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venerdì 17 febbraio 2012

marion jean luc


Credere Il Natale
e lo scacco del pensiero

di Jean-Luc Marion a colloquio con Joséphine Bataille

Ci tiene a non essere un filosofo mediatico. Jean-Luc Marion è un intellettuale di fama, riconosciuto internazionalmente. Un anno fa è stato ufficialmente accolto dall’Académie française e insediato nella poltrona del cardinale Jean­ Marie Lustiger, di cui fu amico e consigliere. Titolare della cattedra di metafisica alla Sorbona – succeduto a Emmanuel Lévinas, per lui uno dei massimi filosofi del ventesimo secolo – occupa all’università di Chicago quella che fu di Paul Ricoeur. Ci consegna la sua riflessione su Dio, la fede e la Chiesa.

Lévinas, Ricoeur, Lustiger: cosa evoca in lei questa imponente triplice successione?

«Cerco di non pensare a queste cose che un po’ mi spaventano, tanto più che non c’era nulla di premeditato. La mia vita è come m’immaginavo che sarebbe stata – ho sempre saputo che, grossomodo, avrei scritto libri di filosofia – eppure non avrei mai pensato che sarebbe andata in modo così istituzionalmente completo. Metto le mie opere una sopra l’altra, come si innalza un muro di mattoni; il resto è venuto ogni volta come un di più, quasi con facilità. Che si traducano i miei libri, che se ne scriva e che ciò crei un’immagine pubblica, non dico che mi sia del tutto indifferente ma in un certo senso non è più affar mio. Come se predisponessi le condizioni per uno sviluppo che, di fatto, non controllo».

Filosofo per il quale la questione di Dio è un tema fondamentale, lei è anche o innanzitutto un credente. Le due dimensioni sono collegate?

«Nato in una famiglia cattolica ferma sui principi ma disinvolta nei dettagli, non ho mai avuto conti in sospeso con la religione né la sensazione che possa esserci un conflitto tra ragione e fede. Ma ho sempre distinto gli ambiti. D’altra parte, per me, l’idea di dover giustificare filosoficamente la fede cristiana è ridicola. Da giovane ho sognato di diventare matematico, centravanti della squadra di calcio del Racing Club di Francia e campione olimpico dei 1.500 metri; ho preso in considerazione anche la pittura; dovevo scegliere e, dato che mi piaceva riflettere e discutere, la mai scelta è caduta sulla filosofia. Come tutte le attività, anch’essa può entrare in rapporto con la fede, ma non si tratta di un rapporto privilegiato né obbligato. Si è filosofo e cristiano come si è calciatore, pittore o falegname e cristiano».

In che cosa i pensatori che proclamano la 'morte di Dio' sono stati fondamentali nella sua riflessione su Dio?

«Negli anni in cui studiavo filosofia si leggeva Nietzsche e si parlava molto della 'morte di Dio'. Ma, alla fine, si tratta di una dimensione essenziale della rivelazione cristiana, secondo la quale Dio sopravvive alla propria morte e la integra! Dunque il tema mi è apparso subito troppo serio per lasciarlo alla polemica anticristiana. In realtà, che cos’è la 'morte di Dio' se non la constatazione che la definizione di Dio che ci si è dati – lo si pensi come origine del mondo, maestro della morale, responsabile del bene… – non regge? Si fanno i conti non con Dio, bensì con una certa filosofia (la metafisica) che ha costruito quel Dio. La 'morte di Dio' è la fine di un Dio che doveva morire perché non era più Dio da molto tempo! Lungi dal chiuderla, quei pensatori hanno riaperto la questione».

Per lei il punto non era tanto controbattere, quanto prendere atto di un fallimento del ragionamento filosofico?

«Che rapporto potrebbe avere Dio con tutte le definizioni che gli imponiamo quando parliamo di lui? Coloro che credono di sapere in cosa credono sono idolatri, proprio come quelli che affermano di sapere in cosa non credono. Che sia impossibile accedere a Dio come si accede al resto degli esseri è qualcosa su cui credenti e non credenti concordano da sempre. Nessuno ha mai visto Dio, dice il Vangelo di Giovanni (1, 18), e ci resta sempre profondamente sconosciuto, riconosce anche san Tommaso nella Somma contro i Gentili ».

Non si possono avere certezze sulla questione di Dio?

«Per spiegare come va il mondo non abbiamo bisogno di Dio, 'ipotesi' inutile, come diceva Laplace. D’altra parte, quando si consideri ciò che supera ogni possibile esperienza umana si è obbligati a porsi la questione di Dio, cioè di colui al quale nulla è impossibile. E a riconoscere al tempo stesso che si tratta di una questione alla quale non potremo mai rispondere da soli.

La peculiarità di Dio è di rientrare in ciò che a noi è impossibile. L’impossibile apre il luogo del divino».


Perché l’ateismo, secondo lei, manca di logica?

«Perché non si può affermare che Dio è impossibile solo perché noi uomini non possiamo conoscerlo: Dio sfugge alla nostra conoscenza per definizione! Quando si dice che non è possibile che Dio esista, semplicemente si abbatte una rappresentazione di Dio che ci eravamo fatti. Ma non si risolve certo la questione di Dio dimostrando che non esisterebbe. La questione di Dio non può essere mai risolta al negativo, resta aperta per definizione.

Sopravvive sempre alla 'morte di Dio', la storia del pensiero ne è testimone. Dio è sempre almeno 'possibile'. Questa è una certezza, e già dice molto!».


Dal momento che Dio è inconoscibile, in che modo la filosofia deve affrontare il tema di Dio?

«Interrogandosi non su ciò che Dio è – compito illusorio – ma sulla modalità di relazione che possiamo avere con lui. I pensatori della 'morte di Dio' hanno mostrato che entrare in un rapporto di conoscenza con Dio era inappropriato alla questione di Dio, poiché Dio non è un 'oggetto di conoscenza' come gli altri, che possa essere descritto e definito. La questione andava posta in termini nuovi. È quanto mi ha permesso di fare quella forma di filosofia che si chiama fenomenologia: essa descrive il modo in cui le cose – o le persone – si danno, si manifestano a noi, prima ancora che prendiamo a considerarle come oggetti in un’ottica di conoscenza.

Ciò apre un campo di riflessione molto più ampio».


Dunque la Rivelazione non è una 'risposta' alla questione dell’esistenza di Dio… «I credenti sono persone che centrano la questione di Dio sulla modalità di relazione che possiamo avere con lui. Ci ama? È amabile? Si ha accesso a lui? Salva dalla morte? Il cristianesimo è la rivelazione che tale relazione è un Dio che dice: voi siete miei e io sono vostro».

Nel suo cammino di fede non è mai passato attraverso interrogativi così umani?

«Confesso, senza voler scioccare, di non avere mai pensato seriamente che Dio non esistesse. E di non avere dubitato di un solo articolo del Credo. In realtà, ho piuttosto difficoltà a comprendere che si possa non credere, tanto più che invecchiando mi appare sempre più evidente l’armonia delle cose. D’altra parte, la possibilità per l’uomo di rifiutare l’evidenza è una questione filosofica che m’interessa molto: tutta la vita è fatta di evidenze che non si vedono.

Dunque non dubito dell’esistenza di Dio.

Dubito invece molto della mia, e questo mi sembra più razionale. Ci sono sempre ottime ragioni per dubitare di sé: conoscersi è conoscere i propri limiti. Ho sperimentato a volte, come tutti, difficoltà nel mio modo di essere cristiano: si fa così spesso il male che non si vuole, per riprendere la formula di san Paolo, e talvolta anche quello che si vuole. Ma se non sempre ho fatto tutto quello che si deve fare quando si è cristiani, non per questo ho concluso di dover cambiare la morale cristiana».


In quale momento la filosofia cede il passo alla fede?

«Il ragionamento filosofico stabilisce semplicemente che Dio è possibile. Non si è obbligati a spingersi oltre. Se lo si fa, è possibile farlo in diversi modi: teologia, ma anche poesia. Così la fede non è l’unico esito possibile della questione. Ma non può nemmeno essere considerata un salto fuori della ragione: rientra in un quadro assolutamente razionale».

La Rivelazione risponde alla questione lasciata aperta dalla filosofia?

«In realtà, no. Quando la Rivelazione arriva e s’impone storicamente non porta una 'risposta', poiché viene a modificare le domande facendo nascere una logica completamente nuova. La Rivelazione produce la propria razionalità, che gli uomini possono riconoscere, per quanto non sia il prodotto della loro intelligenza. E, per i suoi effetti civilizzatori, la rivelazione giudaico-cristiana è in buona posizione. Ha promosso lo sviluppo della pittura e della musica; ha imposto alla filosofia domande che non si era mai posta in precedenza; ha reclamato l’indipendenza della ragione e la laicità; a partire dall’interrogarsi sulla rappresentazione del sacro nell’icona, ha suscitato la riflessione sull’immagine, sulla sua capacità di imitazione, sul legame che essa intreccia di fatto tra visibile e invisibile».

Qual è il compito della teologia, se l’uomo non può dire nulla di Dio?

«La teologia deve partire dalla presa di coscienza che Dio non si riassume in alcuna definizione: essa non è chiamata a dire che cosa è Dio, ma come ci ama e come possiamo amarlo. In poche parole, essa deve spiegare nel dettaglio il contenuto della Rivelazione, che la spiritualità è un modo di mettere in opera».

Lei si è impadronito del vissuto amoroso. È questa, in definitiva, la questione centrale della filosofia?

«Ho sempre pensato che la realtà fosse solo una questione d’amore. Uno dei motivi per i quali trovo che sia razionale diventare cristiani è perché vi si parla al meglio dell’amore. Tutto quello che facciamo, in un modo o nell’altro, lo facciamo per rispondere a un’interrogazione amorosa, per sapere se amo e sono amato. Anche il motore della conoscenza è l’amore, poiché ci interessiamo a ciò che ci 'piace'. Dunque trovo irrazionale partire da un punto di vista diverso dall’amore, quando la vita quotidiana ci mostra che solo l’amore è determinante per l’uomo. E se l’amore fissa l’orizzonte ultimo della condizione umana, di fatto diventa anche quello della razionalità».

Se la razionalità agisce di concerto all’amore, allora intelligenza e verità sono affari di cuore.

«Diciamo che esistono livelli diversi di razionalità. Le questioni logiche, matematiche, fisiche, tecniche, astratte non richiedono una razionalità complessa, poiché in linea di principio se ne possono padroneggiare tutti i parametri. L’arte, la politica, la fede e l’amore sono più difficili della matematica, perché ci sono più informazioni contingenti da gestire. Quando si ha a che fare con fenomeni di questo tipo è più difficile sapere, dunque decidere, e si è più esposti all’errore. Ciò non significa che questi fenomeni non possano dar luogo a decisioni razionali. Ma hanno la loro forma di dimostrazione, i loro criteri specifici e dunque una verità propria. Si può assumere come vero che qualcuno ci ami da un insieme di indicatori che nulla hanno a che fare con quelli della dimostrazione scientifica, e tuttavia esserne certi!».

Queste verità complesse richiedono un’intelligenza superiore?

«Richiedono di giungere a collocarsi a un livello di razionalità più inglobante. È per questo che i grandi santi sono geniali: a partire dal punto di vista spirituale in cui si collocano, comprendono meglio la realtà di fondo rispetto a chi resta al proprio livello.
A mio vedere è il caso del cardinale Lustiger. È evidente che esiste una razionalità superiore dell’amore. O dell’odio: Hitler, come altri tiranni, era temibile non per l’efficacia tecnica ma per il progetto morale.
Generalmente, quanti negano la realtà del bene e del male, e di ogni dimensione spirituale, tralasciando una parte della complessità del dato, si condannano a perdere razionalità, e questo vale per la direzione politica del mondo. La rivelazione cristiana, al contrario, è di grandissimo aiuto per accedere a tale visione dall’alto».


Che cosa pensa della riforma della Chiesa, lei che ha vissuto l’epoca del Concilio?

«Il Vaticano II, sul momento, non mi ha interessato veramente e ci ho messo vent’anni ad accorgermi cosa era stato detto di fondamentale. Un Concilio provoca sempre una crisi, poiché interviene sui problemi esistenti; serve una generazione per confermare la diagnosi e applicare quanto è stato percepito e avviato. Oggi siamo a quel punto, e dunque è oggi che dobbiamo lavorare! Del resto, le istituzioni sono imperfette per definizione.

Immaginarsi che ci possa essere una Chiesa senza rapporti di potere, sognare un’istituzione pura e trasparente, mi pare infantile. La santità, nella Chiesa, coesiste con le strutture di potere, non le sostituisce. Tra i discepoli esistevano già rapporti di potere!».


La questione dell’istituzione ecclesiale per lei è importante?

«Confesso di non sentirmi direttamente implicato nei suoi successi né nei suoi errori. Penso alla mia esperienza di universitario che, in quarant’anni, ha visto passare una ventina di riforme dell’università e ha capito che il suo mestiere non dipendeva da tutte quelle fluttuazioni… Abbiamo spontaneamente un’interpretazione politica e profana del potere nella Chiesa, come se si trattasse di una qualsiasi multinazionale. Ma i problemi interni della Chiesa hanno sempre avuto un’unica via di risoluzione: quando i santi prendono in mano la situazione e creano nuovi movimenti, nuove spiritualità. Quello che mi stupisce non è che ci siano difetti nella Chiesa. È che non ci siano stati solo difetti e che essa si conservi da oltre venti secoli, pur trattandosi solo di uomini peccatori, e tanto più visibilmente peccatori in quanto pretendono di parlare in nome del Santo per eccellenza. Detto ciò, ho sempre avuto l’impressione di avere una grandissima libertà nella Chiesa cattolica e non ho mai avuto difficoltà a esprimere la mia opinione quando ne avevo una, a costo di inimicarmi i tradizionalisti o i progressisti. Nella Chiesa, come nella società, il vero problema non è la libertà di parola. È avere una parola che dica davvero qualcosa».

Lei è rimasto accanto all’arcivescovo di Parigi, Jean-Marie Lustiger, per vent’anni.

«Sì, ma in un certo senso Lustiger non era l’istituzione. L’ho conosciuto nel 1968 al Quartiere latino, poi a Sainte-Jeanne-de-Chantal dove mi recavo per ascoltare le sue omelie. Così siamo diventati amici e l’ho frequentato molto, facendogli conoscere quelli che frequentavo, come Emmanuel Lévinas. Quando è diventato vescovo di Parigi ha istituzionalizzato quel rapporto: ho fatto da consigliere e intermediario, in particolare per le questioni intellettuali. Ma non si consigliava Lustiger, era piuttosto lui a consigliare. Per il resto, sono un semplice battezzato, che è praticante, paga l’obolo e conserva un fondo di anticlericalismo come ogni vero cattolico. Semplicemente felice di vivere in questa Chiesa, l’unica che abbiamo e che basta».


(traduzione di Anna Maria Brogi)

 

Postato da: giacabi a 21:58 | link | commenti
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