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venerdì 17 febbraio 2012

lewis,


Cristo non è qui per raffreddare le nostre passioni

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«Tra i metodi per dissuaderci dall’amare smodatamente i nostri simili ce n’è uno che mi vedo costretto a respingere in partenza. E lo faccio non senza turbamento, poiché l’ho trovato proposto nelle pagine di un grande santo e pensatore, verso il quale nutro un debito incalcolabile. Con parole che ancor oggi hanno il potere di commuovermi, Sant’Agostino descrive la desolazione in cui lo sprofondò la morte dell’amico Nebridio (Confessioni 4, 10). Da ciò egli trae una morale: questo è quanto accade, egli ci dice, a donare il nostro cuore a qualcuno che non sia Dio. Tutte le cose umane trapassano; non lasciamo che la nostra felicità dipenda da qualcosa che potremmo perdere. Se vogliamo che l’amore sia una benedizione, e non un tormento, dobbiamo indirizzarlo soltanto a quel bene che non tramonterà mai. Questo è un ragionamento di certo dettato dal buon senso: non imbarcare i tuoi beni su un vascello che fa acqua; non spendere denaro su una casa da cui ti potranno cacciare. Nessun uomo al mondo meglio di me sa apprezzare e far tesoro di queste sagaci massime. Sono una creatura che guarda, prima di tutto alla propria sicurezza. Di tutte le argomentazioni contro l’amore, nessuna ha più presa su di me di quella che raccomanda: «Prudenza! Questo potrebbe poi farti soffrire». Questo, dicevo, in rapporto al mio carattere e alle mie disposizioni naturali, ma non alla mia coscienza.

Quando io rispondo a questo appello, mi sento lontano mille miglia da Cristo. Se di qualcosa sono certo, è che il suo insegnamento non ha mai avuto il fine di rafforzare la mia già innata preferenza per gli investimenti sicuri e le responsabilità limitate. Direi quasi che nulla, in me, gli è meno gradito. E chi potrebbe seriamente incominciare ad amare Dio partendo da questi prudenti presupposti – perché questo sembra offrirci, per così dire, sufficienti garanzie? Chi si sentirebbe persino di includere questo motivo tra quelli che ci spingono ad amarlo? È con questo spirito che scegliereste una moglie, un amico, o addirittura un cane? Per essere capaci di un simile calcolo bisogna essere davvero al di fuori della dimensione dell’amore, o di qualunque altro affetto. L’eros, l’eros che si ribella alle regole, che preferisce l’amata alla felicità, è allora più simile a colui che è l’amore stesso. (il neretto non è di Lewis, nda). Penso che questo passo delle Confessioni debba essere considerato più come un residuo delle aristocratiche filosofie pagane in cui Sant’Agostino fu educato, che non come una parte del suo credo cristiano. È qualcosa di più vicino alla “apatia” degli stoici o al misticismo neoplatonico, che non alla carità. Noi siamo seguaci di colui che pianse su Gerusalemme e davanti alla tomba di Lazzaro, e che, pur amando tutti, ebbe tuttavia un discepolo cui si sentiva legato da un affetto speciale. San Paolo ci parla con un’autorità che fa presa su di noi più di quella di Sant’Agostino: San Paolo non cerca affatto di darci a intendere che non avrebbe sofferto come un uomo qualunque né che sarebbe stato ingiusto soffrire, se Epafrodito fosse morto (Fil. 2, 27).

Ammesso che la miglior politica da adottare fosse quella di assicurarci contro il rischio di avere il cuore spezzato, siamo poi sicuri che Dio ci offre questa possibilità? Sembrerebbe proprio di no: Cristo, prossimo alla fine, è arrivato a dire: «Perché mi hai abbandonato?». Non c’è possibilità di fuga lungo la strada che Sant’Agostino ci suggerisce, né lungo altre strade. Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara, del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto – esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia, è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove potreste stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno. Sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza di amore volontariamente ricercata per autoproteggerci. È lo stesso che nascondere un talento in una buca sotto terra, e per le stesse ragioni: «So che tu sei un uomo duro». Cristo non ha sofferto per noi né ci ha dato i suoi insegnamenti affinché diventassimo, persino nei nostri affetti naturali, più preoccupati della nostra felicità personale. Se un uomo non riesce a non essere calcolatore nei confronti delle persone di questa terra che ama e conosce, è assai più improbabile che riesca ad esserlo verso Dio, che non ha mai conosciuto. Non è cercando di evitare le sofferenze inevitabili dell’amore che ci avvicineremo di più a Dio, ma accettandole e offrendole a lui: gettando lontano la cotta di protezione. Se è stabilito che il nostro cuore debba spezzarsi, e se egli ha scelto questa via per farlo, così sia»
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C. S. Lewis I quattro amori, Jaca Book

Postato da: giacabi a 20:42 | link | commenti (1)
lewis, amore

mercoledì, 17 agosto 2011

Il veleno del soggettivismo
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Una causa di miseria e di vizio è sempre  presente in noi, nell’avidità e nell’orgoglio dell’uomo, ma in certe epoche storiche questa viene molto accresciuta dalla prevalenza temporanea di qualche falsa filosofia. Il pensare corretto non rende buoni gli uomini cattivi; ma un errore puramente teorico può rimuovere le restrizioni ordinarie verso il male e privare la buona volontà del suo supporto naturale. Un errore di questo tipo si sta diffondendo oggi. Non mi riferisco alle filosofie della forza degli stati totalitari, ma a qualcosa di più profondo e diffuso e che ha veramente dato a queste filosofie della forza il loro momento d’oro. Mi riferisco al soggettivismo.
Dopo aver studiato il suo ambiente, l’uomo ha incominciato a guardare dentro di sé. Fino a quel momento egli aveva accettato la sua ragione e attraverso essa vedeva tutte le altre cose. Ora la sua ragione è diventata l’oggetto: è come se ci togliessimo gli occhi per osservarli. Studiata così, la ragione gli appare come un epifenomeno che accompagna gli eventi chimici o elettrici in una corteccia cerebrale che è di per sé un sottoprodotto di un cieco processo evolutivo.
La sua logica, fino a quel momento la regina a cui gli eventi di tutti i mondi possibili dovevano obbedire, diventa puramente soggettiva. Non vi è ragione per ritenere che sia una via per la verità. Fino a quando questo declassamento si limita alla sola ragione teorica, non può essere percepito in tutta la sua logica (nella maniera forte e risoluta di Platone o Spinoza) perfino per dimostrare che è puramente soggettiva, e quindi può solo avvicinarsi al soggettivismo. È pur vero che questo avvicinamento a volte è notevole.
Mi dicono che vi sono scienziati moderni che hanno eliminato le parole “verità” e “realtà” dal loro vocabolario e che ritengono che l’unico scopo della loro attività non sia la conoscenza di ciò che c’è, ma il raggiungimento di risultati puramente pratici. Il soggettivismo è però, in generale, un compagno molto scomodo per la ricerca, tanto che il pericolo, in questo ambito, viene di continuo neutralizzato.
Ma quando ci rivolgiamo alla ragion pratica troviamo che gli  effetti disastrosi sono operanti in tutta la loro forza. Per ragione pratica intendo i nostri giudizi sul bene e sul male. Se siete sorpresi del fatto che io li includa sotto la fattispecie della ragione, lasciatemi ricordare che la vostra sorpresa è di per sé un risultato del soggettivismo che sto analizzando.
Nessun pensatore di rango, fino ai tempi moderni, osò mettere in discussione il fatto che i nostri giudizi sui valori fossero giudizi razionali o che ciò che essi scoprivano fosse oggettivo. Era considerato scontato che, nelle tentazioni, la passione si opponesse alla ragione e non al sentimento. Pensavano così Platone, e poi Aristotele, Hooker, Butler e Johnson.
Il punto di vista moderno è  radicalmente cambiato. Non crede che i giudizi sui valori siano veri giudizi. Sono sentimenti, o complessi, o inclinazioni, prodotti da una comunità attraverso l’influenza dell’ambiente e delle tradizioni, e diversi a seconda delle realtà sociali. Dire che qualcosa è buono significa esprimere un sentimento in merito, e il nostro sentimento in merito è condizionato dalla società in cui viviamo. Se è così, allora noi potremmo essere stati condizionati a sentire diversamente. “Forse” pensa il riformatore o l’esperto in pedagogia, “sarebbe meglio che lo fossimo. Cerchiamo di migliorare la nostra moralità”.
Da questa idea apparentemente innocua deriva il germe che, se non viene eliminato, porterà la nostra specie all’estinzione (e, dal mio punto di vista, rovinerà le nostre anime): è quella superstizione fatale che ritiene che gli uomini possano creare valori, che una comunità possa scegliere un’ideologia, come la gente sceglie i vestiti. Tutti si indignano quando i tedeschi definiscono la giustizia come ciò che obbedisce all’interesse del Terzo Reich. Ma spesso si dimentica che è un interesse del tutto senza fondamento se noi stessi consideriamo la moralità come un sentimento soggettivo che può variare a nostro piacimento.
A meno che non vi sia un parametro oggettivo di ciò che è bene, che sovrasta i tedeschi, i giapponesi e noi, sia se lo osserviamo o no, allora è naturale che i tedeschi possano creare la loro ideologia, tanto quanto la possiamo creare noi. Se il “bene” e il “meglio” sono termini che derivano unicamente dalle ideologie dei singoli popoli, allora è certo che non si può dire che un’ideologia sia migliore di un’altra. A meno che il metro di misurazione sia indipendente dalle cose da misurare, non si può fare nessuna misurazione. Per la stessa ragione è inutile paragonare le idee morali delle diverse epoche: il progresso e la decadenza sono ugualmente concetti senza senso.
Tutto questo è così ovvio che potrebbe venire sintetizzato in poche parole. Ma non viene colto con molta facilità se si pensa ai metodi del riformatore della morale che, dopo aver sostenuto che il “bene” è sinonimo di “ciò da cui siamo condizionati”, sostiene senza difficoltà che forse sarebbe “meglio” se noi venissimo condizionati da qualcos’altro. Ma che cosa mai intende per “migliorare”?
Di solito, nei meandri della sua mente, troviamo la convinzione che se si eliminano i giudizi morali tradizionali, si troverà qualcos’altro, qualcosa di più “reale” e “concreto” su cui basare un nuovo schema di valori. Dirà, per esempio, che “dobbiamo abbandonare i tabù e fondare i nostri valori sul bene della comunità”, quasi che la massima “Dovrai promuovere il bene della comunità” fosse qualcosa di più di una variante polisillabica del motto eterno che si pretenderebbe sostituire, ossia: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12).
Oppure si sforzerà di basare i suoi valori sulla biologia, dicendoci di comportarci in un certo modo per preservare la specie. In apparenza non anticipa l’interrogativo del perché la specie dovrebbe essere preservata. Lo considera scontato in quanto in realtà si riferisce alla moralità tradizionale. Se partisse, come pretende, da una tabula rasa, non arriverebbe mai a quel concetto. A volte cerca di giustificarsi basandosi sull’istinto, a scapito di tutti gli altri impulsi che vanno in direzione contraria rispetto alla preservazione della specie? Il riformatore sa che qualche istinto è più importante degli altri solo perché giudica basandosi su uno standard, il quale altro non è, ancora una volta, se non la morale tradizionale che pretende di rimpiazzare.
È ovvio che gli istinti, di per sé, non possono fornirci un fondamento su cui stabilire una gerarchia. Se non si ha già una conoscenza della loro rispettiva importanza mentre li si studia, non si può far derivare tale sapere da loro. Questo tentativo complessivo di gettare a mare la morale tradizionale considerandola qualcosa di soggettivo e sostituirla con un nuovo sistema di valori è sbagliato. È come cercare di sollevarsi facendo leva sul proprio bavero della giacca.

da C.S. Lewis, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Torino, 1997, pp.105-108

Postato da: giacabi a 14:33 | link | commenti
laicismo, lewis

lunedì, 01 agosto 2011

L'amicizia
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Gli amanti e gli amici desiderano due cose: di amarsi al punto di entrare l'uno nell'altro e diventare un solo essere e di amarsi al punto che la loro unione non ne soffra, quand'anche fossero divisi dalla metà del globo terrestre.
(Simone Weil)
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Trova il tempo di essere amico: è la strada della felicità.
(Madre Teresa di Calcutta
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[L'amicizia] Unica tra tutti gli affetti, essa sembra innalzare l'uomo al livello degli dèi, o degli angeli.
Clive Staples Lewis
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 L'amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l'appello di aprire gli occhi sulla felicità
Epicuro
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Quaggiù non c'è nulla di più santo da desiderare, nulla di più utile da cercare, nulla più difficile da trovare, niente più dolce da provare, niente più fruttuoso da conservare dell'amicizia.
Rievaulx

All'amico si deve dire la verità; senza di essa il nome di amicizia non vale più nulla.
Rievaulx
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L'uomo d'animo sincero vive soprattutto nella saggezza e nell'amicizia, l'una bene mortale, l'altra bene immortale.
 Epicuro

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amicizia, madre teresa, lewis, weil, aelredo

lunedì, 11 aprile 2011


Dio si è fatto uomo per trasformare delle creature in figli

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Dio si è fatto uomo per trasformare delle creature in figli: non per produrre uomini migliori del vecchio tipo ma per produrre un nuovo tipo di uomo. Non è come insegnare a un cavallo a saltare sempre meglio, ma come trasformare un cavallo in una creatura alata. Ed è ovvio che il cavallo, quando avrà le ali, si librerà alto sopra steccati che prima non avrebbe mai potuto saltare, e così batterà il cavallo «naturale» al suo stesso gioco. Ma può esserci un periodo, mentre le ali cominciano appena a spuntare, in cui ciò non gli sarà possibile; in quella fase le protuberanze sulle sue spalle (nessuno direbbe, vedendole, che diventeranno ali) potranno dargli perfino un aspetto goffo e impacciato.
Ma forse ci siamo già soffermati troppo a lungo su questo tema. Se ciò che volete è un argomento contro il cristianesimo (e io ricordo bene con quanto zelo cercavo argomenti simili quando cominciavo a temere che il cristianesimo fosse vero), vi sarà facile trovare qualche cristiano ottuso e scadente, e dire: «Dunque questo sarebbe il vantato uomo nuovo! Preferisco il vecchio modello». Ma se avete cominciato a vedere che altre ragioni rendono il cristianesimo probabile, saprete in cuor vostro che state solo eludendo il problema. Cosa possiamo sapere realmente delle anime altrui, delle loro tentazioni, delle loro opportunità, delle loro lotte? Un’anima sola, in tutta la creazione, ci è dato conoscere: ed è l’unica la cui sorte sta nelle nostre mani. Se c’è un Dio, noi siamo, in un certo senso, soli con Lui. Non possiamo liberarcene almanaccando sul vicino di casa o sui ricordi di ciò che abbiamo letto nei libri. Cosa conteranno tutte queste chiacchiere e dicerie (saremo in grado, perfino, di ricordarle?) quando la nebbia anestetica che chiamiamo «natura» o «mondo reale» si dissiperà, e la Presenza davanti alla quale siamo sempre stati diventerà tangibile, immediata e inevitabile?
Clive Staples Lewis

Postato da: giacabi a 14:14 | link | commenti
lewis

venerdì, 01 aprile 2011

LETTURE/ Lewis, Berlicche e quel "falso" cristianesimo che ama la morale ma non la vita

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venerdì 1 aprile 2011

Ci sono libri che vengono rifilati fin da bambini, fatti ingurgitare a forza tra i banchi o in estati troppo afose. Ne abbiamo un ricordo piatto di inutilità celata. Quasi libri di precetti religiosi e buoni propositi, che finche si è piccini possono essere ancora letti, ma una volta raggiunta l’età della ragione cadono nel dimenticatoio. È il caso delle Lettere di Berlicche di Lewis in cui viene riportato il carteggio fra due diavoli: Malacoda apprendista alle prese con il suo primo paziente,e lo zio Berlicche dispensatore di consigli utili per evitare la conversione dell’uomo in questione.
Lewis abbandonerà la fede all’età di dodici anni intraprendendo una vita da esteta, dedicandosi con successo e senza patemi alla cultura, al successo, alle donne. Ma succederà che “dentro ad ogni esperienza pura” continuerà a percepire “qualcosa che non può essere spiegato”. Dirà nella sua autobiografia di che cosa si tratta: “Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate, ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta ingannando voi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente”.
Con questo pungolo Lewis farà i conti per tutta la vita cercando di metterlo a nudo nelle sue opere, e ci riuscirà nell’ultimo romanzo A viso scoperto dove nelle parole del protagonista sembra di rivedere lo stesso scrittore. “Proprio perché tutto era così bello nasceva dentro di me un desiderio, sempre lo stesso: da qualche parte doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi, Vieni! Ma io non potevo andare... Mi sentivo come un uccello in gabbia, che vede gli altri uccelli della sua specie volare verso casa”.
Lo scrittore non accetta la visione di cristianesimo che passa nell’occidente liberale dei nostri giorni, in cui Dio è visto come: “il tipo di persona che sta sempre a spiare se uno se la spassa, e poi cerca di impedirglielo”. Anzi rilancia la questione nelle lettere di Berlicche dicendo che si è veramente cristiani in virtù e non nonostante i propri desideri più profondi: “Hai permesso al paziente di leggere un libro che veramente gli piaceva, del quale veramente godeva. In secondo luogo gli hai permesso di fare una passeggiata fino al vecchio mulino e prendervi il tè. Una passeggiata attraverso un paesaggio che veramente gli piaceva e fatta da solo. In altre parole gli hai offerto due veri e positivi piaceri. Sei stato davvero così ignorante da non vederne il pericolo?”.
Lewis non concepisce il cristianesimo come castrazione della personalità ma come una sua esaltazione: “In fondo Egli è un edonista.Tutti quei digiuni, quelle vigilie, come i roghi e le croci, sono facciata. O soltanto come la spuma sul lido del mare. Laggiù in alto mare, nel Suo mare, c’è il piacere, e sempre maggior piacere. Ha riempito tutto il Suo mondo di piaceri. Vi sono cose che gli essere umani possono fare tutto il giorno senza che egli vi badi ne tanto ne poco: dormire, lavarsi, mangiare, bere, fare all’amore, giocare, pregare, lavorare. Ogni cosa deve essere distorta prima che ci serva in qualche modo”.
Per questo vale la pena di rispolverare questo libro, magari leggerlo, da soli, con onestà quasi da bambini. Perché si tratta di inno alla vita e al valore, alla dimensione di ogni piccolo gesto, con gli occhi di chi ha scritto che “incontrare Dio è la cosa più scomoda al mondo, perché egli sta costruendo una casa tutta diversa da quella che avevate in mente voi. Pensavate di costruire una casetta ammodo: ma Lui sta costruendo un palazzo. Intende venirci a vivere Lui stesso”. Buona lettura.

 

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lewis

martedì, 12 ottobre 2010

La Bellezza
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Noi non ci accontentiamo di vedere la Bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos'altro, che è difficile esprimere a parole. Vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarci parte.

C.S Lewis il peso della gloria

Postato da: giacabi a 21:49 | link | commenti
bellezza, lewis

lunedì, 28 dicembre 2009

Il peccato di Satana
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“Non appena abbiamo un io, c’è la possibilità che mettiamo questo io al primo posto, che vogliamo essere il centro – che vogliamo, di fatto, essere Dio. Questo fu il peccato di Satana; ed è il peccato che egli insegnò al genere umano. […] Ciò che Satana mise nella mente dei nostri progenitori fu l’idea che essi potevano «essere come dèi»: che potevano regolarsi a modo loro come se si fossero creati da soli, essere padroni di se stessi, inventare una felicità per se stessi al di fuori di Dio, prescindendo da Dio
 C.S. Lewis

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lewis

martedì, 20 ottobre 2009

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Amare significa, in ogni  caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno ad un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno; o nella bara del vostro egoismo.
C. S. Lewis

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lewis

sabato, 21 marzo 2009

 Don Calabria e il carteggio con C.S. Lewis
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"...nel settembre 1953, don Calabria chiede un «dono» allo scrittore: «Vorrei che lei, per l’affetto che nutre verso di me, si degnasse di scrivermi cosa pensa riguardo alla situazione morale del nostro tempo, qual è la sua opinione sulla causa e sull’origine delle difficoltà, sulla divisione degli uomini tra di loro, sulle ansie per la salvezza del mondo… ecc; quello che il Signore le ispirerà».
Lewis gli risponde: «Padre carissimo … Queste cose capitano perché la maggior parte dell’Europa consuma l’apostasia dalla fede cristiana. Da ciò è derivato uno stato peggiore di quello in cui eravamo prima di ricevere la fede. Nessuno infatti dal Cristianesimo ritorna allo stato che ebbe prima del Cristianesimo, ma ad una condizione peggiore (...) Infatti la fede perfeziona la natura, ma la fede perduta corrompe la natura. Dunque la maggior parte degli uomini del nostro tempo ha perduto non solo il lume soprannaturale ma anche quel lume naturale che ebbero i pagani. Ma Dio, che è il Dio delle misericordie, non ha ancora abbandonato del tutto il genere umano (…). È necessario richiamare molti alla legge naturale prima di parlare di Dio. Cristo infatti promette la remissione dei peccati: ma in che modo ciò può riguardare coloro che, ignorando la legge naturale, non sanno di aver peccato? Chi accetterà il medico se non sa di essere malato?»."
da: http://tracce.it/ di marzo 09

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lewis, don calabria

domenica, 15 marzo 2009

Il volto di Dio
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 “Non ci verrà chiesto di abbandonare quei visi così familiari per rivolgerci a uno sconosciuto. Quando vedremo il volto di Dio, capiremo di averLo sempre conosciuto. Egli ha fatto parte di tutte le nostre innocenti esperienze d'amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall'interno. Tutto ciò che in esse era autentico amore, anche qui sulla terra, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo. In cielo non ci sarà l'angoscia, né il dovere di staccarci dalle persone che abbiamo amato sulla terra. Prima di tutto perché ci saremo già staccati da loro, volgendoci dai ritratti all'Originale, dai rivoletti alla fonte, dalle creature rese amabili a Colui che è l'amore stesso. In secondo luogo, perché li ritroveremo tutti, in lui. Amando lui più di loro, li ameremo di più di quanto non facciamo ora"
C. S. Lewis


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lewis

martedì, 16 dicembre 2008

Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli.
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Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli. Voglio H., e non qualcosa che sia simile a lei. Una fotografia veramente bella potrebbe alla fine diventare una trappola, un orrore, e un ostacolo.
Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse. (Non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure costrutti dell'immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un'idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza? L'esempio supremo è l'Incarnazione, che lascia distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono « offesi» dall'iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa accade nelle nostre preghiere private.Tutta la realtà è iconoclastica. L'amata terrena, già in questa vita, trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. E noi vogliamo che sia così: la vogliamo con tutte le sue resistenze, i suoi difetti, la sua imprevedibilità. Ossia, nella sua realtà solida e indipendente. Ed è questo, e non un'immagine, o un ricordo, che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è morta.
C.S. Lewis DIARIO DI UN DOLORE ADELPHI 2000


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lewis

venerdì, 26 settembre 2008

Il cuore desidera l’Infinito
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Le creature non nascono con un desiderio, se di quel desiderio non esiste una soddisfazione. Un bimbo ha fame: esiste il cibo. Un anatroccolo vuole nuotare: esiste l’acqua e così via. Se trovo in me un desiderio che nessuna esperienza di questo mondo è in grado di soddisfare, la spiegazione più probabile è che io sia stato creato per un altro mondo”.
C. Lewis

Postato da: giacabi a 21:30 | link | commenti
lewis, senso religioso


Dobbiamo morire a noi stessi per risorgere in Lui
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L'idea comune che abbiamo tutti prima di diventare cristiani è la seguente. Noi prendiamo come punto di partenza il nostro io ordinario, con i suoi vari desideri e interessi. Poi ammettiamo che qualcos'altro - si chiami "morale", "correttezza" o il "bene della società" - avanza delle pretese su questo io: pretese che interferiscono con i suoi desideri. Ciò che intendiamo per "essere buoni" è cedere a tali pretese. Alcune cose, che l'io ordinario desiderava fare risultano "sbagliate": bene, dobbiamo rinunciarvi. Altre cose, che l'io non aveva voglia di fare, risultano "giuste": bene, dovremo farle. Ma continuiamo a sperare che una volta soddisfatte tutte queste pretese, il povero io naturale avrà ancora qualche possibilità, e un po' di tempo, per vivere a modo suo e fare ciò che gli piace. Di fatto, assomigliamo molto a un onest'uomo che paga le tasse: le paga puntualmente, ma spera che gli resti abbastanza per vivere. Perché prendiamo ancora il nostro io naturale come punto di partenza.
Fino a quando la penseremo così, otterremo probabilmente uno di questi due risultati: o rinunceremo al tentativo di essere buoni, o saremo infelicissimi.
Infatti, siatene certi: all'io naturale, se davvero cercherete di soddisfare tutte le richieste che gli vengono fatte, non resterà abbastanza di che vivere. Più obbedite alla vostra coscienza, più la coscienza esigerà da voi. E il vostro io naturale, affamato, ostacolato e tartassato a ogni piè sospinto, cadrà in preda a una rabbia crescente. Alla fine, o smetterete di tentare di essere buoni, oppure diventerete una di quelle persone che, come si suol dire, "vivono per gli altri": ma sempre scontente, brontolando, chiedendosi sempre perché gli altri non ne tengano maggior conto, considerandosi sempre dei martiri. E una volta diventati così, sarete per chiunque debba vivere con voi un tormento molto peggiore che se foste rimasti francamente egoisti.
La via cristiana è diversa: più difficile, e più facile. Cristo dice: "Dammi tutto. Io non voglio un tanto del tuo tempo e un tanto del tuo denaro e un tanto del tuo lavoro: voglio te. Non sono venuto a tormentare il tuo io naturale, ma a ucciderlo. Le mezze misure non servono. Non voglio tagliare un ramo qui e uno là, voglio abbattere tutto l'albero. Non voglio trapanare il dente, incapsularlo, otturarlo, ma estrarlo. Deponi tutto il tuo io naturale, tutti i desideri, quelli che ti paiono innocenti come quelli che ti paiono malvagi - tutto quanto. In cambio ti darò un nuovo io. Ti darò, in realtà, me stesso: la mia volontà diventerà la tua"
C.S. Lewis, Il cristianesimo così com'è, Milano, Adelphi, 1997, 236-238

Postato da: giacabi a 14:49 | link | commenti
lewis

mercoledì, 06 agosto 2008

La realtà
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 “Di solito la realtà è qualcosa che non si sarebbe mai potuta immaginare”
C.S. Lewis



Postato da: giacabi a 20:15 | link | commenti
reale, lewis

venerdì, 18 luglio 2008

L'uomo nel Nulla
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I Cristiani descrivono il Nemico come uno "senza il quale Nulla è forte". E il Nulla è assai forte: è tanto da rubare all'uomo gli anni migliori non in dolci peccati, ma in una terribile volubilità della mente che si aggira in non sa che cosa senza saperne il perchè, nell'appagamento di curiosità così deboli che ne è consapevole soltanto a metà, nel fare il tamburiello con le dita e battersi i tacchi, nello zufolare ariette che non gli piacciono, o nel lungo, oscuro labirinto di sogni privi perfino di quel piacere o di quell'ambizione che diano loro un certo gusto, ma che, una volta che un incontro fortuito abbia dato il via, la creatura è troppo debole e troppo intossicata per scrollarli da sè. Dirai che questi sono peccati veniali. Senza dubbio, come tutti i tentatori giovani, tu hai una gran voglia di poter fare un rapporto con qualche delitto spettacolare. Ma ricordati che la sola cosa che ha importanza è la distanza con la quale riuscirai a separare il giovanotto dal nemico. La piccolezza dei peccati non ha importanza, purchè il loro effetto cumulativo scacci l'uomo nel Nulla, lontano dalla Luce. Un assassinio non è migliore delle carte da gioco, se le carte riescono a fare il gioco. La strada più sicura per l'Inferno, ricordalo, è quella graduale - è il dolce pendio, il soffice suolo, senza brusche voltate, senza pietre miliari, senza indicazioni. Tuo affezionatissimo Zio. Berlicche.
Clive Staples Lewis 1898-1963, Le Lettere di berlicche, 1942
grazie a: Dixit Definitivo

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lewis

lunedì, 26 maggio 2008

L’inquisitore
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Se e’ inevitabile avere un tiranno, “un barone ladrone” e’ assai meglio di un inquisitore. La crudeltà del barone può talvolta assopirsi, la sua cupidigia saziarsi; e poiché intuisce confusamente di far male, potrebbe anche pentirsi. Ma l’inquisitore, che scambia la propria crudeltà e sete di potenza e di terrore con la voce celeste, ci tormenterà all’infinito perché ci tormenta con l’approvazione della propria coscienza, e i suoi impulsi migliori gli appariranno come tentazioni.”
C.S.Lewis

Postato da: giacabi a 21:47 | link | commenti
lewis

lunedì, 12 maggio 2008

Brave persone o uomini nuovi?
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 Non dobbiamo meravigliarci, dunque, se al­cuni, benché cristiani, sono tuttavia persone «inamabili» e poco «perbene». C’è perfino, a pensarci, un motivo per aspettarsi che costoro si volgano a Cristo più numerosi delle persone amabili e «perbene». Proprio questo veniva rimproverato a Cristo durante la Sua vita sulla terra: che Egli sembrava attirare «certa genta­glia». E un’obiezione che viene fatta anche og­gi, e lo sarà sempre. Non vedete perché? Cristo ha detto «beati i poveri», ha detto quanto è difficile per i ricchi entrare nel Regno: e senza dubbio Egli intendeva anzitutto gli economica­mente ricchi e gli economicamente poveri. Ma le Sue parole non valgono anche per un altro genere di ricchezza e di povertà? Uno dei peri­coli dell’avere molti soldi è di essere soddisfatti del genere di felicità che il denaro può dare, e quindi di non rendersi conto del bisogno che si ha di Dio. Se ci sembra di poter avere tutto semplicemente firmando degli assegni, forse dimenticheremo che in ogni momento dipen­diamo totalmente da Dio. Ebbene, è chiaro che le doti naturali portano con sé un rischio analogo. Se hai nervi saldi, intelligenza, salute, popolarità, buona educazione, è probabile che tu sia soddisfatto della tua persona così com’è. «Perché tirare in ballo Dio?» chiederai. Un certo livello di buon comportamento ti riesce abbastanza facile. Non sei una di quelle sciagu­rate creature sempre alle prese col sesso, l’al­cool, il nervosismo, il malumore. Tutti ti consi­derano una persona amabile e come si deve, e tu (detto fra noi) sei d’accordo con loro. E molto probabile che tu sia convinto che tutta questa amabilità è opera tua: ed è facile che tu non senta il bisogno di un tipo migliore di bontà. Spesso chi è dotato di queste buone qualità naturali non arriva a riconoscere il pro­prio bisogno di Cristo, finché un bel giorno la bontà naturale lo abbandona e il suo autocompiacimento va in frantumi. In altre parole, è difficile per chi è “ricco” in questo senso en­trare nel Regno.
Le cose stanno molto diversamente per le per­sone «inamabili» — le nature grame, meschine, timide, viziate, fiacche, solitarie, o le nature passionali, sensuali, squilibrate. Se costoro fan­no tanto di provare a essere buoni, imparano, due volte più alla svelta, di avere bisogno di aiuto. Per loro, è Cristo o niente. Prendere la croce e seguirLo — oppure disperare. Sono le pecore smarrite:
Egli è venuto specialmente per loro. Sono (in un senso molto reale e terri­bile) i «poveri»: Egli li ha benedetti. Sono la «gentaglia» con cui Egli va in giro; e natural­mente i farisei dicono ancora, come dicevano all’inizio: «Se nel cristianesimo ci fosse qual­cosa di buono, gente simile non sarebbe cri­stiana ». Qui c’è un monito, o un incoraggiamento, per ognuno di noi. Se sei una brava persona, «co­me si deve», se la virtù ti riesce facile, stai in guardia! Molto ci si aspetta da coloro a cui molto è stato dato. Se scambi per tuoi meriti quelli che sono in realtà doni ricevuti da Dio tramite la natura, e se ti accontenti di essere semplicemente una brava persona, sei ancora un ribelle, e tutti quei doni non faranno che rendere la tua caduta ancora più terribile, la tua corruzione più intricata, il tuo cattivo e­sempio più disastroso. Il Diavolo un tempo e­ra un arcangelo: le sue doti naturali erano su­periori alle tue quanto le tue sono superiori a quelle di uno scimpanzé.
Ma se sei una povera creatura — avvelenata da una trista educazione in una casa piena di vol­gari gelosie e di insensati litigi; afflitta, non per tua scelta, da qualche repellente perversione sessuale; tormentata giorno dopo giorno da un complesso di inferiorità che ti fa trattare con asprezza i tuoi migliori amici — ebbene, non disperare. Dio sa tutto questo. Tu sei uno dei poveri che Egli ha benedetto. Egli sa quale mi­serabile macchina tu cerchi di guidare. Tieni duro. Fa’ quello che puoi. Un giorno (forse in un altro mondo, ma forse molto prima) Egli la getterà tra i rottami e te ne darà una nuova. E allora tu potrai stupire noi tutti — e non da ultimo te stesso: perché avrai imparato a guida­re a una dura scuola. (Alcuni degli ultimi sa­ranno i primi e alcuni dei primi saranno gli ultimi).
Una buona indole, una personalità sana e inte­gra, è un’ottima cosa. Dobbiamo cercare, con tutti i mezzi in nostro potere sanitari, scolasti­ci, economici, politici di produrre un mon­do in cui il maggior numero possibile di per­sone cresca ricco di buone qualità; così come dobbiamo cercare di produrre un mondo in cui tutti abbiano da mangiare in abbondanza. Ma non dobbiamo supporre che anche se riu­scissimo a rendere tutti buoni in questo senso, avremmo salvato le loro anime. Un mondo di brave persone, contente delle loro buone qua­lità, che non cercano altro, che hanno voltato le spalle a Dio, sarebbe altrettanto disperatamente bisognoso di salvezza quanto un mondo miserabile — e salvarlo potrebbe essere ancora più difficile.
Il semplice miglioramento, infatti, non è re­denzione, sebbene la redenzione migliori sem­pre le persone, anche qui e ora, e alla fine le migliorerà fino a un punto che noi non possia­mo ancora immaginare.
Dio si è fatto uomo per trasformare delle creature in figli: non per produrre uomini migliori del vecchio tipo ma per produrre un nuovo tipo di uomo. Non è come insegnare a un cavallo a saltare sempre meglio, ma come trasformare un cavallo in una creatura alata. Ed è ovvio che il cavallo, quando avrà le ali, si librerà alto sopra steccati che prima non avrebbe mai potuto saltare, e così batterà il cavallo «naturale» al suo stesso gioco. Ma può esserci un periodo, mentre le ali cominciano appena a spuntare, in cui ciò non gli sarà possibile; in quella fase le protube­ranze sulle sue spalle (nessuno direbbe, veden­dole, che diventeranno ali) potranno dargli perfino un aspetto goffo e impacciato. Ma forse ci siamo già soffermati troppo a lungo su questo tema. Se ciò che volete è un argo­mento contro il cristianesimo (e io ricordo be­ne con quanto zelo cercavo argomenti simili quando cominciavo a temere che il cristianesi­mo fosse vero), vi sarà facile trovare qualche cristiano ottuso e scadente, e dire: «Dunque questo sarebbe il vantato uomo nuovo! Preferi­sco il vecchio modello». Ma se avete comincia­to a vedere che altre ragioni rendono il cristia­nesimo probabile, saprete in cuor vostro che state solo eludendo il problema. Cosa possia­mo sapere realmente delle anime altrui, delle loro tentazioni, delle loro opportunità, delle loro lotte? Un’anima sola, in tutta la creazione, ci è dato conoscere: ed è l’unica la cui sorte sta nelle nostre mani. Se c’è un Dio, noi siamo, in un certo senso, soli con Lui. Non possiamo liberarcene almanaccando sul vicino di casa o sui ricordi di ciò che abbiamo letto nei libri. Cosa conteranno tutte queste chiacchiere e di­cerie (saremo in grado, perfino, di ricordarle?) quando la nebbia anestetica che chiamiamo «natura» o «mondo reale» si dissiperà, e la Presenza davanti alla quale siamo sempre stati diventerà tangibile, immediata e inevitabile?".

C.S.Lewis, da Il cristianesimo così com’è Adelphi,

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lunedì, 05 maggio 2008

Amicizia

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Nel caso dell'amicizia, poiché siamo liberi da questi vincoli, pensiamo di aver scelto autonomamente i nostri pari. In realtà, qualche anno di differenza nelle date di nascita, qualche chilometro di distanza tra due case, la scelta di un'università piuttosto che un'altra, la destinazione a un reggimento invece che a un altro, il caso che ci ha fatto parlare di un argomento, la prima volta che ci siamo incontrati, invece di tacere - una qualsiasi di queste circostanze avrebbe potuto farci restare separati. Ma per un cristiano, non si può parlare, a rigor di termine, di fatalità. Un segreto maestro delle cerimonie ha lavorato per noi. Cristo, che disse ai suoi discepoli: "Non siete voi che vi siete scelti, ma sono Io che ho scelto voi", può veramente dire a ogni gruppo di amici cristiani: "Non siete voi che vi siete scelti, ma sono Io che ho scelto voi, gli uni per gli altri". L'amicizia non è una ricompensa per il discernimento e il buon gusto che abbiamo dimostrato di possedere trovandoci vicendevolmente. Essa è lo strumento attraverso il quale Dio rivela a ciascuno le bellezze degli altri, che non sono, certamente superiori alle bellezze di un altro migliaio di persone; con l'amicizia Dio ci apre gli occhi su di loro.
C. S. Lewis, da: I quattro amori                                  a M.

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giovedì, 24 aprile 2008

Se vuoi essere te stesso abbandonati a Lui
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I nostri veri “io” sono tutti in attesa di noi in Lui. Non giova cercare di “essere me stesso” senza di Lui. Più io Gli resisto e cerco di vivere per conto mio, più divento succube della mia eredità, educazione, ambiente, desideri naturali. Ciò che io chiamo orgogliosamente “me stesso” diventa in effetti solo il punto d’incontro di sequele di eventi a cui io non ho dato origine e che non posso fermare. Quelli che chiamo “miei desideri” diventano soltanto i desideri suscitati dal mio organismo fisico o inculcati in me da pensieri altrui, o magari suggeritimi da esseri diabolici. Uova, alcool e una buona notte di sonno saranno la vera origine della decisione (che io mi lusingo di credere personalissima e ponderata) di amoreggiare con la ragazza seduta di fronte a me in uno scompartimento ferroviario. La propaganda sarà la vera origine di quelle che io considero mie personali idee politiche. Nel mio stato naturale, io sono una persona molto meno di quanto amo credere: gran parte di ciò che chiamo “me stesso” può essere spiegata molto facilmente. E’ quando mi volgo a Cristo, quando mi abbandono alla Sua Personalità, che comincio ad avere una vera personalità mia... Ho detto che in Dio ci sono delle Personalità. Ora andrò oltre: non ci sono vere personalità altrove. Finché non Gli avrai dato tutto te stesso non sarai veramente te stesso. L’uniformità si trova soprattutto tra gli uomini più “naturali”, non tra quelli che si arrendono a Cristo. Come sono monotonamente simili tutti i grandi tiranni e conquistatori, come sono gloriosamente differenti i santi!
Ma ci deve essere una reale rinuncia al proprio io. Devi gettarlo via, per così dire, “alla cieca”. Cristo ci darà una vera personalità: ma non dobbiamo andare a Lui con questo fine. Finché ciò che ci preme è la nostra personalità, non andiamo affatto a Lui. Il primo passo è tentare di dimenticare completamente noi stessi. Il nostro io nuovo e vero (che è di Cristo e anche nostro, e nostro perché Suo) non verrà fin tanto che lo cerchiamo. Verrà quando cerchiamo Lui. Sembra una stranezza? Lo stesso principio, sapete, vale per cose più banali. Anche nella vita sociale, non faremo mai una buona impressione agli altri finché continuiamo a preoccuparci dell’impressione che facciamo. Anche nella letteratura e nell’arte, chi si preoccupa dell’originalità non sarà mai originale, mentre se uno cerca semplicemente di dire la verità (senza curarsi né punto né poco di quante volte sia già stata detta) diventerà, in nove casi su dieci, originale, senza nemmeno accorgersene. Questo principio pervade tutta la vita, da cima a fondo.
Rinuncia a te stesso, e troverai il tuo vero io. Perdi la tua vita e la salverai. Sottomettiti alla morte – alla morte, ogni giorno, delle tue ambizioni e dei tuoi desideri prediletti e alla morte di tutto il tuo corpo alla fine; sottomettiti con ogni fibra del tuo essere, e troverai la vita eterna. Non trattenere nulla. Soltanto ciò che avrai donato sarà realmente tuo. Soltanto ciò che in te è morto risorgerà dai morti. Cerca te stesso, e al lungo andare troverai solo odio, solitudine, disperazione, rabbia, rovina, disfacimento. Ma cerca Cristo e Lo troverai, e con Lui tutto il resto per soprappiù.
 C. S. Lewis da: Il cristianesimo così com’è

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sabato, 02 febbraio 2008

LA BELLEZZA
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«Noi non ci accontentiamo di vedere la Bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos'altro, che è difficile esprimere a parole. Vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarci parte.».

C.S. Lewis, Il peso della gloria



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domenica, 30 dicembre 2007

Julián Carrón su “EL MUNDO” alla manifestazione per la famiglia del 30 dicembre 2007, festa della “Sacra Famiglia”.
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Indiscutibile.
L’appello a intervenire alla manifestazione di questa domenica (30 dicembre) nella Plaza de Colón di Madrid ha suscitato un moto di adesione in moltissime persone,desiderose di riunirsi per testimoniare gioiosamente davanti a tutti il bene che per loro significa la famiglia. Non dovremmo sottovalutare questa risposta. Da decenni continuiamo a ricevere messaggi che vanno nella direzione opposta: molte serie televisive, film e molta letteratura ci mettono davanti il contrario. Davanti a questo impressionante spiegamento di mezzi, parrebbe normale che la famiglia avesse smesso di interessare.
Invece c’è qualcosa che siamo costretti a riconoscere quasi con sorpresa: questo impressionante apparato ha dimostrato di non essere più potente dell’esperienza elementare che ciascuno di noi ha vissuto nella propria famiglia, l’esperienza di un bene. Un bene del quale siamo grati e che vogliamo trasmettere ai nostri figli per condividerlo con loro.
Qual è l’origine di questo bene di cui siamo così grati?
È l’esperienza cristiana.
Non è sempre stato così, come testimonia la reazione dei discepoli la prima volta che sentirono Gesù parlare del matrimonio. “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “è lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?”. E aggiunse: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. I discepoli gli dissero: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. (Mt 19,3-6.10)
Non dobbiamo sorprenderci, quindi.
La stessa cosa che a tanti oggi, e spesso a noi stessi, appare impossibile, tale appariva anche ai discepoli. Solo la grazia di Cristo ha reso possibile vivere la natura originale della relazione fra l’uomo e la donna. È importante guardare a questa origine per poter rispondere alle sfide che dobbiamo affrontare. Noi cattolici non siamo diversi dai più; molti fra noi hanno problemi nella vita familiare. Dolorosamente constatiamo come fra noi vi siano molti amici che non sono perseveranti di fronte alle numerose difficoltà esterne e interne che attraversano. E quanto a noi, non è sufficiente conoscere la vera dottrina sul matrimonio per resistere a tutte le tentazioni della vita. Ce lo ha ricordato il Papa: “Le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno” (Spe salvi, 25).
Dobbiamo far nostro quello che abbiamo ricevuto per poterlo vivere nella nuova situazione che siamo tenuti ad affrontare, come ci invita Goethe: “Ciò che hai ereditato dai tuoi padri devi conquistarlo di nuovo per possederlo veramente”.
Per riappropriarci veramente dell’esperienza della famiglia dobbiamo imparare che “la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna – come ha detto Benedetto XVI – affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da quì. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? che cosa è l’uomo?”. Davvero la persona amata ci rivela “il mistero eterno del nostro essere”. Nulla ci risveglia talmente, e ci rende così coscienti del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto l’esperienza di essere amato. La sua presenza è un bene così grande che ci fa rendere conto della profondità e della vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Le parole di Cesare Pavese sul piacere si possono applicare alla relazione amorosa: “Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito”. Un io e un tu limitati si suscitano reciprocamente un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal proprio amore verso un desiderio infinito.
In questa esperienza, a entrambi si svela la propria vocazione.
Per questo i poeti hanno visto nella bellezza della donna un “raggio divino”, ossia un segno che rimanda più oltre, a un’altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto al suo limite naturale. La sua bellezza grida di fronte a noi: “Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?”. Con queste parole il genio di C. S. Lewis ha sintetizzato la dinamica del segno, di cui la relazione fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Se non comprende questa dinamica, l’uomo cede all’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. E la relazione finisce per diventare insopportabile.
Come diceva Rilke, “questo è il paradosso nell’amore tra l’uomo e la donna: due infiniti trovano due limiti. Due infinitamente bisognosi di essere amati trovano due fragili e limitate capacità di amare. Solo nell’orizzonte di un Amore più grande non si divorano nella pretesa, né si rassegnano, ma camminano insieme verso la pienezza di cui l’altro è segno”.




La più bella esperienza, innamorarsi
In questo contesto si può comprendere l’inaudita proposta di Gesù perché l’esperienza più bella della vita, innamorarsi, non decada sino a trasformarsi in una pretesa soffocante. “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,37.39). Con queste parole Gesù rivela la portata della speranza che la sua persona costituisce per coloro che lo lasciano entrare nella propria vita. Non si tratta di una ingerenza nei rapporti più intimi, ma della più grande promessa che l’uomo ha potuto ricevere: se non si ama Cristo – la Bellezza fatta carne – più della persona amata, questo rapporto appassisce. È Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale i due reciprocamente si rinviano e nella quale il loro rapporto si realizza pienamente. Solo permettendogli di entrare in essa, è possibile che la relazione più bella che accade nella vita non decada e col tempo muoia. Noi sappiamo bene che tutto l’impeto col quale uno si innamora non basta a impedire che l’amore, col tempo, si corrompa.
Questa è l’audacia della sua pretesa. Appare quindi in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire una esperienza del cristianesimo per la pienezza della vita di ciascuno. Solo nell’ambito di questa relazione più grande è possibile non divorarsi, perché ciascuno trova in essa il suo compimento umano, sorprendendo in se stesso una capacità di abbracciare l’altro nella sua diversità, di una gratuità senza limiti, di un perdono sempre rinnovato. Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura, sarà difficile, se non impossibile, che la portino a compimento felicemente. Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione – della quale sono i protagonisti principali –, pensando che appartenere all’ambito della comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà. In questo modo si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro risveglia costantemente in me, cioè verso Cristo. Così si eviterà di passare, come la Samaritana, di marito in marito (cfr. Gv 4,18) senza riuscire a soddisfare la propria sete. La coscienza della sua incapacità a risolvere da sola il proprio dramma, nemmeno cambiando cinque volte marito, le ha fatto percepire Gesù come un bene così desiderabile da non poter fare a meno di gridare: “Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete” (Gv 4,15).
Senza l’esperienza di pienezza umana che Cristo rende possibile, l’ideale cristiano del matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile da realizzare. L’indissolubilità del matrimonio e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. E in realtà esse sono frutti tanto gratuiti di una intensità di esperienza di Cristo che appaiono agli stessi sposi come una sorpresa, come la testimonianza che “a Dio nulla è impossibile”. Solo una tale esperienza può mostrare la razionalità della fede cristiana, come una realtà che corrisponde totalmente al desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Un rapporto vissuto in questo modo costituisce la migliore proposta educativa per i figli. Attraverso la bellezza della relazione fra i genitori, essi vengono introdotti, quasi per osmosi, al significato dell’esistenza. Nella stabilità di questa relazione la loro ragione e la loro libertà vengono costantemente sollecitate a non perdere una tale bellezza. È la stessa bellezza, che risplende nella testimonianza degli sposi cristiani, che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare
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Julián Carrón



Siamo di fronte a un fatto strano.

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famiglia, rilke, lewis, carron

domenica, 23 dicembre 2007

Presepe e Dio lontano
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"Spero, caro Farfarello, che tu non ti sia lasciato sfuggire l'occasione, durante queste ultime feste natalizie, di ammirare qualcuno dei presepi che in molte case ancora si usa allestire per la gioia dei bambini e dei vecchi. Ce n'è di tutti i tipi, dal legno alla cartapesta, dal cristallo al bronzo, dalla terracotta al plexiglas...
Io amo i presepi. Dirai che sono un vecchio sentimentale... Ebbene, di' pure, se vuoi. Prima però, senti quello che ho da dirti in proposito. Da secoli ormai un'idea mi frulla per il capo alla sola vista di un presepe, e te la voglio confidare in segno di stima. Ebbene, io credo che la grande quantità di energia che noi diavoli abbiamo sempre profuso per inventare argomentazioni seducenti contro Dio sia, in gran parte fatica sprecata. Noi non dobbiamo creare nuovi argomenti: possiamo usare pari pari i loro. E' il cuore che decide, e spesso decide male. Pensa alle figuri minori del presepe: c'è un solo Giuseppe, una sola Maria, un solo Gesù bambino. Un solo bue, un solo asino. Gli altri sono tutte comparse, compresi i Magi. Ogni uomo al mondo è una figura minore del presepe... Seguimi bene. Dopo aver reso omaggio al Messia, che fanno tutte queste comparse? Se ne tornano, semplicemente, al loro lavoro. Il carrettiere al suo carretto, il panettiere al suo pane, e così via. C'è qualcosa, in tutto ciò, che mi manda in confusione, che mi stordisce e mi umilia: ciascuno torna lieto al suo mestiere, anzi: se prima il lavoro gli pesava, ora gli pesa molto meno, perché ha visto il Messia. Che ira! Tutto diviene accettabile, amabile... Ma poi, passata l'ira, ecco l'idea! La grande idea! Quella che è la più grande dimostrazione dell'esistenza di Dio, la quotidianità, eccola trasformata, senza che apparentemente nulla cambi, nella più grande delle bestemmie! Che cos'è mai il tuo Dio? Un'emozione momentanea prima di riprendere il solito tran tran. Un bambinello che ti salva finché resti in estatica contemplazione, ma poi? Immaginiamo quei poveri pastori al momento del congedo. Un inchino, un altro inchino, mettiamoci pure un terzo inchino. Ma poi le spalle dovranno pur voltare, e tornarsene alle loro pecore, non è vero
? E allora noi diavoli pronti, in coro, a soffiar nelle loro orecchie: dalle obiezioni più collaudate ("come può Dio, nella sua bontà, permettere il dolore innocente?") alle migliori invenzioni della modernità (l'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio si trasforma nell'egalité giacobina, che è il suo opposto), e via dicendo. Tutte le obiezioni contro Dio nascono dall'idea di un Dio lontano, che non vuole salvare concretamente gli uomini. Ma questa idea nasce, a sua volta, dalla comodità: un Dio lontano è sempre più comodo di un Dio vicino. E' questa, Farfarello, la nostra carta vincente. Da sempre. Un abbraccio dal tuo Malacoda".
C. S. Lewis Lettere di Berlicche


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mercoledì, 19 dicembre 2007

Carità
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Vediamo, anzitutto, il significato del termine. Oggi “carità” equivale in massima a ciò che una volta si chiamava “elemosina”: cioè, dare ai poveri. Originariamente il significato era molto più ampio. (E’ facile capire come la parola abbia assunto il senso attuale. Una della azioni più ovvie, per chi ha “carità”, è appunto dare ai poveri; e così si è finito per parlare come se tutta la carità consistesse in questo. Allo stesso modo, la rima è in poesia la cosa più ovvia, e così molti intendono per “poesia” semplicemente dei versi rimati e niente più). Carità significa “amore, nel senso cristiano”. Ma l’amore in senso cristiano non è un’emozione. E’ uno stato non dei sentimenti ma della volontà: quello stato della volontà che noi abbiamo naturalmente verso noi stessi, e che dobbiamo imparare ad avere verso gli altri.
Nel capitolo sul perdono ho osservato che il nostro amore per noi stessi non significa che ci piacciamo, bensì che desideriamo il nostro bene. Allo stesso modo l’amore cristiano (o carità) per il prossimo è altra cosa dalla simpatia o dall’affetto. Proviamo simpatia e affetto per alcune persone, e non per altre. Occorre capire che questa “simpatia” naturale non è né un peccato né una virtù, come non lo è la nostra preferenza per certi cibi: è solo un dato di fatto. Peccaminoso o virtuoso è invece l’uso che ne facciamo.
La simpatia, l’affetto naturale per una persona facilità l’essere “caritatevole” verso di essa. Perciò è normalmente doveroso incoraggiare i nostri affetti, provare il più possibile simpatia per gli altri (così come è spesso nostro dovere incoraggiare la nostra inclinazione all’esercizio fisico o al cibo sano): non perché questa simpatia si identifichi con la virtù della carità, ma perché è un aiuto verso la carità. D’altro canto, è anche necessario stare bene attenti che la nostra simpatia per qualcuno non ci renda poco caritatevoli e magari ingiusti verso qualcun altro. Si dà anche il caso che il nostro affetto contrasti con la carità verso la persona a cui vogliamo bene. Per esempio, una madre troppo amorosa può essere tentata dall’affetto naturale a viziare il figlio; ossia a soddisfare i propri impulsi affettuosi a spese, più avanti, della vera felicità del figlio medesimo.
Ma se le simpatie e gli affetti naturali sono normalmente da incoraggiare, sarebbe un errore credere che per diventare caritatevoli convenga mettersi d’impegno a confezionare sentimenti affettuosi. Certuni sono “freddi” per temperamento; può essere, per loro, una disgrazia, ma non è un peccato più di quanto lo sia una cattiva digestione, e non li esclude dalla possibilità, né li esonera dal dovere di imparare la carità. La regola per noi tutti è semplicissima. Non perdere tempo a domandarti se “ami” il prossimo: agisci come se lo amassi. Subito, così facendo, scopriremo un grande segreto: quando ci comportiamo con qualcuno come se lo amassimo, ben presto arriviamo ad amarlo. Se offendi uno per cui provi antipatia, ti troverai a provare per lui un’antipatia ancora maggiore; se gli fai del bene, ti diventerà meno antipatico. C’è invero, un’eccezione. Se gli fai del bene non per piacere a Dio e per obbedire alla legge della carità, ma per mostrargli quanto tu sia generoso e magnanimo, e per rendertelo obbligato, e poi stai ad aspettare la sua “gratitudine”, probabilmente rimarrai deluso. (La gente non è stupida: coglie al volo cose come l’affettazione o la condiscendenza). Ma quando facciamo del bene a qualcuno solo perché è una persona creata (come noi) da Dio, e desideriamo la sua felicità come desideriamo la nostra, avremo imparato ad amarla un poco di più, o almeno a esserle meno ostili.
Di conseguenza la carità cristiana, sebbene appaia una cosa molto fredda a gente con la testa imbottita di sentimentalismo, e sia una cosa ben distinta dall’affetto, porta tuttavia all’affetto. La differenza tra un cristiano e un uomo “mondano” non è che quest’ultimo abbia soltanto affetti o “simpatie” e il cristiano soltanto “carità”. Il mondano tratta gentilmente certe persone perché ha “simpatia” per loro; il cristiano, cercando di trattare gentilmente tutti scopre man mano di provare simpatia per un numero sempre maggiore di persone – comprese persone che all’inizio non avrebbe immaginato di trovare simpatiche.
Questa stessa legge spirituale agisce in modo terribile nel senso inverso. Forse i tedeschi, dapprima, trattarono in modo crudele gli ebrei perché li odiavano; in seguito li odiarono molto di più perché avevano incrudelito su di loro. Più si è crudeli, più si odia; e più si odia, più si diventa crudeli – e così via in un perpetuo circolo vizioso.
Bene e male crescono a interesse composto. Per questo le piccole decisioni che prendiamo ogni giorno sono così importanti. La minima buona azione di oggi è la conquista di una posizione strategica da cui, tra qualche mese, potremo forse ottenere vittorie mai sognate. Un cedimento apparentemente veniale alla lussuria o all’ira è la perdita di un crinale, di una linea ferroviaria o di una testa di ponte da cui il nemico potrà lanciare un attacco altrimenti impossibile.
Alcuni usano la parola carità per descrivere non solo l’amore cristiano tra esseri umani, ma l’amore di Dio per l’uomo e l’amore dell’uomo per Dio. Riguardo a quest’ultimo, spesso la gente si tormenta. Sa che dovrebbe amare Dio, ma non riesce a trovare dentro di sé questo sentimento. Che fare? La risposta è la stessa di prima. Agisci come se questo sentimento tu lo avessi; non cercare di fabbricarlo. Domandati: “Se fossi sicuro di amare Dio, che cosa farei?”.
Quando avrai trovato la risposta, agisci di conseguenza. Nel complesso, è molto meglio pensare all’amore di Dio per noi che al nostro amore per Lui. Nessuno può avere sempre sentimenti devoti; e anche se fosse possibile, i sentimenti non sono ciò che a Dio più importa. L’amore cristiano, verso Dio o verso l’uomo, è cosa della volontà. Se cerchiamo di fare la Sua volontà, obbediamo al comandamento “Ama il Signore Dio tuo”. I sentimenti d’amore Dio ce li darà, se crede. Non possiamo crearceli per conto nostro, né dobbiamo rivendicarli come un diritto. Ma la cosa più importante da ricordare è che se i nostri sentimenti vanno e vengono, il Suo amore per noi non fa altrettanto. Non è logorato dai nostri peccati, né dalla nostra indifferenza; e perciò non cessa mai di volere che di quei peccati noi si abbia a guarire, a qualunque costo per noi, a qualunque costo per Lui.  
Clive Staples Lewis Il cristianesimo così com’è



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lewis

sabato, 15 dicembre 2007

Senza Cristo niente a senso
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Alcuni dicono che comportarsi bene, se non significa fare ciò che giova a un determinato individuo in un determinato momento, significa tuttavia fare ciò che giova all'insieme del genere umano; e che quindi in questo non c'è niente di misterioso. Gli esseri umani, in fin dei conti, non sono privi di senno, e capiscono che si può essere veramente sicuri o felici soltanto in una società nella quale ognuno agisca correttamente; per questo cercano di comportarsi bene. Ora, è verissimo che sicurezza e felicità possono derivare soltanto dall'onestà, equità e gentilezza reciproca degli individui, classi e nazioni. E' una delle verità più importanti del mondo. Ma come spiegazione del nostro modo di sentire riguardo al giusto e all'ingiusto, alla ragione e al torto, è fuor di proposito. Se io chiedo: "Perché dovrei essere altruista?" e voi rispondete: "Perché giova alla società", io posso ribattere: "Perché dovrei curarmi di ciò che giova alla società, quando non giova a me personalmente?"; e voi allora dovrete dire: "Perché bisogna essere altruisti", il che ci riporta al punto di partenza. Dite una cosa vera, ma non fate un passo avanti
Clive Staples Lewis, Il cristianesimo così com'è, Adelphi


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nichilismo, lewis

venerdì, 14 dicembre 2007

Io ho bisogno di Cristo
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 Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fedeLui, questa, già la conosce; ero io che non la conoscevo Lui l’ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era di buttarlo giù”.
Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli…Non la mia idea di Dio, ma Dio… La mia idea di Dio non è un’idea divina. Deve essere
continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui
stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta.
Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza?”.
Lewis


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gesù, lewis

domenica, 09 dicembre 2007

Cerca Cristo e troverai  tutto
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È quando mi volgo a Cristo, quando mi abbandono alla Sua Personalità, che comincio ad avere una vera personalità mia Finché non Gli avrai dato tutto te stesso non sarai veramente te stessoRinuncia a te stesso e troverai il tuo vero io. Perdi la tua vita e la salverai. Cerca te stesso, e a lungo andare troverai solo odio, solitudine, disperazione, rabbia, rovina,disfacimento. Ma cerca Cristo e Lo troverai, e con Lui tutto il resto per soprappiù”.
Lewis

Postato da: giacabi a 18:58 | link | commenti
gesù, lewis


Diventare Santi
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" Già gli uomini nuovi sono sparsi in tutta la terra. Alcuni sono ancora difficilmente riconoscibili; ma altri possiamo riconoscerli. Di tanto in tanto li incontriamo. Le loro voci e le loro facce sono diverse dalle nostre: più forti, più calme, più liete, più raggianti. Questi uomini partono da dove i più di noi si arrestano. Sono riconoscibili, ma dobbiamo sapere cosa cercare. Non attirano l'attenzione su di sé. Tu immagini di far loro del bene, mentre sono loro a fartene. Ti amano più di quanto ti amino gli altri uomini, ma hanno meno bisogno di te. Sembrano, di solito, avere una quantità di tempo a disposizione, e tu ti domandi da dove gli venga. Quando abbiamo riconosciuto uno di essi, riconoscere il successsivo ci riesce molto più facile. E io sospetto molto fortemente (ma come faccio a saperlo?) che essi si riconoscano tra loro immediatamente e infallibilmente, al di là di ogni barriera di colore, sesso, classe, età, e anche dottrina. Diventare santi è un po' come aderire a una società segreta. Per dirla in termini molto riduttivi dev'essere un gran divertimento.”
C.S. Lewis

Postato da: giacabi a 14:06 | link | commenti
santi, lewis

domenica, 04 novembre 2007

La miseria dell’uomo
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"Nessuno sa quanto sia malvagio fino a che non ha tentato con tutte le sue forze di essere buono"
C. Lewis



Postato da: giacabi a 15:22 | link | commenti
lewis



Gli idoli
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"Chi pone il gioco del calcio o la sua motocicletta al centro della propria vita, o la donna che concentra tutti i suoi pensieri nei vestiti o nella partita di bridge o nel suo cane, è altrettanto intemperante di chi si ubriaca ogni sera. Naturalmente questo tipo di intemperanza non è così evidente come quella del bere; le manie del bridge e del calcio non fanno stramazzare nessuno in mezzo alla strada. Ma Dio non si lascia ingannare dalle apparenze"
(C. Lewis).

Postato da: giacabi a 14:44 | link | commenti
lewis

mercoledì, 31 ottobre 2007

La scommessa su Dio
Un aiuto per scommettere
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Nel bridge, mi dicono,
si deve giocare a soldi,"altrimenti il gioco non è serio".
Qui è la stessa cosa, a quanto pare.
La dichiarazione - Dio o nessun Dio, Dio buono o Sadico Cosmico, vita eterna o nulla -
non è seria se non c'è una posta di qualche valore.
E solo fino a che punto sia seria lo si scopre solo quando le puntate diventano paurosamente alte, quando si capisce che la posta in gioco non è un pugno di gettoni o di monetine, ma la nostra intera ricchezza.
Niente che sia meno di questo può scuotere l'uomo (non, almeno, un uomo come me)
dalle sue riflessioni meramente verbali e dalle sue convinzioni meramente immaginarie.

C.S.Lewis Diaro di un dolore

lewis

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