Io dall'amico Matisse,
alla scuola dello stupore
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alla scuola dello stupore
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di Régine Pernoud
16-06-2011
In occasione dell'inaugurazione della Sala dei Musei Vaticani dedicata all'opera religiosa di Matisse, riscopriamo una grande pagina autobiografica di Régine Pernoud (1909-1998), l'insuperata biografa di santa Giovanna d'Arco e specialista del Medioevo che ha speso una vita di studio sulle fonti e sui documenti regalandoci opere immortali come Luce del Medioevo, Medioevo un secoloare pregiudizio, La donna al tempo delle cattedrali, I santi nel Medioevo, Riccardo cuor di leone, Storia della borghesia in Francia. Dalle origini all'inizio dell'età moderna, Eleonora d'Aquitania, I templarie Villa Paradis. Luci e ombre del XX secolo.
Mi capita spesso di ammirare il volto della Vierge di Vence regalatami da Matisse. L’espressione di straordinaria profondità di quel viso è resa con solo qualche tratto: si può quindi verosimilmente immaginare come quel disegno sia stato preceduto da almeno altri cinquecento. Molto modestamente, il lavoro dello storico segue la stessa dinamica. Mi è capitato di ricavare appena qualche riga da certe lunghe ricerche condotte su documenti d’epoca. Bisogna trascorrere un’infinità di tempo in biblioteca prima di scrivere un libro, oppure un’infinità di tempo fra gli archivi qualora si voglia trarre da un documento qualche elemento destinato poi a essere divulgato. Il lavoro preliminare di ricerca delle fonti non è affatto secondario.
Matisse aveva orrore delle mescolanze di colori. Li sistemava su piatti bianchi in modo che ognuno conservasse la propria singolarità, e poi li lavorava senza alcuna inopportuna mescolanza e senza combinazioni. L’ho visto spesso dipingere dal vero. Matisse non è stato compreso subito. Fino ai quarant’anni ha patito la fame: ha sofferto grandi difficoltà e un inizio di carriera difficilissimo proprio come Picasso e come la maggior parte di coloro che oggi sono famosi. Quando, però, dopo la guerra si è aperto un periodo di riscoperta dell’arte, Matisse aveva già cominciato a imporsi. A Parigi l’ho incontrato più volte allorché, oramai anziano, tornò ad abitare nell’appartamento che possedeva nella capitale. Aveva sempre qualcosa da mostrarmi e io avevo sempre qualcosa da dirgli. Con lui ho trascorso momenti meravigliosi. Poi, un giorno, ha iniziato i lavori della cappella di Vence, dedicandosi completamente a questo progetto e impegnandovi tutto il proprio tempo, tutto il proprio talento e tutto il proprio denaro.
Matisse desiderava fare di quella cappella un insieme organico di bellezza spirituale. La cappella è aperta su un lato e chiusa sull’altro. Il muro è adornato con le immagini di san Domenico e della Vergine che si stagliano su formelle di ceramica bianca. Matisse voleva che a illuminare questi personaggi evocati da un semplice tratto fossero le vetrate e queste dovevano essere di colore nero e rosso con due grandi raggi bianchi che le attraversavano nel mezzo. Ma il lavoro compiuto non lo ha soddisfatto. «Quello che conta nella vetrata — mi diceva — è il colore proiettato. L’importante non è la vetrata in sé, ma la luce generata all’interno della cappella. Mi sono dedicato troppo alla realizzazione della vetrata e non ho prestato sufficiente attenzione a ciò che da essa promana». Così ha ricominciato daccapo la prima serie di vetrate e ha disegnato su ogni lato della cappella dei grandi cespugli da cui traspariva una luce di colore viola. Matisse voleva che il tutto fosse al contempo vivace, trasparente e luminoso. Ho ammirato molto il suo gusto della perfezione; è stato meraviglioso vedere questo grande artista disfare completamente la propria opera solo per ottenere la luce desiderata. È una lezione di altissimo livello. E, anche in questo caso, l’operato dello storico vi si avvicina parecchio. Mi è capitato di ricominciare completamente daccapo un lavoro perché insoddisfatta del risultato. Per la biografia di Eleonora d’Aquitania, quanti sono stati i capitoli che ho completamente rifatto!
Quando torno alla cappella di Vence e vedo la luce giocare con i personaggi, ripenso al distacco di Matisse nei riguardi del proprio lavoro. È come se egli fosse stato anzitutto un canale che ha permesso alla luce di passare. Anche il lavoro dello storico potrebbe essere inteso in questo modo: cercar di diventare il miglior canale possibile affinché la luce dei personaggi e degli avvenimenti possa diffondersi. Lo scopo delle opere che ho dedicato a Giovanna d’Arco è stato quello di far sì che la sua parola e la sua luce risaltassero nel miglior modo possibile senza apporre filtri di alcun genere. In Matisse la purezza è il frutto di un lavoro nascosto. Il vero artista è umile davanti alla propria opera; quel conta è ciò che essa cerca di rivelare. E la pittura di Matisse è il risultato di un lavoro che ha l’eleganza di non mostrarsi.
Ci scrivevamo. Matisse mi rispondeva con lettere decorate di motivi floreali. Per la bellezza aveva un’attenzione davvero straordinaria. Mi ricordo di una pianta che giudicai bizzarra. Si trattava di un cavolo in fiore. Ovvero, quel genere di pianta che normalmente nessuno nota. Ma Matisse lo aveva giudicato di una bellezza fuori dal comune. È stato così per tutta la vita. Con lui passavo di sorpresa in sorpresa. E queste sorprese erano dovute alla sua capacità di meravigliarsi di fronte alle cose.
Credeva in Dio. Cristiano a modo suo, era persuaso che esistesse una dimensione ulteriore. Per lui Dio era la Bellezza assoluta e quel che contava era raggiungere questa Bellezza. Questo sforzo per accedere al Bello è paragonabile a quello che compie chi cerca di corrispondere alla volontà di Dio. Cosa si aspettava Dio da Matisse? Che Matisse producesse bellezza e Matisse lo ha fatto, pure coronando la propria intera produzione con la cappella di Vence. A parer mio, non esiste alcun dubbio sul fatto che egli abbia portato a termine ciò che Dio gli aveva proposto di fare. Matisse lo diceva alla sua maniera: «Spero che, grazie a questo, quei diavoletti non m’infastidiscano troppo». Era il modo pudico con cui Matisse si esprimeva. Egli non faceva distinzione fra Dio e la Bellezza suprema. Sono persuasa che, quando vedremo Dio, la sua infinita bellezza oscurerà tutto il resto. Matisse, consciamente o inconsciamente, mirava a questo. Al suo fianco, ho frequentato la scuola dello stupore.
Tratto da Régine Pernoud, Testimoni della luce,
pensieri raccolti e presentati da Laetitia de Traversay, prefazione di
Blandine de Dinechin, edizione italiana a cura e con postfazione di
Marco Respinti, Gribaudi, Milano 1998
« Io
vado ora, come tutte le mattine, a fare la mia preghiera, con la matita
in mano, davanti a un melograno coperto di fiori nei diversi gradi
della loro fioritura e spio la loro trasformazione, facendo questo non
con spirito scientifico, ma compenetrato di ammirazione per l’opera
divina. Non è questo un modo di pregare? In quel momento è Dio a
condurreo nel disegno».«Io medito e lascio penetrare in me ciò a cui do inizio. Io non so se ho o no la fede. […] L’essenziale è di lavorare in uno stato di spirito, prossimo a quello della preghiera. Ho detto, a Picasso: Sì, io faccio la mia preghiera, e voi anche, e voi lo sapete molto bene: quando tutto va male, noi ci gettiamo nella preghiera, per ritrovare il clima della nostra prima comunione. E voi lo fate. Voi anche. Non mi ha detto di no. In fondo, Picasso, non dobbiamo fare i maligni. Voi siete come me: ciò che noi tutti cerchiamo di ritrovare nell’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Matisse
Postato da: giacabi a 08:04 |
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matisse
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Postato da: giacabi a 14:57 |
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matisse, amore
Ciò che definisce l’identità è l’appartenenza
Ciò che ci deve muovere è quel presentimento di felicità che è la letizia del vivere. Allora il cerchio rosso dell’Icaro di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Quel cuore simboleggia che la figura di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qualcosa d’altro, dipende. Dipende da qualcosa d’altro. Se non ci fosse qualcosa d’altro, anche evanescentissimo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spiaccicherebbe, come, infatti, è il destino di questa fiaba nella mentalità pagana. Nella mentalità pagana, cioè nella mentalità mondana, l’Icaro è destinato a distruggersi a terra, perché il cuore non tiene, cioè le ali non tengono. Invece quel cuore è il simbolo del rapporto con qualcosa.Una foglia lontana dal proprio ramo non è più una foglia. Che sia ancora foglia è la sopravvivenza di un’apparenza, perché incomincia a marcire! Allora vuole dire che per essere foglia deve essere legata al ramo, come il ramo al tronco; vale a dire, bisogna che appartenga! Questo è l’Icaro di Matisse, esile fin quanto volete, ma ha la percezione di appartenere a qualcosa d’altro.
Ciò che definisce l’identità, la forza e la letizia di un soggetto – o di una realtà – è la sua appartenenza, è ciò cui appartiene.
L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, Bur.
Postato da: giacabi a 21:27 |
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matisse, giussani
Matisse a mano libera
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Postato da: giacabi a 12:58 |
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bellezza, matisse
Tratto da:
Il senso religioso in Matisse
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La risposta di Matisse ad una lettera a Monique, ormai sr. Jacques-Marie
"Voi vivete la vostra vita spirituale nella luce. Ed io? Io non vivo che per la luce e sono stato a cercarne una nuova sfumatura agli antipodi [10]... La sottomissione, l'ho anch'io, è per questo che ho potuto essere insultato da tutti i critici d'arte per più di 20 anni, poiché io ero sottomesso alla volontà divina, piuttosto
che ai gusti di un pubblico che si basava su delle abitudini meccaniche
indegne di una creatura d'origine divina o abitata da una particella
divina donata ad ogni essere. Il Signore ha detto: “Fuori della Chiesa non c'è salvezza” [11]. La mia strada non si è precisata così. Io sono stato condotto (molto modestamente) pertanto ed io l'ho constatato solamente in questi ultimi anni, guardando a ritroso il mio cammino, a considerarmi
come destinato dall'Altissimo a risvegliare nello spirito degli altri
uomini la visione delle cose, che conduca ad una elevazione dello
spirito, fino a giungere al Creatore. Io obbedisco – io lo credo fermamente – al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
La mia contemplazione non può essere soltanto di ammirazione ma deve
essere attiva, mettendo in moto tutte le risorse dello spirito per
creare il mezzo più diretto per elevare lo spirito dei miei simili verso una regione che li faccia uscire dalla loro bassa condizione umana – soprattutto
dall'interesse “del guadagno per il guadagno” con il quale si pensa di
poter tutto comprare. Voi pregate per me. Ve ne ringrazio. Domandate
a Dio di donarmi nei miei ultimi anni la luce dello spirito che mi
tenga in contatto con Lui, che mi permetta di far giungere la mia
carriera lunga e laboriosa allo scopo che io ho sempre cercato; rendere la Sua gloria evidente ai ciechi per un nutrimento esclusivamente terrestre...
Il bisogno di rispondervi mi ha obbligato a trovare, nel mio più
profondo, delle cose che io non formulo mai con pensieri, che non provo
il bisogno di comunicare agli altri... Io vado in questo momento, come tutte le mattine, a fare la mia preghiera, con la matita in mano, davanti ad un melograno
coperto di fiori nei diversi stadi della fioritura e spio la loro
trasformazione, facendo questo non con uno spirito scientifico ma compenetrato di ammirazione per l'opera divina. Non è questo un modo di pregare? Ed io non faccio che (ma, in fondo, io non faccio niente, perchè è Dio che conduce la mia mano) rendere evidente per gli altri l'intenerimento del mio cuore"
Henri Matisse
H.Matisse e sr.Jacques-Marie |
Postato da: giacabi a 08:31 |
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matisse, senso religioso
IL SENSO RELIGIOSO
di HENRI MATISSE
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Tratto da: http://www.santamelania.it/arte_fede/matisse/matisse.htm#titre4 |
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- Questo mattino egli ha insistito sull'unità di sentimento in tutta la sua opera, sul sentimento religioso nel quale ha sempre dipinto. “Anche le odalische”, ha detto. Appunto del 29 dicembre 1949. Da Marie-Alain Couturier, Se garder libre , Paris, Editions du Cerf, 1962, ora in Henri Matisse, Ecrits et propos sur l'art , Hermann, Paris, 1972, p.270
CHAPELLE DU ROSAIRE
di Henri Matisse a Vance (Francia)
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Questa cappella è per me il compimento di tutta una vita di lavoro e la fioritura di uno sforzo enorme, sincero e difficile. Non
è un lavoro che io ho scelto, ma un lavoro per il quale sono stato
scelto dal destino sul finire della mia strada, che io continuo secondo
le mie ricerche, visto che la cappella mi dà l'opportunità di fissarle
riunendole. Io ho il presentimento che questo lavoro
non sarà inutile e che potrà restare l'espressione di un'epoca
dell'arte, forse superata - ma io non lo credo. E' impossibile saperlo
oggi, prima che i nuovi movimenti abbiano trovato la loro realizzazione. Gli errori che questa espressione del sentimento umano può contenere cadranno da soli, ma resterà una parte viva che potrà unire il passato con l'avvenire della tradizione plastica. Mi auguro che questa parte, che io chiamo “le mie rivelazioni”, sia espressa con forza Se avessi messo tutti questi studi sotto forma di Via crucis, voi avreste quattordici piccole tavole, l'una a fianco dell'altra, senza continuità, mentre Bisogna muoversi per seguire |
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sufficiente da essere fertile e da tornare alla sua sorgente
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Il p.Rayssiguier avrebbe voluto
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Io considero (
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Bisognava decorare l'altare in modo leggero… Questa leggerezza da il sentimento di liberazione, di affrancamento, così bene che la mia cappella non è: “Fratelli bisogna morire”. E', al contrario: “Fratelli bisogna vivere!” |
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Una
Chiesa piena di gaiezza – uno spazio che renda la gente felice... Che
tutti coloro che visitano questo luogo lo lascino gioiosi e riposati |
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Io voglio che quelli che entreranno nella mia cappella si sentano purificati e scaricati dai loro pesi |
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Noi avremo una cappella nella quale tutti potranno sperare. Quale che sia il carico dei peccati, li si potrà lasciare alla porta, come i maomettani lasciano la polvere delle strade sulla suola dei loro sandali alla porta delle moschee. |
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Uscendo
da Notre-Dame mi sono detto: “Eh bene! Di fronte a tutto questo cos'è
la mia cappella?”… Allora mi sono detto: “E' un fiore. Non è che un
fiore, ma è un fiore”. |
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Io
medito e lascio penetrare in me ciò a cui do inizio. Io non so se ho o
no la fede. Potrebbe darsi che io sia piuttosto buddista. L'essenziale è
di lavorare in uno stato di spirito, prossimo a quello della preghiera
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Ho detto, a Picasso: Sì,
io faccio la mia preghiera, e voi anche, e voi lo sapete molto bene:
quando tutto va male, noi ci gettiamo nella preghiera, per ritrovare il
clima della nostra prima comunione. E voi lo fate. Voi anche. Non mi ha
detto di no.
Quei disegni là, bisogna che vi escano dal cuore |
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In fondo, Picasso, non dobbiamo fare i maligni. Voi siete come me: ciò che noi tutti cerchiamo di ritrovare nell'arte, è il clima della nostra prima comunione. |
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Come è curioso. Si è condotti, non si conduce mica. Io non sono che un servitore [63]. |
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Il mio lavoro consiste nell'imbevermi delle cose. E dopo, tutto questo rifluisce fuori [64]. |
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Io sono fatto di tutto ciò che ho visto [65]. |
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Questa
opera mi ha domandato quattro anni di un lavoro esclusivo ed assiduo,
ed essa è il risultato di tutta la mia vita attiva... Lo considero,
malgrado tutte le sue imperfezioni, come il mio capolavoro… uno sforzo
che è il risultato di tutta una vita consacrata alla ricerca della
verità |
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Una domenica, Matisse mi telefonò per domandarmi se poteva venire alla cappella alle 17.00:
-Sì, mio signore, ma ci sarà la preghiera corale, la benedizione con il Santissimo, Sacramento, seguita dall'ufficio. -Io vi disturbo? -Per niente, l'ho detto per voi. -Bene, allora io vengo. Venne. Volle assistere alla preghiera corale, alla benedizione con il Santissimo e all'ufficio recitato dalle suore. Ogni tanto gli domandavo se preferiva uscire, ma mi faceva segno di no. Quel giorno se ne andò felice; aveva visto la cappella “in servizio”, la sua opera associata alla vita tal quale doveva essere da allora in avanti. |
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