CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


martedì 14 febbraio 2012

jonesco


Il fallimento dell'arte contemporanea
di Giovanni Reale - 23/11/2009
***

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 
In primo luogo, riflettiamo sulla natura e sulla portata di quella che abbiamo denominata «crisi dell’arte contemporanea». Per fare tali riflessioni, chiameremo in causa alcuni giudizi forniti da pensatori e da sociologi di alta classe, i quali non hanno paura di dire la verità, anche se per molti aspetti si tratta di una verità assai amara, e che quindi costa fatica sia a dirla sia a crederla. Tre sono i concetti-chiave che cercheremo di mettere in evidenza:
a) l’arte contemporanea si è resa sempre più incomprensibile;
b) nelle sue spericolate produzioni ha cercato spesso solo l’originalità al di là di ogni limite, e in molti casi si è pressoché autodistrutta;
c) la ragione di fondo della crisi sta nello smarrimento del senso dei valori, e in particolare del senso del religioso, e quindi nel male del «nichilismo» che ha contagiato la maggior parte degli artisti.

a) Paul Virilio, che fu prima architetto e urbanista, poi sociologo ed esperto dei mass media e filosofo, è oggi in Francia - insieme a Jean Baudrillard - autore di libri volutamente graffianti e provocatori contro il preteso sistematico e grandioso «progresso» della civiltà contemporanea. Virilio scrive: «Gli artisti del Ventesimo secolo, alla maniera dell’anarchico e delle sue bombe artigianali, del kamikaze rivoluzionario o dei mass killer celebrati dalla stampa ad alta tiratura, sarebbero diventati posatori di bombe plastiche, fautori di turbe visive, anarchici del colore, delle forme, dei suoni, prima di diventare occupanti del museo degli orrori di una stampa spazzatura». E precisa: «Ben presto, come avrebbe sottolineato René Gimpel o, più tardi, Orson Welles, l’arte contemporanea non avrebbe potuto più fare a meno della compiacenza di quei critici che ci diranno che si tratta di arte, semplicemente perché l’arte sarebbe diventata irriconoscibile». Ed ecco come lo stesso pensiero viene espresso, in modo più misurato, da Nicolás Gómez Dávila in un aforisma: «A differenza dell’arte di altre epoche, l’arte attuale è inintelligibile senza l’estetica dottrinaria che la puntella». Ed ecco come in un altro aforisma, più graffiante, egli esprime una delle ragioni di fondo di questo fatto: «Idee confuse e acque torbide sembrano profonde». In effetti, molte volte le idee espresse dall’arte contemporanea sono appunto «confuse e torbide»; di conseguenza, occorre una dottrina estetica per trarne (non poche volte in maniera subdola) un qualche senso.
b) Ancora con aforismi di Gómez Dávila illustriamo il secondo dei punti prima indicati. In un primo aforisma, assai graffiante, dice: «Le arti stanno morendo di autofagia». In un secondo - veramente rivelativo del dramma in cui l’arte contemporanea si dibatte - dice: «La pittura moderna non è un capriccio, come pensa l’ignorante, è una tragedia». Jean Baudrillard rincara la dose: «La distinzione tra l’arte e le produzioni di immagini comuni, banali, è sempre meno netta. Il solo ad avere preso atto e a gestire con radicalità questa banalizzazione totale dell’estetica, ad essere passato dall’altro lato dell’estetica è Warhol. A mio avviso, all’infuori di lui, si ha a che fare con delle forme artistiche ed estetiche che sono più animate dalla disillusione che non da altro. Si ha l’impressione, cioè, che anche gli artisti non credano più all’illusione estetica, che l’illusione estetica sia morta, che stia gestendo solo la decomposizione del proprio strumento e modo di vedere. Morte dell’arte, già annunciata da Hegel molto tempo fa, scomparsa dalla dimensione estetica: tutto ciò è stato gestito durante, diciamo, un secolo e mezzo. Tutta l’arte moderna è la storia di una scomparsa, di una destrutturazione, di una decostruzione dell’arte. Ma adesso è finita, il processo è arrivato al di là del suo termine e siamo anche al di là della fine. Adesso non facciamo altro che riciclare le forme passate, ma il vero problema del passaggio oltre l’estetica è questo: che cosa c’è al di là dell’estetica? C’è ancora altra illusione che l’estetica?».
c) E veniamo al terzo punto. In che cosa consiste tale tragedia? Come già sopra dicevo, consiste nell’oblio dei valori che hanno le cose e soprattutto l’uomo. Si gioca con un’estetica della sparizione delle cose, e in particolare con l’annullamento del senso profondo dell’uomo e del valore della persona. María Zambrano - filosofa spagnola, allieva di Ortega y Gasset - ha spiegato bene questo punto: «Siamo nella “notte oscura dell’umano”, che si nasconde dietro la maschera, e il mondo è un’altra volta disabitato. Sono i paesaggi lunari: terre secche e biancastre, paesaggi di cenere e di sale. Spiagge gigantesche dietro la ritirata marina, vegetazione minerale, fiori calcarei e conchiglie, alghe informi, creature amorfe di un regno che non è la vita né la morte. Ed è anche il deserto, l’estensione senza fine.
E i residui dell’umano; oggetti consumati dall’uso: scarpe vecchie, spazzole senza setole, scatole irriconoscibili di cartone, tutto disfatto. Ed è quanto di più umano, perché finalmente ne reca l’impronta. Un’impronta che insegna e rende evidente l’eclisse e la tristezza, come se solo queste cose senza alcuna bellezza piangessero l’ospite partito». Si potrebbe parlare dell’«eclisse dell’umano», in seguito alla «morte di Dio» proclamata da Nietzsche: l’uomo, uccidendo Dio, ha ucciso anche se stesso. Michel Foucault scrive: «L’ultimo uomo è, a un tempo, più vecchio e più giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio è lui stesso che deve rispondere alla propria finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo crimine stesso è destinato a morire; nuovi dei, identici, già gonfiano l’Oceano del futuro; l’uomo scomparirà. Più che la morte di Dio - o meglio nella scia di tale morte e in una correlazione profonda con essa - il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore...».
Ancora la Zambrano scrive: «Vivere nella luce sarebbe stato l’anelito di tutta la cultura occidentale. “Luce da luce” è la formula più alta della teologia che esprime il punto d’identità fra la filosofia greca e la fede cristiana. Nella luce coincisero pensiero e religione cristiana, religione della luce viva e attiva in tutti gli aneliti e tentativi; nelle esperienze, nelle creazioni più disparate e persino contrarie, perché la divergenza di credo estetici non è mai giunta fino a questo inquietante periodo in cui si disfano le forme e il volto umano si nasconde. Eclisse dell’umano che si verifica anche nella vita. È la notte oscura dell’umano che somiglia al sottrarsi di una luce e di un logos nel quale non si trovano più altro che differenze, discernimenti; una ritirata e un retrocedere dal Dio della teologia alla ricerca del Dio che divora e vuol essere divorato». L’arte può uscire da questa grave crisi? Esiste una via d’uscita? A nostro avviso la via d’uscita non può essere se non quella del superamento del nichilismo e del relativismo imperanti con il ricupero dei valori perduti. Concludiamo leggendo una bellissima pagina di Eugène Ionesco, tratta da un suo Discorso di apertura del Festival di Salisburgo 1972, in cui sviluppava pensieri che convergono perfettamente con quanto sto dicendo.
Leggiamo la bella pagina contenuta nel finale del discorso, che contiene un messaggio veritativo e toccante: «Le nozioni di amore e di contemplazione non sono più neanche nozioni diventate ridicole, sono completamente abbandonate. L’idea stessa di metafisica, quando non anima le collere, suscita sogghigni. La crisi è incominciata da molto tempo. Forse a partire dal Diciassettesimo secolo, la cultura ha affrettato il proprio decadimento. È diventata sempre più umanizzante, invece di essere spiritualistica. Ci sono sorrisi di santi, di angeli e di arcangeli sui volti delle sculture che si trovano nelle cattedrali. Non sappiamo più guardarli. Gli uomini girano intorno in quella loro gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo». Ecco una sicura via d’uscita: dobbiamo cercare di non rimanere prigionieri dalla gabbia in cui siamo rimasti chiusi, ricordandoci che si può guardare il cielo, come facevano gli autori delle cappelle dei Sacri Monti e dei pellegrini che le contemplavano.


Postato da: giacabi a 11:18 | link | commenti
reale, jonesco

martedì, 26 gennaio 2010

Ionesco,

le notti dell’angoscia trascorse alla ricerca di Dio

***

martedì 26 gennaio 2010
Le battute dei suoi capolavori frullano in testa, chiassose e invadenti come palline di un flipper e le sue opere mettono in scena il destino dell’uomo prigioniero del perenne disagio esistenziale. Il suo teatro descrive la condizione umana intrappolata nell’impossibilità di trovare una via d’uscita al non-senso dell’esistere e lo spettatore, spaesato nel buio della platea, fatica a trovare un filo che lo conduca fuori dal labirinto del testo. Chi assiste ai suoi spettacoli si trova di fronte ad un muro di trame intricate dove sembra non comparire nessuna via d’uscita. Sono alcuni tratti del Teatro dell’Assurdo di Eugene Ionesco; il grande drammaturgo francese che avrebbe da poco compiuto cent’anni e che non molti teatri italiani hanno ricordato. Ionesco nasce in Romania il 26 novembre 1909 e si trasferisce da piccolo con la sua famiglia a Parigi dove, fino all’anno del debutto de La cantatrice calva vive lavorando in una piccola casa editrice. Nel 1971 riceve una vera e propria consacrazione ufficiale con l’ingresso nell’Académie Française. La sua ricca produzione ha segnato profondamente l'evoluzione dei teatri francesi e di quelli di tutto il mondo. Muore nella sua cara e odiata Parigi, nel marzo del 1994.
A me capitò di sentirlo parlare in un salone della Fiera di Rimini alla fine dell’agosto 1988. Come un dimesso professore universitario raggiunse il tavolo. Si sedette. Parlava francese. Con voce pacata e monocorde, raccontava fatti e scoperte della sua vita vissuta tra la scrittura e il teatro. Convincente e rassicurante come un padre, chiariva concetti oscuri e impenetrabili come pece. Le sue parole illuminavano operatori del settore, giornalisti e mesi e mesi di prove sul palco. Prendevo appunti, tutti prendevano appunti: "io scrivo nella notte e nell'angoscia con l’illuminazione, di quando in quando, dello humour. Ma non è questa luce, non è questa l’illuminazione che cerco. Tutti i miei libri, tutte le mie commedie, sono un richiamo, l'espressione di una nostalgia: io cerco un tesoro sprofondato nell'oceano, perduto nella tragedia della storia. O, se volete, è la luce che cerco e che a volte mi sembra di ritrovare. La commedia, o la confessione intima, o il romanzo restano tenebrosi, se non sbuco all'estremità delle tenebre, nella luce. Il mondo può essere comico e ridicolo, può anche sembrare tragico: in ogni caso non è divertente. Niente è divertente. Non si è mai compreso che il tema del nostro teatro è proprio questo: l'assenza di Dio e la Sua ricerca".
Non sembra possibile che uno dei padri fondatori del Teatro dell’Assurdo possa aver pronunciato queste parole. Per anni la critica mondiale ha esaltato e divulgato i temi ricorrenti della sua poetica costruita sull’isolamento dell'individuo, sulla destrutturazione del linguaggio e sullo sbriciolamento della consequenzialità lineare del racconto teatrale. Addirittura con Le sedie, una delle sue opere più intense e innovative, per la prima volta nella storia del teatro, troviamo come assoluto protagonista della scena, un oggetto. Le sedie del titolo rappresentarono un segno concreto del senso di vuoto che l'autore comunica. E questo testo divenne uno dei manifesti del Teatro dell’Assurdo insieme ad Aspettando Godot di Beckett e a Terra di nessuno di Pinter.
Ma a Rimini il grande scrittore aprì una breccia e cambiò totalmente la prospettiva per avvicinarci ad un nuovo senso e ad una ulteriore definizione del suo teatro. Un’ovazione di circa dieci minuti di applausi accolse questa improvvisa e nuovissima definizione di un teatro che fino a quel momento era il Teatro dell’Assurdo e che da quel mese di agosto in poi è il teatro della domanda: "Rifiuto categoricamente l'etichetta di Teatro dell'Assurdo. Il mio teatro ha sempre voluto dire qualcosa. È la gente che non lo ha letto, o che non ha capito nulla quando lo ha visto, che si attacca a questa formula. Il mio teatro è un SOS, un grido permanente che esprime il disagio della condizione esistenziale dell'uomo separato dalla trascendenza. La vita ha una sua drammaticità, e il mio teatro non vuole scacciare l'angoscia. Tenta di renderla familiare, perché la si superi. Scrivo, quindi, per ricordare alla gente questi problemi, affinché gli uomini diven­tino coscienti, siano sempre svegli, non di­mentichino lo stupore e la mera­viglia di esistere e il miracolo del mondo. Scrivo per far udire il grido d'angoscia a Dio e agli altri uomini. Tutto il resto è secondario".
Poi si tolse i grossi occhiali da vista, li appoggiò sul tavolo, se li rimise e, in un attimo, creò un nuovo mondo e un nuovo corso per la scena. Lui, in prima persona, affrontando il dramma e rendendolo, così, affrontabile per tutti, pronunciò queste parole con sorprendente sincerità e con semplice autorevolezza. Ed ecco lo sterminato consenso di tutti i presenti, che battono le mani e si alzano in piedi commossi. Il non-senso e l’assurdo consistono nel non fare più nessuna domanda, nemmeno a se stessi. È questo che Ionesco ha gridato nell’agosto del 1988. E domandare è già, in qualche modo, una risposta.   




Postato da: giacabi a 20:34 | link | commenti
jonesco

sabato, 28 novembre 2009

IONESCO
«Tutto è assurdo quando manca Dio»
  ***
 Jonesco

26/11/2009 - Cent'anni fa nasceva Eugène Ionesco, uno dei protagonisti del panorama culturale del Novecento. Dopo il suo intervento al Meeting dell'87, "Tracce" pubblicò questa sua intervista. Ecco il testo
 
Che cosa l’ha spinta a scrivere un’opera su Kolbe?
La conoscenza del sacrificio stesso di Massimiliano Kolbe. Ho trovato che bisognava assolutamente rendere gloria a questo gesto ammirevole di carità e ispirarci ad esso, soprattutto oggi che si dà tanto spazio agli uomini politici o ai terroristi. Che si danno miliardi ai giocatori di football, senza che nessuno protesti, mentre ci sono tanti disperati, altro che destra o sinistra. Vengono glorificati gli assassini. Allora
bisogna assolutamente ricordare al mondo che la carità esiste comunque, che continua a esistere la santità. Io non sono ancora un santo, sono molto lontano dall’esserlo, ma forse è nel ricordo del sacrificio di Kolbe che riuscirò ad attirare verso la carità, verso l’amore, gli uomini. Forse trascinerò degli uomini che sapranno essere migliori cristiani di quanto io non lo sia e forse potranno diventare dei santi, senza che io lo sia.
Durante una tappa del giro ciclistico di Francia, due bambini hanno attraversato la strada mentre la corsa passava e sono rimasti uccisi. Non si è parlato di loro. Si è parlato soltanto di una maglia gialla. Qualcuno mi ha chiesto perché si festeggia Kolbe, perché si fa festa a Kolbe in un luogo così strano come una spiaggia. Ma proprio qui a Rimini è stato creato questo meeting da persone credenti e soprattutto perché lo spirito di Dio può soffiare ovunque.

Che cosa è per lei la santità?
Per me è la perfezione, il grado supremo che un uomo che ami Dio può raggiungere
.

Da un punto di vista estetico tutti noi riconosciamo in lei un grande maestro del teatro contemporaneo, che associamo per forza di cose al "teatro dell’assurdo", alla grandezza del non sense, all’irrazionalità di certe intuizioni. In che modo, sotto il profilo artistico e creativo, è passato "quel" teatro a questa nuova dimensione che direi incommensurabile?
Vorrei sapere chi vi ha detto che io faccio un teatro dell’assurdo. Forse è stato un critico inglese che un bel giorno è venuto a dire che io faccio il teatro dell’assurdo
. Io non trovo affatto assurdo il mio teatro. È un’autentica sciocchezza, il teatro dell’assurdo. Tutto è assurdo, e tutti sono assurdi, quando manca Dio. Io constato l’assurdo proprio di fronte al mondo dove Dio non c’è. Cito spesso una sentenza di Shakespeare (che è in fondo il padre del teatro dell’assurdo): Shakespeare ha detto che il mondo senza Dio è una storia raccontata da un pazzo, una storia senza senso, piena di rumore e di fracasso. Questo è l’autentico teatro dell’assurdo.

Vorrei sapere perché non crede (o non crede più) che valori come quelli affermati dal gesto di Kolbe ad Auschwitz possano appartenere ed essere alla base di un’etica unicamente laica. Perché questo passaggio?
Non so dire perché, ma io posso constatare soltanto che è proprio così.
Dio solo è la carità suprema. Anche i laici possono avere delle virtù, il fatto è che sono vicini alla divinità ma non lo sanno. Sono vicini in modo irrazionale.

Un’altra domanda: lei con il suo libro La ricerca intermittente ha voluto nel titolo stesso segnare la discontinua presenza della tensione religiosa. Questo Meeting ha per titolo “Cercatori di infinito, costruttori di storia”, si sente più un cercatore di infinito o un costruttore di letteratura?
Io sono un costruttore di letteratura che è sempre stato un cercatore di spiritualità. La mia prima opera La cantatrice calva, è una tragedia del linguaggio; racconta di uomini che parlano in modo insensato perché in quel momento non sono ispirati dalla trascendenza.
Comunque è l’arte, dopo la religione, la forma che ci può più avvicinare alla divinità. Questo lo diceva Maritain, e anche un non credente come André Malraux. Malraux diceva che il XXI secolo sarà religioso o non sarà. Io sono persuaso che senza la religione il mondo non sarà.
Certo anche nella religione ci sono degli spiriti perversi che si introducono. Satana è un pericolo ovunque.

Ho scritto anche delle opere come Assassinio senza movente, dove pongo il problema del male. Il problema del male è stato per me uno dei problemi più angoscianti ed è questo ciò che mi dà grandi difficoltà nel mio credere. Ne La ricerca intermittente, prima citata, la mia è una ricerca zoppicante, in certi momenti io mi innalzo verso Dio, quanto meno cerco di innalzarmi verso Dio, e poi ricado nelle vanità letterarie. L’intermittenza è proprio la debolezza dell’uomo.

Mi pare che ogni atto che lei compie è contraddistinto dalla passione, l’avere a cuore la coerenza del dramma e la coscienza del dramma dell’esistenza umana. Si può dire che questo sia il filo conduttore che lega la sua vita?
Sì, è sicuramente questo. O quantomeno spero che sia questo.

Lei considera vanità letteraria la sua ricerca sul linguaggio antecedente a questi ultimi sviluppi spirituali e considera innalzamento verso Dio quest’ultima opera su Kolbe. L’opera su Kolbe è dunque la cosa più importante di tutta la sua produzione letteraria?
Chi può dirlo?
(Da Litterae Communionis, dicembre 1988)



Postato da: giacabi a 17:41 | link | commenti
jonesco

martedì, 20 ottobre 2009

***
Dove non c'è umorismo non c'è umanità; dove non c'è umorismo (questa libertà che ci si prende, questo distacco di fronte a se stessi) c'è il campo di concentramento.
Eugène Ionesco

Postato da: giacabi a 20:51 | link | commenti
jonesco

martedì, 18 agosto 2009


Meeting di Rimini
***


Eugene Ionesco, dopo il Meeting dell’87
«Qualcuno voleva impedirmi di partecipare. Ma se avessi potuto starci un po’ più a lungo forse la mia vita sarebbe cambiata. Non più violenza, non più odio, non più rivalità o concorrenza. Vi ho incontrato una certa santità? Direi di sì. Non era né avrebbe potuto essere il paradiso, ma era una sorta di indicazione di primi passi di un cammino che avrebbe potuto condurmi là. Ciascuno si sentiva se stesso e al tempo stesso insieme. Il fenomeno degli incontri di Rimini mi ha portato l’equilibrio della serenità, di una sorta di saggezza, forse più di questo». 

Postato da: giacabi a 21:16 | link | commenti
jonesco

sabato, 02 febbraio 2008


***
“La storia è rovina, è caos, se non è rivolta al soprannaturale”
Eugene Ionesco

Postato da: giacabi a 14:28 | link | commenti
jonesco

giovedì, 01 novembre 2007


La  nostalgia della Bellezza
***
Uno dei motivi per cui scrivo è senza dubbio per ritrovare il meraviglioso della mia infanzia, al di là del quotidiano, la gioia al di là del dramma, la freschezza al di là della durezza. La Domenica delle Palme le stradine del villaggio erano ornate di fiori e di rami e tutto era trasfigurato sotto il sole di aprile. Nei giorni di festa, salivo il sentiero roccioso, in pendio, al suono delle campane della chiesa che vedevo apparire poco per volta, dapprima la cima del campanile con la banderuola giravento, poi il campanile tutto intero sullo sfondo di un cielo blu. Il mondo era bello e ne ero consapevole, tutto fresco e tutto puro. Lo ripeto, è per ritrovare questa bellezza intatta nel fango, che faccio letteratura. Tutti i miei libri, tutte le mie opere di teatro, sono un appello, l’espressione di una nostalgia, io cerco un tesoro caduto nell’oceano, perduto nella tragedia della storia. O, se volete, cerco la luce, quella che di tanto in tanto mi capita di ritrovare... Sempre alla ricerca di questa luce sicura oltre le tenebre”.
 Eugene Jonesco (scritto prima della sua conversione)


Postato da: giacabi a 20:46 | link | commenti
bellezza, jonesco

sabato, 06 ottobre 2007

L'indicibile, si è fatto Gesù
***
Non so pregare, non ho ancora imparato a pregare... alla mia età! Che cosa ho mai fatto di tutto questo tempo... La paura... La paura...
Forse la luce alla fine, in fondo al tunnel, come nel sogno che ho fatto, « un sogno archetipo », che tutti probabilmente facciamo... Anche tu, anche tu! Solo In scena.
Niente pubblico? Oppure un brutto pubblico di letterati... Ma no, non c'è nessuno. Soltanto il Cristo.
Cerchiamo dunque di essere pietosi. Dio inaccessibile. Ma, attraverso Gesù, accessibile. Per questo Lui l'indicibile, si è fatto Gesù, si è dato un nome: GESÙ. Forse io credo. Si, mi sembra di credere senza credere del tutto di credere.
E. Jonesco  da: La ricerca intermitente


Postato da: giacabi a 15:53 | link | commenti
gesù, jonesco

mercoledì, 29 agosto 2007

Bisogna lasciarsi andare
***

Non pensare al Niente. Non pensare che a inezie. Non pensare al Tutto. Pensare a tutto e a niente.
Pensare a inezie da niente... e, se solo potessi, pensare che Dio mi pensa, pensare sotto la protezione di Dio. Dio è? Esiste? Penso che non esiste, ma che è. Oh, esiste attraverso Gesù. Sì, attraverso Gesù... Attraverso Gesù è entrato nell'esistenza.
Queste non sono che parole, no... se... forse no... Se è e se esiste, che cosa farà di me, che cosa farà di Rodica, di Marie-France., di tutti noi che esistiamo come Gesù è esistito. Questo, lo credo. Gesù è esistito. Se è esistito, anche il nostro Padre esiste, o è. Mi ascolta. Bisogna lasciarsi andare. Bisogna che io abbia fiducia. Tuttavia, tuttavia...
In me, troppi vizi, troppi difetti, troppa vanità, troppo amor proprio, troppo egoismo, troppo io, difatti è ancora su di me che scrivo, è a me soprattutto che penso... Signore, fa... fa... che mi liberi di tanti errori, inganni, viltà... stupidaggini... Vivo da molto tempo. Ho perduto molto, molto tempo...
Se Gesù esiste, Dio c'è. Siccome Gesù esiste, Suo padre dev'esserci. Come dire ? Invece di andare verso Gesù,voglio che Gesù venga a me..Quasi volessi forzare Dio.
Eugene Ionesco “La ricerca intermittente”ed.Guanda




 

Postato da: giacabi a 17:13 | link | commenti
gesù, jonesco

sabato, 09 giugno 2007

Pregare il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo
***
Sono io l'Uomo che tenta di capire l'Infinito. L'Uomo che vorrebbe che Qualcuno gli spiegasse l'Infinito. L'Uomo che si mette faccia a faccia con l'Infinito. Che prende di petto l'Infinito. Senz'armi. Immaginare l'inimmaginabile. Esaurire l'inesauribile? Concepire l'inconcepibile. Ah... Saper pregare. E poi basta. Star tranquilli. Sto diventando pazzo?
*
Il Finito appoggiato all'Infinito, parlò: etcetera, disse... Quando rimproverarono al Finito di misurarsi con l'Incommensurabile, quando gli dissero che non poteva concepire l'Inconcepibile, la cosa lo calmò. Si rassegnò. Tacque non senza aver detto che non aveva niente da dire. Tutti, proprio tutti c'erano passati per di là.
*
Se ne andò verso il giardino, continuando però a mormorare; ricuperare l'irricuperabile. Definire l'indefinibile. Dire l'indicibile. Udire l'inaudito.
Perché era incorreggibile. Perché porsi problemi insolubili? Insolubili! Rassegnarsi, diceva, rassegnarsi. Sì, star tranquilli, ma sapeva che quella smania sarebbe ricominciata, l'avrebbe ripreso.
Pregare il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo.”
 Eugene Ionesco “La ricerca intermittente”ed.Guanda

Postato da: giacabi a 07:30 | link | commenti
senso religioso, jonesco

sabato, 23 dicembre 2006

Gesu di Nazareth
 è la risposta dell’uomo
***
"La donna che nessuno ama, l’uomo cui diagnosticano un cancro, il pensionato solitario sulla panchina, colui che – nella lucidità spietata del risveglio – guarda allo specchio sul suo volto i segni del tempo e si chiede che ci fa lì, che sarà di luiNessuno di costoro sarà mai consolato dal politico, dal sindacalista, dal sociologo"
[E. Jonesco cit. in L. Mondadori – V. Messori, Conversione, Mondadori ed., Milano 2002


gesù, jonesco

Nessun commento: