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venerdì 17 febbraio 2012

matisse,


Io dall'amico Matisse,
alla scuola dello stupore
***

 

di Régine Pernoud
16-06-2011


I
n occasione dell'inaugurazione della Sala dei Musei Vaticani dedicata all'opera religiosa di Matisse, riscopriamo una grande pagina autobiografica di Régine Pernoud (1909-1998), l'insuperata biografa di santa Giovanna d'Arco e specialista del Medioevo che ha speso una vita di studio sulle fonti e sui documenti regalandoci opere immortali come Luce del Medioevo, Medioevo un secoloare pregiudizio, La donna al tempo delle cattedrali, I santi nel Medioevo, Riccardo cuor di leone, Storia della borghesia in Francia. Dalle origini all'inizio dell'età moderna, Eleonora d'Aquitania, I templarie Villa Paradis. Luci e ombre del XX secolo.

Mi capita spesso di ammirare il volto della Vierge di Vence regalatami da Matisse. L’espressione di straordinaria profondità di quel viso è resa con solo qualche tratto: si può quindi verosimilmente immaginare come quel disegno sia stato preceduto da almeno altri cinquecento. Molto modestamente, il lavoro dello storico segue la stessa dinamica. Mi è capitato di ricavare appena qualche riga da certe lunghe ricerche condotte su documenti d’epoca. Bisogna trascorrere un’infinità di tempo in biblioteca prima di scrivere un libro, oppure un’infinità di tempo fra gli archivi qualora si voglia trarre da un documento qualche elemento destinato poi a essere divulgato. Il lavoro preliminare di ricerca delle fonti non è affatto secondario.
Matisse aveva orrore delle mescolanze di colori. Li sistemava su piatti bianchi in modo che ognuno conservasse la propria singolarità, e poi li lavorava senza alcuna inopportuna mescolanza e senza combinazioni. L’ho visto spesso dipingere dal vero. Matisse non è stato compreso subito. Fino ai quarant’anni ha patito la fame: ha sofferto grandi difficoltà e un inizio di carriera difficilissimo proprio come Picasso e come la maggior parte di coloro che oggi sono famosi. Quando, però, dopo la guerra si è aperto un periodo di riscoperta dell’arte, Matisse aveva già cominciato a imporsi. A Parigi l’ho incontrato più volte allorché, oramai anziano, tornò ad abitare nell’appartamento che possedeva nella capitale. Aveva sempre qualcosa da mostrarmi e io avevo sempre qualcosa da dirgli. Con lui ho trascorso momenti meravigliosi. Poi, un giorno, ha iniziato i lavori della cappella di Vence, dedicandosi completamente a questo progetto e impegnandovi tutto il proprio tempo, tutto il proprio talento e tutto il proprio denaro.
Matisse desiderava fare di quella cappella un insieme organico di bellezza spirituale. La cappella è aperta su un lato e chiusa sull’altro. Il muro è adornato con le immagini di san Domenico e della Vergine che si stagliano su formelle di ceramica bianca. Matisse voleva che a illuminare questi personaggi evocati da un semplice tratto fossero le vetrate e queste dovevano essere di colore nero e rosso con due grandi raggi bianchi che le attraversavano nel mezzo. Ma il lavoro compiuto non lo ha soddisfatto. «Quello che conta nella vetrata — mi diceva — è il colore proiettato. L’importante non è la vetrata in sé, ma la luce generata all’interno della cappella. Mi sono dedicato troppo alla realizzazione della vetrata e non ho prestato sufficiente attenzione a ciò che da essa promana». Così ha ricominciato daccapo la prima serie di vetrate e ha disegnato su ogni lato della cappella dei grandi cespugli da cui traspariva una luce di colore viola. Matisse voleva che il tutto fosse al contempo vivace, trasparente e luminoso. Ho ammirato molto il suo gusto della perfezione; è stato meraviglioso vedere questo grande artista disfare completamente la propria opera solo per ottenere la luce desiderata. È una lezione di altissimo livello. E, anche in questo caso, l’operato dello storico vi si avvicina parecchio. Mi è capitato di ricominciare completamente daccapo un lavoro perché insoddisfatta del risultato. Per la biografia di Eleonora d’Aquitania, quanti sono stati i capitoli che ho completamente rifatto!
Quando torno alla cappella di Vence e vedo la luce giocare con i personaggi, ripenso al distacco di Matisse nei riguardi del proprio lavoro. È come se egli fosse stato anzitutto un canale che ha permesso alla luce di passare. Anche il lavoro dello storico potrebbe essere inteso in questo modo: cercar di diventare il miglior canale possibile affinché la luce dei personaggi e degli avvenimenti possa diffondersi. Lo scopo delle opere che ho dedicato a Giovanna d’Arco è stato quello di far sì che la sua parola e la sua luce risaltassero nel miglior modo possibile senza apporre filtri di alcun genere. In Matisse la purezza è il frutto di un lavoro nascosto. Il vero artista è umile davanti alla propria opera; quel conta è ciò che essa cerca di rivelare. E la pittura di Matisse è il risultato di un lavoro che ha l’eleganza di non mostrarsi.
Ci scrivevamo. Matisse mi rispondeva con lettere decorate di motivi floreali. Per la bellezza aveva un’attenzione davvero straordinaria. Mi ricordo di una pianta che giudicai bizzarra. Si trattava di un cavolo in fiore. Ovvero, quel genere di pianta che normalmente nessuno nota. Ma Matisse lo aveva giudicato di una bellezza fuori dal comune. È stato così per tutta la vita. Con lui passavo di sorpresa in sorpresa. E queste sorprese erano dovute alla sua capacità di meravigliarsi di fronte alle cose.
Credeva in Dio. Cristiano a modo suo, era persuaso che esistesse una dimensione ulteriore. Per lui Dio era la Bellezza assoluta e quel che contava era raggiungere questa Bellezza. Questo sforzo per accedere al Bello è paragonabile a quello che compie chi cerca di corrispondere alla volontà di Dio. Cosa si aspettava Dio da Matisse? Che Matisse producesse bellezza e Matisse lo ha fatto, pure coronando la propria intera produzione con la cappella di Vence. A parer mio, non esiste alcun dubbio sul fatto che egli abbia portato a termine ciò che Dio gli aveva proposto di fare. Matisse lo diceva alla sua maniera: «Spero che, grazie a questo, quei diavoletti non m’infastidiscano troppo». Era il modo pudico con cui Matisse si esprimeva. Egli non faceva distinzione fra Dio e la Bellezza suprema. Sono persuasa che, quando vedremo Dio, la sua infinita bellezza oscurerà tutto il resto. Matisse, consciamente o inconsciamente, mirava a questo. Al suo fianco, ho frequentato la scuola dello stupore.

Tratto da Régine Pernoud, Testimoni della luce, pensieri raccolti e presentati da Laetitia de Traversay, prefazione di Blandine de Dinechin, edizione italiana a cura e con postfazione di Marco Respinti, Gribaudi, Milano 1998
 
« Io vado ora, come tutte le mattine, a fare la mia preghiera, con la matita in mano, davanti a un melograno coperto di fiori nei diversi gradi della loro fioritura e spio la loro trasformazione, facendo questo non con spirito scientifico, ma compenetrato di ammirazione per l’opera divina. Non è questo un modo di pregare? In quel momento è Dio a condurreo nel disegno».

«Io medito e lascio penetrare in me ciò a cui do inizio. Io non so se ho o no la fede. […] L’essenziale è di lavorare in uno stato di spirito, prossimo a quello della preghiera. Ho detto, a Picasso: Sì, io faccio la mia preghiera, e voi anche, e voi lo sapete molto bene: quando tutto va male, noi ci gettiamo nella preghiera, per ritrovare il clima della nostra prima comunione. E voi lo fate. Voi anche. Non mi ha detto di no. In fondo, Picasso, non dobbiamo fare i maligni. Voi siete come me: ciò che noi tutti cerchiamo di ritrovare nell’arte, è il clima della nostra prima comunione».

Matisse

Postato da: giacabi a 08:04 | link | commenti
matisse

domenica, 07 agosto 2011

Ci vuole un grande amore
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Ci vuole un grande amore, capace di ispirare e di sostenere quello sforzo continuo verso la verità, quella generosità e al tempo stesso quella rinunzia profonda implicite nella genesi di ogni opera d’arte. Ma l’amore non è forse all’origine di ogni creazione?".

Matisse

Postato da: giacabi a 14:57 | link | commenti
matisse, amore

venerdì, 20 agosto 2010

Ciò che definisce l’identità è l’appartenenza

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Ciò che ci deve muovere è quel presentimento di felicità che è la letizia del vivere. Allora il cerchio rosso dell’Icaro di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Quel cuore simboleggia che la figura di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qualcosa d’altro, dipende. Dipende da qualcosa d’altro. Se non ci fosse qualcosa d’altro, anche evanescentissimo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spiaccicherebbe, come, infatti, è il destino di questa fiaba nella mentalità pagana. Nella mentalità pagana, cioè nella mentalità mondana, l’Icaro è destinato a distruggersi a terra, perché il cuore non tiene, cioè le ali non tengono. Invece quel cuore è il simbolo del rapporto con qualcosa.
Una foglia lontana dal proprio ramo non è più una foglia. Che sia ancora foglia è la sopravvivenza di un’apparenza, perché incomincia a marcire! Allora vuole dire che per essere foglia deve essere legata al ramo, come il ramo al tronco; vale a dire, bisogna che appartenga! Questo è l’Icaro di Matisse, esile fin quanto volete, ma ha la percezione di appartenere a qualcosa d’altro.
Ciò che definisce l’identità, la forza e la letizia di un soggetto – o di una realtà – è la sua appartenenza, è ciò cui appartiene.

L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, Bur.

Postato da: giacabi a 21:27 | link | commenti
matisse, giussani

lunedì, 07 aprile 2008

Matisse a mano libera
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Arte
 

Cristina Terzaghi                                             traccen°10  novembre 2001
Insieme a Picasso è stato il pittore che più ha lasciato il segno nell’arte del secolo scorso. Henri Matisse, il pittore de La joie de vivre, alla fine della sua vita trovò la felicità nel dipingere gli interni di una chiesa. Una storia poco nota che riaffiora in un libro di testimonianze e lettere inedite
Tutti lo conoscono come il maestro sfolgorante dell’era fauve; il maestro capace di inseguire il filo della bellezza in un secolo che l’aveva smarrito. Henri Matisse è stato senza dubbio un sole rimasto acceso all’interno di un secolo dominato da ben altri bagliori. Il pittore de La danza e dell’Icaro, di Tangeri: paesaggio visto da una finestra che compare sulla copertina dell’ultima Tischreden, colui che è stato capace di cogliere l’essere come sfolgorio di luce e di colori. Sotto la sua mano le linee ritrovavano una misteriosa continuità e armonia: una vera eccezione in un contesto che ha visto le linee, nelle mani dei pittori, infrangersi, spezzarsi, piegarsi nell’enfatizzazione o nel racconto del dramma. Matisse era di un’altra pasta. E lo dimostra una storia poco nota, riaffiorata grazie a un libro, che l’ha ricostruita attraverso lettere e testimonianze: la storia dei celebri dipinti che Matisse, ormai anziano e malato, dipinse per la cappella di Saint Paul de Vence, il suo ultimo capolavoro.
Ricoverato nel 1942 nell’ospedale di Nizza, Matisse si trova nella necessità di un’assistenza notturna, gli viene mandata la giovane Monique Bourgeois alla sua primissima esperienza infermieristica. Di Monique, uno di quegli incontri che hanno cambiato la vita del pittore, sappiamo assai poco. Doveva essere piuttosto dotata, a giudicare dal quaderno di disegni mostrati dopo molto tempo all’artista, che li trovò eccellenti, e doveva essere molto bella, dal momento che Matisse la ritrasse più volte, col permesso della madre. Due anni dopo il loro primo incontro, l’infermiera entra nel convento domenicano di Vence. Per Matisse è un duro colpo: lo apprende al telefono e quasi interrompe la comunicazione, altri erano i suoi progetti per Monique, voleva farne una grande pittrice.
Diceva Chesterton che l’universo risponde il vero se lo si interroga onestamente: nessuno avrebbe potuto immaginare quale capolavoro sarebbe nato da quella amicizia che allora sembrava sul punto di naufragare.
Fu in una delle successive visite a Matisse che Monique, ormai suor Jacques-Marie, mostrò all’artista un disegno di una Madonna con il Bambino, che quasi distrattamente aveva dipinto. Matisse trovò che sarebbe stato perfetto per una vetrata. Fu così che nacque l’idea della cappella del Rosario di Vence.
Matisse era ormai vecchio e quasi paralizzato, così Giovanni Testori racconta quell’impresa: «Vetrate, pianete, pissidi: fece tutto lui. E pensare che in quegli anni era ormai immobile, e non poteva più usare nemmeno le mani. Allora disegnava su fogli colorati, rossi, azzurri, servendosi di un gran bastone, e poi, sempre con un bastone, li tagliava e li incollava. Verso la fine della vita, poi, smise anche il colore. Forse scoprì che il suo grande sogno era sempre stato la vetrata, ossia il colore, ma, insieme, qualcosa che oltrepassa il colore: la concentrazione della luce (…). Una concentrazione che diviene fulgore».
Suor Jacques-Marie e Lidia, da molti anni assistente di Matisse, furono costantemente al suo fianco nell’impresa, tanto che il vecchio maestro avrebbe voluto i loro nomi accanto al suo nella cerimonia della posa della prima pietra. La cappella fu benedetta il 25 giugno 1951, due anni prima della scomparsa del pittore, che in quell’occasione scrisse al Vescovo di Nizza: «Eccellenza, Vi presento in tutta umiltà la cappella del Rosario dei Domenicani di Vence. Vi prego di scusarmi di non aver potuto presentarvi io stesso questo lavoro a causa dell’età e della mia salute. L’opera ha richiesto quattro anni di un lavoro esclusivo e assiduo, essa è il risultato di tutta la mia vita attiva. Io la considero nonostante tutte le sue imperfezioni come il mio capolavoro. Che l’avvenire possa rendere ragione di questo giudizio mediante un interesse crescente, anche al di là del significato più alto di questo monumento. Conto, Eccellenza, sulla vostra vasta esperienza degli uomini e sulla vostra profonda saggezza nel giudicare uno sforzo che è il risultato di una vita consacrata alla ricerca della verità». Non pare poco per chi quarant’anni prima aveva affermato: «Io sogno un’arte equilibrata, pura, tranquilla, senza soggetto inquietante o preoccupante, che sia per ogni lavoratore intellettuale, per l’uomo d’affari come per l’artista di lettere, per esempio, un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona che lo riposi delle sue fatiche fisiche», una dimora, insomma: Matisse la costruì per davvero.
Chi era
«Dalla sua finestra lui vedeva solo il mare, e una casa bianca in mezzo al blu, nella casa una donna, Maria», racconta una poetica canzone di Lucio Dalla, una sensazione di riposo, refrigerio e libertà non troppo diversa da quella, intensissima e profonda, trasmessa da Tangeri: paesaggio visto da una finestra, lo straordinario dipinto di Henri Matisse (oggi al Museo Puskin di Mosca), azzeccatissima copertina di Affezione e dimora, l’ultimo libro pubblicato da don Luigi Giussani, per i tipi della Bur.
Autore anche del cosiddetto Icaro (titolo originale Jazz), uno dei manifesti pasquali del movimento di Comunione e Liberazione, vien fatto di chiedersi chi è Henri Matisse, questo pittore che illustra la vita secondo una sensibilità tanto affine a quella della storia e della tradizione cristiana.
«Spesso, quando mi metto al lavoro, nella prima seduta annoto sensazioni fresche e superficiali. Fino a qualche anno fa questo risultato talvolta mi bastava. Se oggi me ne accontentassi, convinto come sono di vedere la realtà con una maggiore profondità, resterebbe qualcosa di indefinito nel mio dipinto; avrei registrato sensazioni fuggitive, legate a un istante che non mi definirebbe interamente, e che a stento riconoscerei il giorno dopo». Così si esprimeva nel 1908 il trentasettenne Henri Matisse, ormai famoso per aver scosso il mondo dell’arte con i colori puri e urlanti delle sue tele. Esse, esposte a una mostra parigina nel 1905 intorno a una statua rinascimentale, strapparono a un critico l’esclamazione: «È Donatello in mezzo alle belve (fauves, in francese, come vennero in seguito definiti gli artisti che aderirono a questa poetica)».
Ai primi passi di un lungo cammino, che si concluderà quarantaquattro anni dopo quel lontano 1908, quando la morte lo sorprenderà ancora al lavoro, Matisse osserva le cose, gli oggetti, le persone, la realtà tutta, indagandola fino a raggiungere «un accordo vivente di colori, un’armonia analoga a quella di una composizione musicale». E le sue tele sprigionano in effetti questo magico accordo, assiduamente ricercato in una assoluta fiducia nella positività del reale, quasi un miracolo se si tiene conto che la storia di Henri, unico artista al mondo ad avere dipinto un quadro intitolato La joie de vivre, la gioia di vivere, si dipana attraverso due guerre mondiali.
Il percorso pittorico di Matisse è costellato di “finestre”, aperte su Tangeri, su Nizza, su Parigi. Gli interni danno quasi sempre su una finestra e persino le donne, tanto amate dall’artista, sono spesso raffigurate nei pressi di un davanzale, come se il pittore non potesse fare a meno di uno squarcio su quanto sta oltre quel che in quel momento colpisce l’attenzione, un dato indispensabile all’equilibrio e all’armonia di quel che appare: «Devo dipingere un corpo di donna: per prima cosa dovrà avere grazia, fascino; ma il problema è dargli qualcosa di più. Cerco allora di condensare il significato di questo corpo indagandone le linee essenziali. Il fascino sarà meno apparente al primo sguardo, e dovrà invece scaturire alla lunga dalla nuova immagine che avrò ottenuto, e che avrà un significato più ampio, più pienamente umano. Il fascino sarà meno rilevante, non essendo l’unica caratteristica, ma continuerà a esistere ugualmente, racchiuso nel concetto generale della mia figura (…). Ciò che mi interessa di più non è la natura morta né il paesaggio, è la figura umana. Solo questa mi consente di esprimere meglio il mio sentimento quasi religioso della vita».
di Cristina Terzaghi                                      grazie : a graciete


Postato da: giacabi a 12:58 | link | commenti (2)
bellezza, matisse

martedì, 30 ottobre 2007

Tratto da: 
Il senso religioso in Matisse
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La risposta di Matisse ad  una lettera a Monique, ormai sr. Jacques-Marie

"Voi vivete la vostra vita spirituale nella luce. Ed io? Io non vivo che per la luce e sono stato a cercarne una nuova sfumatura agli antipodi [10]... La sottomissione, l'ho anch'io, è per questo che ho potuto essere insultato da tutti i critici d'arte per più di 20 anni, poiché io ero sottomesso alla volontà divina, piuttosto che ai gusti di un pubblico che si basava su delle abitudini meccaniche indegne di una creatura d'origine divina o abitata da una particella divina donata ad ogni essere. Il Signore ha detto: “Fuori della Chiesa non c'è salvezza” [11]. La mia strada non si è precisata così. Io sono stato condotto (molto modestamente) pertanto ed io l'ho constatato solamente in questi ultimi anni, guardando a ritroso il mio cammino, a considerarmi come destinato dall'Altissimo a risvegliare nello spirito degli altri uomini la visione delle cose, che conduca ad una elevazione dello spirito, fino a giungere al Creatore. Io obbedisco io lo credo fermamente – al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. La mia contemplazione non può essere soltanto di ammirazione ma deve essere attiva, mettendo in moto tutte le risorse dello spirito per creare il mezzo più diretto per elevare lo spirito dei miei simili verso una regione che li faccia uscire dalla loro bassa condizione umana soprattutto dall'interesse “del guadagno per il guadagno” con il quale si pensa di poter tutto comprare. Voi pregate per me. Ve ne ringrazio. Domandate a Dio di donarmi nei miei ultimi anni la luce dello spirito che mi tenga in contatto con Lui, che mi permetta di far giungere la mia carriera lunga e laboriosa allo scopo che io ho sempre cercato; rendere la Sua gloria evidente ai ciechi per un nutrimento esclusivamente terrestre... Il bisogno di rispondervi mi ha obbligato a trovare, nel mio più profondo, delle cose che io non formulo mai con pensieri, che non provo il bisogno di comunicare agli altri... Io vado in questo momento, come tutte le mattine, a fare la mia preghiera, con la matita in mano, davanti ad un melograno coperto di fiori nei diversi stadi della fioritura e spio la loro trasformazione, facendo questo non con uno spirito scientifico ma compenetrato di ammirazione per l'opera divina. Non è questo un modo di pregare? Ed io non faccio che (ma, in fondo, io non faccio niente, perchè è Dio che conduce la mia mano) rendere evidente per gli altri l'intenerimento del mio cuore"
Henri Matisse


H.Matisse e sr.Jacques-Marie

Postato da: giacabi a 08:31 | link | commenti
matisse, senso religioso

venerdì, 08 settembre 2006

IL SENSO RELIGIOSO
di HENRI MATISSE
Tratto da:  http://www.santamelania.it/arte_fede/matisse/matisse.htm#titre4

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Questo mattino egli ha insistito sull'unità di sentimento in tutta la sua opera, sul sentimento religioso nel quale ha sempre dipinto. “Anche le odalische, ha detto.   Appunto del 29 dicembre 1949. Da Marie-Alain Couturier, Se garder libre , Paris, Editions du Cerf, 1962, ora in Henri Matisse, Ecrits et propos sur l'art , Hermann, Paris, 1972, p.270                   
CHAPELLE DU ROSAIRE
di Henri Matisse  a Vance (Francia)

Questa cappella è per me il compimento di tutta una vita di lavoro e la fioritura di uno sforzo enorme, sincero e difficile. Non è un lavoro che io ho scelto, ma un lavoro per il quale sono stato scelto dal destino sul finire della mia strada, che io continuo secondo le mie ricerche, visto che la cappella mi dà l'opportunità di fissarle riunendole. Io ho il presentimento che questo lavoro non sarà inutile e che potrà restare l'espressione di un'epoca dell'arte, forse superata - ma io non lo credo. E' impossibile saperlo oggi, prima che i nuovi movimenti abbiano trovato la loro realizzazione.
Gli errori che questa espressione del sentimento umano può contenere cadranno da soli, ma resterà una parte viva che potrà unire il passato con l'avvenire della tradizione plastica.
Mi auguro che questa parte, che io chiamo “le mie rivelazioni”, sia espressa con forza Se avessi messo tutti questi studi sotto forma di Via crucis, voi avreste quattordici piccole tavole, l'una a fianco dell'altra, senza continuità,
mentre la Via Crucis è un dramma dove tutto è concatenato. Le stazioni sono consequenziali le une alle altre, voi non potete separarle. Tutto è centrato sulla croce: “Gesù muore in croce”. E' per questo che io l'ho fatta più grande delle altre. E' il culmine principale.
Bisogna muoversi per seguire la Via crucis; così io l'ho fatta come un cammino che sale a serpentina. [38]

matisse via Crucis
H.Matisse, Via crucis
sufficiente da essere fertile e da tornare alla sua sorgente
Il p.Rayssiguier avrebbe voluto la Vergine vestita con abiti moderni, seduta con i due gomiti sulle ginocchia, il mento tra le mani. Matisse replicò: La Vergine sarà vestita come si ha l'abitudine di vederla ed avrà un bambino fra le braccia, perché senza il bambino ella non avrebbe ragione di essere... Per la Vergine voleva la purezza di una bambina. [39]
matisse la Vergine col Bambino
H.Matisse, La Vergine con il Bambino
Io considero (la Cappella di Vence), malgrado tutte le sue imperfezioni, come il mio capolavoro. Che l'avvenire voglia ben giustificare questo giudizio per un interesse crescente, al di là anche del significato superiore di questo monumento

Bisognava decorare l'altare in modo leggero… Questa leggerezza da il sentimento di liberazione, di affrancamento, così bene che la mia cappella non è: “Fratelli bisogna morire”. E', al contrario: “Fratelli bisogna vivere!
Una Chiesa piena di gaiezza – uno spazio che renda la gente felice... Che tutti coloro che visitano questo luogo lo lascino gioiosi e riposati
Io voglio che quelli che entreranno nella mia cappella si sentano purificati e scaricati dai loro pesi

Noi avremo una cappella nella quale tutti potranno sperare. Quale che sia il carico dei peccati, li si potrà lasciare alla porta, come i maomettani lasciano la polvere delle strade sulla suola dei loro sandali alla porta delle moschee.
Uscendo da Notre-Dame mi sono detto: “Eh bene! Di fronte a tutto questo cos'è la mia cappella?”… Allora mi sono detto: “E' un fiore. Non è che un fiore, ma è un fiore”.
Io medito e lascio penetrare in me ciò a cui do inizio. Io non so se ho o no la fede. Potrebbe darsi che io sia piuttosto buddista. L'essenziale è di lavorare in uno stato di spirito, prossimo a quello della preghiera
Ho detto, a Picasso: Sì, io faccio la mia preghiera, e voi anche, e voi lo sapete molto bene: quando tutto va male, noi ci gettiamo nella preghiera, per ritrovare il clima della nostra prima comunione. E voi lo fate. Voi anche. Non mi ha detto di no.
Quei disegni là, bisogna che vi escano dal cuore
In fondo, Picasso, non dobbiamo fare i maligni. Voi siete come me: ciò che noi tutti cerchiamo di ritrovare nell'arte, è il clima della nostra prima comunione.
Come è curioso. Si è condotti, non si conduce mica. Io non sono che un servitore [63].
Il mio lavoro consiste nell'imbevermi delle cose. E dopo, tutto questo rifluisce fuori [64].
Io sono fatto di tutto ciò che ho visto [65].
Questa opera mi ha domandato quattro anni di un lavoro esclusivo ed assiduo, ed essa è il risultato di tutta la mia vita attiva... Lo considero, malgrado tutte le sue imperfezioni, come il mio capolavoro… uno sforzo che è il risultato di tutta una vita consacrata alla ricerca della verità
Una domenica, Matisse mi telefonò per domandarmi se poteva venire alla cappella alle 17.00:
-Sì, mio signore, ma ci sarà la preghiera corale, la benedizione con il Santissimo, Sacramento, seguita dall'ufficio.
-Io vi disturbo?
-Per niente, l'ho detto per voi.
-Bene, allora io vengo.
Venne. Volle assistere alla preghiera corale, alla benedizione con il Santissimo e all'ufficio recitato dalle suore. Ogni tanto gli domandavo se preferiva uscire, ma mi faceva segno di no. Quel giorno se ne andò felice; aveva visto la cappella “in servizio”, la sua opera associata alla vita tal quale doveva essere da allora in avanti
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Postato da: giacabi a 17:03 | link | commenti
matisse, senso religioso

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