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martedì 14 febbraio 2012

islam


Dialogo  tra San Francesco e il Sultano
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FF. 2690-2691
IL SULTANO: II vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliervi la tonaca, dunque voi cristiani non dovreste imbracciare armi e combattere i vostri nemici.
FRANCESCO: Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Il perdono di cui Cristo parla non è un perdono folle, cieco, incondizionato, ma un perdono meritato.
Gesù infatti ha detto: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”. Infatti il Signore ha voluto dirci che la misericordia va dispensata a tutti, anche a chi non la merita, ma che almeno sia capace di comprenderla e farne frutto, e non a chi è disposto ad errare con la stessa tenacia e convinzione di prima.
Altrove, oltretutto, è detto: Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E, con questo, Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete.
Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi.

Postato da: giacabi a 07:14 | link | commenti
islam, sfrancesco

domenica, 11 settembre 2011

Maometto raccontato da don Bosco
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«Il famoso impostore Maometto nacque in seno a povera famiglia di padre pagano e di madre ebrea nella Mecca, città dell’Arabia. Vagando in cerca di fortuna, fu fatto agente di una vedova mercantessa ebrea di Damasco, che presto lo sposò. Siccome pativa epilessia, egli seppe servirsi di questa sua infermità a provare la religione da sé inventata, affermando quelle frequenti cadute essere altrettanti rapimenti, in cui esso teneva colloqui con l’Arcangelo Gabriele.

La religione che esso predicava è un miscuglio di paganesimo, di giudaismo e di cristianesimo. Ammette un solo Dio, non riconosce Gesù Cristo come Dio, ma soltanto come suo profeta. (…) Dettò la sua credenza in lingua araba, compilando un libro, cui diede nome di Corano, ossia di libro per eccellenza; nel quale si vanta di aver operato un miracolo, per altro molto ridicolo. Narra cioè, che essendo caduto un pezzo di luna in una sua manica, egli seppe per bene racconciarla; ecco perché i maomettani presero per insegna la mezzaluna.

Conosciuto per uomo perturbatore, i suoi concittadini volevano ucciderlo. Ma l’accorto Maometto pigliò la fuga, e ripiegò a Medina con parecchi avventurieri, che l’aiutarono ad impadronirsi di quella città. Questa fuga di Maometto appellasi Egira, che vuol dire persecuzione; e da essa appunto cominciò l’Era Musulmana, corrispondente all’anno di Gesù Cristo 622. Il suo Corano è pieno di contraddizioni, assurdità e ripetizioni. Non sapendo scrivere, Maometto fu aiutato da un ebreo a da un monaco apostata persiano, di nome Sergio. Il Maomettismo ebbe presto molti seguaci, ed in breve il suo autore divenuto capo di formidabili masnadieri, potè con le parole, e assai più con le armi, dilatarlo quasi per tutto l’Oriente».
(San Giovanni Bosco)

Postato da: giacabi a 20:22 | link | commenti
islam, don bosco

venerdì, 24 giugno 2011

15 giugno 2011

INEDITO

Io, Asia Bibi, muoio:
ascoltate la mia voce!

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In carcere i giorni e le notti sono uguali. Non so più dire che cosa provo. Paura, questo è sicuro... ma non mi opprime più come all’inizio. I primi giorni arrivava a farmi battere un tamburo in petto. Ora si è un po’ calmata. Non è più un soprassalto continuo. Le lacrime no, non mi hanno mai lasciata. Scendono a intervalli regolari. I singhiozzi, invece, sono cessati. Le lacrime sono le mie compagne di cella. Mi dicono che non mi sono ancora arresa, mi dicono che sono vittima di un’ingiustizia, mi dicono che sono innocente.

Non so molto del mondo al di fuori del mio villaggio. Non ho studiato, ma so che cosa è bene e che cosa è male. Non sono musulmana, ma sono una buona pakistana, cattolica e patriota, devota al mio Paese come a Dio. Abbiamo amici musulmani. Non ci sono mai stati problemi. E anche se non abbiamo avuto sempre vita facile, abbiamo il nostro posto. Un posto di cui ci siamo sempre accontentati. Quando si è cristiani in Pakistan, ovviamente bisogna tenere gli occhi un po’ più bassi. Certi ci considerano cittadini di seconda categoria. A noi sono riservati lavori ingrati, mansioni umili. Ma il mio destino non mi dispiaceva. Prima di tutta questa storia ero felice con i miei, laggiù a Ittan Wali. Oggi sono come tutti i condannati per blasfemia del Pakistan.

Che siano colpevoli o no, la loro vita viene stravolta. Nel migliore dei casi stroncata dagli anni di carcere. Ma il più delle volte chi è condannato per l’oltraggio supremo, che sia cristiano, indù o musulmano, viene ucciso in cella da un compagno di prigionia o da un secondino. E quando è giudicato innocente, cosa che capita assai di rado, viene immancabilmente assassinato appena lascia il penitenziario. Nel mio Paese l’accusa di bestemmiatore è indelebile. Essere sospettati è già un crimine agli occhi dei fanatici religiosi che giudicano, condannano e uccidono in nome di Dio. Eppure Allah è solo amore. Non capisco perché gli uomini usino la religione per fare il male. Mi piacerebbe credere che prima di essere esponenti di questa o quella religione siamo anzitutto uomini e donne. In questo momento mi rammarico di non saper né leggere né scrivere. Solo ora mi rendo conto di quale enorme ostacolo sia. Se sapessi leggere, oggi forse non mi ritroverei chiusa qui dentro. Sarei senz’altro riuscita a controllare meglio gli eventi. Invece li ho subiti, e li sto subendo tuttora. Secondo i giornalisti, 10 milioni di pakistani sarebbero pronti a uccidermi con le loro mani.

A chi mi eliminerà, un mullah di Peshawar ha addirittura promesso una fortuna: 500.000 rupie. Da queste parti è il prezzo di una bella casa di almeno tre stanze, con tutti i comfort. Non capisco questo accanimento. Io, Asia, sono innocente. Comincio a chiedermi se, più che una tara o un difetto, in Pakistan essere cristiani non sia diventato semplicemente un crimine. Il mio unico desiderio, in questa minuscola cella senza finestre, è quello di far sentire la mia voce e la mia rabbia. Voglio che il mondo intero sappia che sto per essere impiccata per aver aiutato il prossimo.

Sono colpevole di avere manifestato solidarietà. Il mio torto? Solo quello di avere bevuto dell’acqua proveniente da un pozzo di alcune donne musulmane usando il «loro» bicchiere, quando c’erano 40 gradi al sole. Io, Asia Bibi, sono condannata a morte perché avevo sete. Sono in carcere perché ho usato lo stesso bicchiere di quelle donne musulmane. Perché io, una cristiana, cioè una che quelle sciocche compagne di lavoro ritengono impura, ho offerto dell’acqua a un’altra donna. Voglio che la mia povera voce, che da questa lurida prigione denuncia tanta ingiustizia e tanta barbarie, trovi ascolto. Desidero che tutti coloro che mi vogliono vedere morta sappiano che ho lavorato per anni presso una coppia di ricchi funzionari musulmani. Voglio dire a chi mi condanna che per i membri di quella famiglia, che sono dei buoni musulmani, il fatto che a preparare i loro pasti e a lavare le loro stoviglie fosse una cristiana non era un problema. Ho passato da loro 6 anni della mia vita, ed è per me una seconda famiglia, che mi ama come una figlia!

Sono arrabbiata con questa legge sulla blasfemia, responsabile della morte di tanti ahmadi, cristiani, musulmani e persino indù. Da troppo tempo questa legge getta in prigione degli innocenti, come me. Perché i politici lo permettono? Solo il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro cristiano per le Minoranze, Shahbaz Bhatti, hanno avuto il coraggio di sostenermi pubblicamente e di opporsi a questa legge antiquata. Una legge che è in sé una bestemmia, visto che semina oppressione e morte in nome di Dio. Per avere denunciato tanta ingiustizia questi due uomini coraggiosi sono stati assassinati in mezzo alla strada. Uno era musulmano, l’altro cristiano. Tutti e due sapevano che stavano rischiando la vita, perché i fanatici religiosi avevano minacciato di ucciderli. Malgrado ciò, questi uomini pieni di virtù e di umanità non hanno rinunciato a battersi per la libertà religiosa, affinché in terra islamica cristiani, musulmani e indù possano vivere in pace, mano nella mano. Un musulmano e un cristiano che versano il loro sangue per la stessa causa: forse in questo c’è un messaggio di speranza. Supplico la Vergine Maria di aiutarmi a sopportare un altro minuto senza i miei figli, che si chiedono perché la loro mamma sia improvvisamente sparita di casa. Dio mi dà ogni giorno la forza di sopportare questa orribile ingiustizia. Ma per quanto ancora?

Copyright © Oh! Éditions, 2011. All rights reserved © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Asia Bibi

Postato da: giacabi a 19:15 | link | commenti
islam, cattolico

giovedì, 31 marzo 2011

L'accoglienza ha dei criteri
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di Luigi Negri e Riccardo Cascioli
31-03-2011


In questi giorni drammatici per il continuo arrivo di barconi di immigrati a Lampedusa, si sono sentiti e letti molti discorsi anche contrastanti sull'accoglienza e sul dovere di solidarietà, soprattutto riferiti al compito dei cattolici. Noi pensiamo sia il caso anzitutto di confrontarsi con quanto dice su questo tema il Catechismo della Chiesa cattolica, cercando di capirne le implicazioni. Per questo proponiamo un passaggio del capitolo dedicato all'immigrazione tratto dal libro scritto da monsignor Luigi Negri e Riccardo Cascioli, "Perché la Chiesa ha ragione", Lindau 2010 (pp.151-156). 

Mentre le singole soluzioni politiche possono essere opinabili, il magistero della Chiesa indica chiaramente i criteri con cui affrontare i vari problemi legati alla questione della migrazione. E non è corretto insistere su uno dimenticando gli altri. Troviamo una sintesi importante del magistero nel Catechismo della Chiesa cattolica (Ccc) al paragrafo 2241 che fissa tre criteri fondamentali.

Il primo è il dovere delle nazioni ricche ad accogliere lo straniero «alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita». Di fronte al povero e al sofferente non è lecito per nessuno girare la testa altrove o lasciarlo morire in nome di principi astratti. È dunque importante, ad esempio, garantire adeguate strutture di prima accoglienza, magari favorendo – in base al principio di sussidiarietà – quelle organizzazioni della società civile impegnate su questo fronte che dimostrano competenza ed efficienza in materia. Non c’è dubbio che questo sia l’ambito proprio per l’azione delle organizzazioni ecclesiali e di volontariato. E allo Stato è lecito chiedere di non ostacolare questa azione di carità.

È giustizia anche la rapidità nelle procedure di «screening» per stabilire chi abbia il diritto, e chi non, di rimanere sul suolo del Paesi di accoglienza. E per chi diventa regolare non si possono creare artificiosamente altre difficoltà alla permanenza, o intralci burocratici che lo trattano sempre e comunque da intruso. D’altra parte, chi non ha il diritto di rimanere deve essere rimpatriato, sempre in condizioni di sicurezza ma senza ambiguità e tentennamenti. La politica del chiudere un occhio, o il foglio di via senza controllo, favoriscono oggettivamente clandestinità e criminalità danneggiando anche gli immigrati regolari. Anche la certezza del diritto è un modo per rispettare i diritti umani.

In ogni caso, restando all’articolo del catechismo, il fondamentale diritto di accoglienza incontra due limiti.

Il primo è definito dall’inciso
che segue il dovere di accoglienza, ovvero «nella misura del possibile». Vale a dire che l’ingresso di immigrati non può essere a briglie sciolte, anzi è dovere dello Stato regolare il flusso migratorio secondo le possibilità del Paese di accoglienza. Si stabilisce qui un’importante distinzione tra la persona del migrante – nei confronti del quale va sempre rispettato il «diritto naturale» e va protetto – e la politica migratoria che, nel regolare i flussi, deve stabilire un limite alla permanenza di stranieri in un determinato Paese. Di più: le politiche migratorie devono tenere conto della situazione e dei bisogni dei Paesi di accoglienza quanto di quelle dei Paesi di origine dei migranti.

Nel caso dei barconi che arrivano sulle coste siciliane, ad esempio, un conto è il dovere di soccorrere delle persone in mare, altra cosa è il garantirne la permanenza in Italia, che va invece regolata in base ai flussi decisi dal governo e da altre norme di diritto internazionale, quali quella sull’asilo politico.
Su questo punto ci si deve giustamente chiedere quali siano però i criteri con cui stabilire la «misura del possibile». Ci soccorre in questo il Compendio della Dottrina Sociale (Cds) che, al n. 298, parla di flussi migratori da regolare «secondo criteri di equità ed equilibrio» in modo che «gli inserimenti
avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana». L’obiettivo è quello di facilitare l’integrazione dell’immigrato «nella vita sociale» del Paese che lo accoglie, nell’orizzonte del bene comune. Il Cds fa riferimento esplicito al Messaggio di Giovanni Paolo Il per la Giornata Mondiale della Pace 2001, secondo cui si tratta di «coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (n. 13).

Le politiche migratorie, dice ancora il Catechismo, vanno definite «in vista del bene comune». Quest’ultimo concetto, «il bene comune», non va ristretto alle questioni implicate nell’accoglienza o meno di un immigrato, ma deve avere un orizzonte ampio, che consideri tutti i fattori legati alle persone e alle società coinvolte. Dobbiamo aver chiaro, infatti, che il problema dell’immigrazione si pone in quanto un precedente diritto fondamentale è stato violato. Quello di poter vivere nella propria terra. Non stiamo ovviamente parlando di chi «sceglie» di andare all’estero per cogliere migliori opportunità professionali, ma di chi è «costretto» ad abbandonare il proprio Paese spinto dalla fame. A questo aspetto si deve dedicare maggiore attenzione, tenendo anche conto che
la migrazione priva i paesi di origine di una importante forza lavoro, in genere delle migliori energie e professionalità. Un fenomeno che tende a rendere questi paesi ancora più poveri e fragili, come ha chiaramente detto il demografo e rettore dell’Università della Sorbona di Parigi, Gérard- François Dumont, in risposta a chi vede l’immigrazione come una risposta al calo demografico dei paesi europei: «Se l’Europa attira forza lavoro dai Paesi in via di sviluppo, questo significa anche che da quei Paesi attira le forze migliori, impedendo di fatto lo sviluppo di quei Paesi. Pensare perciò di risolvere i nostri problemi con l’immigrazione è un metodo molto egoista: se si vuole davvero aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, si deve anche trovare il modo di non danneggiarlo»

Non a caso il già citato articolo del Compendio invita esplicitamente a «favorire tutte quelle condizioni che consentono accresciute possibilità di lavoro nelle proprie zone di origine». Se è vero che la migrazione è un fenomeno naturale – tanto più in questa epoca di globalizzazione – ciò non toglie che parte integrante di una politica migratoria debba essere quella di eliminare o ridurre le cause che stanno all’origine della migrazione: siano esse cause di sottosviluppo o di atteggiamenti criminali di singoli governi o tutte e due le cose insieme (ricordiamo quando Turchia e Albania
incoraggiavano l’afflusso di clandestini sulle coste italiane).

Parte di una seria politica migratoria è dunque anche la revisione dei meccanismi della cooperazione internazionale – italiana ed europea – e dell’economia mondiale in modo da promuovere un vero sviluppo dei Paesi poveri.

Un secondo limite posto dal Catechismo attiene ai doveri dell’immigrato che «Ã¨ tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, a obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». L’accoglienza non è dunque una strada a senso unico e lo Stato ha il dovere di vigilare sull’osservanza di questa indicazione. La difficoltà o addirittura l’aperto rifiuto a integrarsi nella nostra cultura, proprio di alcuni gruppi, costituisce dunque un problema oggettivo alla permanenza in Italia e, più in generale, in Europa. Integrarsi non vuoi dire ovviamente omologarsi, assumere in tutto e per tutto la nostra cultura, ma conoscerla e rispettarla. Imparare la lingua italiana, ad esempio, è il primo passo in questo senso. L’integrazione nella scuola italiana, per i bambini, è altrettanto essenziale e a questo non contribuiscono certo classi della scuola pubblica dove i bambini italiani sono in minoranza.

Ma questo impone che il Paese di accoglienza sia chiaro nella propria identità o la riscopra, facendo rispettare con decisione i valori – culturali, spirituali, sociali e giuridici – che lo fondano. Come ha spiegato nel 2000 l’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, in una nota pastorale:

"I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte".

Lo Stato ha il dovere quindi di far rispettare le sue leggi, che nascono da una ben precisa cultura: non ci può essere spazio per la poligamia, per l’applicazione della sharìa (la legge coranica) anche se limitata ad alcuni casi, per il burkha laddove la legge vieta di circolare con il volto coperto, men che meno per la rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici o per il reclutamento di terroristi.

Postato da: giacabi a 20:48 | link | commenti
islam, negri

sabato, 05 marzo 2011

Voglio un posto ai piedi di Gesù» Ecco il testamento di Bhatti

di Shahbaz Bhatti
04-03-2011

Quella che segue è una testimonianza di Shahbaz Bhatti, il ministro pachistano per le Minoranze religiose ucciso il 2 marzo da un commando di fondamentalisti islamici che lo hanno "punito" perché cercava di modificare la Legge sulla blasfemia che in 25 anni di applicazione è costata la vita a centinaia di cristiani. Il testo è tratto da "Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza", Marcianum Press 2008.


"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.


Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.


Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».
 

Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita.


Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.


Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.
 

Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi».

I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.


Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna".

Postato da: giacabi a 20:24 | link | commenti
islam, testimonianza

lunedì, 03 gennaio 2011

Cristiani, agnelli in mezzo ai lupi ….
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2 gennaio 2011 / In Articoli
Come iniziare meglio l’anno nuovo, se non con un nuovo macello di cristiani? Gli agnelli sacrificali sono sempre gli stessi, sono a portata di mano dei carnefici e nessuno li difende.
I ventuno morti per un’autobomba piazzata all’ingresso di una chiesa ad Alessandria d’Egitto, vanno a sommarsi alla cinquantina di vittime fatte in un’altra chiesa, a Bagdad, il 31 ottobre, a cui è seguito poco dopo il supplizio di altri sei cristiani (con 33 feriti).
Tragedie che vanno a sommarsi alla terribile condizione dei cristiani in Pakistan, alle ragazzine cristiane che lì sono ritenute schiave a disposizione di ricchi signori islamici, per non dire del caso di Arshed Masih che è stato bruciato vivo per la sua fede cristiana, mentre la moglie – andata a denunciare l’orrore dalla polizia – è stata violentata davanti agli occhi dei figli (sono cronache dell’anno appena trascorso).
Ma non importa niente a nessuno dei cristiani. Come ha scritto Bernard Henri Lévy un mese fa sul Corriere della sera: “oggi i cristiani formano, su scala planetaria, la comunità più costantemente, violentemente e impunemente perseguitata”.
Quando mi capitò, qualche anno fa, di scrivere questa stessa cosa, documentandola con un lungo elenco di massacri e vessazioni mi attirai addosso delle reazioni irate o sarcastiche.
Anche Lévy ha subito la stessa sorte, infatti aggiunge: “Questa frase ha sorpreso. Ha provocato anche una certa agitazione qui e là. Eppure… Guardate…”.
Ha proseguito elencando alcuni dei massacri in corso e l’indifferenza del mondo.
Ovviamente ci sono tante violenze e discriminazioni anche contro non cristiani e Lévy ne è sempre un accorato testimone che fa sentire la sua voce, ma – come dice l’intellettuale ebreo francese – mentre queste diverse forme di discriminazione e razzismo sono riconosciute oggi come tali e denunciate, mentre “l’antisemitismo ha finito col diventare, nelle nostre regioni, grazie al cielo, un crimine designato come tale, debitamente registrato, punito”, mentre “il pregiudizio anti-arabi, o anti-Rom, per fortuna è condannato da organizzazioni tipo Sos razzismo che sono fiero di aver contribuito a fondare”, mentre la discriminazione di ogni minoranza (per motivi etnici, sessuali o religiosi) è messa al bando, “affermo però che di fronte a queste persecuzioni di massa dei cristiani improvvisamente non c’è più nessuno ad alzare la voce”.
Per questo oggi un intellettuale come Lévy, che certo non è un intellettuale cattolico, grida che si deve riconoscere e denunciare “l’odio planetario, l’ondata omicida di cui i cristiani sono vittime”.
In quell’articolo arriva a chiedere provocatoriamente a media e opinione pubblica occidentali: Esiste un permesso di uccidere, opprimere, umiliare, martirizzare i cristiani? Ebbene no. Oggi bisogna difendere i cristiani”.
Tuttavia – a conferma di quanto Lévy denuncia – quello stesso suo articolo, memorabile per onestà intellettuale e coraggio, come pure per drammaticità, il 17 novembre scorso è stato impaginato dal Corriere in una remotissima pagina interna.
Bernard Henri Lévy che merita la prima pagina su tutti i quotidiani italiani quando denuncia la condanna a morte in Iran per Sakineh (per presunto omicidio e adulterio), il Lévy seguito da un corteo di premi Nobel che sottoscrivono il suo appello e migliaia e migliaia di firme di intellettuali – in testa il solito Saviano – e semplici cittadini, quello stesso Lévy diventa di colpo una voce nel deserto, inascoltata e snobbata, quando – nell’articolo appena citato – denuncia il caso della giovane madre cristiana Asia Bibi, condannata a morte in Pakistan per il semplice fatto che è cristiana.
No, Asia Bibi proprio non ce la fa ad arrivare alla prima pagina del Corriere della sera o della Repubblica o della Stampa.
Nemmeno la notizia che la povera donna, madre di cinque bimbi, tuttora detenuta perché condannata a morte, sarebbe stata addirittura stuprata è riuscita a far muovere un solo intellettuale, un solo giornale, un solo programma televisivo.
I cristiani macellati, vittime di genocidio (come in Sudan), perseguitati e umiliati in Cina e in tutti gli altri regimi comunisti (Corea del Nord, Cuba, Vietnam) non soltanto sono vittime di serie B, ma quasi non meritano lo statuto di vittime, giacché la Chiesa deve sempre stare sul banco degli imputati.
Massacrata e perseguitata in decine di regimi, viene poi umiliata e sputazzata qua in Occidente come ludibrio delle genti. Neanche la voce del Papa, che ormai da settimane e settimane continua ad appellarsi a tutte le autorità per fermare i massacri di cristiani in corso viene ascoltata.
Lui stesso ha recentemente ripetuto che i cristiani sono il gruppo umano più perseguitato del pianeta. Ma l’Unione europea lo snobba (in Europa semmai si cerca di sradicare ogni traccia di tradizione cristiana).
E il presidente americano Obama è addirittura andato, di recente, a osannare il regime indonesiano come un esempio di tolleranza e pluralismo, omettendo il piccolo particolare dei massacri di cristiani lì perpetrati in questi decenni, a cominciare dal genocidio di Timor est.
Infine la Cina, di cui il Papa, nei giorni scorsi, ha denunciato le persecuzioni, è omaggiata e adulata dappertutto per la sua potenza economica, che tiene in pugno perfino gli Stati Uniti, figuriamoci dunque se l’Onu – dove già la fanno da padroni i regimi islamici – può occuparsi dei cristiani.
D’altronde c’è una parte della stessa Chiesa che non vede il mondo con gli occhi del Papa. Basti dire che un settimanale che si dice cristiano, di quelli che si vendono in fondo alle chiese, volendo proclamare un “italiano dell’anno” che ha onorato la Chiesa non ha scelto monsignor Luigi Padovese, vicario episcopale dell’Anatolia che nel giugno scorso è stato martirizzato in Turchia in odio alla fede cattolica, ma ha scelto il cardinal Tettamanzi perché – invece di occuparsi dei cristiani perseguitati o della situazione della fede a Milano – ha ripetutamente preteso che vengano costruite moschee a per i musulmani nella capitale lombarda.
Facciano pure una moschea, ma che c’entra il vescovo? Un vescovo non dovrebbe occuparsi piuttosto del fatto che chiese e seminari sono sempre più deserti? E non dovrebbe semmai unirsi al Papa nel dire basta ai massacri di cristiani?
Chi ha tagliato la gola a monsignor Padovese ha gridato: “ho ammazzato il grande satana! Allah Akhbar!”. La strage di Alessandria d’Egitto viene dopo una serie interminabile di attacchi musulmani alla minoranza cristiana dell’Egitto.
Quella di Alessandria è una delle chiese più antiche del mondo. Basti pensare che fu la Chiesa del grande s. Atanasio e che è – con Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli – una delle sedi patriarcali, perché chiesa di origine apostolica.
Quella città è diventata cristiana seicento anni prima che nascesse Maometto (e tuttora ha una grande comunità cristiana), ma i fondamentalisti musulmani sono impegnati a “ripulire” il Medio oriente dai cristiani ritenendoli degli abusivi (sebbene siano i cristiani gli egiziani autentici, mentre i musulmani hanno invaso molto tempo dopo quella terra).
Il governo italiano ha il merito di aver fatto sua, nelle sedi internazionali, la causa dei cristiani perseguitati. Ma è anzitutto dentro la Chiesa che il loro grido deve essere ascoltato. Ci vuole almeno il coraggio di dichiarare martire monsignor Padovese e tutte queste vittime.
Basta con i vescovi don Abbondio che si vergognano di Cristo e che cercano l’applauso dei media di sinistra impegnandosi per la costruzione di moschee invece di difendere, con il Papa, i cristiani perseguitati e martirizzati.

Antonio Socci

Da “Libero”, 2 gennaio 2011

Postato da: giacabi a 08:55 | link | commenti
islam, socci

venerdì, 12 novembre 2010

Salviamo Asia Bibi
(vedi appello di tv2000 in fondo)


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11 novembre 2010 / In Articoli
Le terre islamiche grondano di sangue cristiano. Ma il mondo se ne frega. Altri sei cristiani ammazzati in Iraq, con 33 feriti, dopo la carneficina del 31 ottobre nella chiesa di Bagdad, dove le vittime sono state cinquanta.
Ma non solo. Domenica sera in Pakistan una madre di due figli, Asia Bibi, operaia agricola di 37 anni, è stata condannata a morte da un tribunale del Punjab, semplicemente perché cristiana: la famigerata “legge sulla blasfemia” infatti in quel Paese manda a morte chiunque sia accusato da musulmani di aver offeso Maometto.  
Secondo l’agenzia Asianews, tutto risale a una discussione molto animata avvenuta nel giugno 2009 a Ittanwali. Alcune delle donne che lavoravano con Asia Bibi cercavano di convincerla a rinunciare al cristianesimo e a convertirsi all’islam.
Durante la discussione, Bibi ha risposto parlando di come Gesù sia morto sulla croce per i peccati dell’umanità, e ha chiesto alle altre donne che cosa avesse fatto Maometto per loro.
Le musulmane si sono offese, e dopo aver picchiato Bibi l’hanno chiusa in una stanza. Secondo quanto raccolto da ‘Release International’ una piccola folla si è radunata e ha cominciato a insultare lei e i bambini.
L’organizzazione caritativa, che sostiene i cristiani perseguitati, ha detto che su pressione dei leader musulmani locali è stata sporta denuncia per blasfemia contro la donna”.
La condanna a morte per “blasfemia” era purtroppo già stata comminata a dei cristiani maschi. Per una donna invece è la prima volta.
Tuttavia nessuno si solleverà per salvare una donna cristiana. I cristiani sono carne da macello. Come ai tempi di san Paolo sono “la spazzatura del mondo”.
Il mondo intero si è indignato e si è sollevato per salvare Sakineh, la donna condannata a morte in Iran per presunta complicità nell’omicidio del marito e per adulterio.
Bernard Henri Lévy ha (meritoriamente) scatenato la protesta dell’intero Occidente: si sono uniti a lui giornali, tv, governi, ministri, Unione europea, sindaci, intellettuali, montagne di premi Nobel, di Saviani e di Carlebruni. Perfino noi. E poi migliaia di firme, di foto esposte.
Bene. Niente di simile sarà fatto per la povera Bibi, che ha la sola colpa di essere cristiana. Il mondo non fa una piega quando si tratta di cristiani.
Anche altre recenti notizie di stupri e uccisioni di ragazze cristiane in Pakistan sono scivolate allegramente via dai mass media occidentali. Senza drammi.
Ma l’esempio supremo dell’indifferenza dell’Occidente per i massacri dei cristiani lo ha dato ieri il presidente americano Obama.
L’ineffabile Obama ha appena visitato l’Indonesia dove aveva vissuto qualche anno da bambino. E se n’è uscito con queste mirabolanti dichiarazioni riportate dai media del mondo intero: “L’Indonesia è un modello”.
Ecco qualche perla di Obama: Una figura paterna mi insegnò qui da bambino che l’Islam è tolleranza, non l’ho dimenticato”. Poi il presidente americano “esalta l’Indonesia ‘laica, pluralista, tollerante, la più grande democrazia in una nazione a maggioranza islamica’ ”. Ed ecco un’altra perla: “Lo spirito della tolleranza, sancito nella vostra Costituzione, è uno dei caratteri fondanti e affascinanti di questa nazione”.
Ma davvero? L’Indonesia, con i suoi 212 milioni di abitanti, è il paese musulmano più popoloso del mondo ed è una potenza economica. Il 75 per cento della popolazione è musulmano, i cristiani sono il 13,1 per cento, cioè 27 milioni e 800 mila persone.
E’ vero che la Costituzione, sulla carta, riconosce il pluralismo religioso e una buona percentuale di musulmani effettivamente è favorevole a una convivenza pacifica con i cristiani.
Ma concretamente cosa è accaduto? Sia sotto il regime di Suharto che sotto il successivo i cristiani hanno subito massacri e persecuzioni inenarrabili.
A Timor Est – un’isola abitata da cristiani – il regime indonesiano, che la occupò contro la deliberazione dell’Onu, ha perpetrato un vero e proprio genocidio.
Secondo monsignor Carlos Belo, premio Nobel per la pace, sono state 200 mila le vittime e 250 mila i profughi su una popolazione totale di 800 mila abitanti.
Dal 1995 al 2000 sono state distrutte 150 chiese. I massacri sono continuati anche dopo che la comunità internazionale, nel 1999, ha imposto l’indipendenza di Timor Est.
In quello stesso anno stragi di cristiani sono stati perpetrate anche in un’altra zona cristiana dell’Indonesia: l’arcipelago delle Molucche.
In tre anni di scontri si sono avute circa 13.500 vittime e 500 mila profughi. Più di 6 mila cristiani delle Molucche sono stati costretti a convertirsi all’Islam (con il solito corredo di stupri e infibulazioni forzate). Altri 93 cristiani dell’isola di Keswi sono morti perché si rifiutavano di convertirsi.
Le cronache parlano di episodi orrendi come quello in cui sei bambini cristiani sono stati uccisi ad Ambon, in un campo di catechismo: “inseguiti, sventrati, evirati e decapitati dagli islamisti che fendevano le bibbie con la spada”.
In altri casi gli attacchi degli islamisti avevano “l’ausilio di truppe militari regolari… come nell’isola di Haruku il 23 gennaio 2000, quando sono rimasti uccisi 18 cristiani” (dal Rapporto 2001 sulla libertà religiosa nel mondo).
A Natale del 2000 i fondamentalisti hanno fatto una serie di attentati colpendo la cattedrale di Giakarta e altre dieci città, con 17 morti e circa 100 feriti.
Nel 2001 l’agenzia Fides dava notizia di nuovi attacchi di guerriglieri islamici contro i cristiani nell’isola di Sulawesi e anche a Makassar con scene di caccia all’uomo. Poi altre chiese bruciate e molte vittime.
Un gruppo di cristiani indonesiani firmarono un appello drammatico: “Preghiamo per i cristiani di Indonesia. Preghiamo per la loro fede durante gli attacchi e per quanti subiscono la tentazione di nascondere la loro identità di fedeli a Cristo. Preghiamo per il mondo perché prenda provvedimenti contro la persecuzione, dovunque essa si verifichi”.
Invece il mondo se ne frega delle stragi di cristiani e Obama va in Indonesia a esaltare questo Paese come esempio di Islam buono. Figuriamoci com’è quello cattivo.
Nel paese indicato da Obama come modello di tolleranza, il 19 ottobre 2005, tre studentesse cristiane, Yusriani di 15 anni, Theresia di 16 anni e Alvita di 19 anni, furono assalite mentre si recavano a scuola (in un liceo cattolico di Poso) da un gruppo di fondamentalisti islamici.
I fanatici le immobilizzarono e poi, con un machete, le sgozzarono. Quindi tagliarono loro la testa a causa della loro fede in Gesù. La testa di una di loro è stata poi lasciata davanti alla chiesa cristiana di Kasiguncu.
Più di recente si è avuto il triste episodio della condanna a morte di tre contadini cattolici, Fabianus Tibo, Domingus da Silva e Marinus Riwu, colpevoli di essersi difesi nel 2000 dagli attacchi degli islamisti a Poso.
Monsignor Joseph Suwatan, vescovo di Manado, andò a confortarli in prigione a Palu in veste di “inviato speciale del Vaticano”, perché – spiegò – Benedetto XVI vuole condividere il dolore ed esprimere la sua solidarietà per l’ingiustizia legale subita dai tre cattolici durante il loro processo.
Un’ultima notizia dal “paese modello” di Obama. Nel settembre 2009 il parlamento di Aceh ha approvato all’unanimità l’introduzione della legge islamica. Ecco il titolo del Corriere della sera del 15 settembre: “Sharia in Indonesia, lapidazione per gli adulteri”.
Con buona pace delle Sakineh che ne faranno le spese. Di cui in realtà non frega niente a nessuno in Occidente. In particolare però non frega niente della tragedia dei cristiani, veri agnelli sacrificali.
Non frega niente all’Onu, alla Ue, ai premi Nobel, ai giornali progressisti, alle carlebruni e ai saviani (che non hanno lanciato appelli né fatto monologhi televisivi su questo genocidio censurato). E tanto meno frega a Obama.

Antonio Socci
Da “Libero” 11 novembre 2010

Salviamo Asia Bibi. TV2000 lancia una campagna di solidarietà
Da questa sera tutte le edizioni dei telegiornali di TV2000 saranno contrassegnate da un logo con la foto di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte in Pakistan con l’accusa di blasfemia. La donna, com’è noto, aveva respinto le pressioni delle sue colleghe perché si convertisse all’Islam e aveva difeso con forza le ragioni della propria fede. Picchiata e poi rinchiusa in carcere per oltre un anno, recentemente è stata condannata alla pena capitale da un tribunale del Punjab. In vista del passaggio del caso all’Alta Corte è necessaria una grande mobilitazione internazionale in nome della libertà religiosa, con l’obiettivo di salvare la vita e restituire la libertà a questa donna così coraggiosa e di accendere i riflettori dell’opinione pubblica sulle persecuzioni di cui sono vittime in tutto il mondo tanti cristiani a causa della loro fede.
Chi volesse aderire alla campagna può scrivere un messaggio via sms al numero 331 2933554 o all’indirizzo di posta elettronica salviamoasiabibi@tv2000.it. Ma naturalmente l’auspicio è che la campagna si allarghi e che tanti soggetti si mobilitino utilizzando ogni canale utile.

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mercoledì, 03 novembre 2010


 

IRAQ/ Gheddo: ecco perché la sfida all’odio anticristiano riguarda anche l’occidente

 


martedì 2 novembre 2010

 
«Violenza feroce» l’ha definita ieri Benedetto XVI. Al termine dell’Angelus, il Papa ha pregato per le vittime della strage di domenica a Baghdad ad opera di estremisti di Al Qaeda, nella quale hanno perso la vita 58 morti e 67 feriti tra militari iracheni, fedeli cristiani e kamikaze morti nel blitz delle forze speciali. Sono in tutto 46, per la precisione, i cristiani rimasti uccisi nell’assalto dai terroristi alla chiesa di Saydat al-Najat, Nostra Signora del Perpetuo soccorso. L’ennesimo episodio che insanguina il Medio oriente, e l’ennesimo in cui a pagare con la vita sono i cristiani.
I qaedisti hanno giustificato il massacro con la volontà di liberare due donne, mogli di sacerdoti cristiani copti, che sarebbero recluse in Egitto per essersi convertite all’islam. Questo ha alzato ancor più il livello della tensione e messo in allerta le autorità egiziane, che si preparano a fronteggiare eventuali nuovi attacchi.
 
Padre Piero Gheddo, una strage che riporta ai tempi più sanguinosi dell’instabilità irachena. E ancora contro i cristiani…
 
«I cristiani continuano ad essere attaccati in tutto il Medio oriente. Non stupisce che l’estremismo musulmano si accanisca proprio contro la comunità cristiana, proprio perché la differenza dei cristiani è radicale».
 
A quale diversità si riferisce?
 
«Alla radice che distingue il cristianesimo da qualsiasi altra religione: i cristiani testimoniano davanti al mondo la Buona Notizia di Cristo risorto, e la sua Chiesa come comunità di salvezza. A livello sociale questo comporta che i cristiani sono i primi costruttori di pace. Rispettano gli altri e per questo riescono a convivere con tutti. A livello di convivenza invece l’islam non fa distinzione tra politica e religione. Di conseguenza chi non è musulmano è un cittadino inferiore: i cristiani finiscono inevitabilmente per diventare cittadini di seconda classe. Proprio loro, che abitavano quei paesi ben prima che nascesse l’islam. Ma la diminuzione dei cristiani in Medio oriente comincia tra la fine dell’’800 e l’inizio del ’900».
 
La diminuzione dei cristiani in un paese come l’Iraq però è stata sensibilissima negli ultimi 10 anni. Proprio a causa di violenze come queste.
 
«Il problema è che i cristiani, in tutto il Medio oriente - parlo dell’oriente perché in Africa è diverso - finiscono per apparire come un presenza estranea perché collegata all’occidente, lo stesso occidente che fa la guerra in Afghanistan, che vuol muovere guerra all’Iran, che sostiene Israele contro i fratelli arabi».
 
Qual è il prezzo che paga il Medio oriente se i cristiani se ne vanno?
«Il venir meno di una presenza diversa da quella puramente islamica: un confronto, un dialogo e con esso l’ultima possibilità di aprirsi all’occidente. Teniamo presente che i cristiani che se ne vano dall’Iraq difficilmente vanno in un altro paese del Medio oriente, in Afghanistan, o in Malesia. No, scappano in occidente, in Europa, Nordamerica, Sudamerica o Australia. Mancando una presenza cristiana così diversa, ma anche rappresentante il mondo moderno, l’islam perde un termine di paragone e rischia di scivolare nell’estremismo. Ecco perché la scomparsa dei fedeli da un paese di grande tradizione cristiana come l’Iraq, con un assetto istituzionale non consolidato, potrebbe avere effetti disastrosi».
 
Lei cosa può dire del rapporto tra cristiani e musulmani in base alla sua personale esperienza del Medio oriente?
 
«Ho sempre avuto conferme dell’apertura verso i cristiani da parte della gente comune, sotto forma di stima e disponibilità al dialogo. Il problema è quando ci si sposta dal popolo alle élites politiche e religiose: allora lì si scopre un’avversità fortissima. Sono convinte che l’occidente è all’origine della diminuzione di potenza dell’islam. E questo inevitabilmente radicalizza lo scontro».
 
Quali indicazioni emergono dal lavoro che ha fatto il sinodo appena concluso?
 
«Ho letto e condiviso quanto affermato dal card. Antonios Naguib (Patriarca di Alessandria dei copti e relatore al sinodo, ndr) anche in un’intervista al sussidiario, quando parla di metodo della presenza. Le chiese cristiane devono cercare la comunione per testimoniare una novità di vita. La presenza non può ridursi a mera definizione di spazi di azione politica, perché rischierebbe anch’essa di venire interpretata solo politicamente: come hanno dimostrato le polemiche e le accuse di parte israeliana a conclusione del sinodo».
 
Che cosa possono testimoniare, in concreto, i cristiani?
 
«Le porto un esempio. Nel 1982, in Pakistan, ebbi modo di visitare la maggioranza delle diocesi di quel Paese. Capitai in un villaggio di 8 o 9mila abitanti, in pieno territorio musulmano. Una sorta di “isola” cristiana, che però era frequentata da tutti, e i musulmani in primis intrattenevano con quegli abitanti rapporti pacifici. Questo villaggio, mi diceva il parroco, per i musulmani è una continua domanda: vengono qui, ne discutono, vedono come sono trattate le donne... insomma, li lasciava perplessi. Nel frattempo però intrattenevano relazioni, e senza ostilità. Lo stesso mi è capitato in Libia».
 
 
Nella Libia del colonnello Gheddafi?
«Sì. È stato mons. Giovanni Martinelli a dirmi che nel 1986 Gheddafi scrisse una lettera a Giovanni Paolo II chiedendo suore cattoliche per i suoi ospedali. Durante un raid americano molti suoi parenti rimasero feriti gravemente, tra cui suo padre. Gheddafi pensò allora di chiamare due suore francescane che erano a Tripoli, e rimase colpito dalla loro carità. Il Papa mandò 80-90 suore di tutte le nazionalità, le quali a loro volta chiamarono 10mila infermiere cattoliche in Libia! Come mi confidò mons. Martinelli, quella presenza aveva cambiato la mentalità dei libici verso i cristiani. E perché? Perché davano un esempio concreto di come trattare i malati».
 
Almeno però devono essere garantite le condizioni per una vita sicura...
 
«Ãˆ questo il punto. In Iraq i cristiani non sono tutelati, in Libia invece Gheddafi li protegge, perché impedisce all’islam estremista di esprimersi. Il consiglio predisposto da Gheddafi esige di vedere le prediche che sono tenute il venerdì in moschea. È il governo a decidere e questo evita infiltrazioni di tipo estremista. Come dicevo prima, l’islam moderato è quello della gente comune, ma la massa popolare diviene facilmente preda dell’estremismo islamico predicato nelle moschee. I testi usati nelle scuole elementari in Indonesia dicono che gli Stati Uniti sono nemici dell’islam. Così si costruisce un immaginario collettivo».
 
Noi che cosa possiamo fare?
 
«Sa come vedono l’occidente i musulmani, o un’ampia parte di essi? L’occidente cristiano - dicono - è ricco, evoluto, democratico, potente, ma povero di figli e vuoto di ideali. Si è allontanato da Dio, e noi musulmani abbiamo la missione di ricondurlo a Lui... Dobbiamo tornare a Cristo, avere un’identità, una coscienza, una vita cristiana vera. E pregare per i nostri fratelli, che affrontano la prova del martirio».
 
 

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islam

giovedì, 02 settembre 2010
Come rispondere alle sfide di Gheddafi?
di padre Piero Gheddo*
ROMA, mercoledì, 1° settembre 2010 (ZENIT.org).-

Il 31 agosto scorso i giornali italiani portavano in prima pagina la provocazione di Muhammar Gheddafi, ospite del governo italiano per il II° anniversario della firma del Trattato di pace e di collaborazione fra i due paesi. Il capo libico, come tutte le volte che visita un altro paese (persino all’Assemblea generale dell’ONU lo scorso anno), anche questa volta ha lanciato la sua sfida. Prima ha tenuto una lezione sull’islam alle 500 hostess espressamente reclutate da un’agenzia e le ha invitate a convertirsi all’islam, affermando che “in Libia la donna è più libera che in Occidente”; poi ha detto chiaramente che l’Europa è destinata a diventare islamica. Giornali e televisioni hanno ridotto l’avvenimento ad un caso politico, accusando il governo e il presidente Berlusconi di aver permesso al capo beduino di approfittare della nostra ospitalità per insultare il popolo e la nazione italiana. Giusto, ma a questo modo si continua a strumentalizzare tutto a fini politici italiani, mentre, come ha detto ad “Avvenire” l’islamologo gesuita egiziano Samir Khalil Samir: “Si tratta di una previsione non certo campata in aria e starei attento a liquidarla come una boutade di poco conto”. La demografia e la convinzione religiosa dei popoli testimoniano contro di noi italiani ed europei. Personalmente penso che fra i capi dei paesi islamici Gheddafi non è certo il peggiore perché nel suo paese, certo da dittatore (quale paese islamico si può definire democratico?), sta facendo cose buone: ha smesso di finanziare il terrorismo, tiene a freno l’islam estremista che ha in casa sua, ha mandato le ragazze all’università e le bambine a scuola, ha aperto le vie per il lavoro femminile, usa il petrolio per fare strade, case, ospedali, estrarre l’acqua dal deserto (tirata su da 800-1000 metri!) e canalizzarla con acquedotti sotterranei per irrigare il nord Libia, ecc. Certo è uno sbruffone che viene a dirci di convertirci all’islam, dovunque va dorme sotto una tenda e tante altre trovate (o pagliacciate) folcloristiche; ma non mi pare che questo teatrino di Gheddafi debba impedirci di stringere accordi vantaggiosi con la Libia, da dove viene circa il 30% della nostra energia elettrica. Per rompere i rapporti con Gheddafi bisognerebbe prima conoscere chi può assicurarci, a prezzi migliori, questa forza motrice che ci permette di andare in auto e accendere la luce nelle nostre case. Nessun giornale invece (eccetto “Avvenire”) ha preso in considerazione seriamente come si può rispondere a questa sfida dell’islam, che prima o poi conquisterà la maggioranza in Europa. La sfida va presa sul serio. Certamente da un punto di vista demografico, perché ormai è chiaro a tutti che gli italiani diminuiscono di circa 120-130.000 persone all’anno a causa degli aborti e delle famiglie disastrate; mentre fra i più di 200.000 immigrati legali l’anno in Italia più della metà sono musulmani e le famiglie islamiche hanno un tasso di crescita molto più alto di quello delle nostre famiglie! Di questo sui giornali e nei talk-show televisivi non si parla mai. Ma la risposta va data anzitutto in campo religioso, culturale, identitario. Nel nostro paese (e nell’Europa cristiana) diminuisce la pratica religiosa e dilaga l’indifferentismo; il cristianesimo e la Chiesa vengono osteggiati. Quando c’è qualche notizia negativa sulla Chiesa ci sono giornali che la pubblicano con risalto, a volte anche con accenti di giubilo. La Costituzione europea rischiava di essere approvata pur non nominando le “radici cristiane” della nostra cultura e del nostro sviluppo. Il fatto è che, come popolo, diventiamo sempre più pagani e il vuoto religioso viene inevitabilmente riempito da altre proposte e forze religiose. Se ci consideriamo un paese cristiano, dovremmo ritornare alla pratica della vita cristiana, che risolverebbe anche il problema delle culle vuote. Per concludere, la sfida di Gheddafi parte da una visione dell’Europa che hanno i popoli islamici e ripetono spesso i loro giornali. Nel 2004 ho visitato la Malesia e l’arcivescovo della capitale Kuala Lumpur mi mostrava l’editoriale del massimo quotidiano locale in inglese (“The Star – The People’s Paper”) che diceva: “L’Occidente cristiano è ricco, benestante, istruito, democratico, militarmente potente, ma vuoto di ideali e di figli perchè senza Dio. L’islam ha un compito storico: riportare l’Europa a Dio”. Perché di una risposta a questa provocazione, molto diffusa tra i popoli islamici (e che la cultura locale proclama a piena voce) non si parla, non si discute mai? ---------- *Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milan

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islam

mercoledì, 01 settembre 2010
L’islamismo non è una religione di redenzione
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L’islamismo non è una religione di redenzione. Non vi è spazio in esso per la Croce e la Risurrezione. Viene menzionato Gesù, ma solo come profeta in preparazione dell’ultimo profeta, Maometto. E’ ricordata anche Maria, Sua Madre verginale, ma è completamente assente il dramma della redenzione. Perciò non soltanto la teologia, ma anche l’antropologia dell’islam è molto distante da quella cristiana”.
Giovanni Paolo II

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islam, giovanni paoloii

sabato, 19 giugno 2010

PADOVESE «Noi cristiani in Turchia, testimoni senza parole»

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07/06/2010 - Lunedì, nel Duomo di Milano, saranno celebrati i funerali del Vicario apostolico dell’Anatolia, assassinato a Iskenderun. In un intervento pubblicato da "Oasis", incoraggiava ad annunciare la fede. In ogni circostanza
Monsignor Padovese ai
 funerali di don Andrea Santoro.
Monsignor Padovese ai funerali di don Andrea Santoro.
Riproponiamo l'intervento che monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Anatolia (Turchia), ha tenuto alla seconda Assemblea Ecclesiale del Patriarcato di Venezia. Basilica di San Marco, 11 ottobre 2009 (dal sito del periodico Oasis)

Eminenza, cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per l'invito a questo incontro sul senso dell’essere testimoni di Cristo nella nostra società al termine del vostro cammino di riflessione su questo tema.
In questo particolare momento storico di Europa a molti cristiani, presumibilmente per una concezione individuale e intimistica di religione sulla quale si dovrebbe riflettere e nella quale la si vorrebbe relegare, risulta difficile confessare a parole la loro fede. V'è un diffuso timore nel trattare temi religiosi e manca il coraggio di affermare sia in pubblico che in privato la propria fede, spesso per scarsa formazione. Il che ci ricorda come sia necessaria una nuova grammatica della fede che significa anzitutto chiarire a se stessi perché e come essere cristiani, e poi chiarirlo e mostrarlo a chi non lo è. Penso che anche alla nostra realtà italiana si possa applicare quanto scriveva tempo fa il vescovo di Erfurt in Germania: «Alla nostra chiesa cattolica (in Germania) manca qualcosa. Non è il denaro. Non sono i credenti. Alla nostra Chiesa cattolica (in Germania) manca la convinzione di poter guadagnare nuovi cristiani... e quando si parIa di missione v'è l'idea che essa sia qualcosa per l'Africa o l'Asia, ma non per Amburgo, Monaco, Lipsia o Berlino».
Particolarmente oggi, in epoca di pluralismo, va ravvivata la consapevolezza che la testimonianza fonda e precede l'annuncio, anzi è il primo annuncio. È sempre vero che il primo passo nel diventare cristiani si fonda nell'incontro di uomini che vivono da cristiani convinti. Ci conforta in questa convinzione il metodo missionario che Francesco d'Assisi consigliava ai suoi frati «che non facciano liti e dispute... e confessino d'essere cristiani».
È in sintonia con questo modo di sentire quanto leggiamo nell'Evangelii nuntiandi, dove si parla della testimonianza senza parole che suscita domande in quanti vedono. Già questa - leggiamo - «Ã¨ una proclamazione silenziosa ma molto forte ed efficace della buona novella… un gesto iniziale di evangelizzazione».
Questo modo di essere testimoni silenziosi è stato quello scelto da don Andrea Santoro, il mio sacerdote ucciso il 5 febbraio 2006 a Trebisonda. Quando la mattina successiva all'assassinio mi sono recato all'obitorio per vedere il cadavere, la prima impressione, del tutto spontanea, è stata la somiglianza tra il corpo nudo di don Andrea con il capo riverso e il segno del foro al fianco e l'immagine di Cristo morto del Mantegna. Non abbiamo mai saputo che cosa ha indotto il giovane assassino a questo atto di violenza. Dal processo è emersa la sua colpevolezza, ma delle connessioni, delle influenze, del clima di odio che ha determinato l'assassinio nulla sappiamo e, credo, non lo sapremo mai.
Don Andrea era venuto in Turchia affascinato da questa terra, dal suo passato, dal desiderio di essere un ponte tra islam e cristianesimo, ma pure tra Oriente ed Occidente. La piccola rivista che aveva creato con amici di Roma portava il titolo Finestra sull'Oriente. Ora questa finestra - grazie al suo martirio - s'è spalancata, e attraverso di essa la nostra situazione, prima conosciuta a pochi, ora è divenuta nota a molti. Con il sacrificio della sua vita don Andrea ha fatto veramente da ponte attraverso una testimonianza fatta di non molte parole, ma di una vita semplice, vissuta con fede.
Nell'email che m'ha inviato il 1° ottobre 2005, scriveva: «Abbiamo ripreso la nostra vita regolare, fatta di studio, di preghiera, di accoglienza, di cura del piccolo gregge, di apertura al mondo che ci circonda, di tessitura di piccoli legami, a volte facili, a volte difficili. Il Signore è la nostra fiducia, nonostante i nostri limiti e la nostra piccolezza. Io sono qui finché mi pare di poter essere utile e finché le circostanze lo consentono. Il Signore mostrerà le sue vie». Tre mesi dopo questa sua testimonianza, fatta nel piccolo, è emersa agli occhi di tutta la Chiesa mettendo in luce la nostra realtà cristiana di Turchia. Veramente si tratta ormai di ben poca cosa. Uno sguardo alla recente storia porta a riconoscere che parecchi cristiani tra quel 20% che agli inizi del Novecento costituivano la popolazione totale, a motivo delle discriminazioni e vessazioni sperimentate, hanno scelto - almeno formalmente - di rinunciare alla loro fede omologandosi ai musulmani, almeno sui documenti ufficiali. Altri - assai pochi e perlopiù al Sud del paese o nei grandi centri - hanno mantenuto la propria identità, ma a volte senza un reale approfondimento.
L'hanno conservata nel rispetto della tradizione come si conserva in casa un quadro antico di cui non si apprezza il valore. Lo si tiene perché fa parte dell'arredamento della casa, ma senza dargli il giusto rilievo, facendone una ragione di vita. D'altra parte, la situazione d'emarginazione in cui i cristiani sono stati isolati, la loro diminuzione numerica, la scarsità del clero e l'impossibilità di formare nuove leve, la totale scomparsa della vita monastica, hanno portato il cristianesimo ad un vistoso ridimensionamento e a perdita di visibilità.
Ultimamente proprio le tragiche morti di don Andrea, del giornalista armeno Hrant Dink, dei tre missionari protestanti di Malatia come altri episodi registrati dalla stampa locale e internazionale, hanno portato alla ribalta la realtà di un cristianesimo che in Turchia esiste ancora e reclama pieno diritto di cittadinanza volendo uscire dall’anonimato in cui è stato relegato. In questo impegno ha un suo peso, all’interno del paese, l'affermarsi di un islam tollerante rispetto alle religioni non islamiche. La stessa potente spinta che viene dall’Europa non è priva di effetti per le comunità cristiane di Turchia. Vorrei qui accennare all'interesse mostrato dalle autorità per le celebrazioni a Tarso dell'anno paolino. Eppure anche a questo riguardo la richiesta rivolta da più parti al governo turco di poter utilizzare la Chiesa/museo di Tarso, precedentemente confiscata dallo Stato, come luogo permanente di culto sta ancora attendendo una risposta. Se, come mi auguro, ci verrà concessa questa Chiesa, sarà per me il segnale che la Turchia non soltanto a parole, ma anche nei fatti, si sta aprendo ad un clima di libertà religiosa.
Non va comunque dimenticato che questo cammino è tutto in salita. Potrebbero confermarlo le numerose difficoltà che noi vescovi ci troviamo spesso ad affrontare. Penso anzitutto all'impossibilità di formare sacerdoti turchi che garantiscano un futuro a queste Chiesa per l'impossibilità di aprire seminari. E se noi cristiani latini che in Turchia come Chiesa non esistiamo possiamo sopperire a questo impedimento con personale che viene dall'estero, la cosa è più grave per le Chiese etnico religiose riconosciute dallo Stato i cui vescovi e preti devono essere cittadini turchi. Ma se queste Chiese non possono aprire seminari, quale futuro le attende se non una lenta, progressiva, estinzione? Un processo che si terrà nei prossimi mesi contro il metropolita siro ortodosso di Mor Gabriel riguarda proprio il fatto di avere tenuto nel suo monastero alcuni giovani seminaristi.
Se, come è avvenuto nei decenni passati, accettassimo come cristiani di non comparire, restando una presenza insignificante nel tessuto del paese, non ci sarebbero difficoltà, ma stiamo rendendoci conto che, come sta avvenendo in Palestina, in Libano e soprattutto in Iraq, è una strada senza ritorno che non fa giustizia alla storia cristiana di questi paesi nei quali il cristianesimo è nato e fiorito, e che non farebbe giustizia alle migliaia di martiri che in queste terre ci hanno lasciato in eredità la testimonianza del loro sangue.
Due settimane fa a Roma abbiamo avuto il primo incontro di preparazione del prossimo Sinodo delle Chiese orientali che si terrà dal 10 al 24 ottobre 2010. Attraverso la voce dei diversi patriarchi è stato toccante sentire quante difficoltà i cristiani d'Egitto, della Palestina, d'Israele, dell’Iran, dell'Iraq, della Turchia stanno ancora sperimentando. Viviamo per buona parte in un clima di discriminazioni che sta determinando la riduzione numerica dei cristiani da questi paesi se non addirittura la loro scomparsa. A noi il Papa ha proposto come tema del Sinodo "Comunione e testimonianza. Erano un cuor solo ed un’anima sola". In altre parole: essere uniti per essere testimoni. La scelta di questo tema non riguarda soltanto le nostre Chiese di Oriente che vivono in una situazione minoritaria e di confronto con il mondo islamico, ma si può applicare anche alle Chiese di Europa messe a confronto con una società pluralistica e dove è anche dalla comunione dei cristiani tra di loro che deve nascere la loro testimonianza. Come è stato osservato la Chiesa non ha una missione, non fa missione, ma è missione. E dunque va capita da essa. Se vuole rimanere Chiesa di Cristo, deve uscire da sé. In quanto - come dice il Concilio Vaticano II - è «sacramento universale di salvezza», essa è ordinata al Regno, è al suo servizio, esiste per proclamare il vangelo, e non soltanto oggi come misura d'emergenza in tempo di crisi, ma come costitutiva del suo essere. E il senso di tale impegno è di far si che un'esperienza divenuta messaggio torni ad essere esperienza.
«Noi parliamo di ciò che abbiamo visto ed udito», dichiara Giovanni (1 Gv 1,3). La missione dunque è testimonianza resa all'amore di Gesù Cristo e al volto di Dio da Lui rivelato. Da questo punto di vista essa non ha perso nulla della sua urgenza anche se s'impone un nuovo stile di missione meno ecclesiocentrico e meno interessato, come se Chiesa terrena e Regno di Dio coincidessero perfettamente. Si tratta di portare gli uomini a scoprire liberamente che il cammino di fede alla sequela di Gesù arricchisce la vita: va restituito al vangelo il carattere di vangelo, cioè di notizia che dà gioia, trasmettendo la visione che Gesù aveva del Regno, ma pronti a raccogliere anche delusioni. Non può essere altrimenti poiché la fede, in quanto espressione congiunta della grazie di Dio e della libera adesione umana, non si può imporre ma soltanto proporre.
Ed è qui che il ruolo della testimonianza diventa fondamentale anche perché, come diceva un Padre della Chiesa - «gli uomini si fidano più dei loro occhi che delle loro orecchie». Nello scrivere una lettera pastorale ai fedeli delle nostre Chiese in occasione dell'Anno paolino, noi vescovi di Turchia abbiamo rilevato come le difficoltà che Paolo ha sperimentato nell'annuncio del Vangelo non lo hanno frenato. Egli le ha intese piuttosto come il proprio contributo personale perché il Vangelo portasse effetto. Annunciare Gesù Cristo per l'Apostolo è stata una necessità che nasceva dall'amore per Lui. Ciò significa che chi incontra Cristo non può fare a meno di annunciarlo, sia con la vita che con le parole.
L'apostolo che ha sperimentato la difficoltà di queste annuncio, anche da parte dei fratelli di fede, ci ricorda come quello che conta è che Cristo «venga annunciato» (Fil 1,8), ma ci richiama pure alla nostra comune responsabilità nei confronti di quanti non sono cristiani. Lo abbiamo definito l'apostolo dell'identità cristiana, perché s'è strenuamente battuto affinché l'annuncio del vangelo non smarrisse la propria essenza e non si diluisse in forme sincretiste. Questa è stata la sua missione fin dall'inizio, sia nel prendere posizione contro rigurgiti di pensiero giudaizzante che vanificava l’azione salvifica di Cristo, ma pure contro la tentazione di dar vita ad un cristianesimo che non esigeva conversione. Egli - oggi come allora - ci ricorda che «cristiani non si nasce, ma si diventa» e ci richiama ad una realtà di Chiesa intesa anzitutto come il "noi" dei cristiani e non una realtà soprapersonale, un'istituzione in cui trovare mezzi di salvezza. Essa è solidarietà, scambio, comunicazione dall'uno all'altro, comunione fraterna, unanimità che prega, ambiente di conversione, partecipazione alla croce, comunità di testimoni. Questa è la prima testimonianza da offrire. «In essa - scriveva Metodio d'Olimpo - i migliori portano i mediocri e i santi i peccatori. Quanto a quelli che sono ancora imperfetti, che cominciano appena negli insegnamenti della salvezza, sono i più perfetti che li formano e li partoriscono, come attraverso una maternità». V'è dunque un servizio 'materno' della comunità cristiana e propriamente dei laici. Occorre prenderne sempre più coscienza e mi auguro che le mie poche parole di riflessione possano servire anche a questo
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domenica, 06 giugno 2010

.[Tibehirine+monks.jpg]

da: http://giornoxgiorno.myblog.it/
Abbiamo trovato in rete, nel sito “Lavigerie des Missionaires d’Afrique” una riflessione inedita di Dom Christian de Chergé, dal titolo “Mystère de la Visitation”. Ve ne proponiamo la prima parte, lasciando la seconda per il giorno della Festa della Visitazione, il prossimo 31 Maggio. È questo per oggi il nostro
PENSIERO DEL GIORNO
Posso facilmente immaginare che noi ci troviamo nella situazione di Maria che va a trovare sua cugina Elisabetta e che porta in sé un segreto vivente, che è lo stesso che anche noi possiamo portare, una Buona Notizia vivente. Lei l’ha ricevuta da un angelo. È il suo segreto ed è anche il segreto di Dio. E lei non sa come fare per comunicare questo segreto. Riuscirà a dire qualcosa a Elisabetta? Può dirlo? Come dirlo? Come fare? Deve nasconderlo? Eppure, tutto trabocca in lei, ma lei non lo sa. In primo luogo è il segreto di Dio. E poi succede qualcosa di simile nel seno di Elisabetta. Anch’essa è gravida di un bambino. E ciò che Maria non sa a sufficienza, è il legame, il rapporto tra il bambino che porta lei e quello che porta Elisabetta. E  le sarebbe più facile parlarne, se conoscesse questo legame. Ma, su questo punto specifico, sulla dipendenza reciproca tra i due bambini, lei non ha avuto alcuna rivelazione. Sa solo che esiste un legame, perché è il segno che le è stato dato: sua cugina Elisabetta.  Ed è così della nostra Chiesa, che porta in sé una Buona Notizia – e la nostra Chiesa è ciascuno di noi – e noi siamo venuti un po’ come Maria, in primo luogo per prestare un servizio (che, in definitiva, è questa la sua maggior ambizione)... ma anche, portando questa Buona Notizia, come faremo a dirla... e noi sappiamo che coloro che siamo venuti a trovare, sono un po’ come Elisabetta, anch’essi portano un messaggio che viene da Dio. E la nostra Chiesa non ci dice, e neppure sa, quale sia il legame esatto tra la Buona Notizia che noi portiamo e questo messaggio che fa vivere l’altro. In definitiva, la mia Chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e l’Islam. Ed io vado verso i musulmani senza sapere qual è questo legame. (Dom Christian de Chergé, Mystère de la Visitation).
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Quando Maria arriva, ecco che è Elisabetta a parlare per prima. No, non è del tutto vero, perché Maria ha detto: As salam alaikum! La pace sia con te! E questa è una cosa che noi possiamo fare. Questo semplice saluto ha fatto vibrare qualcosa, qualcuno in Elisabetta. E in questa vibrazione, è stato detto qualcosa... che era la Buona Notizia, non tutta la Buona Notizia, ma ciò che si poteva cogliere di essa in quel momento. Per quale motivo il bambino che è in me ha sussultato? E, verosimilmente, il bambino che era in Maria ha sussultato per primo. Perché, in effetti, tutta la faccenda si è svolta tra i due bambini... E  Elisabetta ha dato il via al Magnificat di Maria. Per concludere, se siamo attenti a situare a questo livello il nostro incontro con l’altro, con la preoccupazione e la volontà di raggiungerlo, e anche con il bisogno di ciò che è e di ciò che ha da dirci, verosimilmente dirà qualcosa che raggiungerà ciò che noi portiamo, mostrando che è connivente... e permettendoci di espandere la nostra Eucaristia, perché in ultima analisi il Magnificat che possiamo, che ci è dato di cantare, è l’Eucaristia. La prima Eucaristia della Chiesa è stato il Magnificat di Maria.  Ciò significa il bisogno che abbiamo dell’altro per fare Eucaristia: “per voi e per molti...” . Tutte le religioni hanno una missione nel mondo e sono al servizio di tutti. Come comunicare la missione di Maria? Con quali parole? L’incontro è al cuore di questa missione. Noi siamo portatori di pace. Alle nozze di Cana la funzione della Chiesa è di nuovo chiaramente mostrata da Maria. Maria dà alla Chiesa l’immagine della sua missione. (Dom Christian de Chergé, Mystère de la Visitation).
Dom Christian de Chergé, priore del monastero di Notre Dame de l'Atlas (Tibherin, Algeria)
I Trappisti del monastero di Notre Dame de l'Atlas in Tibherin (Algeria) avevano consacrato la loro vita al dialogo con l'Islam ed avevano deciso di continuare a restare nel loro monastero anche se situato nella regione montuosa di Medea, che era ad alto rischio. Dom Christian de Chergé, priore del monastero, aveva scritto: "La nostra condizione di monaci 1 ci lega alla scelta che Dio ha fatto di noi, che è per la preghiera e per la vita semplice, il lavoro manuale, l'accoglienza e la condivisione con tutti, soprattutto i poveri...". I Monaci, rapiti da terroristi armati la notte fra il 26 e il 27 marzo 1996, furono uccisi il 21 maggio 1996.

Ma quand'é che la Chiesa li proclamerà beati questi martiri?

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lunedì, 28 dicembre 2009

Ahmadinejad
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E il popolo democratico sa soltanto guardare
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di Renato Farina
Perché l’Europa per quei ragazzi di Teheran e di Tabriz non fa niente? Non ci meraviglia l’Europa delle burocrazie: quella la conosciamo già, e si occupa solo di finanza e regole alimentari. Intendiamo l’Europa dominante, quella di Internet, il famoso popolo democratico che si autoconvoca per il clima a Copenaghen, per la libertà di stampa contro Berlusconi a Roma e nelle piazze del mondo. Semplice, della libertà degli altri non gli importa un fico secco. Onora solo i propri totem. Ecologia, libertà vera o supposta del proprio nickname (nome in codice che permette l’anonimato sulla rete). L’Europa ormai è sensibilissima ai diritti umani del proprio umore sessuale, in Parlamento e fuori, nelle corti di giustizia e nei circoli intellettuali. Ma se c’è del sangue fugge. Perché teme di versare il proprio. Basti pensare a come hanno risposto i Paesi europei alla chiamata americana (di Obama peraltro) a investire nuove risorse militari nella guerra contro i talebani: solo l’Italia ha detto di sì senza accampare scuse. Gli altri: boh, forse, vediamo. E il popolo Internet va contro, contrarissimo, ovvio, guai alla guerra. Però intanto la lasciano fare contro il proprio fratello iraniano. In Italia agitano qualcosa di viola contro il Berlusca, non di verde contro Ahmadinejad. Eppure.
Eppure l’Iran è un affare italiano, tre volte. Lo è perché ogni volta che si offende la libertà dei popoli, e si sparge il sangue degli inermi, la cosa ci riguarda. Lo è la seconda volta perché con i persiani ci intendiamo da sempre, abbiamo i rapporti migliori tra gli Occidentali dai tempi dello Scià e anche dopo, attraverso Andreotti e poi Violante (sì, Violante). La terza, e questa è ciò che colpisce di più, perché la rivolta iraniana si alimenta da Internet e noi sappiamo tutto da e su Internet; oggi è l’Italia il luogo del pianeta dove si esalta il ruolo del web per la libertà. Non per il commercio, per l’economia, per la cultura: no, proprio per la libertà pura e semplice. Guai a chi tocca Internet, si dice: da lì passa l’espressione pura e innocente di chi non ha potere. Chiunque abbia aperto il computer, e navigato a caso nei giorni scorsi, si è trovato dinanzi a una sorta di insurrezione contro chiunque osasse proporre un po’ di calma alla giungla, e timidamente osasse invitare i colleghi di Internet (tutti siamo su Internet) a espellere gli scotennatori. Guai. I teppisti sono tollerati come male inevitabile del sottobosco elettronico, e se uno propone di accendere dei fari per vedere chi nasconde il coltello sotto il velo dell’anonimato, orrore, dittatura, tirannide. Persino Maroni, che affronta a muso duro i mafiosi, si è trasformato in agnellino dinanzi alla potenza corale dell’opposizione progressista e tecnologica.
Domanda: e allora perché il popolo di Internet, egemonizzato in Italia come ognun sa dai blog di Beppe Grillo e da «Piovono rane» dell’Espresso, visto che sa tutto, riesce a bucare la corazza della censura berlusconiana, non dice nulla, ma proprio nulla di Teheran? Ogni giorno contro Berlusconi e le presunte minacce alla libertà provenienti dal processo breve; e invece non ci dicono niente sull’Iran. Perché hanno taciuto e tacciono?
Io non assolvo me stesso e neanche quelli della parte politica di centrodestra. Toccherebbe anche noi sfilare e agitare striscioni, e lo faremo senz’altro: ci penserà il Foglio come sempre, oppure il Predellino, a organizzarci, e siamo grati a priori. Ma non è il nostro mestiere. È vero: per cinque minuti ci viene in mente di invadere le strade quando tirano in testa un blocco di alabastro a Berlusconi, ma ci sembra alla fine una scena troppo da Cgil. E allora manifestiamo altrimenti affetto e indignazione: telefoniamo, mandiamo telegrammi, preghiamo a casa e in chiesa, ci imbufaliamo al bar con il sostenitore di Tartaglia e di Di Pietro, ma intrupparci non ci viene bene.
Invece quelli dei blog professionisti perché non ci hanno fatto sapere niente di che cosa si preparava a Teheran? La protesta e la repressione, i video con gli appelli: niente di niente. I signori del www li vediamo nei talk show vantarsi di non avere nessuno dalla loro e poi dal nulla di riuscire a trovarsi in centomila, duecentomila, un milione. Hanno messo su una parata per buttare giù Berlusconi, mobilitandosi in rete - come dicono. Per l’Iran niente, si muovono soltanto i parenti dei ragazzi di Teheran e di Tabriz e accendono candele e portano qualcosa di verde davanti all’ambasciata romana degli ayatollah. Quando c’è stato da portare qualcosa di viola per appendere per i piedi Berlusconi si radunarono in massa via internet (dicevano), in realtà più che altro sospinti da Annozero e da Travaglio. Ci ricordiamo bene: gli antiberlusconiani dovevano portare tutti qualcosa di viola per distinguersi, visto che il verde era già occupato dall’onda liberale persiana. È la prova che sapevano, erano al corrente, e allora perché non hanno fatto niente per il verde della libertà iraniana? Moralmente e fisicamente, intendiamo. Niente.
Non è che si occupano solo del Berlusca. A Copenaghen si sono mobilitati. Per il vertice sul clima c’era il pienone dei manifestanti, da noi amorevolmente definiti bamba. Italiani e francesi, anarchici e antagonisti, verdi e comunisti, figli e nipoti di intellettuali di sinistra, c’erano tutti, furibondi e protesi a impedire la diffusione dell’anidride carbonica. Non temevano la vendetta tremenda del CO2, sono gente coraggiosa, e ci hanno dato dentro. Forse perché a differenza di Mahmud Ahmadinejad e del Grande Ayatollah Khamenei, l’anidride carbonica non è dotata di guardie della rivoluzione armate e di Tribunali speciali.
È così: da noi l’avanguardia progressista padrona delle piazze, dell’ecologia e del pacifismo obbedisce non alla realtà ma ai propri fantasmi e ai propri tabù. Siccome l’Iran degli ayatollah e delle bombe atomiche incipienti è contro Israele e contro l’America, è portata a solidarizzare con i capi islamici, o a non vedere la morte seminata a Teheran contro chi difende la democrazia e si ribella, in nome della libertà e di Internet. Proprio di Internet come strumento però, non come un Totem intorno a cui danzare come se fosse il proprio ombelico senza vedere che cosa accade davvero nel mondo
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da: www.ilgiornale.it

articolo di lunedì 28 dicembre 2009

 

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martedì, 25 agosto 2009

La persecuzione iraniana
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domenica, 24 maggio 2009

Europa multietnica 
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 L'inchiesta di Giulio Meotti - IL FOGLIO

12 maggio 2009

Chiese convertite in moschee, l’islam prima religione ad Amsterdam, segregazione e sharia di stato. Il multiculti olandese è morto. Bolkestein: “Mi chiamarono razzista, oggi è realtà”. Ecco perché Wilders ha successo

Giulio Meotti è stato due settimane in Olanda, paese multietnico all’avanguardia nella collisione fra l’islam e la democrazia occidentale. La sua è un’inchiesta sul successo di Geert Wilders e il tramonto del multiculturalismo. Questa è la prima puntata. Seguiranno una giornata con gli amici di Theo van Gogh; un racconto su Rotterdam, la città di Pim Fortuyn; l’incontro con una fotografa iraniana a cui gli ayatollah danno la caccia; un clamoroso caso di autocensura sull’antisemitismo islamico e un’intervista con un accademico sotto protezione perché condannato a morte dai fondamentalisti islamici.

Al numero 114 di Jan Hanzenstraat c’è il cuore della moderna schizofrenia olandese. E’ lì che si trova la moschea el Tawheed, “il Monoteismo”, una delle più popolari in città. Un luogo unico al mondo, che soltanto in Olanda potrebbe esistere. Siamo nel quartiere operaio di Old West, che qui chiamano “South Bronx”. Una scritta in perfetto olandese invita a rispettare la privacy. Al di là della strada un coffeshop serve droghe leggere e graffiti di donne nude con bocche da fellatio adornano le mura attorno. Accanto alle ragazzine in t-shirt passano donne musulmane in burqa e chador. La moschea, di proprietà saudita, divenne nota il 2 novembre 2004 quando Mohammed Bouyeri, un giovane islamista che frequentava il luogo di preghiera, tagliò la gola al regista Theo van Gogh, discendente del fratello del celebre pittore Vincent. Qui pregava Samir Azzouz, condannato a otto anni per aver progettato l’assassinio di Geert Wilders, politico antiislamico che ha buone possibilità di vittoria alle prossime elezioni europee. L’imam è un egiziano che gestisce un ristorante dall’altra parte della strada e la moschea offre lezioni in olandese per i molti convertiti all’islam dalla pelle bianca. Ma anche prima che Bouyeri tagliasse “come una pagnotta” la gola a Van Gogh, la moschea era assurta alle cronache per aver venduto libri che giustificano l’uccisione degli omosessuali e la lapidazione delle adultere. E’ una delle moschee che Wilders vorrebbe chiudere.

“Il fallimento del multiculturalismo è l’incontro fatale fra la perdita di Dio e la globalizzazione”, ci spiega Jos de Beus, filosofo della politica all’università di Amsterdam, laburista. Dati dell’ufficio centrale delle diocesi olandesi dicono che fra il 1973 e il 2002 oltre 240 chiese cattoliche sono state riconvertite in moschee, palestre o showroom. La chiesa protestante il Seminatore di Amsterdam oggi è la moschea Fatih. L’ultimo caso nel giorno di Pasqua, un mese fa, quando a Groningen una chiesa protestante è stata convertita in moschea. Il simbolo dell’ipersecolarismo è Oude Kerk, la più celebre chiesa di Amsterdam, risalente al XIII secolo, l’edificio più antico della capitale olandese. Di fronte ha molte vetrine di prostitute. La chiesa serve per esposizioni e può essere affittata per cene di gala. Davanti c’è il Sexyland che offre “Live Fuck Shows” (sesso dal vivo), l’High Time Coffeshop per le droghe leggere e l’Erotic Supermarket per i dildos, i peni artificiali venduti ovunque in città. Davanti alla chiesa un monumento: “Rispetto per le lavoratrici del sesso di tutto il mondo”. Costa sette euro visitare la chiesa che domina il quartiere. In una vetrina di oggettistica porno c’è una statua di bronzo con un energumeno che lecca una vagina. A pochi metri da qui però ci sono negozi di islamici in cui le donne non possono entrare. Siamo ad Amsterdam, dove l’islam è la prima religione. E i minorenni musulmani sono già maggioranza.

“La vera domanda è perché è così facile integrare negli Stati Uniti e falliamo in Europa?”, dice Frits Bolkestein, teorico liberale e commissario europeo sotto Romano Prodi, accogliendoci nella sua casa sul fiume Amstel. Diciotto anni fa, quando sul giornale Volkskrant uscì un suo articolo sull’islam, Bolkestein fu tacciato di razzismo e accusato di essere un mercante di paure. Era profetico, ma all’epoca non si parlava di islam, stava crollando l’Unione sovietica, l’economia olandese non era mai cresciuta tanto quanto in quegli anni, si stava facendo la storia delle multinazionali, nasceva la Endemol del Grande fratello, l’ottanta per cento della popolazione aveva un lavoro fisso e la seconda generazione di musulmani da Marocco, Turchia e Indonesia stava facendo grandi passi in avanti. Poi, fra il 2002 e il 2004, due omicidi legati all’islam misero fine a quel sogno sinistro e dolciastro.

Le uccisioni di Pim Fortuyn e Theo van Gogh furono i casi di violenza politica più clamorosa dai tempi di Jan e Cornelius de Witt, i due amici di Spinoza fatti a pezzi dalla folla. Ma accadeva tre secoli fa. Questo è l’unico angolo d’Europa dove non si scatenarono pogrom, dove Rembrandt dipingeva un Gesù con i tratti dell’ebreo sefardita, dove Spinoza diventava profeta di ateismo e Marx indagò le radici del capitalismo. Ma quel paese non esiste più e le città olandesi si stanno trasformando in ghetti etnici a cielo aperto.
Oggi uno dei biglietti da visita più diffusi è questo: “Nome: Geert Wilders. Peccato: derisione dell’islam. Punizione: decapitazione. Ricompensa: paradiso”.
Due omicidi multiculturali sarebbero bastati a vendicare Bolkestein. Ma l’ex eurocommissario ha dalla sua anche le statistiche
. Entro sei anni la regione che comprende Amsterdam, l’Aia, Rotterdam e Utrecht sarà a maggioranza islamica. Intorno all’islam e al crollo del multiculturalismo è in corso una guerra che sta cambiando il volto dell’unico paese in cui Voltaire e Spinoza pubblicarono i loro scritti e Locke mise mano alla “Lettera sulla tolleranza”. E’ il paese con il più progressista sistema di diritti civili al mondo, ma per certi versi è quanto di più vicino agli stati americani della segregazione razziale.

Alla scuola Rietlanden/8th Montessori di Amsterdam ci sono due ingressi, uno per gli olandesi nativi e uno per gli immigrati. La misura servirebbe a una migliore integrazione. E’ lo stesso governo ad ammettere che “un terzo delle scuole promuove la segregazione”. 680 istituti scolastici nel paese sono oggi composti in maggioranza da un gruppo etnico omogeneo. Uno studio dell’Open Society Institute parla di “quartieri concentrazionari” per il dieci per cento delle quattro più grandi città. Il trenta per cento dei musulmani olandesi vuole la sharia nei Paesi Bassi in una società-apartheid dove l’80 per cento dei figli di immigrati ancora oggi continua a “importare” le mogli dai paesi di origine, come Turchia e Marocco. La segregazione tra uomo e donna è finanziata anche dallo stato. A Utrecht il comune nel 2008 ha speso dieci milioni di euro per manifestazioni pro islam in cui gli uomini e le donne sono separate. La piscina Den Hommel ogni lunedì sera offre lezioni per soli uomini musulmani. Nella moschea Omar al Farouk ci sono due ingressi nell’ufficio informazioni del comune: uno per gli uomini e uno per le donne. La sharia è suffragata in nome della non discriminazione. Il Dutch Committee for Equal Treatment, una sorta di orwelliana commissione per l’eguaglianza, ha stabilito che un’insegnante di fede islamica può rifiutarsi di stringere la mano di un uomo. Come quando un celebre imam radicale, poco dopo l’omicidio di Van Gogh, si rifiutò di stringere la mano del ministro dell’Integrazione Rita Verdonk. Quella manina appesa nel vuoto divenne il simbolo dell’Olanda.
Per il quinto anno consecutivo, l’emigrazione dall’Olanda ha superato l’immigrazione. L’Olanda è l’unico paese europeo che sta facendo esperienza ell’emigrazione. 

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Postato da: giacabi a 21:10 | link | commenti (1)
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L'Europa fra qualche decennio
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Un'analisi lucida e terribile quella di Giulio Meotti sul FOGLIO di oggi 10/06/2006. Ecco l'Europa come potrà essere fra qualche decennio.
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Stoccolma è tappezzata da una t-shirt  di moda fra i giovani musulmani: 2030 – Poi prendiamo il controllo". Si  guarda alla Svezia come in un caleidoscopio, in cerca del futuro dell’Europa, ruotando i tre specchi nel tubo. Quella Svezia che l’imam Adly Abu Hajar ha definito "il miglior stato islamico", dove ogni tre giorni si registra un attacco antisemita e si vive attaccati al respiratore della "folkhemmet", la mitologia del welfare che ha sostituito l’idea di patria dopo averla uccisa. Un mese fa la più grande organizzazione islamica ha chiesto leggi separate per i musulmani, l’impegno del governo a costruire una moschea in ogni città, paese, sobborgo e la presenza degli imam nelle scuole pubbliche. A Stoccolma, Göteborg e Malmö, prima città europea già a maggioranza islamica, le comunità ebraiche sono costrette a spendere un quarto del budget in misure di sicurezza. Due studentesse sono state espulse perché portavano la bandiera svedese legata allo zaino. Quel gesto, ha detto il preside, avrebbe offeso "i non svedesi". stesso avviene in Olanda e in Inghilterra, dove cresce l’ostilità alla croce rossa di San Giorgio. Definita "piena di sangue" dai musulmani, la bandiera è scomparsa da un gate di Heathrow, dai taxi di Blackpool e Cheltenham e dalla stazione dei pompieri di Barking. A Hyllie, vicino Malmö, in una scuola pubblica si insegna solo in arabo. Il ministro della Giustizia svedese, Göran Lambertz, di fronte alla violenza antisemita detto che l’incitamento alla "morte degli ebrei" fa parte del dibattito in medio oriente. Vicende sepolte in una cronaca glaciale come la Scandinavia e che disvela l’islamizzazione di una provincia lontana, austera, ma che riguarda molti altri stati europei…


Autore: Giulio Meotti
Titolo: «L'Europa che non alza la testa»

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MEMENTO THEO
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 IL FOGLIO  29 ottobre 2005
Un anno fa in Olanda l'assassinio del regista Van Gogh. Storia del "porco infedele" trasformato in bacheca coranica

Giulio Meotti
“Tempi sciagurati quando dei pazzi fanno da guide a ciechi” (Re Lear, IV, 1).
Avevano sognato di vivere nel miglior mondo possibile. Stavano solo dormendo. L’economia non era cresciuta tanto quanto negli ultimi vent’anni, il settantaquattro per cento della popolazione aveva un lavoro fisso, lo stato sociale era un letto caldo, la seconda generazione di immigrati stava facendo grandi passi in avanti. Tutte le tappe dell’agenda multiculturale erano state rispettate. I giovani marocchini parlavano un perfetto olandese, erano i figli benvoluti della patria di ugonotti, libertari, apostati, artisti, puttane e capitalisti corsari.
Tutto era libero, ma di una libertà diventata camicia di forza. Solo il tempo in Olanda restava pessimo.
Allegramente accettarono la morte di Dio. Nel 1989 più del cinquanta per cento della popolazione olandese non faceva parte di alcuna confessione. Molte chiese furono demolite per mancanza di fedeli. La più celebre, quella di S. Vincentius di Amsterdam, trasformata in moschea. Confessionali, banchi, crocifissi, candelabri, tutto venne messo in fretta all’asta. Fra il 1970 e il 1985 i cattolici olandesi diminuirono del settanta per cento. Ad Eindhoven una chiesa venne convertita in ritrovo per ragazzi. Altre in palestre, piscine e negozi di mobili. Quella che fu la chiesa protestante del Seminatore oggi è la principale moschea di Amsterdam, Fatih.
Negli ultimi trent’anni hanno cambiato proprietà più di 250 edifici cattolici, luterani e calvinisti. La chiesa domenicana di Haarlem è stata demolita. Il monastero domenicano di Nijmegen è stato abbandonato nel 2004 e oggi è un ospizio. La Mansion Maria-Louise di Eversweg è diventata un garage. 40 mila libri del monastero dell’Assunzione di Louisaweg sono stati venduti al chilo. Nel settembre del 2004 la storica Katholieke Universiteit di Nijmegen ha cambiato nome in Radboud University. Non aveva più senso riferirsi al cattolicesimo. A L’Aja la comunità ebraica ha venduto ai musulmani una sinagoga del XVIII secolo.
Durante la Riforma le pareti affrescate della cattedrale cattolica di Den Bosch furono ricoperte da uno spesso intonaco bianco. Un restauro successivo portò alla luce la figura della Madonna. Le era stato graffiato tutto il viso sino a renderla senza volto. E’ in un’Olanda senza volto che è stato compiuto l’assassinio di Theo van Gogh, sgozzato ritualmente il 2 novembre 2004. Ian Buruma, Christopher Caldwell e Mark Steyn sono convinti che per impedirle di marcire del tutto bisognerebbe metterla sotto ghiaccio. Quella che conosciamo scomparirà, lasciando solo i sintomi. Poi anche quelli e più niente. Come le chiese svendute all’asta.
Le proiezioni demografiche sono impressionanti. Entro il 2015 la regione che comprende Amsterdam, l’Aja, Rotterdam e Utrecht sarà a maggioranza islamica. Altri dicono che nel 2020 lo sarà il settanta per cento. I musulmani minorenni sono già oggi maggioranza ad Amsterdam e Rotterdam. Ad Amsterdam accanto ai bordelli (sono 30mila le “sex workers” unite in sindacato), ai coffee- shop dell’Era marijuana-lsd-thc-cocainametadrina e ai manifesti con le bocche da fellatio ci sono decine di locali frequentati dai musulmani in cui le donne non possono entrare. Secondo il New York Times sarebbero migliaia gli olandesi con le valigie pronti a partire entro la fine dell’anno. Nel 2004 lo hanno fatto in 40mila. Aveva capito questo Theo van Gogh, gli olandesi sono rassegnati a una necessaria assenza. E a diventare dhimmi tollerati di una Tebaide capovolta.
Il “grosso grasso lurido maiale” la mattina del 2 novembre di un anno fa è diventato una bacheca coranica. La sua morte è stata la notte di San Bartolomeo della libertà europea. L’Olanda che conoscevamo non esisteva già più. Era stato il solo paese in cui Voltaire e l’ebreo apostata Spinoza riuscirono a pubblicare i loro scritti. Oggi uno dei suoi biglietti da visita più diffusi è simile a questo, indirizzato al leader della destra:
“Nome: Geert Wilders. Professione: idolatra. Peccato: derisione dell’islam. Punizione: decapitazione. Ricompensa: paradiso”.
Theo aveva rifiutato la scorta anche dopo la morte dell’amico Pim Fortuyn: “Chi vorrebbe uccidere lo scemo del villaggio? Il proiettile non arriverà per me. Se deve accadere accadrà”. Ne arrivarono nove, fra un “pietà” e un “non lo fare”. Poi quei trenta centimetri di lama per completare il rituale salafita. Era dal 1997 che i musulmani olandesi lo minacciavano di morte. Theo aveva smascherato l’ipocrisia e circonciso il multiculturalismo attraverso invettive, litanie, smorfie e grotteschi. Cosa significava per lui multiculturalismo? “Che il soggetto della storia deve essere rimosso dal curriculum scolastico e sostituito con un orientamento mondiale; che dobbiamo fornire un trattamento preferenziale alle ‘scuole dei neri’, in modo che gli olandesi capiscano che i loro bambini sono inferiori; che bisogna balbettare sull’educazione in un unico linguaggio ed essere sicuri che la legge sia indebolita, così da dare l’impressione agli stranieri che qui l’impunità è la norma”.
Poche settimane prima di morire disse che “la polizia non ha interesse a difendere gli olandesi attaccati da una minoranza aggressiva. Sospetto che il nostro sindaco sia un incorreggibile cinico e un mercenario opportunista. Non c’è Atene senza Sparta o Roma senza i barbari. E’ possibile che l’occidente libero perda la guerra delle idee”.
Sei mesi prima di quella tragica mattina: “Vent’anni fa nel mondo civilizzato girava un film. In quel film la fede cristiana era totalmente ridicolizzata. C’era un figlio di Dio imbroglione inchiodato alla croce mentre cantava. Lo stesso tipo di film sui travagli di Allah non potrebbe essere girato oggi. Grazie al nostro multiculturalismo. Ma non penso che sono autorizzato a dirlo”. Solo lui aveva avuto il coraggio di girare quel film per denunciare lo schiavismo islamista. Ma la sua Olanda non lo avrebbe ascoltato nemmeno da morto. Avrebbe invece sfoggiato tutto il suo femminismo perbenista anche ai funerali dell’ex regina Giuliana, celebrati nel marzo scorso da un donna dei Rimostranti, la corrente più liberal di un protestantesimo in via di estinzione.
Al funerale di Theo gli olandesi alzarono decine di cartelli: “Grazie a trent’anni di politica da struzzo, l’Olanda è malata terminale – Sotto i nazisti venivi ucciso se criticavi. Sta succedendo di nuovo”. Lui solo si era offerto per dire quello che tutti pensavano: “Se qualcosa caratterizza l’‘identità olandese’ questa è la mancanza di rispetto di sé, che si esprime nella paura di essere definiti ‘razzisti’ o ‘discriminatori’. La libertà di parola è l’unica cosa che può salvare i liberi cittadini dai barbari. Lasciamo che gli imam restino i pigmei che sono, non facciamone dei martiri. Il giorno in cui il ministro Roger van Boxtel sarà giustiziato dagli imam, allora cominceremo a capire cosa significa ‘dialogo’ per Allah”. Pochi minuti dopo la sua morte anche un timoroso speaker del Parlamento, Josiah van Arisen, disse: “Il Jihad è arrivato in Olanda”. Il regista obeso lo diceva da quattro anni. Doveva morire per suonare la sveglia all’intérieur borghese olandese. In vita era solo lo scemo invitato ai talk show per far ridere.
“Reazionario duro a morire”, come gli piaceva definirsi, Van Gogh era un funambolo dalla passione fanatica, un istrione eclettico con la vocazione da ventriloquo, un genio surrealista in t-shirt che ballava il tip tap sulle note del Corano. Anche se era più un pornografo con uno strepitoso senso dell’assedio, come per ogni oracolo la sua colpa doveva essere fabbricata in gran fretta per l’innocenza di chi si sentiva colpevole. La sinistra parlamentare e la grande stampa olandese lo dipinsero come un “insetto immondo, vile, crudele, egoista” (Dostoevskij, “I demoni”). Un noto settimanale italiano confinò la notizia della sua esecuzione nella sezione “spettacoli”. “Un poeta è il combinarsi di uno strumento e di un essere umano in un’unica persona”, scriveva Josif Brodskij su Marina Cvetaeva. Theo era un poeta del corpo, lo ostentava, si vestiva da imam, davanti ai burqa tirava fuori il perizoma.
Duecentomila persone si ritrovarono davanti a un grande schermo per seguire la cerimonia privata della cremazione al cimitero De Nieuwe Ooster. Fu trasmessa dalla catena televisiva Nederland 2. “No alla sottomissione al fondamentalismo”, scandirono molti. Qualcuno sfogliava il quotidiano liberale The Volkskrant: “Combattenti per il jihad educati sotto i nostri nasi”. La cerimonia si aprì da un assolo di violino. Prese la parola la madre di Theo, bionda e altera, capace come il figlio di far ridere e commuovere a un tempo. “Siamo qui insieme perché nostro figlio è morto, ucciso. Io temo per il futuro”. Usò le parole di Van Randwijk, il poeta della Resistenza olandese:
“Un popolo che cede ai tiranni perderà più del proprio corpo e dei propri beni”.
Il corpo del “lurido maiale” era composto in una bara bianca coperta da un manto di fiori. Nella Pythagorasstraat, dove Theo abitava, le bandiere rimasero a mezz’asta, un onore che per legge doveva essere tributato solo alla regina. I suoi amici più intimi scrissero una lettera ironica a Mohammed Bouyeri, il suo assassino: “Non ci rendevamo conto di aver urtato così la vostra sensibilità. Ma abbiamo imparato la lezione! Potresti darci alcune regole severe su quel che possiamo e non possiamo dire? Faremo di tutto per capire meglio le vostre convinzioni religiose. Se tu ti trovi in questa situazione difficile, di sicuro è anche colpa nostra. Speriamo che in questa lettera non ci siano cose che potrebbero offendere te o i tuoi correligionari. Bene, ragazzo, tieni duro, cerca di rilassarti, domani è un altro giorno. Forza e arrivederci”.
L’uomo era una fogna di difetti, ma si sa, “anche i cani di razza hanno le pulci” (Heine). Theo era arrogante, indolente, cinico e candido, feticista e adolescenziale, radicale e libertario, generoso con gli amici e vendicativo con i nemici, polemista di razza con un talento estremo, regista di cortometraggi che non ebbe pazienza per girare un capolavoro (ha lavorato con Roman Polanski), fumatore incallito, consumatore di cocaina e amante di vini costosi. I nazisti gli uccisero un cugino. A Theo, nato e cresciuto socialista e che negli anni Ottanta si era allontanato definitivamente dalla sinistra olandese (“la mafia politicamente corretta”), restava solo il pessimismo sul futuro della democrazia.
Prima di morire ha scritto: “Gli stivali nazisti sono di nuovo in marcia, ma stavolta vestono nei caffettani e si nascondono dietro le loro barbe”. E ancora: “C’è stato detto che dovevamo essere degli olandesi tolleranti, che dovevamo adattarci alle tenebre islamiche medievali, a coloro che odiavano la libertà dell’individuo, che avevano fatto dell’Occidente libero il falò del mondo intero. E’ come avere un ospite che sta lentamente rilevando la tua casa”. Aveva chiamato “ruffiano del Profeta” il capo della European Arab League, Dyab Abou JahJah.
In “America America”, Theo scrive che “fu l’America, il più affascinante esperimento della storia, a prevenire che Hitler unificasse l’Europa nel millenario Reich, fu l’America che vinse la Guerra fredda per tutti noi. L’esperto di islam
Bernard Lewis predisse la rivoluzione di Khomeini e non fu creduto. Oggi che ha più di novant’anni dice che l’Europa avrà una maggioranza islamica in dieci anni. Se Lewis ha ragione, come io credo, ci sono buone ragioni per emigrare nella terra del McDonald’s... tutto l'articolo

Postato da: giacabi a 09:54 | link | commenti
islam, meotti

venerdì, 22 maggio 2009

Buona visione
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E’ successo qualche giorno fa e il video è ancora sulla home page del quotidiano inglese Daily Telegraph. Vale la pena che lo riprendiamo anche noi. Sono due amanti. I talebani prima uccidono la donna con due colpi al petto e poi, con un kalashnikov, fanno secco l’uomo. Poco prima di essere colpita, la donna in lacrime implora pietà: “Abbiate pietà di me, per favore abbiate pietà di me. Le accuse contro di me sono false. Nessun uomo mi ha mai toccato”. Nel video si vede la donna che, colpita dai proiettili e caduta a terra, respira ancora. I talebani intorno urlano, chiedendo agli esecutori di finirla. Intanto, nella valle di Swat le donne non possono più uscire di casa, sono stati aboliti i dischi (cinque uomini sono stati umiliati con il taglio della barba per essere stati sorpresi ad ascoltare musica), i cartelloni pubblicitari e i negozi di parrucchieri, le scuole saltano in aria, i cristiani vengono accoppati ed è vietato alle ragazze praticare sport. Una parte del Pachistan, la “terra dei puri” con l’atomica a portata di mano, è oggi nelle mani dei terroristi islamici.


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islam

mercoledì, 20 maggio 2009

L'Eurabia ha una capitale: Rotterdam
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Qui interi quartieri sembrano Medio Oriente, le donne camminano velate, il sindaco è musulmano, nei tribunali e nei teatri si applica la sharia. Un grande reportage dalla città più islamizzata d'Europa

di Sandro Magister






ROMA, 19 maggio 2009 – Uno dei frutti più incontestabili del viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa è stato il migliorato rapporto con l'islam. I tre giorni passati in Giordania e poi la visita alla Cupola della Roccia a Gerusalemme hanno fatto circolare anche tra il grande pubblico musulmano – per la prima volta in misura così diffusa – l'immagine di un papa amico, attorniato da leader islamici visibilmente felici di accoglierlo e di collaborare con lui per il bene della famiglia umana.

Ma altrettanto incontestabile è la distanza tra questa immagine e la cruda realtà dei fatti. Non solo nei paesi a dominio musulmano, ma anche là dove i seguaci di Maometto sono minoranza, ad esempio in Europa.

Nel 2002 Bat Ye'or, una studiosa nata in Egitto e di nazionalità britannica, specialista della storia e della condizione delle minoranze cristiane ed ebraiche – dette "dhimmi" – nei paesi musulmani, coniò il termine "Eurabia" per definire il destino verso il quale vede incamminata l'Europa. Un destino di sottomissione all'islam, di "dhimmitudine".

Oriana Fallaci riprese nei suoi scritti la parola "Eurabia" e diede ad essa una risonanza mondiale. Il 1 agosto 2005 Benedetto XVI ricevette la Fallaci in udienza privata, a Castel Gandolfo. Lei rifiutava il dialogo con l'islam, lui lo voleva e lo vuole. Ma si trovarono d'accordo – come poi riferì la Fallaci – nel riconoscere "l'odio di sé" che l'Europa mostra, il suo vuoto spirituale, la sua perdita d'identità, proprio mentre aumentano in essa gli immigrati di fede islamica.

L'Olanda è un test di verifica straordinario. È il paese in cui l'arbitrio individuale è più legittimato ed esteso – fino al punto di consentire l'eutanasia sui bambini –, in cui l'identità cristiana si è più dissolta, in cui la presenza musulmana cresce più spavalda.

Qui il multiculturalismo è la regola. Ma drammatici sono anche i contraccolpi: dall'uccisione del leader politico anti-islamista Pim Fortuyn alla persecuzione della dissidente somala Ayaan Hirsi Ali, all'assassinio del regista Theo Van Gogh, condannato a morte per il film "Submission" di denuncia dei crimini della teocrazia musulmana. Il successore di Fortuyn, Geert Wilders, vive da sei anni protetto minuto per minuto dalla polizia.

In Olanda c'è una metropoli dove questa nuova realtà si vede a occhio nudo, più che altrove. Qui interi quartieri sono pezzi di Medio Oriente, qui sorge la più grande moschea d'Europa, qui nei tribunali e nei teatri si applica la legge islamica, la sharia, qui molte donne camminano velate, qui il sindaco è musulmano, figlio di un imam.

Questa metropoli è Rotterdam, la seconda città d'Olanda per popolazione, il primo porto d'Europa per volume di traffico.

Quello che segue è un reportage da Rotterdam uscito sul quotidiano italiano "il Foglio" il 14 maggio 2009, seconda di sette puntate di una grande inchiesta riguardante l'Olanda.

L'autore, Giulio Meotti, scrive anche per il "Wall Street Journal". Nel prossimo settembre uscirà un suo libro-inchiesta su Israele.

La foto sopra ha per titolo: "Musulmane a Rotterdam". È ripresa da una mostra del 2008 dei due fotografi olandesi Ari Versluis ed Ellie Uyttenbroek.


Nella casbah di Rotterdam

di Giulio Meotti



A Feyenoord si vedono ovunque donne velate che sfrecciano come lampi per le strade del quartiere. Evitano ogni contatto, soprattutto con gli uomini, perfino il contatto visivo. Feyenoord ha le dimensioni di una città e vi convivono settanta nazionalità. È una zona che vive di sussidi e di edilizia popolare, è qui che si capisce di più come l'Olanda – con tutte le sue norme antidiscriminazione e con tutta la sua indignazione morale – è una società completamente segregata. Rotterdam è nuova, venne bombardata due volte nella seconda guerra mondiale dalla Luftwaffe. Come Amsterdam è sotto il livello del mare, ma a differenza della capitale non ha fascino libertino. A Rotterdam sono i venditori arabi di cibo halal a dominare l'estetica urbana, non i neon delle prostitute. Ovunque si vedono casbah-caffè, agenzie di viaggio che offrono voli per Rabat e Casablanca, poster di solidarietà con Hamas e lezioni di olandese a buon prezzo.

È la seconda città del paese, una città povera, ma è anche il motore dell'economia con il suo grande porto, il più importante d'Europa. È una città a maggioranza immigrata, con la più alta e imponente moschea di tutta Europa. Il sessanta per cento degli stranieri che arrivano in Olanda vengono ad abitare qui. La cosa che più colpisce giungendo in città con il treno sono queste enormi affascinanti moschee su un paesaggio verdissimo, lussurreggiante, boschivo, acquoso, come corpi alieni rispetto al resto. La chiamano "Eurabia". È imponente la moschea Mevlana dei turchi. Ha i minareti più alti d'Europa, più alti persino dello stadio della squadra di calcio Feyenoord.

Rotterdam è una città che ha molti quartieri sequestrati dall'islamismo più cupo e violento. La casa di Pim Fortuyn spicca come una perla in un mare di chador e niqab. Si trova al numero 11 di Burgerplein, dietro la stazione. Di tanto in tanto qualcuno viene a portare fiori davanti alla casa del professore assassinato ad Amsterdam il 6 maggio del 2002. Altri lasciano un biglietto: "In Olanda si tollera tutto, tranne la verità". È stato un milionario di nome Chris Tummesen ad acquistare la casa di Pim Fortuyn perché rimanesse intatta. La sera prima dell'omicidio Pim era nervoso, lo aveva detto in televisione che si era creato un clima di demonizzazione contro di lui e le sue idee. E così avvenne, con quei cinque colpi alla testa sparati da Volkert van der Graaf, un militante della sinistra animalista, un ragazzotto mingherlino, calvinista, capelli rasati, occhi cupi, vestito da ecologista puro, maglia lavorata a mano, sandali e calze di lana caprina, vegetariano assoluto, "un ragazzo impaziente di cambiare il mondo", dicono gli amici.

Nel centro di Rotterdam non molto tempo fa sono apparse foto mortuarie di Geert Wilders, poste sotto un albero, con una candela a lumeggiarne la morte prossima ventura. Oggi Wilders è il politico più popolare in città. È lui l'erede di Fortuyn, il professore omosessuale, cattolico, ex marxista che aveva lanciato un partito per salvare il paese dall'islamizzazione. Al suo funerale mancava soltanto la regina Beatrice, perché l'addio al "divino Pim" diventasse un funerale da re. Prima lo hanno mostrificato (un ministro olandese lo chiamò "untermensch", subuomo alla nazista), poi lo hanno idolatrato. Le prostitute di Amsterdam deposero una corona di fiori all'obelisco dei caduti in piazza Dam.

"The Economist", settimanale lontano dalle tesi antislamiche di Wilders, tre mesi fa parlava di Rotterdam come di un "incubo eurabico". Per gran parte degli olandesi che ci vivono l'islamismo è oggi un pericolo più grande del Delta Plan, il complicato sistema di dighe che previene l'inondazione dal mare, come quella che nel 1953 fece duemila morti. La pittoresca cittadina di Schiedam, attaccata a Rotterdam, è sempre stata un gioiello nell'immaginazione olandese. Poi l'alone fiabesco è svanito, quando sui quotidiani tre anni fa è diventata la città di Farid A., l'islamista che minacciava di morte Wilders e la dissidente somala Ayaan Hirsi Ali. Da sei anni Wilders vive 24 ore su 24 sotto la protezione della polizia.

A Rotterdam gli avvocati musulmani vogliono cambiare anche le regole del diritto, chiedendo di poter restare seduti quando entra il giudice. Riconoscono soltanto Allah. L'avvocato Mohammed Enait si è appena rifiutato di alzarsi in piedi quando in aula sono entrati i magistrati, ha detto che "l'islam insegna che tutti gli uomini sono uguali". La corte di Rotterdam ha riconosciuto il diritto di Enait di rimanere seduto: "Non esiste alcun obbligo giuridico che imponga agli avvocati musulmani di alzarsi in piedi di fronte alla corte, in quanto tale gesto è in contrasto con i dettami della fede islamica". Enait, a capo dello studio legale Jairam Advocaten, ha spiegato che "considera tutti gli uomini pari e non ammette alcuna forma di ossequio nei confronti di alcuno". Tutti gli uomini ma non tutte le donne. Enait è noto per il suo rifiuto di stringere la mano alle donne, che più volte ha dichiarato di preferire con il burqa. E di burqa se ne vedono tanti a Rotterdam.

Che l'Eurabia abiti ormai a Rotterdam lo ha dimostrato un caso avvenuto in aprile allo Zuidplein Theatre, uno dei più prestigiosi in città, un teatro modernista, fiero di "rappresentare la diversità culturale di Rotterdam". Sorge nella parte meridionale della città e riceve fondi del comune, guidato dal musulmano e figlio di imam Ahmed Aboutaleb. Tre settimane fa lo Zuidplein ha consentito di riservare un'intera balconata alle sole donne, in nome della sharia. Non accade in Pakistan o in Arabia saudita, ma nella città da cui sono partiti per gli Stati Uniti i Padri Fondatori. Qui i pellegrini puritani sbarcarono con la Speedwell, che poi scambiarono con la Mayflower. Qui è iniziata l'avventura americana. Oggi c'è la sharia legalizzata.

In occasione dello spettacolo del musulmano Salaheddine Benchikhi, lo Zuidplein Theatre ha accolto la sua richiesta di riservare alle sole donne le prime cinque file. Salaheddine, editorialista del sito Morokko.nl, è noto per la sua opposizione all'integrazione dei musulmani. Il consiglio municipale lo ha approvato: "Secondo i nostri valori occidentali la libertà di vivere la propria vita in funzione delle proprie convinzioni è un bene prezioso". Anche un portavoce del teatro ha difeso il regista: "I musulmani sono un gruppo difficile da far venire in teatro, per questo siamo pronti ad adattarci".

Un altro che è stato pronto ad adattarsi è il regista Gerrit Timmers. Le sue parole sono abbastanza sintomatiche di quella che Wilders chiama "autoislamizzazione". Il primo caso di autocensura avvenne proprio a Rotterdam, nel dicembre 2000. Timmers, direttore del gruppo teatrale Onafhankelijk Toneel, voleva mettere in scena la vita della moglie di Maometto, Aisha. Ma l'opera venne boicottata dagli attori musulmani della compagnia quando fu evidente che sarebbero stati un bersaglio degli islamisti. "Siamo entusiasti dell'opera, ma la paura regna", gli dissero gli attori. Il compositore, Najib Cherradi, comunicò che si sarebbe ritirato "per il bene di mia figlia". Il quotidiano "Handelsblad" titolò così: "Teheran sulla Mosa", il dolce fiume che bagna Rotterdam. "Avevo già fatto tre lavori sui marocchini e per questo volevo avere degli attori e cantanti musulmani", ci racconta Timmers. "Poi mi dissero che era un tema pericoloso e che non potevano partecipare perché avevano ricevuto delle minacce di morte. A Rabat uscì un articolo in cui si disse che avremmo fatto la fine di Salman Rushdie. Per me era più importante continuare il dialogo con i marocchini piuttosto che provocarli. Per questo non vedo alcun problema se i musulmani vogliono separare gli uomini dalle donne in un teatro".

Incontriamo il regista che ha portato la sharia nei teatri olandesi, Salaheddine Benchikhi. È giovane, moderno, orgoglioso, parla un inglese perfetto. "Io difendo la scelta di separare gli uomini dalle donne perché qui vige libertà d'espressione e di organizzazione. Se le persone non possono sedersi dove vogliono è discriminazione. Ci sono due milioni di musulmani in Olanda e vogliono che la nostra tradizione diventi pubblica, tutto si evolve. Il sindaco Aboutaleb mi ha sostenuto".

Un anno fa la città entrò in fibrillazione quando i giornali resero nota una lettera di Bouchra Ismaili, consigliere del comune di Rotterdam: "Ascoltate bene, pazzi freak, siamo qui per restarci. Siete voi gli stranieri qui, con Allah dalla mia parte non temo niente, lasciatevi dare un consiglio: convertitevi all'islam e trovate la pace". Basta un giro per le strade della città per capire che in molti quartieri non siamo più in Olanda. È un pezzo di Medio Oriente. In alcune scuole c'è una "stanza del silenzio" dove gli alunni musulmani, in maggioranza, possono pregare cinque volte al giorno, con un poster della Mecca, il Corano e un bagno rituale prima della preghiera. Un altro consigliere musulmano del comune, Brahim Bourzik, vuol far disegnare in diversi punti della città segnali in cui inginocchiarsi in direzione della Mecca.

Sylvain Ephimenco è un giornalista franco-olandese che vive a Rotterdam da dodici anni. È stato per vent'anni corrispondente di "Libération" dall'Olanda ed è fiero delle sue credenziali di sinistra. "Anche se ormai non ci credo più", dice accogliendoci nella sua casa che si affaccia su un piccolo canale di Rotterdam. Non lontano da qui si trova la moschea al Nasr dell'imam Khalil al Moumni, che in occasione della legalizzazione del matrimonio gay definì gli omosessuali "malati peggio dei maiali". Da fuori si vede che la moschea ha più di vent'anni, costruita dai primi immigrati marocchini. Moumni ha scritto un libercolo che gira nelle moschee olandesi, "Il cammino del musulmano", in cui spiega che agli omosessuali si deve staccare la testa e "farla penzolare dall'edificio più alto della città". Accanto alla moschea al Nasr ci sediamo in un caffè per soli uomini. Davanti a noi c'è un mattatoio halal, islamico. Ephimenco è autore di tre saggi sull'Olanda e l'islam, e oggi è un famoso columnist del quotidiano cristiano di sinistra "Trouw". Ha la miglior prospettiva per capire una città che, forse anche più di Amsterdam, incarna la tragedia olandese.

"Non è affatto vero che Wilders raccoglie voti delle periferie, lo sanno tutti anche se non lo dicono", ci dice. "Oggi Wilders viene votato da gente colta, anche se all'inizio era l'Olanda bassa dei tatuaggi. Sono tanti accademici e gente di sinistra a votarlo. Il problema sono tutti questi veli islamici. Dietro casa mia c'è un supermercato. Quando arrivai non c'era un solo velo. Oggi alla cassa ci sono soltanto donne musulmane col chador. Wilders non è Haider. Ha una posizione di destra ma anche di sinistra, è un tipico olandese. Qui ci sono anche ore in piscina per sole donne musulmane. È questa l'origine del voto per Wilders. Si deve fermare l'islamizzazione, la follia del teatro. A Utrecht c'è una moschea dove si danno servizi municipali separati per uomini e donne. Gli olandesi hanno paura. Wilders è contro il Frankenstein del multiculturalismo. Io che ero di sinistra, ma che oggi non sono più niente, dico che abbiamo raggiunto il limite. Ho sentito traditi gli ideali dell'illuminismo con questo apartheid volontario, nel mio cuore sento morti gli ideali d'eguaglianza di uomo e donna e la libertà d'espressione. Qui c'è una sinistra conformista e la destra ha una migliore risposta al pazzo multiculturalismo".

Alla Erasmus University di Rotterdam insegna Tariq Ramadan, il celebre islamista svizzero che è anche consulente speciale del comune. A scovare dichiarazioni di Ramadan critiche sugli omosessuali è stata la più celebre rivista gay d'Olanda, "Gay Krant", diretta da un loquace giornalista di nome Henk Krol. In una videocassetta, Ramadan definisce l'omosessualità "una malattia, un disordine, uno squilibrio". Nel nastro Ramadan ne ha anche per le donne, "devono tenere lo sguardo fisso a terra per strada". Il partito di Wilders ha chiesto lo scioglimento della giunta municipale e la cacciata dell'islamista ginevrino, che invece si è visto raddoppiare l'ingaggio per altri due anni. Questo accadeva mentre al di là dell'oceano l'amministrazione Obama confermava il divieto d'ingresso a Ramadan nel territorio degli Stati Uniti. Fra i nastri in possesso di Krol ve ne è uno in cui Ramadan dice alle donne: "Allah ha una regola importante: se cerchi di attrarre l'attenzione attraverso l'uso del profumo, attraverso il tuo aspetto o i tuoi gesti, non sei nella direzione spirituale corretta".

"Quando venne ucciso Pim Fortuyn fu uno shock per tutti, perché un uomo venne assassinato per quello che diceva", ci dice Krol. "Non era più il mio paese quello. Sto ancora pensando di lasciare l'Olanda, ma dove potrei andare? Qui siamo stati critici di tutto, della Chiesa cattolica come di quella protestante. Ma quando abbiamo mosso critiche all'islam ci hanno risposto: State creando nuovi nemici!". Secondo Ephimenco, è la strada il segreto del successo di Wilders: "A Rotterdam ci sono tre moschee enormi, una è la più grande d'Europa. Ci sono sempre più veli islamici e un impulso islamista che viene dalle moschee. Conosco tanti che hanno lasciato il centro città e vanno nella periferia ricca e bianca. Il mio quartiere è povero e nero. È una questione di identità, nelle strade non si parla più olandese, ma arabo e turco".

Incontriamo l'uomo che ha ereditato la rubrica di Fortuyn sul quotidiano "Elsevier", si chiama Bart Jan Spruyt, è un giovane e aitante intellettuale protestante, fondatore della Edmund Burke Society, ma soprattutto autore della "Dichiarazione di indipendenza" di Wilders, di cui è stato collaboratore dall'inizio. "Qui un immigrato non ha bisogno di lottare, studiare, lavorare, può vivere a spese dello Stato", ci dice Spruyt. "Abbiamo finito per creare una società parallela. I musulmani sono maggioranza in molti quartieri e chiedono la sharia. Non è più Olanda. Il nostro uso della libertà ha finito per ripercuotersi contro di noi, è un processo di autoislamizzazione".

Spruyt era grande amico di Fortuyn. "Pim disse ciò che la gente sapeva da decenni. Attaccò l'establishment e i giornalisti. Ci fu un grande sollievo popolare quando scese in politica, lo chiamavano il ‘cavaliere bianco'. L'ultima volta che parlai con lui, una settimana prima che fosse ucciso, mi disse di avere una missione. La sua uccisione non fu il gesto di un folle solitario. Nel febbraio 2001 Pim annunciò che avrebbe voluto cambiare il primo articolo  della costituzione olandese sulla discriminazione perché a suo dire, e aveva ragione, uccide la libertà di espressione. Il giorno dopo nelle chiese olandesi, perlopiù vuote e usate per incontri pubblici, venne letto il diario di Anna Frank come monito contro Fortuyn. Pim era veramente cattolico, più di quanto noi pensiamo, nei suoi libri parlava contro l'attuale società senza padre, senza valori, vuota, nichilista".

Chris Ripke è un'artista noto in città. Il suo studio è vicino a una moschea in Insuindestraat. Scioccato nel 2004 dall'omicidio del regista Theo Van Gogh per mano di un islamista olandese, Chris decise di dipingere un angelo sul muro del suo studio e il comandamento biblico "Gij zult niet doden", non uccidere. I vicini nella moschea trovarono il testo "offensivo" e chiamarono l'allora sindaco di Rotterdam, il liberale Ivo Opstelten. Il sindaco ordinò alla polizia di cancellare il dipinto perché "razzista". Wim Nottroth, un giornalista televisivo, si piazzò di fronte in segno di protesta. La polizia lo arrestò e il filmato venne distrutto. Ephimenco fece lo stesso nella sua finestra: "Ci misi un grande telo bianco con il comandamento biblico. Vennero i fotografi e la radio. Se non si può più scrivere ‘non uccidere' in questo paese, allora vuol dire che siamo tutti in prigione. È come l'apartheid, i bianchi vivono con i bianchi e i neri con i neri. C'è un grande freddo. L'islamismo vuole cambiare la struttura del paese". Per Ephimenco parte del problema è la decristianizzazione della società. "Quando arrivai qui, negli anni Sessanta, la religione stava morendo, un fatto unico in Europa, una collettiva decristianizzazione. Poi i musulmani hanno riportato la religione al centro della vita sociale. Aiutati dall'élite anticristiana".

Usciamo per un giro fra i quartieri islamizzati. A Oude Westen si vedono soltanto arabi, donne velate da capo a piedi, negozi di alimentari etnici, ristoranti islamici e shopping center di musica araba. "Dieci anni fa non c'erano tutti questi veli", dice Ephimenco. Dietro casa sua, una verdeggiante zona borghese con case a due piani, c'è un quartiere islamizzato. Ovunque insegne musulmane. "Guarda quante bandiere turche, lì c'è una chiesa importante, ma è vuota, non ci va più nessuno". Al centro di una piazza sorge una moschea con scritte in arabo. "Era una chiesa prima". Non lontano da qui c'è il più bel monumento di Rotterdam. È una piccola statua in granito di Pim Fortuyn. Sotto la testa lucente in bronzo, la bocca che accenna l'ultimo discorso a favore della libertà di parola, c'è scritto in latino: "Loquendi libertatem custodiamus", custodiamo la libertà di parlare. Ogni giorno qualcuno depone dei fiori.

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Il quotidiano che ha pubblicato l'inchiesta:

> Il Foglio


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islam

sabato, 08 novembre 2008

  Maometto
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Senza dubbio Maometto proclama l’unità di Dio. Questa verità è l’essenza e il dogma principale della sua religione. Lo riconosco, ma tutti sanno che egli lo afferma a partire da Mosè e dalla tradizione ebraica. Lo spirito di Maometto, o piuttosto la sua immaginazione, ha pagato il prezzo di tutti gli altri dogmi del Corano, libro pieno di confusione e di oscurità, di un riformatore appassionato che si tormenta per risolvere con il genio delle questioni che sono piu alte del genio e che non arriva ad altro che a degli errori grossolani, tanto è vero che non è dato a nessuno, neppure a un grand'uomo, di poter dire niente di soddisfacente su Dio, sul paradiso e sulla vita futura, se Dio stesso non lo istruisce preventivamente!
Maometto, quindi, è vero soltanto quando si appoggia sulla Bibbia e sul sentimento innato della fede in Dio. .
Per tutto il resto il Corano non è davvero altro che un sistema ardito di dominio e di invasione politica.Ovunque in Maometto si scopre l'uomo ambizioso, il vile adulatore di tutte le passioni piu care al cuore degli uomini! Come carezza la carne, che spazio riserva alla sensualità!
Vuole portare l'Arabo verso la verità di Dio, oppure verso la seduzione di tutte le gioie permesse in que- sta vita e promesse come speranza e ricompensa nell'altro?
Bisognava conquistare un popolo. l'appello alle passioni era, dunque, necessario. Ebbene, vi è riuscito! Ma la causa del suo trionfo sarà la causa della sua rovina. Presto o tardi la mezzaluna sparirà dalla scena del mondo e la Croce vi rimarrà!
La sensualità in ultima analisi uccide le nazioni, cosi come uccide gli individui che sono cosi folli da farne il fondamento della loro esistenza!Questo falso profeta, inoltre, si rivolge a una sola nazione, e ha sentito il bisogno, di giocare due ruoli, il ruolo politico e quello religioso. Egli ha effettivamente conquistato e posseduto tuttà' la potenza del primo. Quanto al secondo, se ne ha avuto il prestigio non ne ha avuto la sostanza. Non ha mai fornito prove della divinità della sua missione. Una o due volte vuole misurarsi con un miracolo e fallisce miseramente. Nessuno crede ai suoi miracoli, perché Maometto stesso non ci credeva e questo prova che non è poi cosi facile come si immagina di imporsi in questo modo.
Se a Maometto si addice bene il titolo di impostore, esso ripugna talmente a quello di Cristo che credo che nessun nemico del cristianesimo abbia mai osato attribuirglielo!
E tuttavia non c'è una via di mezzo: Cristo o è un impostore o è Dio.
 Napoleone,Conversazioni religiose  Editori Riuniti


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islam, napoleone

lunedì, 18 agosto 2008

Mi chiamavo Amahd
 Ora sono Cristiano
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«Chi sono io? Ero Alì, ho 22 anni. Il mio paese? Era l’Afghanistan. Dove quelli come me venivano perseguitati dai sunniti pashtun. Sono arrivato in Italia e da questa Pasqua urlo al mondo che non ho più paura. La mia nuova vita mi ha regalato la libertà»
da: www.tempi.it di Marta Allevato
Questa è la storia del viaggio di Ahmad e Cristiano. Inizia nove anni fa nel paese delle invasioni, delle guerre civili, dei turbanti e dei burqa azzurri, delle barbe e dei kalashnikov, delle condanne a morte per apostasia e degli aquiloni che non possono volare. Ahmad e Cristiano non sono due amici, né fratelli, ma si conoscono bene. Sono la stessa persona. Sì, perché Ahmad durante il suo viaggio fa una scoperta che gli “cambia la vita”, tanto da scegliere un nuovo nome con cui ora potersi identificare veramente. La scoperta è quella di Cristo.
«Chi sono io? Ero Alì e ho 22 anni, sono azaro. Il mio paese? Era l’Afghanistan. Qui quelli come me, dell’etnia di minoranza e di fede sciita, venivano perseguitati e oppressi dai sunniti pashtun.
Sono arrivato in Italia nel 2001 e dalla Pasqua del 2008 mi chiamo Cristiano, per urlare al mondo che non ho più paura, perché la mia nuova vita mi ha regalato la libertà». Se fosse ancora a Kabul su Ahmad penderebbe una fatwa, l’avrebbe emessa uno dei tanti mullah, che lì come in Europa non perdonano chi lascia l’islam. «Ma io non tremo né provo vergogna – dice convinto – sento solo molta compassione per i miei amici musulmani, indottrinati e schiavizzati dall’ideologia». Anche a loro con tutti i rischi della situazione, non si priva della «gioia di testimoniare anche a loro» la bellezza di questo suo inatteso incontro.
Ahmad parte da Kabul nel 1999. In tempo per non vedere l’ennesima guerra – quella degli Usa contro i talebani –, troppo tardi per non essere testimone degli orrori sovietici. Suo papà era un comunista di fede, ateo di religione. Difficile, ma vissuto nell’amore e nel rispetto, il suo matrimonio con la mamma di Alì, invece fervente musulmana. Un’infanzia tra il sogno represso di studiare e la consapevolezza di doversi accontentare dei vecchi carriarmati sovietici come unici banchi di scuola. «Da piccoli io e il mio migliore amico Sarwar volevamo diventare attori: quando recitavamo per gioco lui voleva fare il principe, io invece volevo fare il re, perché solo il re ha il potere di tenere aperte tutte le scuole. Quanto ridevamo!».
Ma il sorriso di Ahmad si è spento presto. Una bomba contro la macchina del padre di ritorno da un viaggio di lavoro nel sud, la malattia della madre senza che in città ci fosse un solo ospedale aperto. Finiscono i soldi. Per mangiare. Per riscaldarsi. I nemici del padre, considerato un traditore perché lavorava con i sunniti. La guerra dei talebani. Troppo pericoloso rimanere. Ahmad parte per il Pakistan con la sorella. Ma non sono al sicuro neppure qui. La passione per l’arte, il teatro. Quella dannata passione. Arriva un regista, finalmente Ahmad può recitare in uno spettacolo, anche se solo amatoriale. Il problema è che lui, sciita, interpreterà uno dei tre profeti più cari ai sunniti. Non gli verrà mai perdonato. E dopo settimane di minacce viene rapito da un gruppo di estremisti che lo tengono in uno scantinato senza luce per sei mesi. Salvo per miracolo, ormai deve ripartire.
Migliaia di dollari ai trafficanti di clandestini: Teheran, Macu, Van, Istanbul, un naufragio fortunatamente finito bene. Fucili alla frontiera, ricatti, mazzette, schiavitù, la morte, gli amici che lascia per strada. E poi un canotto gonfiabile comprato al mercato delle illusioni. Per solcare il Mediterraneo. L’isoletta di Lessus e poi Atene, Patras e un camion pieno di scatole che ti fa da culla. La laguna veneziana non ha niente di romantico quando scendi dopo giorni di viaggio senza esserti potuto lavare e mentre i trafficanti ti picchiano su tutto il corpo. Via verso Ancona e da lì il treno per Roma e la “gioia di vedere per la prima volta la bandiera italiana”, rendersi conto che non stai sognando.

L’ipocrisia degli altri immigrati
Come quello degli altri suoi coetanei e connazionali, il giovane viso ha gli occhi vecchi consumati dall’esperienza sbattuta contro troppi e scogliosi lidi. «Pensavo a tutto quello che era successo alla mia famiglia e a me, e mi dicevo: “Tu non hai un futuro”. Non potevo immaginare il mio avvenire diverso dal mio passato». In Italia, però, succede qualcosa: «Qui ho trovato un ambiente accogliente, ho trovato amici e la fede». Con gli altri afghani immigrati «non riesco a integrarmi: quelli arrivati negli ultimi due anni sono tutti cresciuti a Quetta, in Pakistan, mi preoccupano, sono imbevuti di estremismo: mi deridono o minacciano se non vado in moschea o faccio le loro preghiere. Dicono che le donne sono puttane, che l’Italia non ha religione e io gli chiedo se si sono mai innamorati di una ragazza italiana o se sono mai stati in una chiesa. Difendono il terrorismo, l’Iran, criticano tutto quello che è occidentale». Eppure qui, in Occidente, cercano quello che il loro paese gli nega: un futuro libero.
Ahmad non ha mai vissuto a suo agio nell’ipocrisia di chi «inneggia alla morale, al rispetto dei valori musulmani e poi appena può si ubriaca e va a cercare donne in discoteca anche durante Ramadan, solo perché è in un paese straniero. Ho passato parte della mia vita attraversando vari Stati per lo più musulmani, e l’accoglienza che ho trovato in Italia è impareggiabile. In Iran, soprattutto, ho incontrato molto razzismo, gli iraniani trattano gli afghani da inferiori, che così vivono isolati, senza grandi possibilità di costruire un futuro», racconta Ahmad.

Le foto, una ragazza, la Messa

«A Roma ho iniziato a frequentare una scuola gestita da suore. Mi sono iscritto ad un corso di fotografia appassionandomi a questa arte.
Le suore mi hanno chiesto di fare foto durante una Messa e io ho accettato e da lì ho iniziato ad andare saltuariamente in chiesa. A frequentare la Messa. Le cose che sentivo dire dal sacerdote mi incuriosivano e volevo saperne di più. L’idea che maggiormente mi colpiva all’inizio era che tutti gli esseri umani sono uguali tra loro, fratelli. Ma anche il rifiuto delle guerre e della violenza, per me che ne avevo vista tanta, è un messaggio rivoluzionario: ero abituato alla legge musulmana che invece ti invita a fare la guerra per difendere l’islam».
Per due anni Ahmad è andato a Messa, seguendo più una curiosità che una vocazione. L’amore per una ragazza italiana e cristiana lo avvicina di più al messaggio di Cristo. «Con lei andavo tutte le domeniche in chiesa. Lì mi sentivo sicuro, a mio agio, sentivo che c’era qualcuno che mi ascoltava. Anche prima di convertirmi mi trovavo spesso ad andare in chiesa anche solo per pregare, per cercare conforto. A differenza dell’ateismo che praticava mio padre, la fiducia nell’esistenza di un Dio è quello che poteva darmi la forza di andare avanti, dare un senso al mio dolore».
Per Ahmad inizia il pellegrinaggio nelle parrocchie della capitale per «chiedere informazioni», come dice lui stesso. Finalmente al sesto tentativo trova la sua strada: «
Per due anni tutte le domeniche ho frequentato il catechismo, un appuntamento che ho sempre vissuto come una festa con molta gioia. Con gli amici che mi chiedevano dove andavo ogni domenica pomeriggio, inventavo scuse e finti appuntamenti. Non mi avrebbero capito. Il mio catechista è diventato un po’ come un padre per me». Per il giovane afghano ogni passo avanti in questo cammino era un pizzico di forza in più, di sicurezza, di libertà. «Quel che mi affascina del cristianesimo è la presenza concreta di Dio tra noi. L’islam ha come figura centrale il profeta Maometto, che però è morto. Mentre i cristiani hanno Gesù, che è risorto e quindi vivo. Questa è la cosa più bella e che ti dà speranza».
Ahmad è pronto per la «scelta che cambierà la mia vita». A Pasqua di quest’anno arriva il battesimo: «Un momento intenso, mi sono emozionato e alla fine ho chiesto se si poteva fare un’altra volta per quanto forte era il benessere che avevo provato. Sentivo una profonda felicità, la felicità che Gesù mi accettava come suo figlio. Ora dopo il battesimo, anche partecipare alla Messa è completamente diverso: mi sento parte di qualcosa. Ora ho una famiglia vera». Oggi Cristiano vorrebbe diventare catechista, per coinvolgere nella sua esperienza di fede altri giovani. «Sono troppi quelli che dicono di essere cristiani, ma poi le chiese sono piene solo di anziani». Con i colleghi di lavoro spesso parla di Dio. «Cerco di raccontare Gesù anche agli altri immigrati, ma con gli afghani è più difficile, non mi sento sicuro nel farlo. Ce ne sono alcuni, quelli più estremisti, che potrebbero anche uccidermi. Quelli cresciuti in Pakistan sono dei veri e propri talebani, del tutto contrari a qualsiasi idea di conversione».

«Porto la croce, non mi nascondo»
Al momento la sua “nuova identità” è un tabù per molti, ma il ragazzo non si scoraggia, né ha paura. «Cerco di farmi chiamare Cristiano, con il mio nuovo nome, ma molti musulmani mi prendono in giro, si rivolgono a me dicendo: “Guarda è arrivato, Marco, Matteo, Luca…”. Porto la croce al collo e non mi interessa se è rischioso, non voglio più nascondermi, perché ora tutto è cambiato, ora esiste futuro, esiste speranza».
Ahmad amava «le notti buie e senza stelle», perché gli ricordavano la sua vita, il suo martoriato paese, le sue amicizie violentate. «Tutta la mia vita era stata buia, e pensavo che non sarei mai riuscito a vedere la notte in un altro modo, con un altro colore, ad amare la notte con le stelle e la luna. Mi chiedevo sempre se valesse la pena di vivere così». Cristiano ora guarda al cielo d’estate e cerca le stelle, le più luminose possibili.

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sabato, 14 giugno 2008

 Tempi

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martedì, 01 aprile 2008

Fitna", il film sull'Islam censurato per paura
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“Fitna” viene dalla radice araba “fatana”, ed è una parola  trilitterale la cui  etimologia  ha come significato primario “seduzione”.
Ma come connotazione secondaria, molto più usata,
ha invece il segno della “sedizione”. La sommossa, la divisione. La stessa che si sollevò subito dopo la morte di Maometto.
Ieri l’uscita dell’omonimo film di Geert Wilders sul sito internet Leaveleak.com ha creato invece una sedizione, una “fitna”, nel mondo occidentale islamically correct, dal segretario dell’Onu Ban Ki Moon in giù. Lo stesso che si era affrettato a derpecare e condannare le vignette del giornale damese Jylland Posten su Maometto. Tutti a deprecare e a scusarsi con gli ulema senza neanche avere visto prima di che si trattasse.
E questa reazione, combinatasi con la “geometrica potenza” delle minacce sui siti islamisti, compreso quello di Al Qaeda, ha determinato da parte del server in questione la rimozione del film pietra dello scandalo.
Chi andasse adesso a cliccare per vedersi i 14 minuti del cortometraggio “Fitna” resterebbe deluso dal leggere la seguente scritta bianca in campo nero :
In seguito a minacce al nostro staff e ad alcuni articoli di stampa distorti da parte di certi angoli oscuri dell’informazione britannica che potrebbero provocare problemi di incolumità ad alcuni membri della nostra azienda, Liveleak.com non ha avuto altra scelta che quella di rimuovere dai nostri server il film “Fitna” di Geert Wilders.”
“Questo è un giorno molto triste per la libertà di espressione sulla rete – continua lo statement ufficiale di Liveleak.com – ma siamo stati costretti a prediligere la sicurezza personale dei nostri lavoratori alla libertà di stampa. Grazie ai milioni che ci hanno cliccato , la speranza è che da questo evento nasca una discussione di cui tutti beneficeremo e da cui tutti verremo educati al rispetto e all’accettazione reciproca”.
Ancora più amara la chiosa finale del comunicato: “tutti sanno che noi siamo stati sempre dei militanti per le idee in cui crediamo, tra cui l’abilità di farci sentire dagli altri, ma stavolta il prezzo da pagare era davvero troppo alto”.

Parole che dovrebbero imbarazzare tutte le istituzioni mondiali, dall’Onu alla Ue, passando per la cosiddetta stampa libera che ha dato un giudizio di censura preventiva sul film invece che discuterne dopo averlo visto.
Il film infatti merita più di una critica, per la qualità delle sue immagini, quasi tutte già viste; per il montaggio e per qualche eccesso propagandistico ad uso politico interno.
“Fermate l’islamizzazione, difendete la nostra libertà.”
Il messaggio del film “Fitna”, che in questo caso andrebbe tradotto con la parola  "divisione" (cioè noi e loro, ndr), dell’olandese Geert Wilders, arriva proprio un attimo prima dei titoli di coda.
E rappresenta l’ideale proseguimento della denuncia del film “Submission” di Theo Van Gogh, il regista sgozzato da un immigrato marocchino, Mohammed Bouyeri in pieno giorno ad Amsterdam il 2 novembre del 2004.Ma “Fitna”, benchè usi lo stesso metodo  di accostare le immagini di prediche dell’odio e di decapitazioni ai versetti delle sure del Corano (tecnica adoperata, mutatis mutandis, anche da Van Gogh per spiegare la violenza dell’Islam sulle donne e sul loro corpo nell’indimenticabile “Submission”) non ha la stessa carica provocatoria.
E sembra più un documentario - collage, neanche particolarmente ben fatto, dei peggiori attentati e misfatti di sangue compiuti in tutto il mondo dal terrorismo islamico negli ultimi sette anni, dall’11 settembre 2001 in poi.Certo, l’immagine iniziale del cortometraggio dove si vede la vignetta del Jiylland Posten con Maometto con il turbante a forma di bomba (e si sente che questa “testa,turbante, bomba” sta ticchettando come un ordigno a orologeria) non farà molto piacere ai fanatici di Allah e forse nemmeno ai moderati di questa religione. Ma più che un pugno nello stomaco la trovata sembra appartenere alla categoria dello spirito degli effetti speciali.Vengono fatti vedere in sovraimpressione alcuni versetti di tre sure, la 4, la 8 e la 47,  i quali, sia pure con una traduzione in inglese un po’ troppo semplificata da quella araba, di fatto incitano ad uccidere gli infedeli e coloro che non si convertiranno sulla via di Allah. Poi una volta finita la sovraimpressione si vedono esempi concreti di questa “punizione divina”: come la decapitazione di un ostaggio in Iraq, filmati di bambine che confessano la propria vocazione al martirio anti ebraico, prediche di imam famigerati che incitano all’odio e alla violenza. In genere però tutta roba già abbondantemente vista su al Jazeera, su Memri, su al Manar, la tv degli hezbollah, e sui siti internet della jihad o sulla tv iraniana. Nulla di inedito insomma. Quello che è veramente esplicito è il discorso che riguarda l’Olanda e il proprio appeasement politically correct all’islam radicale. Tanto da far pensare al manifesto politico di un partito di estrema destra più che a un film di denuncia.
C’è anche una tabella di cifre che dimostra come in meno di 40 anni nei Paesi Bassi si sia passati da 3 mila e 139 islamici a oltre 944 mila. Poi c’è il grafico minaccioso che indica le persone di religione islamica nel resto d’Europa. E viene sottolineata  “l’incredibile cifra” di 54 milioni, che sono poco meno della popolazione di un paese come l’Italia. Si vedono in sovraimpressione titoli di giornali olandesi che raccontano fatti quotidiani come le denuncie delle donne immigrate picchiate dal marito. O quelli sul governo che non vuole vietare il burqa. O infine quelli che raccontano delle prediche di alcuni imam che chiedono la messa a morte dei “froci”.Ci si interroga in questa sezione del film, intitolata “L’Olanda sotto il giogo dell’Islam”, se il futuro di Amsterdam sia quello di assistere alla pubblica impiccagione dei gay in piazza o alla lapidazione delle adultere negli stadi come avviene a Teheran. E il tutto condito con una musica di sottofondo da documentario sui campi di concentramento nazisti.  Il cortometraggio finisce dopo 14 minuti dal count down della bomba disegnata sulla testa di Maometto nella vignetta  con un’esplosione che in realtà è il tuono di un temporale. Esplosione preceduta da alcune scritte bianche in campo nero che dovrebbero rappresentare la vera “welt und schauung” di Geert Wilders nonché il suo testamento spirituale e politico: “i musulmani vogliono farvi diventare una strada per l’Islam, ma l’Islam non costruirà una via per voi”, “il governo insiste che voi dovete rispettare l’Islam, ma l’islam non ha alcun rispetto per voi”, “l’islam vuole comandare, sottomettere e distruggere la nostra civiltà occidentale”, “nel 1945 il nazismo fu sconfitto dall’Europa, nel 1989 il comunismo fu sconfitto dall’Europa, ora va sconfitta l’ideologia islamica”.
La frase finale prima del tuono-esplosione dice “Fermate l’islamizzazione e difendete la nostra libertà”.
Se si può fare una critica al film questa riguarderebbe la qualità delle riprese, tutte di repertorio, e il montaggio. Non solo van Gogh ha fatto di meglio,e avrebbe saputo fare di meglio anche con lo stesso materiale usato da Wilders, ma tutto il taglio di questa pellicola sembra più adatto per una festa estiva della Lega Nord a Ponte di Legno che per ricordare il grande regista scomparso e per continuare le battaglie della sua sceneggiatrice Ayan Hirsi Ali.
Il che ovviamente non significa che il film andava censurato preventivamente, come volevano fare in Olanda.  
Né, tantomeno è ammissibile, che da oggi anche per Wilders, dopo avere messo in rete sul sito queste immagini, la vita sia in serissimo pericolo.

Fitna. The Movie. Here 

grazie a  Carioti    si può vedere    cliccaqui 



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sabato, 04 agosto 2007

GLI INASCOLTATI E ACCORATI APPELLI DEL PAPA…
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29.07.2007
Benedetto XVI è una voce che grida nel deserto? E’ stupefacente che sia stato così snobbato l’Angelus del Papa di domenica 22 luglio, dove, molto realisticamente, si lanciava l’allarme sulla guerra, evocando anche l’opera nefasta del Maligno nel mondo. Del resto sono passati inosservati anche due importanti articoli della Civiltà Cattolica che – con dovizia di dati – illustravano l’allucinante corsa al riarmo che è in corso dal 2001 e soprattutto il colossale rischio di “guerra nucleare” che oggi si è fatta addirittura incombente e paradossalmente innanzitutto per la difficoltà di controllare questi ordigni.
Perché il Papa, come i profeti biblici, non viene ascoltato? “Anche al tempo di Noè gli uomini mangiavano e bevevano…..”, dice la Scrittura. Se ne infischiavano di chi li ammoniva di tornare a Dio…
“Quando ero bambino” ha scritto Jean Guitton “nessun destino dei personaggi della Storia Santa mi appariva così misero quanto quello di Noè, per il diluvio che lo tenne rinchiuso nell’Arca per quaranta giorni. Più tardi, fui spesso ammalato e per lunghi giorni costretto anche io a restare nell’Arca. Capii che mai Noè poté vedere così bene il mondo come dall’Arca, malgrado essa fosse chiusa e facesse notte sulla terra”.

E SE DON GEORG RICORDA RATISBONA…

di Antonio Socci

Ha fatto clamore don Georg Gaenswein, segretario del Papa, il quale ha dichiarato alla Sueddeutsche Zeitung: “I tentativi di islamizzare l’Occidente non vanno taciuti. Ed il pericolo connesso per l’identità dell’Europa non può essere ignorato a causa di una falsa idea del rispetto”. Il prelato ha sottolineato che “la parte cattolica vede molto chiaramente (tale pericolo) e lo dice anche”. Il discorso del Papa a Ratisbona del settembre scorso – ha affermato – “dovrebbe servire a contrastare una certa ingenuità”. E’ un allarme esagerato? Può apparire tale solo alle “anime belle” che ignorano la storia. Che ci viene ricordata da due storici (peraltro non cattolici).
“Per quasi mille anni” ha scritto Bernard Lewis “dal primo sbarco moresco in Spagna al secondo assedio turco di Vienna, l’Europa è stata sotto la costante minaccia dell’Islam”. Samuel Huntington ha ricordato inoltre che “l’Islam è l’unica civiltà ad aver messo in serio pericolo e per ben due volte, la sopravvivenza dell’Occidente”.

Il Papa conosce molto bene la storia. E anche l’attuale situazione. Fece impressione, al sinodo dei vescovi del 1999, monsignor Giuseppe Bernardini, arcivescovo di Smirne, in Turchia, il quale riferì che, durante un incontro ufficiale di dialogo islamo-cristiano, un’autorevole personalità musulmana si rivolse ai cristiani con queste parole dure e calme: “Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo”. Dunque in Vaticano si torna a ricordare quanto il Papa disse a Ratisbona anche se quel discorso scatenò le violente reazioni del mondo islamico. Finora non era mai stato rievocato, perché, paradossalmente, fu proprio il papa, insultato e minacciato, a doversi quasi scusare con gli intolleranti e i violenti. In quel clima di grave tensione il Vaticano fu indotto a dare il suo “sì” all’ingresso della Turchia nella Ue, contraddicendo quanto Ratzinger aveva sempre sostenuto da cardinale. Anche nei giorni scorsi il Segretario di Stato ha ribadito questa nuova, disastrosa posizione. Il fatto che in Vaticano oggi si torni a citare il discorso di Ratisbona – che, sottolinea La Repubblica, “piacque molto” fra gli addetti ai lavori, come l’ex segretario di stato americano Kissinger - può significare che il Papa tornerà a far prevalere la cautela sulla questione turca?

L’allora cardinal Ratzinger, nell’ottobre 2004, mi diceva che era molto preoccupato per l’ingresso in Europa di un Paese di 70 milioni di musulmani: “l’amicizia e il rispetto sono necessari verso tutti i Paesi, ma inserire la Turchia in Europa mi sembra contraddittorio. Sono proprio la storia, la cultura e la religione ad aver disegnato il confine dell’Europa con la Turchia. Non si possono ignorare tutte queste cose”.

Se è vero, com’è vero, che incombe su di noi una minaccia di islamizzazione, non si vede perché mai si dovrebbe spalancare la porta dell’Europa a un Paese che non è mai stato europeo e che all’apice della sua potenza, in passato, ha ferocemente tentato di invaderci (l’Europa moderna è nata letteralmente opponendosi all’invasione turca). Un Paese, la Turchia, la cui democraticità è molto discussa, che oggi è governato da un partito islamico, che ancora reprime chi parla del genocidio armeno (il primo del Novecento: un milione e mezzo di cristiani armeni massacrati dai turchi). Con l’ingresso della Turchia nella UE ci troveremo 70 milioni di islamici in casa. Più islamizzazione di così…
Ma in queste ore un’altra voce si è fatta sentire, quella del nuovo capo della polizia Antonio Manganelli il quale, alla Commissione Affari Costituzionali della Camera, ha affermato che il terrorismo internazionale “preoccupa perché l’Italia è oggetto di invettive”. La stessa cosa, giorni fa, aveva detto, nella stessa sede, il capo dei Carabinieri, generale Siazzu.

Manganelli indica – come fatto che deve allarmare – l’operazione che ha sbaragliato una presunta cellula che si muoveva attorno alla moschea di Ponte Felcino, a Perugia. “Il modo di operare dell’imam di Perugia” ha affermato il capo della Polizia “è simile a quello riscontrato nei progetti degli attentati di Londra del 21 luglio 2005, dove non sono stati usati tritolo o dinamite, ma una miscela di prodotti chimici legali, come fertilizzanti ed altro, acquistabili anche al supermarket”.

Il “caso Ponte Felcino” è molto istruttivo. Il paese, alla periferia di Perugia, ha 7 mila abitanti e gli immigrati sono circa il 10 per cento della popolazione. Una percentuale abnorme. E’ in miniatura l’esempio della società multiculturale che la Sinistra invoca per il nostro futuro. Qua gli immigrati hanno trovato le porte spalancate che la Sinistra indica come antidoto alla “guerra di civiltà”. Ma proprio qua, guarda caso, pochi giorni fa è stato arrestato, fra gli altri, l’imam della locale moschea per le imputazioni di cui hanno parlato tutti i giornali.

Il Gip giustamente ricorda che poi il giudizio spetterà alla magistratura. Ed è giusto essere garantisti con tutti. Va però sottolineato che questo imam, in pubblico, non si presentava affatto come un estremista. Il periodico “Quattrocolonne” (della Scuola di giornalismo che ha sede proprio lì), in un suo numero recente si era occupato proprio dell’immigrazione a Ponte Felcino. Si riportavano le dichiarazioni degli immigrati che chiedevano agli italiani di mostrarsi “aperti”. E le risposte delle istituzioni che si fanno in quattro per “integrare”, per favorire l’incontro, per “fare largo all’interculturalità”. Secondo l’idea del “dialogo” cara alla Sinistra che governa l’Umbria e a qualche gruppo cattolico, gli stranieri “sono una risorsa e non un problema”.

Su “Quattrocolonne” si parlava anche dell’imam di Ponte Felcino come uno impegnato a favorire l’avvicinamento tra comunità musulmana e quella italiana. L’imam dichiarava che, con la Circoscrizione, “stiamo organizzando per aprile una manifestazione per pulire le sponde del Tevere che vedrà impegnati, fianco a fianco, immigrati e italiani. C’è un muro di sfiducia” denunciava ancora l’imam “nei confronti dei musulmani e questa barriera va abbattuta. La gente ha paura perché pensa che siamo venuti qui per rubare il lavoro. Si tratta di una falsità. Conto molto sull’opera dei musulmani italiani che frequentano la moschea. Il loro aiuto potrebbe essere determinante nel percorso di integrazione di noi musulmani stranieri nella vostra società”. Parole che acquisteranno un significato opposto se la magistratura accerterà la fondatezza delle accuse o la loro infondatezza. In ogni caso il problema immigrazione resta colossale anche a prescindere dal fenomeno terroristico. Il Gip di Perugia, Nicla Flavia Restivo, che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare, ha pronunciato parole su cui riflettere seriamente: “A Ponte Felcino il controllo dello Stato è stato latitante per anni. Un intero quartiere di Perugia, che ufficialmente era territorio italiano, nella pratica era ed è un’isola”.

L’immigrazione può essere il “cavallo di Troia” dell’islamismo terrorista e anche dell’islamizzazione (due fenomeni da non confondere). Ma è pure un problema drammatico in sé quando è governato male. Secondo le rilevazioni dell’istituto americano Pew Research Center, condotto in 47 stati, il 64 per cento degli italiani ritengono l’immigrazione un enorme problema nazionale. E’ un primato mondiale. Ma la nostra classe di governo pensa l’esatto opposto e impone agli italiani la sua ideologia “immigratoria”. Originata da cosa? Dal disprezzo della nostra storia e della nostra identità? Da un (miope) calcolo elettorale? Da ideologia terzomondista? Forse da tutto questo condito dall’ “ingenuità” irresponsabile denunciata da don Georg.

Da “Libero” del 28 luglio 2007


 

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giovedì, 14 giugno 2007

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di Fausto Biloslavo - mercoledì 13 giugno 2007, 07:00
·                                                                                                                                 

Il governo italiano esclude il pagamento di un riscatto per tirare fuori dai guai padre Giancarlo Bossi, rapito domenica scorsa nel sud delle Filippine. Non solo: il nostro ambasciatore a Manila, Rubens Anna Fedele, auspica che le forze di sicurezza Filippine riescano a liberare il missionario italiano sano e salvo.
In pratica un via libera al blitz, attuato a volte in passato dai corpi speciali filippini con risultati alterni, che in alcuni casi hanno comportato la morte o il ferimento dell’ostaggio.
La notizia è stata rivelata alla stampa da Eduardo Ermita, il segretario esecutivo della presidente delle Filippine, Gloria Arroyo, ovvero il suo braccio destro. Un’inversione di 360 gradi rispetto alla linea adottata dal governo Prodi con il giornalista di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, rapito pochi mesi fa in Afghanistan dai talebani.
L’agenzia France Presse ha scritto ieri che l’ambasciatore Anna Fedele ha incontrato Ermita per affrontare la delicata questione del rapimento del religioso italiano. Secondo il braccio destro del presidente filippino, l’ambasciatore ha «espresso la speranza che le truppe e la polizia filippine possano “recuperare” in sicurezza il missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere)». Alla domanda se esiste la possibilità di pagare un riscatto, Ermita, riferendosi agli italiani, ha risposto: «No, non hanno assolutamente parlato di questo».
In passato molti rapimenti di occidentali e religiosi sono stati risolti col pagamento di un riscatto. Inoltre il segretario esecutivo di Manila conferma che le forze Usa hanno messo a disposizione i loro aerei senza pilota per sorvolare la zona di Zamboanga, dove don Bossi è stato portato via da un commando, che lo ha caricato a forza su un’imbarcazione. Un centinaio di uomini dei corpi speciali americani sono di stanza nella vicina isola di Jolo fin dal 2002 per addestrare le forze di sicurezza filippine nell’antiterrorismo. In passato la task force Usa ha fornito utili informazioni di intelligence per la cattura o l’uccisione dei terroristi più ricercati del gruppo integralista Abu Sayaf, sospettato di essere coinvolto anche nel rapimento del missionario italiano. L’esclusione di un eventuale riscatto e la propensione al blitz, espressa dalle autorità filippine, è un’assoluta novità. Nel recente caso di Mastrogiacomo i servizi italiani avevano offerto un milione di dollari per liberare il giornalista, ma mullah Dadullah, il tagliagole talebano che gestiva il sequestro, voleva ben altro. La mediazione di Emergency portò alla liberazione del solo Mastrogiacomo in cambio di cinque prigionieri talebani detenuti a Kabul. Gli inglesi avevano proposto un blitz delle mitiche teste di cuoio Sas, al quale avrebbero potuto partecipare anche i corpi speciali italiani, ma il ministro della Difesa, Arturo Parisi, forse non del tutto convinto, ha posto il veto. Invece nelle Filippine, dove i tagliagole hanno gli occhi a mandorla, esercito e polizia, non certo all’altezza delle Sas, possono provarci a «recuperare» lo sfortunato missionario.
«I rapitori non hanno risposto alle proposte di negoziato e non hanno avanzato ancora nessuna richiesta. Li stiamo cercando in tutta l’area di Sibugay, nei pressi di Zamboanga», ha spiegato ieri il colonnello Roberto Rabasio, che coordina la «caccia all’uomo».
I militari e gli stessi ribelli islamici più moderati sono convinti che il mandante del sequestro sia Akiddin Abdusalam, conosciuto come «comandante Kiddie». Un militante rinnegato del fronte Moro (Milf), uno dei movimenti islamici più forti dell’isola di Mindanao, che sta trattando una soluzione pacifica al conflitto con le autorità di Manila. Il fratello di Abdusalam, che si è avvicinato alle cellule terroriste di Abu Sayaf, sarebbe stato riconosciuto nel commando di sequestratori. Il gruppo, legato ad Al Qaida, può contare su un nocciolo duro di 200 uomini, dopo le batoste subite lo scorso anno, ma continua ad attirare gli scontenti degli altri movimenti armati islamici, e pure normali banditi. Secondo alcuni abitanti del luogo, che conoscevano padre Bossi, i rapitori sarebbero soltanto dei criminali comuni.
Alla pista dei delinquenti a caccia di soldi crede il cardinale di Manila, Gaudencio Rosales, che sostiene: «Non si può generalizzare e incolpare l’islam».


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giovedì, 26 aprile 2007

 PER INCONTRARE L’ISLAM TORNIAMO A CRISTO 
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Da : Il Timone - rivista di apologetica dicembre 2006


di P.Piero Gheddo

     L’Occidente deve riflettere su questo fatto: i popoli musulmani ci vedono come ricchi, democratici, tecnicizzati, istruiti, ma anche come atei, aridi, cinici, senza regola morale. Ritengono di avere una missione storica da compiere: venire in Occidente per dare un’anima alla nostra civiltà, convertendoci in un modo o nell’altro ad Allah. E’ un concetto ripetuto continuamente dalla stampa dei paesi islamici, nelle moschee e scuole coraniche, ma  non c’è mai sulla stampa italiana. I musulmani vedono l’Occidente cristiano come un pericolo per la loro fede: sono attirati dal mondo moderno, ma ne hanno anche paura! Vogliono la nostra tecnologia e il progresso ad essa legato, ma non vogliono i nostri valori umani e religiosi, senza capire che lo sviluppo è collegato ai valori supremi di una civiltà.
    Scrive l’egiziano Magdi Allam (Corriere della Sera, 13 agosto 2006): “E’ vero che è una minoranza quella che pratica il terrorismo islamico, ma c’è una maggioranza di musulmani che condivide la loro ideologia fascista”. L’11 settembre 2001 ero in Bangladesh nel lebbrosario di Dhanjuri. Le Missionarie dell’Immacolata che curano i lebbrosi quel giorno non avevano ascoltato la radio: non ho saputo nulla degli attentati suicidi alle due Torri di New York. Il giorno dopo, andando in auto a Dinajpur, migliaia di persone manifestavano in corteo col volto gioioso e trionfante. Mentre l’Occidente era inorridito davanti alla televisione e a quelle scene spaventose, le folle dell’islam scendevano in piazza per esprimere la loro gioia per la vittoria contro “il grande Satana” (come Khomeini definiva gli Stati Uniti)!
    La nostra responsabilità sta nella decadenza della società, delle famiglie. L’Occidente presenta questi gravi sintomi di decadenza: diminuzione della popolazione, bassi tassi di crescita, di risparmio, consumi individuali e collettivi superiori agli investimenti; degrado morale: aumento di comportamenti antisociali (omicidi, droga, violenza in generale), decadimento della famiglia (divorzi, famiglie di single e di omosessuali), l’indebolimento dell’impegno nel lavoro e nello studio, la tendenza dell’Europa a non riconoscere le proprie radici cristiane.
L’Europa e l’America tentano di promuovere la cultura occidentale (diritti dell’uomo e della donna, democrazia, libertà di pensiero e di religione, valore della singola persona, giustizia sociale, stato di diritto), ma sempre più diminuisce la loro capacità di realizzare questo obiettivo.
    Perché questa decadenza? L’Occidente ha abbandonato Dio ed è diventato “una civiltà volta alla sua stessa distruzione” diceva il card. Ratzinger in una sua conferenza. Nel gennaio 2006 sono tornato da un viaggio in Senegal, Mali e Guinea Bissau, dove ho vissuto per un mese fra popolazioni povere, con un livello di istruzione e di vita molto inferiore al nostro. Eppure sono popoli che danno l’impressione di una serenità e gioia di vivere che certamente noi italiani non abbiamo più. Tornando in Italia vedo molta gente triste, pessimista, scoraggiata. E’ un’esperienza che faccio spesso. Sarebbe sbagliato dire che è meglio la loro condizione della nostra, ma certamente si può dire che la povertà educa più della ricchezza ad alcune virtù umane fondamentali per vivere bene: cordialità, solidarietà, saper gioire di quel poco che c’è, amore alla famiglia e al villaggio, profondo senso religioso nella vita, ecc. Un parroco al quale chiedo come va la sua grande parrocchia mi dice:
Oggi l’idolo è il denaro; in passato prevalevano altri idoli: l’ideologia, il sesso, la gloria umana, ma oggi è il denaro”. Noi trasmettiamo ai giovani il falso ideale che deprime la nostra civiltà: di avere sempre di più e che quel che conta è divertirci e occupare i primi posti.
    La nostra civiltà è questa: siamo ricchi, democratici, liberi, istruiti e laureati, scientificamente avanzati, con leggi perfette (o quasi), ma vuoti dentro. Il cardinale arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi diceva che “i bolognesi sono sazi e disperati”. In questa situazione esistenziale, che rende la nostra società sempre più individualista e arida, noi incontriamo la provocazione dell’islam che si propone, con ogni mezzo (crescita demografica ma anche “guerra santa” e terrorismo), di ricondurci alla fede in Dio. Su questa realtà l’Occidente dovrebbe riflettere e decidere se non è questo il momento di tornare a Dio e a Gesù Cristo. Siamo proprio convinti che il laicismo esasperato, che toglie (o vuol togliere) i crocifissi dalle scuole e dagli ospedali e non parla mai di problemi religiosi in giornali e Tv, che esalta l’esasperazione del sesso e privilegia il divertimento sull’impegno nel lavoro; siamo proprio convinti che sia il sistema migliore per preparare il futuro della nostra Italia?
      L’islam si definisce non in termini di libertà ma di sottomissione a Dio. E se fosse proprio questo l’ideale a cui ritornare per umanizzare la nostra civiltà e per incontrare l’islam? Ritornare a Dio senza rinunziare alla nostra libertà, anzi proprio in forza della nostra libertà di scelta, perché convinti che la vera libertà sta nella totale e libera sottomissione alla volontà di Dio e alla Legge divina. Chesterton ha scritto: “Dio ha creato l’uomo e gli ha dato i Dieci Comandamenti come via da seguire per realizzare se stesso. Volete che non sapesse qual è il vero bene dell’uomo?”.  
     La sfida dell’islam va presa sul serio. All’inizio del novecento i musulmani nel mondo erano circa 300 milioni, oggi un miliardo e 300 milioni. L’Italia è passata da 38 a 58 milioni e oggi noi italiani diminuiamo di circa 100.000 l’anno (siamo in leggero aumento solo per l’ingresso e le nascite di terzomondiali!).
In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti, la testimonianza del primato di Dio ci fa comprendere i valori storici che l’islam porta con sé, anche se in tanti modi sbagliati, condannabili, che giustamente noi rifiutiamo:   
    1)
La presenza di Dio nella vita del singolo uomo, nella famiglia, nella società. I musulmani ci insegnano il ”senso religioso” dell’esistenza, la coscienza che l’uomo è una creatura piccola e debole: deve dipendere dal suo Creatore.
    2) La fede è il più grande dono di Dio all’uomo, che dobbiamo chiedere e conservare con la preghiera e l’osservanza della Legge di Dio. In Pakistan un dottore laureato in Europa mi diceva: “Noi preghiamo cinque volte al giorno, voi italiani come fate a vivere senza pregare?”.
    3) La fede non è solo una scelta e un fatto personale e privato (noi abbiamo quasi  vergogna a mostrarla), ma crea l’appartenenza ad una comunità di credenti e a tutta l’umanità creata dallo stesso Dio; quindi forti vincoli di amore e di aiuto vicendevole.
     Come tutto questo potrebbe essere realizzato nella nostra società, ecco il tema da dibattere, discutere, proporre per dare una svolta alla decadenza dell’Occidente. E’ necessario accendere una luce di speranza sul nostro cammino storico.


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islam, cristianesimo, gheddo

domenica, 08 ottobre 2006

 

Ecco che cosa ha scritto Redeker tanto da essere minacciato
di morte

Pubblichiamo l’articolo incriminato di Robert Redeker uscito il 19.09.06 sul Figaro.
di Robert Redeker



Le reazioni suscitate dall’analisi di Benedetto XVI sull’islam e la violenza fanno parte dell’obiettivo che lo stesso islam si pone: spazzare via la cosa più preziosa che possiede l’occidente e che non esiste in alcun paese musulmano, ovvero la libertà di pensiero e di espressione. L’islam sta cercando di imporre all’Europa le proprie regole: apertura delle piscine solo per le donne a determinati orari, divieto di satira della religione, pretesa di avere un certo tipo di alimentazione per i bambini musulmani nelle mense scolastiche, lotta per imporre il velo nelle scuole, accusa di islamofobia contro gli spiriti liberi.

Come si spiega il divieto dell’estate scorsa di portare il tanga a Paris-Plage? La spiegazione addotta è quantomeno strana: c’era il rischio, si dice, di “turbare l’ordine pubblico”. Cosa significa? Che bande di giovani frustrati avrebbero rischiato di diventare violenti di fronte alla bellezza che faceva mostra di sé? Oppure si temevano manifestazioni islamiche, nelle vesti di brigate della virtù, nella zona di Paris-Plage?

In realtà, il fatto che portare il velo in pubblico non sia vietato è qualcosa che può “turbare l’ordine pubblico” molto più del tanga, a causa della condanna che suscita questo strumento per l’oppressione delle donne. Non è fuori luogo pensare che tale divieto rappresenti una certa islamizzazione della mentalità francese, la sottomissione più o meno conscia ai dettami dell’islam. O quantomeno che questo sia il risultato dell’insidiosa pressione musulmana sulla mentalità della gente: le stesse persone che sono insorte contro l’inaugurazione di un sagrato dedicato a Giovanni Paolo II a Parigi non fiatano quando si costruiscono le moschee. L’islam sta cercando di obbligare l’Europa ad adeguarsi alla sua visione dell’uomo.

Come già accadde con il comunismo, l’occidente è ora sotto sorveglianza ideologica. L’islam si presenta, esattamente come il defunto comunismo, come alternativa al mondo occidentale. E come il comunismo di altri tempi, l’islam, per conquistare gli animi, gioca su fattori emotivi. Ostenta una legittimità che turba la coscienza occidentale, attenta al prossimo: il fatto di porsi come la voce dei poveri di tutto il mondo. Ieri la voce dei poveri proveniva da Mosca; oggi viene dalla Mecca. Oggi degli intellettuali si fanno portatori dello sguardo del Corano, come ieri avevano fatto con lo sguardo di Mosca. Ora la scomunica è per l’islamofobia, come lo era stata in passato per l’anticomunismo.

Nell’apertura agli altri, che è propria dell’occidente, si manifesta una secolarizzazione del cristianesimo che può essere riassunta in questi termini: l’altro deve sempre venire prima di me. L’occidentale, erede del cristianesimo, è colui che mette a nudo la propria anima, assumendosi il rischio di passare per debole. Come il defunto comunismo, l’islam considera la generosità, l’apertura mentale, la tolleranza, la dolcezza, la libertà delle donne e dei costumi e i valori democratici come segni di decadenza.


Sono debolezze che sfrutta volutamente grazie a degli “utili idioti”, buone coscienze imbevute di buoni sentimenti, per imporre l’ordine coranico nel mondo occidentale.

Il Corano è un libro di una violenza
inaudita. Maxime Rodinson sostiene, nell’Encyclopedia Universalis, alcune verità importanti che in Francia sono considerate tabù. Infatti, da una parte, “Maometto rivelò a Medina delle insospettate qualità di dirigente politico e capo militare (…) Ricorse alla guerra privata, istituzione comune in Arabia (…) Maometto inviò subito manipoli di suoi sostenitori ad attaccare le carovane della Mecca, punendo così i suoi connazionali increduli e, al contempo, ottenendo un ricco bottino”.

Dall’altra, “Maometto approfittò di questo successo per eliminare da Medina, facendola massacrare, l’ultima tribù ebrea ancora esistente, quella dei Qurayza, con l’accusa di comportamento sospetto”. Poi, “dopo la morte di Khadidja, sposò una vedova, brava donna di casa di nome Sawda, e anche la piccola Aisha, che aveva appena dieci anni. Le sue tendenze erotiche, a lungo represse, lo avrebbero portato a contrarre contemporaneamente una decina di matrimoni”. C’è un’esaltazione della violenza, perché il Corano mostra Maometto sotto questa luce: guerrafondaio senza pietà, predatore, massacratore di ebrei e poligamo. Ovviamente anche la chiesa cattolica ha le sue colpe. La sua storia è costellata di pagine nere, delle quali ha fatto ammenda: l’inquisizione, la caccia alle streghe, l’esecuzione dei filosofi Bruno e Vanini, la condanna degli epicurei, quella del cavaliere de La Barre, accusato di empietà in pieno XVIII secolo, non depongono a suo favore. Però c’è una differenza fondamentale tra il cristianesimo e l’islam: è sempre possibile tornare ai valori evangelici, alla dolce personalità di Gesù Cristo, riscattandosi dagli errori della chiesa.

Nessun errore della chiesa è stato ispirato dal Vangelo. Gesù è per la non violenza, e il ritorno al Cristo rappresenta la salvezza nei confronti di certi eccessi dell’istituzione ecclesiale. Il ricorso a Maometto, invece, rafforza l’odio e la violenza. Gesù è il maestro dell’amore, Maometto, il maestro dell’odio. La lapidazione di Satana che si ripete ogni anno alla Mecca non è solo un fenomeno superstizioso: non si riduce infatti allo spettacolo di una folla isterica che flirta con la barbarie, ma ha una portata antropologica. Si tratta invero di un rito che ogni musulmano è invitato ad accettare, radicando la violenza come dovere sacro nel cuore del credente.

Questa lapidazione, che ogni anno provoca la morte di fedeli calpestati dalla folla (a volte anche centinaia), è un rituale che ingloba la violenza arcaica.

Anziché eliminare questa violenza arcaica neutralizzandola, sulla scia dell’ebraismo e del cristianesimo (l’ebraismo inizia con il rifiuto del sacrificio umano, che è l’ingresso nella civiltà, mentre il cristianesimo trasformerà il sacrificio in eucarestia), l’islam le crea un bel nido per crescere al caldo. Mentre l’ebraismo e il cristianesimo sono religioni i cui riti sono rivolti contro la violenza e la delegittimano, l’islam è una religione che esalta la violenza e l’odio, sia nel suo testo sacro che in alcuni riti comuni. Odio e violenza pervadono il testo sul quale si formano tutti i musulmani: il Corano
. Come ai tempi della Guerra fredda, la violenza e l’intimidazione vengono utilizzate al servizio di un’ideologia che si vuole egemone: l’islam, che mira a mettere la sua cappa di piombo sul mondo intero. Benedetto XVI sta soffrendo la crudeltà di tale esperienza. Come in altri tempi, è necessario dire a chiare lettere che l’occidente è “il mondo libero” nei confronti di quello musulmano, e, come in quei tempi, gli avversari di questo “mondo libero”, funzionari zelanti del Corano, pullulano al suo interno.

(traduzione Studio Brindani)



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ragione, islam, cristianesimo, benedettoxvi

sabato, 30 settembre 2006



30 Settembre 2006
 

ISLAM - VATICANO
 
Islam violento ed Europa codarda:        dalle vignette a Regensburg
 
di Samir Khalil Samir, sj
 

 
Vi è in atto un attacco culturale dell’Islam all’occidente, a cui l’Europa risponde con la paura e l’indietreggiamento. Il papa a Regensburg ha mostrato la strada: no alla violenza dell’Islam; far rinascere la cultura europea.
 

 
Beirut (AsiaNews) - Un anno fa, il 30 settembre 2005, in Danimarca, venivano pubblicate 12 vignette satiriche su Maometto, facendo scoppiare un caso che ha infiammato il mondo musulmano. In questi giorni abbiamo assistito a un “remake”, una specie di “Vignette n. 2” con la reazione nel mondo musulmano al discorso del Papa a Regensburg. Questi fatti, come anche le minacce contro un’opera di Mozart a Berlino, o a un professore francese, mostrano due fenomeni molto preoccupanti: l’uso facile della violenza nell’Islam, insieme alla sua incapacità a dialogare; una grande codardia dell’occidente, specie europeo, che sta perdendo la sua identità.
Regensburg: un caso “Vignette n. 2”
Il punto di partenza delle vignette è stato il voler rispondere all’autocensura che spesso avviene nel mondo occidentale di fronte all’Islam.
Un caricaturista danese era stato richiesto di disegnare Maometto sulla copertina di un libro per bambini. Avendo ricevuto delle minacce, l’uomo ha rifiutato. Allora il direttore del giornale, il Jyllands-Posten, ha lanciato una sfida invitando 12 vignettisti a fare delle illustrazioni satiriche su Maometto.
Da una minaccia alla libertà, si è passato alla sfida. Il tutto però era rimasto circoscritto a un giornale. Il fatto inaccettabile è la risposta, per nulla spontanea, dei musulmani a livello mondiale. La prova che quelle manifestazioni erano organizzate è che sono scoppiate due o tre mesi dopo la pubblicazione, dopo che alcuni imam hanno visitato l’Egitto, l’Arabia Saudita e altri paesi proprio per suscitare la reazione.
Il caso “Vignette n.2” si è verificato con il discorso di Benedetto XVI a Regensburg. Anche qui, tutto sa di organizzato. Almeno il 99% di chi ha protestato non ha ancora letto il discorso! Ieri ho partecipato a una trasmissione alla televisione iraniana con 2 imam, uno sunnita palestinese e uno iraniano sciita. Tutti mi hanno detto che avevano letto il discorso in arabo, due giorni dopo la prolusione. Ma non era vero: la traduzione in arabo è stata approntata solo dopo 8 giorni da un amico sul suo sito privato. Quando poi cercavo di spiegare il senso di tutto il testo, loro mi riportavano alla famosa frase di Manuele II Paleologo, come da copione. Insomma anche il papa è stato usato per reagire contro l’occidente. Di solito i musulmani esitano ad aggredire il papa, anche se la Chiesa cattolica è messa sempre accanto all’occidente. Anche in quella trasmissione della tivu iraniana hanno messo insieme Benedetto XVI, Bush, Blair, Merkel, Israele, i Sionisti, ecc. accusandoli di “congiura contro l’Islam”.
La cultura europea e il vino
Questa della “congiura” è una tendenza presente anche fra i musulmani colti.
Nei giorni scorsi a Berlino un’opera di Mozart, l’ “Idomeneo”, è stata la cancellata: si rappresentava la testa decapitata di Maometto (insieme a quelle di Gesù , Buddha e Nettuno) e la direttrice del teatro ha avuto paura di vendette islamiche.
La pressione islamica sulla nostra cultura diviene sempre più totalizzante.
In Francia il professore Robert Redeker, che ha criticato l’Islam a scuola, è stato minacciato di morte. Due anni fa si voleva distruggere la tomba di Dante Alighieri perché ha messo Maometto all’inferno; un anno fa si voleva distruggere l’affresco di san Petronio a Bologna perché vi è raffigurato Maometto condannato nel giudizio universale.
Due anni fa a Ginevra hanno impedito un’opera teatrale di Voltaire, il Zadiq, perché parla di Maometto. Ma allora: Dante, san Petronio, Voltaire, Mozart, le vignette, il papa… tutta la cultura europea viene censurata dagli europei per un falso rispetto dell’Islam o per un quieto vivere!
Non ci si rende contro che è in ballo la nostra cultura, la nostra specificità.
Faccio un altro esempio. Ogni anno si viene a sapere che una delegazione musulmana rifiuta di partecipare a un ricevimento di qualche autorità europea perchè in esso si servono vino e alcolici, proibiti dall’Islam rigoroso, accanto a bibite non alcoliche. A Parigi, mesi fa, una delegazione iraniana si è ritirata perché la Francia si è rifiutata di togliere i vini. Tre anni fa, in Germania, una delegazione iraniana capeggiata da Rafsanjani, è stata invitata a un banchetto offerto dal ministro degli esteri. Appena arrivati, visto che si serviva del vino e degli alcolici, si sono chiusi in una saletta. Dopo aver confabulato insieme, hanno chiesto che si togliesse ogni alcolico. Un ministro ha rifiutato e se n’è andato. Invece il ministro degli esteri, per non creare ulteriori problemi, ha fatto togliere vino e alcol dal ricevimento. Questi fatti legati al cibo e alle bevande si ripetono in modo sistematico.
In modo simile, si comincia a fissare nelle piscine gli orari riservati alle donne, per far piacere a qualche musulmano fanatico. Negli ospedali sempre più si esige che le donne musulmane non siano toccate da un medico maschio. Un po’ ovunque – in ospedali, scuole, ecc.. -  si esige un cibo particolare, lecito (halâl), per i musulmani.
Islam intollerante
Da parte dell’Islam vi è una intolleranza insopportabile. Si serve del vino? Non berlo! Attaccano Maometto? Rispondi con uno scritto, con una dichiarazione…perché rispondere con la violenza?
Il caso di Regensburg è evidente. Si è presa una frase da un discorso che ne conteneva centinaia, una frase che non è neppure il pensiero del papa, eppure hanno cercato di dire che il papa l’ha citata perché esprime il suo pensiero. Il che non è vero. E anche se fosse vero, basta rispondere con uno studio, un articolo, una dichiarazione. Ma creare un movimento mondiale significa che questo episodio viene usato per un altro scopo. E’ proprio una manipolazione!
Il problema numero uno dell’Islam oggi è la violenza. Ieri alla tivu, l’imam iraniano ha detto che Zarqawi e Bin Laden sono solo “dei terroristi”, non rappresentano l’Islam perché “nessuno li segue”. Ma questa è un’altra falsità. Un’inchiesta fatta da al-Jazeera su “cosa pensate di Bin Laden?”, mostra che il 50% degli intervistati appoggiano Bin Laden, l’altro 50% lo rifiutano.
Il problema della violenza nell’Islam non si può più rimandare. Ne va anche della pace sul pianeta. Oggigiorno, molte guerre in occidente e in Asia sono fatte proprio da musulmani che vogliono l’autonomia, uno stato per conto loro. Basta citare la Bosnia, la Thailandia, le Filippine, il Kossovo, il Kashmir, la Nigeria,… per non parlare del Pakistan o del Bangladesh. Ovunque vi sia una minoranza islamica che si concentra in una zona e lì diviene maggioranza, subito si scatena la guerra di separazione. Da notare che la violenza viene esercitata anzitutto verso i propri correligionari, i musulmani. Basta pensare alle violenze in Iraq, o in Pakistan dove sunniti e sciiti si attaccano reciprocamente fino a colpire le moschee, il luogo più sacro. In Algeria, in nome del Corano e del Profeta, negli anni scorsi furono uccise almeno 100 mila persone
Ma quando, in nome di Dio, si fa violenza, si compie una blasfemia, un oltraggio a Dio. È di questo che ha parlato il papa. Un testo attribuito a Maometto dice: “Prendete i sentimenti, i costumi di Dio” (takhallaqû bi-akhlâq Allâh) [la stessa espressione che noi usiamo per tradurre san Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù…”]. Occorre dunque che l’Islam ripensi al suo rapporto con la violenza al prendere “i sentimenti” di Dio. Perciò il papa ha insistito: “la violenza è contraria alla natura di Dio”.
Occidente codardo
L’altro aspetto che va menzionato è la codardia dell’occidente: Mozart, Voltaire, Dante, le questioni sul vino e gli alcolici mostrano che siamo di fronte a un attacco culturale del mondo musulmano contro l’occidente, che talvolta riesce, talvolta no. Ma intanto l’occidente fa passi indietro. A forza di fare così, si creano dei precedenti, fino a creare una mentalità e una norma. Non sto difendendo il conflitto delle civiltà, ma occorre scontrarsi sui valori e soprattutto difendere i diritti umani, che vengono prima di ogni cultura.
Anni fa vi è stata una campagna mondiale contro l’infibulazione e contro la lapidazione delle donne in Africa. Tarik Ramadan, a suo tempo, si è espresso su questo, sulla lapidazione e sulle violenze corporali nell’Islam e ha detto: “Dateci una moratoria, dateci il tempo di evolvere”. Ma la domanda è: quante donne ancora dovranno essere lapidate perché voi possiate evolvervi?
Di fronte alle richieste dei musulmani, in occidente si sceglie la rinuncia ad affermare i diritti umani, in nome della cultura, della pazienza, del buonismo, della multiculturalità… In realtà si sta perdendo la coscienza di cosa sia l’identità europea e il suo valore. Manca anche un minimo di fierezza. In genere, fra i francesi, gli italiani, i tedeschi, si diffonde un dubbio sull’identità europea, una reticenza, una vergogna.
Invece, proprio noi africani e asiatici riconosciamo in voi europei un fondo comune, che il papa stesso ha fatto emergere parlando dell’ellenismo, del cristianesimo, dell’illuminismo… Occorre riprendere coscienza dell’identità europea, che ha alla base il cristianesimo come collante, senza rigettare niente del Rinascimento e dell’illuminismo, ma purificando tutto (cristianesimo compreso). E occorre anche essere fieri di quest’identità.
L’Europa ha portato al mondo dei valori assolutamente unici: la persona umana, l’uguaglianza, i diritti umani, la libertà, la democrazia, l’ecologia, un rapporto non violento con la natura (anche sotto l’influsso dell’India)... Sono delle acquisizioni servite anche a Gandhi e ad altre culture mondiali.
Il discorso del papa a Regensburg era anche un suggerimento a far rinascere la coscienza europea  ed aprirla a un dialogo universale. Mettendo in luce i due pilastri - la religione senza violenza e l’integrazione fra fede e ragione – Benedetto XVI ha lanciato un vero programma per il mondo del terzo millennio: riflettere tutti insieme sulla violenza e la non-violenza, in particolare nel suo rapporto alle religioni e ideologie; riflettere insieme sulla rilettura dei nostri testi sacri, per darne un’interpretazione degna di Dio e dell’Uomo;  riflettere insieme sui progetti per una società più equa e più umana; sulla libertà, i suoi meriti e i suoi limiti; sulla secolarizzazione e la sana laicità; sulle culture e il multiculturalismo; etc. Ecco alcuni dei temi suggeriti dal Papa nel suo discorso di Regensburg, per un dialogo sincero e autentico.

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islam

martedì, 26 settembre 2006

ANCORA SANGUE DI CRISTIANI MACELLATI DAI “BRAVI MUSULMANI” DAVANTI AI QUALI DOBBIAMO UMILIARCI CHIEDENDO (NOI) SCUSA !!!!!
   Fabianus Tibo+Dominiggus da Silva+Marinus Riwa
 

Sono stati uccisi ieri i tre contadini cristiani dell’Indonesia condannati a morte, dopo un processo farsa, nel più grande paese musulmano del mondo, per le pressioni dei fondamentalisti musulmani.L’esecuzione, rinviata varie volte per gli interventi internazionali, è stata decisa probabilmente anche per ritorsione contro il Papa. Un bell’articolo di Luigi Geninazzi su “Avvenire” di oggi, 22 settembre, spiega come si è arrivati all’eccidio, ma il titolo “Uccisi per la fede. Il mondo piange”, sembra un po’ ottimista. Il mondo in realtà – a cominciare dai nostri media – se ne infischia. Segue i reality e discute dei problemi di erezione maschile sulle prime pagine dei quotidiani… L’orizzonte è quello! Le vittime indonesiane sono povera gente, sono cristiani innocenti, quindi “vite a perder”, non meritano tanta attenzione quanto – per dire – le vicende di Aceto sull’Isola dei famosi. Continua l’indifferenza – perfino di noi cattolici occidentali – davanti al grande martirio.
Qua di seguito – dal mio libro “I nuovi perseguitati” – leggete cos’hanno subìto i cristiani in Indonesia e quali sono i fatti per i quali i tre cristiani sono stati condannati: non per aver commesso violenze, ma in realtà per averne subite dai fondamentalisti.

Rasoio senza anestesia

Anche quello dell'Indonesia è Islam moderato. Il bilancio? Più di 500.000 i profughi per le violenze. L'Indonesia -- con i suoi 212 milioni di abitanti -- è il paese musulmano più popoloso del mondo. È islamico il 75 per cento della popolazione, ma anche i cristiani sono un buon numero, il 13,1 per cento, ovvero 27 milioni 800 mila persone. La Costituzione riconosce il pluralismo religioso e una buona percentuale dei musulmani è a favore di una convivenza pacifica con i cristiani e con le altre religioni. Ma sia durante il regime di Suharto, sia dopo, con i successori, i cristiani hanno subito violenze e massacri.
Il caso più clamoroso riguarda Timor Est, abitata perlopiù da cristiani essendo stata per tre secoli una colonia portoghese. Nel 1975, al momento dell'indipendenza, è stata invasa dall'esercito indonesiano, e annessa l'anno successivo, nonostante l'opposizione dell'Onu. Da allora l'occupazione indonesiana -- secondo monsignor Carlos Belo, premio Nobel per la pace -- ha fatto 200.000 vittime e 250.000 sono i profughi su una popolazione totale inferiore al milione di persone. Finalmente il 30 agosto 1999 -- per la pressione americana e internazionale -- fu possibile fare un referendum popolare e si ebbe un plebiscito a favore dell'indipendenza, seguito da nuovi vendicativi massacri di cristiani.

Nello stesso 1999 sono cominciate le stragi di cristiani da parte di fanatici in un'altra zona cristiana dell'Indonesia: l'arcipelago delle Molucche. Il 19 gennaio del 1999 ad Ambon per un banale screzio fra l'autista (cristiano) di un minibus e un musulmano, che ha cominciato a dire di essere stato aggredito da un cristiano, è cominciata una serie di violenze crudeli e che in tre anni hanno provocato almeno 13.500 vittime e hanno costretto circa 500.000 persone a cercare rifugio altrove. Secondo la "diocesi di Amboina inoltre più di 6.000 cristiani delle Molucche sono stati costretti a convertirsi all'Islam (pare con un corredo di violenze, distruzioni, circoncisioni forzate fatte con il rasoio e asportazioni del clitoride per le donne), mentre altri hanno perso la vita nel rifiuto di convertirsi come un gruppo di cristiani dell'isola di Keswi. Vi sono anche episodi di particolare efferatezza, come quello che ha riguardato i sei bambini cristiani uccisi ad Ambon, in un campo di catechismo, che sono stati "inseguiti, sventrati, evirati e decapitati dagli islamisti che fendevano le bibbie con la spada. In altri casi gli attacchi degli islamisti avvengono con l'ausilio di truppe "militari regolari... come nell'isola di Haruku il 23 gennaio 2000, quando sono rimasti uccisi 18 cristiani". L'islamizzazione forzata è disastrosa per la gente comune. Per esempio con la partenza delle Suore Poverelle di San Giuseppe sono state distrutte le opere edificate in più di mezzo secolo: 12 scuole, un ospedale, un lebbrosario, due centri medici e un convento. Le violenze delle milizie islamiche a Natale del 2000 sono arrivate fino alla capitale, con una serie di attentati che ha colpito la cattedrale di Giakarta e altre dieci città, provocando 17 morti e circa 100 feriti. C'è chi parla del coinvolgimento di uomini dello Stato, ma va anche detto "che in molti casi" ci informa "La Civiltà Cattolica" "sono stati i musulmani che hanno cercato di proteggere le chiese e che in quella vigilia di Natale ha perso la vita anche un giovane musulmano mentre tentava di gettare una bomba fuori da una chiesa, rimanendone dilaniato". Ciò dimostra che ci sono musulmani in Indonesia che condannano la "violenza e sono fraterni con i cristiani. Rischia invece di alimentare degli equivoci quello stesso articolo de "La Civiltà Cattolica" laddove dà questa singolare spiegazione delle violenze anticristiane: "In parte i diritti delle minoranze (dove c'è una religione dominante, N.d.A.) sono molto limitati, ma talvolta esse esercitano anche un influsso politico del tutto sproporzionato, come capita già da tempo, ad esempio, nel caso dei cristiani in Indonesia, e naturalmente ciò provoca il risentimento delle altre religioni". È una spiegazione che involontariamente rischia di apparire giustificatoria dell'intolleranza (oltre a essere, nel merito politico, assai discutibile).

Peraltro le violenze non cessano. Il 9 novembre 2001 l'agenzia Fides dava notizia di nuovi attacchi di guerriglieri islamici nel mese di ottobre nell'isola di Sulawesi a villaggi cristiani e ad autobus carichi di cristiani, con scene di vera e propria caccia all'uomo, alcuni morti, e molti costretti alla fuga. Nella stessa isola a Makassar alcuni studenti cristiani sono stati picchiati brutalmente. A Giava è stata bruciata una chiesa. Nelle Molucche altre violenze e morti. Un gruppo di cristiani indonesiani ha diffuso un messaggio: "Preghiamo per i cristiani di Indonesia. Preghiamo per la loro fede durante gli attacchi e per quanti subiscono la tentazione di nascondere la loro identità di fedeli a Cristo. Preghiamo per il mondo perché prenda provvedimenti contro la persecuzione, dovunque essa si verifichi".

Il ``caso Indonesia'' appartiene a una speciale tipologia di persecuzione. Ce ne sono varie altre nei 26 paesi che la cartina propone in verde, dove vivono circa 78 milioni di cristiani e vivono come "ostaggi dei musulmani". Vanno aggiunti a essi paesi collocati sotto altro colore, ma di fatto con una condizione simile, come la Turchia, il Libano, "l'Iraq, vari stati africani e soprattutto l'Indonesia come abbiamo visto. Quella dei cristiani è dovunque una condizione di sottomissione, di spoliazione di molti diritti, spesso di grave pericolo e in troppi casi di vittime predestinate. Generale è inoltre la proibizione -- punibile anche con la morte -- di conversione al cristianesimo. Proibita dovunque anche ogni forma di proselitismo sebbene l'Islam rivendichi per sé, dovunque, questo diritto.
(Da “I nuovi perseguitati”).


MA COSA STIAMO VIVENDO???

Ho fatto un sogno. Un brutto sogno. Mi sono trovato in un mondo dove le vittime erano costrette a chiedere scusa ai carnefici. Dove il papa, per aver condannato la violenza religiosa, doveva umiliarsi davanti al regime turco che ha perpetrato il genocidio dei cristiani armeni (un milione e mezzo di vittime). Un mondo dove la scrittrice turca Elif Shafak, rea di aver accennato nel romanzo “La bastarda di Istanbul” al genocidio degli armeni, viene processata dal regime turco il quale però viene elogiato da media e politici occidentali e accolto a braccia spalancate dall’Europa. Un mondo dove il pontefice doveva scusarsi davanti a organizzazioni terroristiche perché ha detto che non si può imporre la religione con la violenza. Dove, all’indomani della macellazione islamica in Somalia, per vendetta contro il Papa, di una suora che aveva dedicato la vita ai poveri, lo stesso papa ha dovuto ancora scusarsi con i bravissimi musulmani per evitare che altri missionari (come suor Leonella o don Andrea Santoro) venissero immolati per ritorsione. Un mondo dove i rispettabilissimi islamici – che coprono il Papa di insulti, vignette volgari e minacce – fanno gli offesi per una colta e rispettosa lezione accademica di Ratzinger e i grandi media occidentali solidarizzano non con il papa, ma con costoro. Un mondo dove veniva chiamato “moderato” e “alleato dell’Occidente” un paese come l’Arabia Saudita nel quale si è arrestati perfino se si porta un crocifisso al collo o se si prega Gesù Cristo nel chiuso della propria abitazione. Un mondo dove i grandi media occidentali fanno squadra (e compasso) sempre e solo contro la Chiesa. Dove il New York Times accusa il Papa di “fomentare la discordia” fra cristiani e musulmani per aver detto che non si può imporre la religione con la violenza e lo accusa di aver già fatto in precedenza il “fomentatore” quando, da cardinale, espresse dubbi sulla Turchia nella Ue (tale opinione non è permessa, secondo il NYT). Mentre l’altro tempietto della laicità, il Financial Times, accusa il pontefice di aver “insultato” i musulmani con “parole provocatorie”. Un mondo dove i musulmani, per dimostrare che erano ingiustamente accusati di violenza, hanno massacrato una suora (una delle tante vittime), hanno incendiato chiese e hanno emesso minacce di morte contro il pontefice (mentre in Indonesia hanno appena perpetrato l’infame esecuzione capitale di tre contadini cristiani rei di essersi difesi dalle violenze fondamentaliste).

Un sogno allucinante dove i grandi media laici occidentali, che avevano eretto un monumento a Salman Rushdie, invece di pronunciarsi in difesa della libertà di coscienza e della libertà di parola, hanno condannato il Papa teorizzando che tale libertà non vale se a parlare è lui o se si parla dell’Islam. Un mondo dove suor Leonella che muore perdonando i suoi carnefici non provoca riflessioni né merita un approfondimento giornalistico in tv, mentre i morti di “fama” dell’Isola dei famosi e degli altri stomachevoli reality occupano per ore e settimane il video. What a wonderful world !

Un mondo dove il Comune di Firenze nega l’intitolazione di una via a Oriana Fallaci mentre abbiamo centinaia di “via Togliatti” in onore del compagno di merende di Stalin. E dove l’Unità (20 settembre) dedicava in prima pagina questo titolo celebrativo a Cossutta: “Io comunista non mi pento di niente” (in effetti rivendica le posizioni del Pci perfino sull’invasione d’Ungheria). Un mondo dove solo i cattolici – vittime di tutti i totalitarismi e le ideologie – devono chiedere scusa a tutti, specie a coloro che li hanno perseguitati e continuano a farlo. Un mondo dove né le organizzazioni cattoliche né i vescovi hanno sentito il bisogno di promuovere grandi veglie di preghiera per il Papa condannato a morte e per i cristiani perseguitati e in pericolo di vita. Un mondo dove perfino il neo Segretario di Stato vaticano cardinal Bertone (Corriere della sera 18 settembre) deve definire Maometto “il Profeta” (sic!!!) e dove il cardinal Martini bacchetta il Papa che è stato condannato a morte e coperto di insulti, mentre lo stesso cuor-di-leone Martini non ha una parola di denuncia per la violenza sistematica del mondo islamico contro i cristiani (La Stampa, 20 settembre 2006).

Un mondo di progressisti e di cattolici progressisti che ha linciato per anni Pio XII perché avrebbe parlato troppo poco contro la violenza nazista, ma che ha sempre applaudito Giovanni XXIII il quale, accordandosi col Cremlino, garantì che il Concilio non avrebbe pronunciato una sola parola di condanna del comunismo (che aveva macellato e stava macellando il più gran numero di cristiani della storia della Chiesa). Lo stesso mondo catto-progressista che oggi (vedi Pietro Scoppola) critica Benedetto XVI perché ha parlato da professore e non da papa. Un mondo dove il governo del “cattolico adulto” Prodi si mostra indifferente alle minacce al Papa quando addirittura il laicista Zapatero gli ha espresso “piena comprensione e sostegno”. Un mondo dove il Senato italiano – col voto decisivo del cattolico Andreotti – ha bocciato la proposta di mozione di solidarietà per il Papa. Naturalmente per le nobili ragioni del “dialogo”. Un mondo dove il “cattolico adulto” Prodi, presidente del Consiglio italiano, dice che alla sicurezza del Papa “ci pensino le sue guardie”. Quasi che il papa avesse le sue divisioni corazzate come ironizzava Stalin.

Fortuna che tutto questo è solo un brutto sogno. Fortuna che nella realtà – sebbene il mondo cattolico sembri sprofondato nelle catacombe dell’insignificanza – le “divisioni corazzate” del Papa esistono davvero. Invisibili come suor Leonella. Come i tanti che con l’offerta silenziosa di sé e la preghiera salvano il mondo e attirano a Cristo (cosicché pure tantissimi musulmani si stanno convertendo, segretamente, al Dio dell’amore sia in Occidente sia nei loro Paesi). E’ vero quanto ha scritto il convertito francese Olivier Clément: “Perseverare! Oggi tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo come la grotta della Natività, come le grotte del cuore. Bisogna che Dio si incontri con l’uomo nel punto più segreto delle sue angosce e del suo desiderio”.


(Antonio Socci, da “Libero”

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