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martedì 14 febbraio 2012

jean-claude guillebaud


Cristiani,

in Europa messi al bando

***

«Non c’è persecuzione, ma quella derisione beffarda che agita i media e indica il credente come un essere arcaico amputato di parte di sé, votato alla credulità»
DI JEAN-CLAUDE GUILLEBAUD (Avvenire, 10.09.2008) *

« Ma lei è cristiano, sì o no?» Ci sono doman­de che ti assediano, così, di botto, quando uno non se le poneva più. Si disinteressava. Pensa­va di averle superate. Forse, giorno dopo giorno si sottraeva, senza sa­perlo. Conferenze, incontri, dibattiti: sono gli altri che in tali contesti pub­blici mi hanno incalzato, e senza mezzi termini. All’inizio, la loro cu­riosità mi infastidiva. Mancava poco che la percepissi come sconvenien­te. Ero cristiano? Ma io stesso me ne rendevo conto forse? È una qualità - o un’identità - di cui, in ogni caso, non avevo intenzione di fregiarmi. Presagivo che la questione, prima o poi, si sarebbe ripresentata ma, senza un calcolo deliberato, rima­nevo nel vago, nell’ambiguità, nel non-detto.
Dichiararmi cristiano mi sarebbe sembrato presuntuoso per non dire magniloquente, ma sostenere il con­trario sarebbe stata vigliaccheria. Al­lora? Rimandavo a più tardi, spin­gendo in avanti la suddetta questio­ne, come un bagaglio con il lucchet­to, un po’ ingombrante. E non anda­vo a messa. Poi arriva un momento in cui il bagaglio bisogna aprirlo sul serio. Non è semplice.
Allora, sono cristiano? Capisco me­glio, adesso, il torpore spirituale, la prostrazione istintiva, la prudenza pi­gra che mi assalivano appena mi av­vicinavo con il pensiero a tale que­stione centrale. Reagivo come chiun­que. Rispondere in modo diretto, spiegarsi senza raggiri esige che si ac­cetti di «mollare la presa». Che cosa vuol dire? Vuol dire che si rinuncerà per quanto possibile all’eloquenza, al calcolo.
Mentre scrivo penso alla sorte che «questo» tempo riserva ai cristiani. Parlo qui non certo di «persecuzione» propriamente detta (sarebbe un’i­diozia), ma di quella derisione bef­farda che pervade la nostra epoca e agita i media, soprattutto a sinistra, dove si situano perlopiù i miei amici. Si ama indicare chi si palesa credente come se fosse uno zombi arcaico, amputato di una parte di sé, votato a una credulità che fa sorridere o addirittura scate­na ostilità. Negli ambienti fi­losofici e scientifici la messa al bando è d’obbligo. Come potrebbe pretendere di pen­sare razionalmente chi si commuo­ve ancora con queste «favole»? Può porsi come interlocutore e ricercato­re serio chi non è riuscito a rompere una volta per tutte con l’eredità del­le superstizioni o non si è augurato di farlo? Ma pensa! Preoccuparsi anco­ra di significato, ontologia, metafisi­ca!
Non è la vivacità ostile di questi di­scorsi che mi colpisce. I cristiani, do­po tutto, di fronte alla disputa che ac­compagna fin dalle origini la storia del cristianesimo non si sono mai ti­rati indietro. Il confronto con un di­scorso ostile, anche violento, è un’e­venienza di cui occorre accettare la durezza. Forse anche rallegrarsene. Qualunque convinzione non deve forse «dare ragione» di sé, salvo ri­manere nell’oscurantismo o nel sen­timentalismo?
Di libro in libro ho tentato, da parte mia, di prendere sul serio le argo­mentazioni anticristiane. Ho avuto cura, per quanto sono stato in grado, di mettere a confronto il cristianesi­mo con le critiche più severe, quelle che arrivavano a ricusarne il fonda­mento. In uno dei suoi saggi, Jacques Ellul racconta che, uscito dall’adolescenza e sentendo rinascere in lui la fede cristiana, si affrettò a leggere - o rileggere - i grandi autori anticristia­ni per mettere alla prova la sua fede ritrovata. Non fu mai ostacolato dal­la vivacità o dalla violenza di quei te­sti.
No, è la superbia e la degnazione spesso incolta - per non dire ignorante - di certe requisitorie contem­poranee che mi irritano, soprattutto quando sono intimamente vissute come ferite dagli uomini e dalle don­ne che incontro. Queste requisitorie non hanno più niente a che vedere con una controversia documentata. Derivano da un imperativo pieno d’odio, molto vicino, in fondo, a ciò che furono gli anatemi ideologici del XX secolo. Si vorrebbero convincere i cristiani che non solo sono reazio­nari, come si usa dire, ma anche o­ramai esclusi dalla storia delle idee. Sono out o, come si scrive nei setti­manali, irrimediabilmente «in ribas­so ».
Penso anche a certi autori come il fe­nomenologo Michel Henry o il ro­manziere Frédéric Boyer che furono a lungo lodati dalla critica per il loro lavoro e i loro libri, fino al giorno in cui confessarono la loro inclinazione cristiana. Allora lessero recensioni beffarde o falsamente dispiaciute nelle pagine letterarie di alcuni gran­di giornali. Ne furono sopraffatti, per quanto avessero gli strumenti per di­fendersi. Ma che dire dei credenti co­muni, quelli che non hanno accesso ad alcuna tribuna e giorno dopo giorno devono incassare questo di­sprezzo calato dall’alto? Un disprez­zo che in fondo mi sembra non solo ingiusto ma intellettualmente biz­zarro.
Questa ignoranza della teologia la si ritrova perfino presso gli intellettua­li o gli universitari che professano di «combattere l’oscurantismo religio­so ». Tutta la storia del cristianesimo, a sentir loro, è ridotta a una spaven­tosa successione di crociate, inquisi­zioni, violenze clericali, mentre i grandi autori della tradizione ebrai­ca o cristiana vengono presentati come manipolatori o, nel migliore dei casi, come spiriti sempliciotti.
Chi, oggi, parla delle dure lotte giuri­diche portate avanti dalla Chiesa nel tentativo di mitigare la violenza me­dievale («pace di Dio», «tregua di Dio», interdizione progressiva delle ordalie, eccetera)? Chi ricorda le o­pere di assistenza ospedaliera o edu­cativa perseguite di secolo in secolo? In breve, chi conserva almeno me­moria di ciò che un semplice stu­dente di diritto dell’università laica e repubblicana imparava ancora negli anni ’60? Nessuno, naturalmente. L’intera storia del cristianesimo non è più ripercorsa se non nell’ottica di una demonizzazione a oltranza. An­che l’Inquisizione ha quindi cam­biato campo. In questo contesto, molti cristiani d’oggi reagiscono emotivamente e cedono a reazioni contraddittorie. Primo riflesso: rasentano i muri e tac­ciono prudentemente la loro fede, come facevano negli anni postbelli­ci ma soprattutto durante i decenni ’60 e ’70, di fronte alle grandi intimi­dazioni marxiste, sartriane o struttu­raliste. Al di là della contrizione e del pentimento, acconsentono a diveni­re degli impotenti, assenti dal dibat­tito contemporaneo, perfino afasici.
Questa prudenza eccessiva non mi soddisfa. È parente della resa e ren­de tutto troppo facile all’aggressività di cui è circondata, all’incultura ge­neralizzata o al cinismo diffuso. La­scia intendere che la tradizione cri­stiana sarebbe un arcaismo residuo che, pur rimanendo rispettabile, non ha più niente da dire rispetto al mon­do del XXI secolo. Pone l’adesione al cristianesimo nel capitolo degli af­fetti elementari, delle effusioni inti­me che non sarebbero in grado di al­largarsi a ciò che compete all’intelli­genza e alla ragionevolezza. Il cri­stianesimo, si lascia intendere, stori­camente è forse apprezzabile ma nel senso stretto del termine non ha più voce in capitolo. Io invece, sono con­vinto del contrario.




jean-claude guillebaud

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