causalità, ma piuttosto di
finalismo: tenendo cioè presenti non tanto le cause da cui derivano ma i
fini cui tendono. Pensiamo ad esempio ai processi di rigenerazione che
intervengono in un organismo vivente in seguito a ferite o a malattie.
L’interpretazione finalistica è legata in modo caratteristico e
complementare con l’interpretazione fondata sulle leggi fisico-chimiche o
atomiche. Infatti, in un caso ci chiediamo se il processo di guarigione
porta effettivamente al fine desiderato, cioè alla restaurazione
nell’organismo delle condizioni normali; nell’altro, ci interroghiamo
sulla catena di cause che determina i processi molecolari. Si tratta di
due approcci che si escludono l’un l’altro, ma che non per questo sono
contraddittori. Abbiamo ottime ragioni per ritenere che le leggi della
meccanica quantistica si riveleranno valide non solo per la materia
inorganica, ma anche per gli organismi viventi. In quanto a ciò, anche
un approccio finalistico è altrettanto valido. Sono convinto che, se non
altro, i progressi della fisica atomica ci hanno mostrato la necessità
di imparare a pensare in modo più acuto e penetrante che non in
passato.”
“Come
vedi, torniamo sempre all’aspetto metodologico della religione”, gli
feci notare. “Dirac però se la prendeva più che altro con l’aspetto
etico. Egli condanna soprattutto la disonestà intellettuale e la voluta
miopia che spesso troviamo accostati al pensiero religioso. Ma ho paura
che la sua avversione l’abbia spinto a diventare un fanatico sostenitore
del razionalismo; e ho l’impressione che il razionalismo non basti.”
“Ritengo
che Dirac abbia fatto bene a condannare con tanto vigore i pericoli
della disonestà intellettuale e delle contraddizioni interne”, concluse
Bohr. “E Wolfgang ha fatto egualmente bene ad ammonire scherzosamente
Dirac facendogli capire come sia difficile sfuggire completamente a
questi rischi. Mi ricordo — continuò
accingendosi a raccontare un aneddoto, come faceva di solito in queste
occasioni — di un mio vicino, a Tisvilde, che una volta inchiodò un
ferro da cavallo alla porta. ‘Ma è davvero superstizioso?’ gli chiese un
amico comune. ‘Davvero è convinto che questo ferro da cavallo le
porterà fortuna?’ Quello rispose: ‘No, naturalmente; però dicono che funziona anche se non ci si crede.’”
W. Heisenberg Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965. Boringhieri, Torino 1984, pp. 92-103.
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