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lunedì 13 febbraio 2012

hopkins


A che serve la bellezza mortale 
***

A che serve la bellezza mortale — pericolosa; muove a danza il sangue
 — l'O-suggellate-così-quel-volto, forma più fiera lanciata
di quella a cui invita l'aria di Purcell? Vedi, fa così: tiene calda
l'intelligenza dell'uomo alle cose che sono; a quanto significa il bene — 
dove un'occhiata domina meglio d'uno sguardo fisso, sguardo di sconcerto.
Un tempo quei ragazzi belli, orrido fresco frutto caduto per tempesta di guerra,
come li avrebbe allora spigolati Gregorio, un padre, dalla affol-
lata Roma? Ma Dio a una nazione offrì preziosa fortuna di quel giorno.
All'uomo, che un tempo adorò roccia o sterile pietra,
la nostra legge dice: Ama le cose d'amore più degne, fossero tutte note;
del mondo le più amabili — il sé dell'uomo. Il sé splende dalla forma e dal volto.
Che fare allora? come incontrare bellezza? Basta che l'incontri; riconosci,
in cuor tuo, del cielo il dolce dono; poi parti, abbandonalo.
Sì, augura, a tutti augura, di Dio la più graziosa bellezza, la grazia.

To what serves mortal beauty —  dangerous; does set danc-
ing blood — the O-seal-that-so  feature, flung prouder form
Than Purcell tune lets tread to?  See: it does this: keeps warm
Men's wits to the things that are;  what good means—where a glance
Master more may than gaze,  gaze out of countenance.
Those lovely lads once, wet-fresh  windfalls of war's storm,
How then should Gregory, a father,  have gleanèd else from swarm-
ed Rome? But God to a nation  dealt that day's dear chance.
To man, that needs would worship  block or barren stone,
Our law says: Love what are  love's worthiest, were all known;
World's loveliest — men's selves. Self  flashes off frame and face.
What do then? how meet beauty?  Merely meet it; own,
Home at heart, heaven's sweet gift;  then leave, let that alone.
Yea, wish that though, wish all,  God's better beauty, grace.


Gerard Manley Hopkins, To what serves mortal beauty?

Postato da: giacabi a 20:31 | link | commenti
bellezza, hopkins

lunedì, 25 aprile 2011

PASQUA

***

Spezza il vaso e versa il nardo;
non badare, ora, alle spese;
porta perle, opali, sarde;
non contare, ora, la perdita del povero;
spendi tutto in onore di Cristo:
onora questo giorno di Pasqua.

Edifica la Sua chiesa e vesti il Suo santuario,
seppure vuoto esso sia sulla terra;
tu hai serbato il tuo vino più scelto:
lascialo correre per la gioia del Cielo;
dài mano all'arpa e soffia nel corno:
non sai tu che è il mattino di Pasqua?

Cogli dai cieli il loro gaudio:
prendi lezione dal suolo;
i fiori schiudono gli occhi al cielo,
e scoprono una gioia primaverile
la terra si spoglia dei panni invernali,
si acconcia per il giorno di Pasqua.

Vesti la bellezza in luogo della cenere,
metti i profumi in luogo delle vesti di lutto.
Ghirlande in luogo di scomposte chiome,
danze in luogo di passi lenti e mesti;
spalanca il tuo cuore, che esso
lasci entrare la gioia di questo giorno di Pasqua.

Cerca, accompagnandoti ad una folla felice, la casa
di Dio;
fa' che la Sua tavola sia affollata;
mescola lodi, preghiere e canti,
cantando alla Trinità.
Fa che da oggi la tua anima sempre
faccia una Pasqua di ogni mattino.


Gerard Manley Hopkins
1844 – 1889

Postato da: giacabi a 19:44 | link | commenti
hopkins

sabato, 18 dicembre 2010

"Il mondo è carico della grandezza di Dio."
Gerard Manley Hopkins

Postato da: giacabi a 16:44 | link | commenti
hopkins

sabato, 22 agosto 2009

La freschezza più cara
***
Generazioni hanno camminato, camminato, camminato;
e tutto è arso dal traffico; consunto, macchiato dalla fatica;

e porta il sudicio dell’uomo, e tramanda l’odore dell’uomo: il suolo
è spoglio ora, né il piede, calzato, può sentirlo
.

E, malgrado tutto questo, natura non è mai esaurita;
là, nel profondo delle cose, vive la più cara freschezza;

e benché le ultime luci siano scomparse dall’occidente oscuro,
oh!, il mattino sorge al bruno orlo dell’oriente.
 Gerard Manley Hopkins, il brano e’ tratto da ‘God’s Grandeur’, 1877)
.................................................................................................
Generations have trod, have trod, have trod;
And all is seared with trade; bleared, smeared with toil;
And wears man’s smudge and shares man’s smell: the soil
Is bare now, nor can foot feel, being shod.

And, for all this, nature is never spent;
There lives the dearest freshness deep down things;
And though the last lights off the black West went
Oh, morning, at the brown brink eastwards, springs.






Postato da: giacabi a 13:19 | link | commenti
hopkins

martedì, 04 novembre 2008

Sia lode a Dio
  ***
Sia lode a Dio per le cose spruzzate di colori;
per i cieli a due tinte come la mucca pezzata;
per il rosa punteggiato che stria la trota che nuota;

per le castagne che cadono come brace accesa
;                                per le ali dei fringuelli;
per i campi a toppe e pezze - prato, aratura e ovile;
e tutti i lavori, i loro attrezzi e arnesi.
Tutte le cose insolite, originali, uniche, strane;
tutto quello che è variato e punteggiato (chissà come)
di svelto e lento; dolce e aspro; splendente e fosco;

tutto questo lo genera Colui la cui bellezza è al di là del mutamento;
  lodatelo
 Gerard Manley Hopkins


Postato da: giacabi a 21:24 | link | commenti
bellezza, hopkins

martedì, 29 aprile 2008

Come salvare la bellezza dallo svanire lontano?
***
di Antonio Spadaro     
 Questa sembra la domanda fondamentale che genera l’ispirazione di Gerard Manley Hopkins. In lui risuona un’eco di piombo: l’unica possibilità di saggezza è quella di cominciare a disperare perchè non resta altro che l’età, i mali dell’età, canuti capelli, / pieghe e rughe, e il mancare e il morire, l’orrore della morte, avvolti sudari, le tombe, i vermi, e il crollare alla corruzione. A questa eco però ne segue subito un’altra, un’esplosione di suoni che festeggia la presenza di una via di fuga, un’eco d’oro: quanto sembra fuggire veloce, finito e disfatto, è invece destinato ad essere avvinto dalla più tenera verità / alla perfezione del suo essere, alla sua giovanile bellezza. Ecco: ciò che colpisce Hopkins è l’eccesso di presenza che solo la bellezza sa comunicare. Questa bellezza giovane è la Bellezza screziata da cui prende il titolo una sua splendida poesia. In essa Hopkins dà gloria a Dio per le cose chiazzate -/ per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata;/ per i nèi rosa in puntini sulla trota che nuota; per tutte le cose contrarie, originali, impari, strane;/ quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?).

Nei versi di Hopkins tutto sembra percorso da una scossa. Il mondo è come carico della grandezza di Dio. Carico (charged), sia nel senso del peso sia nel senso della carica elettrica, così che questa grandezza fiammeggerà, come fulgore da percossa lamina. La grandezza di Dio scuote e fa vibrare, imprime guizzo e slancio esuberante, sempre in movimento, mai in stallo. Hopkins esalta dunque Dio non in quanto stabile sicurezza dell’essere, al di là delle singole forme, ma in quanto autore delle differenze e delle energie polarizzanti, di ciò che è instabile nella durata e nella forma. Ecco dunque la certezza: vive in fondo alle cose la freschezza più cara. E così, grazie a questa visione profonda delle cose, Hopkins sarà acuto osservatore di vento, gradine e chicchi, dei flussi e riflussi del mare, delle forme degli alberi e delle curvature di acque che scorrono sopra le pietre, di sottili sfumature cromatiche nei tramonti del sole e delle infinite figure di nuvole di continuo cangianti. L’atto poetico comincia non nella coscienza autistica del poeta, ma nella visione attiva e vibrante del mondo: «è possibile che in certi tempi la bellezza di un albero, la sua forma, un determinato effetto, ecc. mi trasporti nella massima stupefazione», scrive Hopkins in una lettera.
Nel mondo resta sempre immediatamente visibile la gloria della creazione: Cos’è tutta questa linfa e tutta questa gioia?/ Un’eco del dolce essere della terra all’origine, scrive. Nel gheppio come nel sasso, nella libellula come nel corpo umano, nell’aria come nella zolla, nella trota iridata come nella mucca pezzata, Hopkins percepisce un eccesso, un’esuberanza, una bellezza sbocciante, una freschezza fumante, un rigoglio di godimento giovane, una brulicante giovinezza nel reale da cui viene attratto irresistibilmente. La realtà è infiammata, avvampa. E tutto questo fuoco è ancora l’eco caldo della creazione, dell’inizio.
Che la bellezza sia mortale o immortale è, se così possiamo dire, di secondaria importanza rispetto a ciò che essa opera: la rottura dell’io, la sua apertura, lo sconvolgimento della sua pigrizia. La bellezza è sempre bruta e pericolosa, e persino barbarous. Per quanto la bellezza «mortale» possa rapire l’anima di chi la contempla, alla fine essa non è che un filo di Arianna per chi è toccato dalla Grazia. Il principio primo della poesia hopkinsiana è che ogni bellezza appartiene a Cristo e a lui deve essere sempre rapportata. Per questo motivo egli è anche il giudice estetico ultimo di ogni arte umana. Infatti scrive il poeta in una lettera all’amico Dixon: «L’unico critico letterario giusto è Cristo». E all’amico poeta R. Bridges: «Come io faccio la critica a te, anche Cristo la fa, ma in maniera più giusta e più amabile, a te sia come poeta che a te come uomo».
Hopkins attraverserà momenti tremendi tra il 1885 e il 1887 nei quali scriverà i suoi terrible sonnets, ritrovati solo dopo la sua morte: un percorso dolorosissimo. Qui lo sguardo aperto e guizzante sul reale sembra perdersi nel buio della depressione e dello sconforto. La percezione del baratro si fa amara: Sono fiele, / sono bruciore. Il più fondo segreto di Dio / l’amaro volle che gustassi: il mio gusto ero io. Ma, seguendo questi pensieri, alla fine Hopkins stesso esplode in un fragoroso Basta! per frenare i pensieri di desolazione. Morte, piombo, buio cedono allo squillo del cuore (heart’s-clarion), la Resurrezione: in un lampo, a uno squillo,/ subito sono quel che è Cristo, poiché lui fu quel che sono, e/ questo poveraccio, scherzo, povero coccio, toppa, legno di zolfanello, diamante immortale, è diamante immortale. Ciò che è nulla, un piccolo truciolo, un fiammifero, diventa al fuoco della resurrezione un diamante.
Alla fine l’invocazione folgorante resta intatta nella sua richiesta di vita: o tu signore di vita, manda pioggia alle mie radici.
Da:   Bombacarta


Postato da: giacabi a 15:35 | link | commenti
bellezza, hopkins

martedì, 22 aprile 2008

Conforto della carogna
***

No, non banchetterò di te, o disperazione, conforto della carogna.
E non scioglierò - per quanto lente possano essere - queste ultime
fibre d'uomo.
In me, e neppure, assai stanco, assai stanco, griderò: "più non
posso". Io posso.
Qualcosa posso, sperare, desiderare che venga giorno, non scegliere
di non essere.

Ma oh, Tu terribile, perché hai voluto spietato far sentire su di me
il peso del tuo piede destro che fa contorcere il mondo? Gravare su
di me una zampa di leone?
Scrutare con profondi occhi voraci le mie ossa contuse? e scuotere,
In turbini di tempesta, me qui rammucchiato; me anelante di poterti
evitare e fuggire?
Perché? Affinché la mia pula potesse disperdersi; il mio grano
rimanere mondo e puro.

Anzi in tutta quella sofferenza, in quel tumulto, dacché (sembra)
baciai la verga,
La mano piuttosto, il mio cuore, oh guarda! avviluppò forza, raccolse
gioia, vorrebbe ridere, rallegrarsi.

Rallegrarsi per chi tuttavia? per l'eroe il cui tocco celeste mi
scagliò giù, il cui piede mi calpestò?
O per me che ho lottato contro di lui? O per quale dei due? Per l'uno
e l'altro?
Quella notte, quell'anno di oscurità ora passata, io misero giacqui,
lottando (mio Dio!)
 Gerard Manley Hopkins

Postato da: giacabi a 17:14 | link | commenti
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venerdì, 18 aprile 2008

L’eccesso di presenza che solo la bellezza sa comunicare: Gerard Manley Hopkins

***


di Antonio Spadaro
(relazione al Convegno “La poesia. Vivere nella possibilità”, Reggio Calabria, 4 aprile 2008)
Leggere un poeta significa, tra l’altro, assumere il suo sguardo sulle cose, sulla realtà, sulla vita. La capacità di saper vedere ciò che ci circonda non è un’abilità da dare per scontata. La potenza dirompente dei versi di Gerard Manley Hopkins, a mio avviso, consiste innanzitutto nella sua capacità di modificare lo sguardo del lettore, nel suo appello a sentire e gustare ogni cosa nella sua assoluta unicità.
Hopkins è un poeta ancora non molto conosciuto in Italia, anche se non mancano affatto traduzioni e studi sulla sua opera. È, certo, autore dell’Ottocento vittoriano, ma fu «scoperto» nel 1918, quando l’amico Robert Bridges decise di curare un’edizione parziale delle sue poesie. Ma praticamnete occorre spostare la data dell’effettiva diffusione della sua opera al 1948, quando appare, 60 anni dopo la morte del poeta, l’edizione a cura di W. H. Gardner per la Oxford University Press.
Un «piccolo pacco d’esplosivo ad alto potenziale», capace di liberare la poesia inglese «dal “ron ron” della tradizione ottocentesca», così Attilio Bertolucci ha definito l’opera di Gerard Manley Hopkins, poeta gesuita, uno dei fondatori della poesia inglese moderna. Egli mirava a estrarre dalle parole il più possibile senza lasciarsi ostacolare dalle regole della grammatica, della sintassi e dell’uso comune. Nonostante la sua breve vita si sia svolta tutta nel diciannovesimo secolo (1844-1889), la modernità della sua poesia appare evidente. Anche il suo impatto sui poeti contemporanei è notevole: Wystan Hugh Auden, Nobel Seamus Heaney, Robert Lowell, Sylvia Plath, Dylan Thomas, Elizabeth Bishop, per citarne alcuni.
Come salvare la bellezza dallo svanire lontano? Questa sembra la domanda fondamentale che genera l’ispirazione di Hopkins. In lui risuona un’eco di piombo: l’unica possibilità di saggezza è quella di cominciare a disperare perchè non resta altro che l’età, i mali dell’età, canuti capelli, / pieghe e rughe, e il mancare e il morire, l’orrore della morte, avvolti sudari, le tombe, i vermi, e il crollare alla corruzione.
A questa eco però ne segue subito un’altra, un’esplosione di suoni che festeggia la presenza di una via di fuga, un’eco d’oro: quanto sembra fuggire veloce, finito e disfatto, è invece destinato ad essere avvinto dalla più tenera verità / alla perfezione del suo essere, alla sua giovanile bellezza. Ecco: ciò che colpisce Hopkins è l’eccesso di presenza che solo la bellezza sa comunicare.
Questa bellezza giovane è la Bellezza screziata da cui prende il titolo una sua splendida poesia. In essa Hopkins dà gloria a Dio per le cose chiazzate - / per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata; / per i nèi rosa in puntini sulla trota che nuota; per tutte le cose contrarie, originali, impari, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?). La passione per l’instabilità, l’originalità, per ciò che è cangiante non è puro interesse superficiale per la stranezza. Essa è invece passione per ciò che è sorgivo, esuberante come acqua di fonte.
Nei versi di Hopkins tutto sembra percorso da una scossa. Il mondo è come carico della grandezza di Dio. Carico (charged) nel senso della carica elettrica. Per Hopkins «il mondo è una nube temporalesca caricata di bellezza e minaccia, con l’elettricità dell’amore creativo e dell’ira potenziale di Dio»[1]. Parole quali flame, shining, lights, bright (fiammeggiare, fulgore, luci, luminose) sono in questo senso alquanto esplicative.
Così la grandezza di Dio fiammeggerà, come fulgore da percossa lamina: scuote e fa vibrare, imprime guizzo e slancio esuberante, sempre in movimento, mai in stallo. Hopkins esalta dunque Dio non in quanto stabile sicurezza dell’essere, al di là delle singole forme, ma in quanto autore delle differenze e delle energie polarizzanti, di ciò che è instabile nella durata e nella forma. Ecco dunque la certezza: vive in fondo alle cose la freschezza più cara (There lives the dearest freshness deep down things).
Dunque l’uomo che Hopkins ha in mente in maniera implicita è un uomo aperto sul reale il quale riceve forti stimoli esterni che lo portano a percepire. L’atto poetico comincia non nella coscienza autistica del poeta, ma nella visione attiva e persino curiosa, sensibile a ciò che può destabilizzare la coscienza.
Un esempio di straordinaria potenza è la poesia As kingfisher catch fire…: S’accende (catch fire) il martin pescatore, avvampa (draw flame) la libellula; / rotolato dal bordo nel tondo pozzo/ il sasso suona (ring); vibra (tells) ogni corda pizzicata, d’ogni appesa campana/ la bocca scossa trova lingua per scagliare il suo nome;/ ogni cosa mortale fa una cosa e sempre quella: / dirama l’essere che entro ognuna dimora (deals out that being indoors each one dwells). Il sonetto mette in scena un martin pescatore, una libellula, un sasso, una corda pizzicata: realtà disparate che sembrano non avere alcun legame tra loro tranne la loro unicità assoluta e il loro modo forte di presentarsi alla percezione: alla vista (fuoco, fiamme) o all’udito (squillo, vibrazione).
Hopkins è assolutamente attento alla qualità essenziale di ogni cosa, a ciò che è causa della sua assoluta unicità e quindi delle sue caratteristiche che la distinguono da tutte le altre cose. Egli definisce questa qualità col nome di inscape, una sorta di visione (scape) interna (in-), di forma interiore. La sensazione che provoca l’inscape di una cosa è l’instress, cioè il modo con cui noi riusciamo a vedere l’intimo disegno di una cosa o il ritmo di un movimento, una specie di forza, di vitalità interna alle cose che ne promuove la comprensione.
È, insomma, il suo potere comunicativo e si concretizza spesso in emozioni epifaniche: «è possibile che in certi tempi - scrive il poeta - la bellezza di un albero, la sua forma, un determinato effetto, ecc. mi trasporti nella massima stupefazione» (Lettera a A.W.M. Baillie, 10 luglio 1863). Ha ragione Seamus Heaney quando in maniera concisa ed essenziale afferma che «Hopkins ci desta per percepire»[2].
Nel mondo resta sempre immediatamente visibile la gloria della creazione: Cos’è tutta questa linfa e tutta questa gioia?/ Un’eco del dolce essere della terra all’origine (earth’s sweet being in the beginning), scrive. E così si rivolge a Dio dicendo: come acqua di fonte,/ sgorgo dalla tua mano, sballottato/ come fossi pulviscolo nel raggio/ di luce della tua onnipotenza[3]. Nel mondo Hopkins percepisce un eccesso, un’esuberanza, una bellezza sbocciante, una freschezza fumante, un rigoglio di godimento giovane, una brulicante giovinezza nel reale da cui viene attratto irresistibilmente. La realtà è infiammata, avvampa. E tutto questo fuoco è ancora l’eco caldo della creazione, dell’inizio.
Che la bellezza sia mortale o immortale è, se così possiamo dire, di secondaria importanza rispetto a ciò che essa opera: la rottura dell’io, la sua apertura, lo sconvolgimento della sua pigrizia. A che cosa serve la bellezza mortale? La domanda è il titolo di una poesia del 1885. Essa è riconosciuta ancora una volta come dangerous, pericolosa. Essa muove a dan- / za il sangue (does set danc-/ing blood) e tiene calda/ l’intelligenza dell’uomo alle cose che sono (keep warm/ Men’s wit to the things that are).
Ecco dunque il vero senso del pericolo. Non è affatto un pericolo di ordine puramente moralistico. Il risveglio dei sensi per Hopkins ha sempre un significato ampio, globale, di risveglio della coscienza e del cuore. Mai è limitato e circoscritto alla pura sensualità erotica, che pure comprende. La bellezza, facendo danzare il sangue, riscalda lo spirito dell’uomo e lo apre alla realtà, alle cose che sono.
Questa visione è possibile non per una facile visione ottimistica del modo e della vita. Occorrerebbero pagine e pagine per spiegare come e perché la vita di Hopkins in realtà sia stata tutt’altro che felice. I suoi diari e i suoi «sonetti terribili» lo stanno a dimostrare.
Essa invece è possibile perché egli avverte il dito di Dio entrare nella sua vita come un lampo. Il poeta lo scrive in maniera assolutamente biografica nel suo capolavoro, il poema dal titolo The Wreck of Deutschland (Il naufragio del Deutschland), composto in memoria di cinque suore francescane tedesche, esiliate dalle leggi Falck e annegate nella notte del 7 dicembre 1875 mentre erano in viaggio verso l’America[4]: Tu che mi domini/ Dio! che dai soffio e pane; / riva del mondo, ritmo del mare;/ dei vivi e dei morti Signore;/ ossa e vene Tu mi hai legato, e fissato la carne, / e - con che terrore - dopo hai quasi, disfatto/ l’opera tua: e mi colpisci di nuovo?/ ancora sento il tuo dito e ti trovo.
Il poeta si riconosce soffice flusso (sóft síft) di clessidra, innervato da una sorgente primaverile (stealing as Spring/ through him) - cioè Dio stesso - che egli percepisce insinuata nel suo più intimo. Ed ecco allora la preghiera che sale da questi alti contrasti di lampi e fiamme, sabbia e sorgenti, ossa e vene: Sii adorato tra gli uomini,/ forma trimunere, Dio;/ Premi la tua ribelle, caparbia nella tana,/ la malizia dell’uomo, con naufragio e tempesta./ Dolce oltre il dire, più in là della parola,/ tu sei fulmine e amore, io lo scopersi, sei inverno e calore;/ padre e lenimento del cuore che hai premuto:/ in nerezza discendi e più allora sei pietoso. La tragedia del naufragio, pur nel suo nero terrore, cede davanti alla luce di Cristo, che la raggiunge nella tempesta dei suoi passi (storm of his strides): Sia egli pasqua in noi, fonte del giorno al nostro buio, lanterna cremisi dell’oriente[5].
Come Hopkins scriverà in God’s Grandeur, la bellezza non svanisce col suo tramonto: E se anche le ultime luci sono svanite dal buio Occidente / Oh, il mattino sorge al bruno orlo dell’Oriente. C’è una riserva di freschezza abissale, in cui si può soltanto andare a picco; un altrove o un lassù che, più che luogo, è realtà interna all’essere che gli impedisce di spegnersi: la natura non è mai esausta (nature is never spent), non si esaurisce e non si spegne.
Certo, non è affatto facile rendersene conto, visto che la morte sporca e spegne (blots black out) e tutto sembra invece affogare in un enorme buio (enormous dark). Ma, seguendo questi pensieri alla fine Hopkins stesso esplode in un fragoroso Enough!, cioè Basta! per frenare i pensieri di desolazione. Morte, piombo, buio cedono allo squillo del cuore (heart’s-clarion), la Resurrezione: questo poveraccio, scherzo, povero coccio, toppa, legno di zolfanello, diamante immortale, è diamante immortale. Ciò che è nulla, un piccolo truciolo, un fiammifero, diventa al fuoco della resurrezione un diamante[6].
Ecco dunque la condizione umana radicale: l’incompiutezza, l’essere in attesa di un compimento, il desiderio che la primavera pervada l’essere dell’uomo e del mondo e renda giustizia al suo destino, che è dayspring, alba, momento iniziale e sorgivo del giorno. Ciò che adesso è zolfanello è destinato al suo compimento di diamante.
La visione di Hopkins è una promessa di pienezza. La realtà umana, vista così, assume una grande plasticità e un forte dinamismo: nulla è possibile guardare con occhio formato alle categorie cristallizzate dall’abitudine, che non servono più. È necessario un occhio acuto, capace di cogliere la cara freschezza che vive in fondo alle cose.
 Da:   Bombacarta

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