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venerdì 17 febbraio 2012

medioevo,


La storica Montesano: «l’Inquisizione? Questione protestante e rinascimentale»
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La leggenda dell’Inquisizione viene spesso usata, oltre per attaccare il cattolicesimo, anche per tenere viva l’accusa al Medioevo di essere un “periodo buio”. Tanto buio che tutte le più grandi invenzioni, dagli ospedali alle università, emersero proprio in quell’arco storico! Tuttavia sono leggende popolari, per l’appunto, mentre gli storici hanno già più volte dimostrato di pensarla diversamente. E’ il caso recente di Marina Montesano, ricercatore di storia medievale presso l’Università di Genova la quale, in un articolo per “Il Manifesto”, recensisce due libri storici sulla “caccia alle streghe” appena pubblicati.
Il suo giudizio a ristabilire la verità sul Medioevo è netto: «proprio durante il fiorire del Rinascimento si elaborarono idee e strumenti atti a perseguire le streghe, e fu in piena età moderna che si registrarono in Europa le condanne più gravi e numerose». Continua, «per la caccia alle streghe si può schematicamente delineare uno sviluppo in tre fasi differenti: un diffondersi sporadico di processi e condanne capitali che terminò intorno al 1550-1560; un incremento notevole tra quest’epoca e il 1660, fase che costituì l’apice della caccia in Europa; dopo questa data e fino alla metà del XVIII secolo si ebbe una diminuzione generalizzata dei processi, ma anche il loro arrivo in aree precedentemente risparmiate». I numeri non sono poi certo quelli propagandati dai vari Corrado Augias & Co: «la storiografia è in grado di proporre dati probabili: nell’intero periodo tra metà Quattrocento e metà Settecento le condanne alla pena capitale oscillano tra le 40mila e le 60mila, nonostante la pubblicistica in materia dia spesso cifre palesamente assurde, che arrivano addirittura a parlare di milioni di vittime».
E’ importante anche concentrarsi sull’area geografia maggiormente coinvolta in questa pratica, ovvero quella germanica e protestantizzata: «un’area, quella tedesca del Sacro Romano Impero, comprendente territori cattolici quanto protestanti, in cui la caccia alle streghe mieté il numero maggiore di vittime. È una disparità che colpiva anche i contemporanei, se il gesuita Friedrich Spee poteva scrivere, nella serrata critica alle modalità dei processi tedeschi espressa nella Cautio criminalis del 1631, che la Germania sembrava essere «tot sagarum mater»: «madre di così tante streghe». Circa la metà delle condanne capitali europee furono comminate in Germania». E la causa, continua la storica, fu sopratutto la Riforma e l’estrema frammentazione del potere politico: «Lutero e Calvino non sembrano aver dato molto peso alla stregoneria e nessuno dei due riformatori elaborò una forma di demonologia innovativa, ma il Diavolo esercitava a loro avviso un potere reale nel mondo; i riformatori facevano dunque dell’impegno contro Satana quasi un’ossessione. È indubbio che, essendo le streghe emissarie del diavolo e complici nei suoi misfatti, nel mondo riformato si ponevano le premesse per una «caccia» intensa e determinata».
I revisionisti anti-cattolici citano anche ossessivamente l’Inquisizione spagnola (area cattolica) come il capro espiatorio della caccia alle streghe. Ma la Montesano chiarisce: «Il paragone tra la Germania e la Spagna è istruttivo: nella penisola iberica, vittima di una secolare «leggenda nera», si ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale; i tribunali erano infatti restii a comminare la pena capitale, preferendo generalmente condanne più blande. Inoltre, le accuse erano più simili a quelle tradizionali di magia, piuttosto che di stregoneria per così dire «moderna», cioè corredata di patti e omaggi demoniaci, volo magico, infanticidi e via dicendo». Quante furono le streghe condannate a morte in Spagna? «più di cento in Catalogna nei soli anni 1610-1625, ma venti-trenta sotto l’Inquisizione negli oltre cento tra 1498 e 1610. In totale le condanne a morte dovrebbero aggirarsi intorno alle 300». Ancora meno se l’autorità centralizzata fosse stata forte e capace di incidere.
Riassumendo dunque si può dire che il Medioevo ebbe davvero poco a che vedere con la “caccia alle streghe”, attività che in grandissima parte avvenne in ambito protestante. Il pensiero è decisamente simile a quello di Jean Dumont, uno dei maggiori specialisti mondiali sull’Inquisizione spagnola, il quale in quest’interessante intervista aggiunge un dato sulla presunta e “terribile macchina da morte” spagnola: «nell’epoca di maggiore voga della tortura, in Spagna, a Valenza, su duemila processi dell’Inquisizione, nell’arco che va dal 1480 al 1530, sono stati ritrovati dodici casi di tortura».

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medioevo, inquisizione

sabato, 12 novembre 2011

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medioevo, moulin

giovedì, 03 novembre 2011
Ospedali monastici: la cura nasce dalla fede


di: Francesco Agnoli
01-11-2011
 

 
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Presentiamo un capitolo tratto dal libro "Case di Dio e ospedali degli uomini"(Fede e Cultura, pagine 120, Euro 13.50).

L’ospitalità monastica, per secoli la più organizzata ed influente, fu promossa soprattutto da Basilio, in Oriente, da Cassiodoro (ca. 485-580) e da san Benedetto da Norcia (480-547), in Occidente.
Di San Basilio (329-379) si è già ricordato che fu il fondatore del primo e più grande ospedale in Oriente. In esso trovavano rifugio poveri, lebbrosi, bambini abbandonati…

Basilio non era solo un uomo di religione, né solo di carità. Seguace di un Dio Logos, cioè Ragione, e Caritas, cioè Amore, univa alla pratica dell’assistenza un forte interesse “laico”, speculativo, per la medicina. “Non è certo che nelle istituzioni monastiche basiliane fosse compresa in modo sistematico anche la Medicina, però ci sono chiare testimonianze di quanto questa attività fosse presa in considerazione”. Basilio, i cui monasteri si diffondono anche in Italia meridionale,  si avvaleva dell’aiuto dei monaci, ma anche di infermieri laici, detti “parabolani”, regolarmente pagati, che “assolvevano l’incarico di raccogliere malati per le strade della città o nelle contrade di campagna e di portarli negli ospedali a dorso di mulo o, più spesso, sulle proprie spalle” .

Se ci spostiamo in Occidente, troviamo la figura gigantesca di Cassiodoro, che nel suo monastero di Squillace, in Calabria, “non solo raccomandava lo studio della Medicina, ma si era assunto l’incarico di insegnare in prima persona”, e soprattutto si dedicò a raccogliere 235 volumi di medicina scritti in greco e tradotti in latino dai suoi monaci.

In un’epoca in cui quasi nessun laico, né alcuna autorità politica pensava minimamente alla medicina, Cassiodoro contribuì a salvare un patrimonio di secoli che altrimenti sarebbe andato perduto.

Egli invitava i suoi monaci a leggere Ippocrate e Galeno, e nello stesso tempo raccomandava di mettere le loro conoscenze al servizio dei fratelli: “Ma a voi mi rivolgo, egregi fratelli, che trattate con diligente curiosità la sanità del corpo umano e rifugiandovi nei luoghi sacri eseguite una beata pietà: tristi per l’altrui sofferenze, mesti per gli altrui pericoli, trafitti dal dolore di quelli che intraprendete a curare e sempre, nelle sventure altrui, oppressi dal proprio affanno, servite con cuore sincero coloro che languiscono, come conviene alla perizia dell’arte vostra…” .

Quanto a San Benedetto, patrono d’Europa, al capitolo XXXVI della sua regola invitava i suoi monaci a “prendersi cura prima di tutto e sopra tutto dei malati. Bisogna servirli come fossero Cristo stesso, che veramente è in essi e che in essi viene veramente servito. Perché Egli ha detto: ‘ ciò che avrete fatto al più piccolo di costoro, lo avrete fatto a me’ ”.  Questa cura fu praticata, inizialmente, all’interno del monastero, ma successivamente il “monaco infirmario uscì dalle mura conventuali per recarsi a curare malati nel loro domicilio…” . Ovviamente, la cura benedettina e monastica in generale, univa la somministrazione di farmaci, di salassi, di clisteri, di decotti, di massaggi, di elisir, di pomate, di cataplasmi, empiastri, e toccasana di vario tipo, con preghiere, benedizioni, imposizione delle mani… Non perché vi fosse una strana confusione, come è tipico del mondo antico, tra religione e medicina, ma al contrario, per una chiara conoscenza, per quanto l’epoca lo permettesse, dell’uomo, che è anima e corpo. Infatti si può dire tranquillamente che i monaci aromatari e i frati speziali dei conventi, che nelle loro spezierie preparavano infusi e medicamenta vari, raccoglievano, lavoravano e descrivevano le erbe, sono stati i “primi protagonisti di una attività farmaceutica posta istituzionalmente al servizio del malato e della comunità” .

Nei monasteri, come si è detto, la spinta verso l’aiuto ai fratelli nasceva dalla fede, dall’identificazione del povero e del malato (pauper infirmus) - non vi era una chiara differenza tra i due, anche perché la povertà era spesso, a quei tempi, causa di debilitazione e di malattia-  con Cristo sofferente; ma questa spinta conviveva con una grande apertura verso la scienza e le sue regole in quanto tale, come è dimostrato dal fatto che tutti i testi medici dell’antichità sono stati conservati proprio dagli archivi monacali.

Cassiodoro, Basilio, Benedetto, non condannavano la medicina antica, in quanto pagana, ma la valutavano, al contrario, per i suoi meriti oggettivi, che nulla avevano a che vedere con la religione di chi li aveva scritti.

Scrive Giuseppe Penso: “Questi centri medici monastici non furono soltanto ricoveri ospedalieri, ma centri di insegnamento dove accorrevano i giovani desiderosi di apprendere le nozioni mediche dei manoscritti greci e latini, gelosamente conservati in quelle abbazie, e dove accorrevano, da tutta Europa, malati per farsi curare” .

A Chartres, a Cluny, a san Gallo, a Montecassino, Roma, Farfa e a Fossanova, dove i monaci curavano i malarici, a causa delle paludi, si studiava la medicina antica e si gettavano le basi per una medicina futura, non legata alle superstizioni popolari.

“Così, dal VI secolo al X secolo, i monaci italiani e molti chierici insegnavano la Medicina ed esercitavano tanto la medicina insegnata quanto quella praticata, appresa dai libri greci e latini, distinguendola però dalla Medicina soprannaturale e dalle pratiche religiose. Essi studiavano la Medicina come scienza. Il rispetto che avevano per le esigenze proprie di questa scienza li portava a concepire le due attività come ben distinte: l’esercizio clinico della Medicina andava conseguito con mezzi naturali e in base a cognizioni scientifiche, le pratiche religiose andavano sostenute dalla fede nel potere divino e dalla speranza nella grazia della provvidenza” .
Era dunque riconosciuta allo studio della Medicina, una sua “autonomia”, senza però che l’attività caritatevole si limitasse alla cura del corpo.

Per questo il già citato Cassiodoro raccomandava ai suoi monaci: “Imparate quindi la natura delle erbe… ma non riponete l’unica speranza nelle erbe, non ricercate salvezza soltanto negli umani consigli”, mentre Gerberto, successore di Benedetto, dimostrando una notevole comprensione della distinzione tra medicina e religione, affermava: “Nell’esercizio delle cose mediche non vale far uso della mia autorità di abate”.

Si produsse così “tra vita religiosa e attività medica un innesto quasi naturale, come se la medicina avesse finalmente trovato nella chiesa il sostegno che andava cercando”. Anche perché l’istituzione religiosa metteva “a disposizione i suoi mezzi (gli scriptoria, i monasteri, gli ospedali, ndr) per il sostegno di iniziative scientifiche”, destinate quindi ad una espansione che l’Antichità non avrebbe mai potuto raggiungere .

“Nel IX secolo, scrive Giorgio Cosmacini, l’organizzazione sanitaria di ogni grande monastero non era molto diversa da quella vigente intorno all’anno 820 nel convento di san Gallo: un infirmarium, o ‘infermeria’, con un cubiculum valde infirmorum, o ‘sala di degenza per malati gravi’, e con un giardino di piante medicinali, un locale per clisteri e salassi e un altro locale dotato di armarium”, cioè di un armadio di libri e spesso anche un armarium pigmentorum, cioè un armadio di medicinali” . In più, spesso, la presenza di una balnearum domus, per i bagni, e di una domus medicorum, riservata ai medici.

Non estranea a questa storia monastica fu la prima Schola medica medievale, la celeberrima Schola di Salerno (che a volte viene presentata, un po’ impropriamente, come la prima università). Scrive  G. B. Scarano: “non è da escludere che alla nascita di questa scuola abbia influito l’indirizzo di studi e di pratica della vicina abbazia di Montecassino; è accertato che già nel VI secolo esisteva a Salerno un chiostro benedettino con annesso ospizio-ospedale e che a Salerno comparvero, nei secoli seguenti, numerosi monasteri forniti di locali per il ricovero e l’assistenza di malati e pellegrini, fenomeno questo presente, del resto, in tutte le regioni d’Italia” .
Nei monasteri benedettini, inoltre, si praticava in generale un’ ospitalità a 360 gradi. Infatti il monaco, divenuto volontariamente “povero di Cristo”, doveva avere un occhio di riguardo verso i poveri involontari (pauperes inviti, ma anch’essi pauperes Christi) e solitamente si dedicava loro la decima parte dei redditi del monastero, delle elemosine e dei donativi, oltre a ciò che rimaneva dai frequenti digiuni, imposti dalla regola per insegnare ai monaci l’autocontrollo, la partecipazione alla Passione di Cristo, l’attenzione verso i bisognosi. Per secoli i poveri giungevano alla porta dei monasteri per cercarvi un “asilo di pace”, aiuto e cibo.

La liturgia dell’ospitalità”, scrive il grande storico della povertà Michel Mollat, cominciava “alla porta del monastero”: qui il cellario o il padre portinaio, spesso scelto per le sue virtù, doveva distinguere tra le varie categorie di mendicanti, e dar vita al cerimoniale di accoglienza. All’ospite si lavavano e si baciavano i piedi (mandatum), come aveva fatto Cristo con i discepoli insegnando loro a “servire” e non ad “essere serviti”, e poi si offriva da mangiare, in foresteria, se malato, o nell’hospitale pauperum. Venivano forniti viveri anche a coloro che si rimettevano in viaggio,  e soprattutto a coloro che si presentavano di giorno in giorno alla porta (pauperes supervenientibus). “Sono ben note le razioni date a Corbie: pane, birra, qualche volta vino, legumi, formaggio, lardo e talvolta anche carne. Si distribuiscono anche scarpe e vestiti usati dai monaci, coperte, legna per scaldarsi e per cuocere i cibi, utensili di uso comune. Qualche volta, a partire dal secolo IX, si dona anche denaro”. Inoltre i monasteri organizzavano periodiche distribuzioni, in occasione di festività come Natale, Pasqua, Ognissanti, e la visita settimanale ai poveri ammalati nelle loro case.

L’abate Smaragdo di Verdun, nel suo “Commento alla regola di san Benedetto”, invitava i suoi monaci alle opere di misericordia, esortandoli a visitare gli infermi, a ricercare i poveri nel timore che dormissero all’aperto, ad accogliere quelli di essi che bussavano alla porta del convento, confortandoli (recreare pauperes) con gioia (libente animo) e allegria (cum hilaritate): tra i poveri in particolare raccomandava i fanciulli (infantes) e i vecchi, tra i quali annoverava anche i deboli di mente .
da:La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online

Postato da: giacabi a 14:21 | link | commenti
medioevo, agnoli

lunedì, 07 febbraio 2011

Imparare a leggere

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Pigi Colognesi

lunedì 7 febbraio 2011
Jean Leclercq - qualche giorno fa si è celebrato il centenario della sua nascita - era un monaco benedettino ed è stato uno dei massimi studiosi del pensiero e della spiritualità monastica del Medioevo.
A lui si deve un decisivo allargamento di prospettiva in questi studi; egli, infatti, ha dato un contributo fondamentale alla riscoperta della «teologia monastica», cioè di quella che non si faceva nelle università e nelle scuole - «scolastica» - bensì nei monasteri. Una teologia che non punta prioritariamente all’elaborazione teorica e sistematica, ma all’immedesimazione esistenziale, al cammino spirituale.
Nel suo capolavoro Cultura umanistica e desiderio di Dio (fortunatamente ripubblicato in Italia nel 2002) Leclercq ricorda che la molla che spingeva tanti uomini del medioevo a farsi monaci era, in sintonia con l’impostazione di san Benedetto, esattamente il «desiderio di Dio». A questo era finalizzato ogni aspetto della vita, compreso lo studio (l’originale francese del titolo non parla di «cultura umanistica», ma di un più chiaro amour des lettres, che potremmo leggere come «passione per la conoscenza»).
Nel crogiuolo di questi due elementi, presi nel giusto ordine gerarchico, è fiorita, la grande sapienza di san Bernardo di Chiaravalle, uno degli autori più studiati da Leclercq, e di molti altri da lui riscoperti.
Cultura umanistica e desiderio di Dio, spiegando formazione, fonti e frutti della cultura monastica, è ricchissimo di spunti d’insegnamento anche per noi oggi. Esemplifico riportando alcuni brani in cui Leclercq illustra che cosa significasse per i monaci medievali leggere e riflettere su quanto si è letto.
Per noi, quando non è una frettolosa ricerca di stimoli o di informazioni che subito svaniranno, la lettura è sostanzialmente il tentativo di immagazzinare dei concetti. Per i monaci, mossi dal «desiderio di Dio», era operazione del tutto differente; per loro «leggere un testo era impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica».
Dunque, un atto che coinvolge tutto l’io e non solo i neuroni del suo cervello. Questo metodo, scrive più avanti Leclercq, «porta a riconoscere grande importanza al testo e alle singole parole». Tanto che i teologi monastici chiamavano la loro riflessione ruminatio, proprio come fa un bovino che ha appena pasturato.
Riflettere «significa aderire strettamente alla frase che si ripete, pensarne tutte le parole per giungere alla pienezza del loro senso». È un’azione che «assorbe e impegna tutta la persona» e si trasforma «necessariamente in una preghiera».
Mi pare una modalità da riscoprire nella nostra superficiale frenesia di lettori sbadati. Del resto, dice ancora Leclercq, i monaci avevano un compito, quello di «mostrare, con la loro stessa esistenza, la direzione in cui bisogna guardare». Non solo nel Medioevo.

Postato da: giacabi a 21:35 | link | commenti
medioevo, studiare

mercoledì, 05 gennaio 2011

La scienza nel Medioevo Europeo

di Peter Hodgson da Tracce 02.01.2009

Parliamo del rapporto tra la scienza e la fede. Molto spesso, nei libri di testo, si può leggere che c’è un conflitto tra fede e scienza. Lo dicono in molti. La cosa più importante che ho da dirvi oggi è che c’è un rapporto di tipo organico tra la fede e la scienza: la fede è alla base di tantissime cose, anche della scienza.
Se per un attimo pensiamo alle grandi civiltà che si sono avvicendate nella storia (prendiamo per esempio i Babilonesi, gli Egizi, i Greci, le civiltà dell’India, della Cina, quelle americane come Aztechi, Incas, Maya...), in quelle civiltà vediamo parecchi trionfi dello spirito umano. Troviamo esempi di architettura splendida, un’enorme capacità di lavorare metallo, ceramica, legno e pietra. Soprattutto nelle civiltà greche, troviamo grandi esperti di matematica e, in qualche modo, anche di fisica. Nessuna di queste civiltà, però, possiede una qualsiasi caratteristica della scienza moderna. Occorre distinguere tra quella che io chiamo la scienza primitiva (le conoscenze che si acquisiscono con strumenti empirici) e la scienza moderna, basata invece su una comprensione dettagliata di come funziona la materia attraverso le equazioni differenziali. Questa, in pratica, è una scoperta unica nel suo genere, conseguita dalla civiltà dell’Europa occidentale.

Soffermiamoci un attimo sullo sviluppo della scienza nella nostra civiltà. Quali condizioni servono affinché si sviluppi una scienza? In primo luogo, occorre una società sviluppata al punto che molti (i più fortunati) possono passare il tempo a pensare a determinate cose, senza preoccuparci a cosa mangeranno quel giorno. C’è inoltre bisogno di un linguaggio per elaborare le cose (la matematica) e di metodi di comunicazione (la scrittura). Questi sono i prerequisiti materiali per la scienza. Ma tutto ciò era presente nelle civiltà antiche. Cosa manca a questa struttura? Mancano le convinzioni necessarie perché abbia inizio la scienza: che la materia sia bene e che valga la pena passare la vita (dal punto di vista dello scienziato) a capirla nella sua complessità. Bisogna anche credere che la materia sia ordinata, cioè si comporti in maniera costante e coerente (per cui ciò che arrivo a scoprire vale anche il giorno successivo e in altri luoghi). In terzo luogo, bisogna anche credere che la materia sia accessibile alla mente umana, cioè bisogna cercare di comprendere la materia in un compito che abbia una qualche garanzia di successo. Nel fare esperimenti di laboratorio, bisogna essere consapevoli che qualcosa va sempre storto e occorre perseverare per ottenere un risultato, anche buono. Bisogna essere convinti che vale la pena di portare a termine l’impresa cominciata. E che le conoscenze ottenute dagli studi della materia siano valide per se stesse. Successivamente si può scoprire, però, che queste conoscenze possono avere anche utili implicazioni pratiche. È un fatto importante, perché così tutta la società avrà una considerazione positiva della nostra disciplina e sarà disposta a sostenere gli scienziati nel loro lavoro. Tutte queste convinzioni sono necessarie perché si sviluppi la scienza. Guardando le antiche civiltà, si vede che molte di queste convinzioni (quasi tutte) non ci sono state. Ecco perché la scienza in queste antiche civiltà non si è sviluppata.

Diamo ora uno sguardo alla storia dello sviluppo della scienza. In primo luogo, bisogna riconoscere l’enorme contributo degli antichi greci e, prima ancora, dei babilonesi, che hanno effettuato importanti osservazioni astronomiche e calcoli matematici. In particolar modo, gli antichi greci hanno avuto importantissimi filosofi il cui contributo è stato quello di porsi le domande giuste. Per avere una risposta, infatti, bisogna porsi la domanda giusta. Questa è stata la più grande conquista degli antichi greci. Per esempio si sono chiesti: «Come possiamo comprendere il mondo che ci circonda? Forse è il risultato della combinazione di determinate particelle fondamentali di un tipo o dell’altro, e cercando di scoprire queste particelle possiamo vedere come è nata la complessità del mondo». Hanno fatto determinate ipotesi e si sono domandati: esiste una realtà microscopica? Si sono posti le domande giuste senza ancora trovare una risposta definitiva. Aristotele riteneva di poter scoprire la natura delle cose semplicemente pensandoci. Posso in questo modo conoscere un triangolo e calcolarne le proprietà. Ma la materia non è un oggetto aperto alla mente umana, dobbiamo osservare attentamente le cose, condurre esperimenti e gradualmente cominciare a capire. Aristotele utilizzava argomentazioni, diceva che i pianeti e le stelle sembrano essere corpi incorruttibili che si muovono secondo una forma perfetta. Essendo il cerchio la forma più perfetta, ha concluso che dovevano muoversi in cerchio. Purtroppo era un approccio sbagliato, quindi (malgrado tutta la sua gloria) la scienza greca non si è mai perpetuata nel tempo.
Occorreva un nuovo inizio, un nuovo punto di partenza per allontanarsi da questi principi. E il nuovo inizio è avvenuto da una regione inattesa. Tra i grandi imperi (Siria, Egitto, Babilonia) c’era una tribù che migrava: gli israeliti. Gli israeliti hanno conservato il loro credo in un unico Dio, che aveva creato tutto esattamente nel modo in cui voleva che fosse. E questo ha rappresentato l’inizio di idee che alla fine, nel corso di diversi secoli, hanno portato allo sviluppo della scienza. Per loro la materia era buona («Dio vide ciò che aveva fatto ed era buono», dice la Genesi). Per loro Dio era un essere razionale: tutto ciò che crea automaticamente è razionale. Inoltre il mondo è aperto alla mente umana: sempre nel primo capitolo della Genesi all’uomo viene ordinato di riempire la terra e conquistarla, il che implica che l’uomo possa capire il mondo. Il mondo è prezioso e la sua conoscenza è più preziosa dell’oro e dell’argento e va liberamente condivisa. Queste sono state le premesse che hanno portato al fondamento della scienza. Poi è arrivato l’evento centrale della storia: l’incarnazione di Cristo, che ha ulteriormente nobilitato la materia (essendo adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo). L’incarnazione di Cristo è stato un evento unico nel suo genere, che immediatamente ha posto fine a un’idea presente in tutte le antiche civiltà.
Per tutte le civiltà antiche, inclusi i greci, il tempo era ciclico. Dunque tutto quello che succedeva era già successo nel passato e si sarebbe ripetuto nel futuro. Penso che questa convinzione sia molto scoraggiante: se qualcosa è già successo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che succederà? L’incarnazione di Cristo, invece, ha spezzato questa credenza, fornendo ulteriori convinzioni per la scienza. Nei primi anni della Chiesa si è discusso molto sulla natura del Cristo; spesso dovevano essere risolte delle controversie su questo argomento. Nel Concilio di Nicea (325) sono stati definiti praticamente gli elementi essenziali della fede cattolica ripresi oggi durante la Messa, ma sono state anche definite diverse condizioni essenziali per la scienza. Che all’inizio Dio creò tutto, in cielo e in terra. Che solo Cristo fu generato della stessa sostanza del Padre (un elemento importante, perché ha eliminato il concetto del panteismo: la materia è creata e non generata). Che tutto fu creato attraverso Cristo (e questo esclude il dualismo di alcuni filosofi antichi, tra le forze del bene e quelle del male in conflitto). Stabilendo che tutto fu creato attraverso Cristo, il Concilio di Nicea diceva che tutto è bene. Dunque le convinzioni che vengono dagli ebrei nel Vecchio Testamento e da Cristo nel Nuovo Testamento rappresentano le convinzioni necessarie per lo sviluppo della scienza.
Naturalmente c’è voluto tempo perché tutto ciò avvenisse e queste idee fossero assorbite dalla coscienza umana e si diffondessero in tutta la società. All’inizio i cristiani erano una minoranza oggetto di persecuzioni, quindi non si poteva avviare una vera e propria scienza (anche se c’erano molti filosofi che già nel VI secolo avevano iniziato a sviluppare idee che avrebbero portato importanti frutti). Soltanto nel Medioevo la società era permeata da credenze cristiane ed è stato in quel momento che la scienza ha potuto avere inizio. Gli insegnamenti, nel Medioevo, si basavano molto sugli insegnamenti dei filosofi greci Aristotele e Platone. Nuove università vennero fondate in Europa dalla Chiesa per facilitare la discussione e la diffusione della teologia e della filosofia. Le prime sono state aperte proprio in Italia, a Bologna e a Padova, quindi oltre le Alpi sono state fondate le Università di Parigi e Praga. E molte altre ancora, andando sempre più a Nord (tra queste, la mia di Oxford). Queste Università erano centri di intensa discussione e argomentazione. L’insegnamento veniva fatto sulla base dei testi di Aristotele: elaborandoli, leggendoli, cercando di capirne il significato. Quando però Aristotele era in disaccordo con i principi cristiani, veniva abbandonato. Per esempio, Aristotele pensava che il mondo fosse eterno (mentre noi sappiamo che è stato creato), quindi su questo punto di vista veniva lasciato perdere.
Un importante filosofo parigino, Giovanni Buridano, ha affrontato i problemi del moto; così ha avuto inizio la fisica. Buridano si è chiesto: perché se, per esempio, prendo qualcosa da terra e lo getto, continua a muoversi? Secondo Aristotele, tutto ciò che viene mosso si muove perché c’è un elemento che lo muove. Buridano si è chiesto: cos’è che permette all’oggetto di continuare a muoversi, una volta che ha lasciato la mia mano? I greci avevano avuto alcune ipotesi in questo senso, relativamente al movimento dell’aria che spingeva l’oggetto. Buridano ha pensato a questa cosa nel contesto della creazione: Dio, creando le cose, non le ha create in modo statico, ha creato le cose in movimento e quindi ha dato loro un impeto. Ha avuto questa idea dell’impeto secondo cui, una volta che gettiamo un oggetto, gli forniamo un impeto, che adesso è noto come movimento. Ha così formulato quella che poi sarebbe diventata la prima legge del moto di Newton: tutto quello che viene gettato continua a muoversi per propria forza interna.
Quindi, gradualmente, secondo questo processo, sono state ipotizzate diverse cose e le idee di Aristotele (che avevano impedito lo sviluppo di una vera e propria scienza per due millenni) sono state modificate. Aprendo la strada al Rinascimento.

Non soltanto a livello di scienza, ma anche ad altri livelli, il Medioevo ha dato un importante contributo. Per esempio, anche per quanto riguarda la tecnologia (un aspetto non sempre riconosciuto). La tecnologia è l’applicazione della scienza, con l’obiettivo di rendere più semplice il lavoro. I pionieri si ritrovano nei monasteri: da qui provengono moltissime novità dal punto di vista tecnologico; idee che arrivavano da altre civiltà, alcune dalla Cina. Ma nei monasteri c’erano mulini ad acqua e a vento, sistemi per macinare il grano e per tagliare il legno. Per riuscire a rispettare gli orari di preghiera importanti per il monastero, sono stati realizzati qui i primissimi orologi meccanici. In seguito sono stati installati anche nel centro delle città per regolare il commercio, ma l’idea è venuta proprio dai monasteri. Dunque, non soltanto la scienza, ma anche la tecnologia viene dalla rivoluzione che è stata portata avanti da queste convinzioni cristiane. Una volta spianata la strada, nel Rinascimento si è cominciato a costruire sulle spalle dei giganti del Medioevo: così è stato possibile lo splendore della scienza grazie a Brahe, a Keplero e a Newton, che con le leggi del moto ha avviato e portato a maturità tutta la scienza moderna. Le radici della nostra conoscenza scientifica e della tecnologia sono da ricercarsi nella fede cristiana.

Postato da: giacabi a 19:12 | link | commenti
medioevo, hodgson peter

venerdì, 10 settembre 2010

Salvata Sakineh, ma lapidato il Medioevo

9 settembre 2010 / In Articoli
C’è un diritto all’ignoranza, ma per la povera gente che non ha potuto studiare, non per i premi Nobel, né per i “maestri del pensiero” che pontificano dalle prime pagine dei giornali prendendo topiche imbarazzanti.
Non si può far la guerra al pregiudizio usando i pregiudizi (più sciocchi), non si può combattere l’oscurantismo esibendo la più crassa ignoranza.
Tanto meno per una causa nobile come la salvezza definitiva della povera Sakineh, la ragazza iraniana dallo sguardo dolce e triste, di cui ieri è stata sospesa la lapidazione.
A cosa mi riferisco? Alla prima pagina della Repubblica di ieri. Che, sotto il titolo “L’appello dei Nobel ‘Salvate Sakineh’ ” riportava, in caratteri grandi, questo testuale virgolettato: “Fermiamo l’orrore sul corpo di quella donna. La lapidazione è medievale, una punizione che non esiste nel Corano”.
Assurdità
Mi sono stropicciato gli occhi e ho riletto: “la lapidazione è medievale”. Sotto questa colossale baggianata, riprodotta fra virgolette e in caratteri grandi, la Repubblica ha riportato i nomi dei Premi Nobel Shirin Ebadi, Luc Montagnier, Rita Levi Montalcini, Harald Zur Hausen, Claude Cohen-Tannoudji e Gerhard Ertl.
Ma dall’articolo si evince che la frase è dell’avvocatessa iraniana, premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi che ha testualmente detto: “La lapidazione è una forma di punizione medievale che non esiste sul Corano”.
Lasciamo perdere la seconda parte della frase (“una punizione che non esiste nel Corano”), anche se sospetto che i mullah di Teheran conoscano ciò che dicono il Corano e gli altri testi normativi dell’Islam meglio di noi.
La cosa che mi ha fatto sobbalzare è quell’altra, perché è platealmente falsa: “la lapidazione è medievale”. Non so se la Ebadi intendeva parlare del “Medioevo islamico”, ne dubito perché altrimenti avrebbe dovuto dirlo.
In ogni caso, siccome la Repubblica non esce in Iran, ma in Italia, siccome ha scritto Medioevo tout-court (senza l’aggettivo islamico), siccome questa è la definizione dell’epoca cristiana data dall’Illuminismo e siccome è tipico della cultura europea post-illuminista attribuire al Medioevo cristiano ogni turpitudine, è naturale intendere il “proclama” che ieri stava sulla prima pagina di Repubblica come un anatema contro il Medioevo per antonomasia, il nostro Medioevo.
E allora qui c’è da trasecolare. Quando mai nel Medioevo si sono lapidate le presunte donne adultere? Per scrupolo professionale ho voluto consultare un medievista a 24 carati come Franco Cardini che, ovviamente, ha negato che nel Medioevo i cristiani lapidassero le donne ritenute adultere.
Anzi. La celeberrima pagina del Vangelo in cui Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, prevista dalla legge ebraica di quel tempo, ha segnato una svolta storica. La pietà e il perdono di Dio irrompono nel mondo e lo ricreano.
Gesù liberatore delle donne
Quella pagina è una pietra miliare perché rappresenta in modo drammatico tutta la novità portata da Gesù rispetto all’antica Legge. E’ una rivoluzione che lui dovrà pagare con la vita.
Gesù mostra al mondo la struggente tenerezza di Dio verso i peccatori, rivela il “Padre misericordioso” che corre incontro al figlio scialacquatore pentito e lo riempie di abbracci e onori.
Gesù pronuncia parole durissime proprio contro quelli che si ritengono “perbene”, contro chi pretende di non essere peccatore, di non aver bisogno di perdono e di aver diritto di lapidare gli altri.
Questi “maestri della legge” vengono da lui chiamati “ipocriti” e “sepolcri imbiancati”. Gesù tuona: “Serpenti, razza di vipere! Come potrete evitare i castighi dell’inferno?” (Matteo 23, 4 e sgg). Gesù dice loro provocatoriamente: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno dei cieli” (Mt 21, 31).
Dopo Gesù il mondo non è più lo stesso. Finisce anche l’orrore della schiavitù femminile. Non si uccide più una donna per un suo presunto peccato. Era un orrore che accomunava tutte le civiltà antiche: nella Roma imperiale, patria del diritto, una donna poteva essere ammazzata dal marito o anche dal suocero perfino per motivi futili, come aver bevuto del vino.
Eva Cantarella, nel suo libro “Passato prossimo”, spiega che su una figlia il padre ha diritto di vita o di morte (Ponzio Aufidiano per esempio uccise la figlia innocente quando scoprì che era stata violentata).
E ovviamente il marito può uccidere la moglie in caso di adulterio di lei. Ma non viceversa. Catone diceva: “se sorprendi tua moglie mentre commette adulterio, puoi ucciderla impunemente; se lei sorprende te invece non può toccarti nemmeno con un dito”.
Era pratica sociale accettata la soppressione o l’abbandono delle figlie femmine o anche il cedere la propria moglie come Catone che dette Marzia all’amico Ortensio (anche Ottaviano si fece cedere Livia dal marito).
Con il cristianesimo inizia l’unica, vera e duratura rivoluzione per le donne. E’ con Gesù, letteralmente con la sua venuta, che la donna acquista una dignità che non aveva mai avuto e che, anche giuridicamente, è pari all’uomo. E la più alta fra le creature sarà la Madonna.
Ricordo che perfino Roberto Benigni, nelle sue letture della Commedia dantesca, commentando il XXXIII del Paradiso, che inizia con la celebre preghiera alla Vergine, diceva: “la donna ha cominciato ad avere la possibilità di dire ‘sì’ o ‘no’ da quando Dio stesso ha chiesto a Maria di Nazaret il suo libero sì o no”.
Il medioevo è la prima, grande fioritura della civiltà cristiana ed è finalmente l’epoca della storia in cui non si è più potuto lapidare la donna adultera, né considerare la donna un oggetto su cui esercitare diritto di vita o di morte.
Qualcuno obietterà: ma come, stiamo dandoci da fare per salvare una povera donna dalla barbara lapidazione e tu pianti una grana in difesa del Medioevo. Sì. Perché in definitiva la salvezza delle tante Sakineh sta solo nella novità portata dal cristianesimo. Come è stato per l’Europa.
E’ vero quindi l’esatto contrario di quanto proclamato dalla prima pagina di Repubblica. Proprio il Medioevo segna, nella storia mondiale, la fine di quell’orrore. La Ebadi avrebbe dovuto dire: purtroppo non siamo al Medioevo cristiano.
Ovviamente non è che il Medioevo sia stato pieno solo di santi: gli uomini continuavano a essere peccatori e barbari. Ma si era invertito il corso della storia che andava verso la sopraffazione e la violenza sistematica sui deboli, i vecchi, i malati, i bambini e le donne. Il Medioevo avrà avuto i suoi difetti, ma non lapidava le donne.
Umberto Eco, che è una firma autorevole di Repubblica ed è un appassionato di quell’epoca potrebbe spiegarlo in un attimo alla redazione di quel giornale. Perché è incredibile che il quotidiano più diffuso, un giornale importante come Repubblica cada in questo colossale errore.
Pregiudizi
Come può accadere? Mi dice Cardini: “perché sui media ci sono cose di cui si può parlare male impunemente: il Medioevo è una di queste. E lo si fa per parlar male del cristianesimo su cui tutti si sentono in diritto di sputare”.
C’è un meraviglioso libro della medievista francese Régine Pernoud, pubblicato da Bompiani, “Medioevo. Un secolare pregiudizio”, che demolisce proprio i tanti luoghi comuni calunniosi che dal Settecento sono stati ingiustamente diffusi sul Medioevo. Basati su falsità e ignoranza.
L’ignoranza, il preconcetto nutrito di luoghi comuni, la scarsa conoscenza della storia sono tutti ingredienti di quel, più ampio, planetario pregiudizio anticristiano, anzi “pregiudizio anticattolico”, che il sociologo Philip Jenkins, in un suo libro, ha definito “l’unico pregiudizio ammesso”.
In effetti l’epoca del “politically correct”, che ha messo al bando tutti i pregiudizi basati sull’appartenenza etnica, religiosa, sessuale o sociale, ammette solo quello contro la Chiesa cattolica.
Sulla Chiesa e sui cattolici di oggi e di ieri si possono impunemente sparare sentenze di condanna morale e culturale, immotivate e ingiuste.

Antonio Socci
Da “Libero” 9 settembre 2010

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medioevo, socci

giovedì, 02 settembre 2010

da Il Popolo settimanale della diocesi di Tortona del 7 gennaio 2004

Il medioevo non fu poi così oscuro

don Maurizio Ceriani


La già citata rubrica telematica di Rino Cammilleri “Antidoti”, nel suo numero dello scorso 31 dicembre (http://www.rinocammilleri.it/), ci offre lo spunto per affrontare un altro dei tanti pregiudizi storici, che spesso albergano anche in uomini di cultura: si tratta della presunta misoginia dei secoli medievali sempre addebitata alla Chiesa. Quante volte infatti le espressioni “oscurantismo medioevale” e “roba da medioevo” sono state attribuite a tutta una serie di odierne discriminazioni femminili, vere o presunte che siano, soprattutto nei numerosi dibattiti televisivi che prolificano sulle reti pubbliche e private in sempre crescente numero. Quante volte poi l’immancabile sacerdote o vescovo, ospite di turno, ha dovuto subirsi le conseguenti ire femministe, perché la Chiesa è immancabilmente ritenuta responsabile di ogni discriminazione femminile. Ma tutto questo è poi vero? Il medioevo fu veramente così oscuro? E la Chiesa così avversa alle donne?

La risposta si può facilmente ricavare da una serie di dati che la “cultura” di oggi pare aver dimenticato. Cominciamo col ricordare che nel corso del medioevo si deve, almeno in parte, alle Dame di Salerno la rinascita del sapere medico. Verso la fine dell'XI secolo si riorganizzò l'università salernitana con un annesso centro di medicina, che fu tra i primi in Europa: le donne vi studiavano ed insegnavano. Una di esse era Trotula (Trota De Ruggiero per alcuni storici), che vi insegnò medicina, chirurgia ed ostetricia, insieme al marito Giovanni Plateo il Giovane e ai figli, stendendo con loro l’enciclopedia medica “Practica Brevis”. I consigli di Trotula sono straordinariamente moderni come ad esempio, l'importanza della pulizia, di una dieta bilanciata e dell'esercizio fisico, mentre le sue cure vi avvalevano raramente dell'astrologia o di evidenti superstizioni. Le teorie della Dama Salernitana smentiscono in parte ciò che pensiamo della ginecologia medioevale.

Nel Medioevo le donne medico sono un dato di fatto; curano, dispensano rimedi, vegliano su feriti e malati tanto quanto gli uomini. Il re di Francia san Luigi IX, partendo per la sua spedizione in Terra santa condusse con sé come medico non un uomo, ma una donna di nome Hersent. Nelle campagne come nelle città, nei secoli XII e XIII, le donne medico sono presenti e arrivano persino a ricoprire cattedre universitarie, come avviene per esempio a Bologna con Dorotea Bucca (1360s – 1436) che occupò la cattedra di medicina ed ebbe studenti provenienti  da ogni parte d’Europa.

Tutto questo accadeva nel “buio” medioevo, mentre ben dopo, dalla fine del medioevo all’Illuminismo e nei secoli del “progresso”, registriamo altre tendenze. Dagli inizi del secolo XIV le donne che praticano la medicina saranno conosciute ormai soltanto per i processi che verranno intentati contro di loro dall’Università di Parigi, la quale esigerà un diploma che esse non potranno esibire. La conseguenza fu che per molti secoli le donne non potranno più esercitare l’arte medica nell’ufficialità e verranno relegate ad una illegalità, che nei paesi della Riforma protestante coinciderà spesso con l’accusa di stregoneria. Tra i molti è emblematico, in pieno secolo XIX nella massonica e liberale Inghilterra, il caso di Elisabeth Garrett Anderson, che ogni qualvolta superava con onore gli esami dei suoi corsi veniva consigliata di tenere segreti i suoi successi, finché nel giugno del 1861 quando un medico in visita alla classe pose agli studenti delle domande a cui solo Elisabeth fu in grado di rispondere, i maschi chiesero che abbandonasse il corso.

Per nascondere quello che fu ritenuto il disonore dell’intera università fu bandita dalle altre lezioni e in seguito espulsa dall’ospedale di Londra; la Garrett non si arrese; sognava ancora una laurea universitaria, decise quindi di imparare il francese e si iscrisse all'Università di Parigi, che aveva iniziato ad ammettere le donne nel 1868, fu la prima a sostenervi gli esami e si laureò nel 1870 discutendo una tesi sull'emicrania. Contemporaneamente un gruppo di donne tentò di conquistare l'ammissione alla scuola di medicina di Edimburgo organizzandosi le classi per proprio conto; sfortunatamente le donne erano troppo brave e così gli studenti maschi insieme con alcuni insegnanti e medici non poterono che percepirle come una minaccia ed insorsero. Le donne portarono il loro caso in tribunale, ma persero.

Non andò meglio neppure nelle altre branchie del sapere giacché si assiste dal secolo XVI in poi ad ogni sorta di limitazione imposta alle donne; Sophie Germain, una delle più brillanti matematiche francesi, fu costretta ad assumere furtivamente l'identità di monsieur Le Blanc per poter essere ammessa come maschio all'Ecole Polytechnique di Parigi (fondata nel 1794); Emmy Noether, “il più importante genio creativo della matematica sino ad oggi prodotto da quando l'istruzione superiore è aperta alle donne” secondo Einstein, rischiava di non conseguire la libera docenza a Gottingen perché la  maggioranza della facoltà temeva questo: “Cosa penseranno i nostri soldati quando scopriranno di dover imparare da una donna?”.
 
La stessa Marie Curie, in quanto donna, non potè essere professore alla Sorbona, ma le si concesse unicamente di dirigere il laboratorio del marito; solo dopo la morte di lui le venne affidata la cattedra, tuttavia, perchè donna, le fu negata l'ammissione all'Académie de France. Inoltre va qui ricordato quel decreto del Parlamento di Parigi del 1593 che vietava da quel momento alle donne l’esercizio di qualsiasi funzione nell’ambito dello stato. Provvedimenti civili, difficilmente riconducibili all’influenza ecclesiastica, in un epoca che, a differenza del medioevo, può vantare l’affrancamento dello Stato dalla Chiesa.

Negli stessi secoli invece in Italia, dove più forte era l’influenza della Chiesa, e proprio negli Stati Pontifici, nelle facoltà universitarie del “retrogrado” dominio temporale del Papa, avveniva il contrario. Tarquinia Molza, una filosofa del Rinascimento, scrittrice, musicista, vissuta tra Modena e a Ferrara, ricevette nel 1601 a motivo della sua erudizione per sé e per tutti i suoi eredi per sempre. Nel 1700 operò a Bologna, insieme al marito Giovanni Manzolini, il medico anatomo ceroplasta Anna Morandi; a lei si devono numerose scoperte anatomiche. Cominciò a lavorare in casa propria per portare a termine gli impegni presi dal marito e salvarne così il nome. In seguito approfondì gli insegnamenti del marito studiando sui più moderni trattati di anatomia, di cui la loro biblioteca era ben fornita, ed eseguendo delle dissezioni sui cadaveri per poi indagare la funzionalità dei singoli particolari attraverso l'uso del microscopio.

Presto fu in grado di plasmare delle opere che evidenziarono un assoluto rigore anatomico e una perfetta conoscenza della moderna anatomia funzionale, materia che iniziava solo allora ad evolversi dalla pura morfologia descrittiva. Divenuta esperta, insegnò ai giovani utilizzando i preparati da lei stessa eseguiti e puntualmente corredati da diligenti descrizioni. Alla morte prematura del marito nel 1755, l'attività di Anna Morandi venne pubblicamente riconosciuta anche nella sua città natale; fu infatti aggregata all'Accademia Clementina e all'Accademia delle Scienze di Bologna e le fu conferita dal Senato una cattedra di Anatomia con la possibilità di dare lezioni sia nel Pubblico Studio dell'Archiginnasio, sia in casa propria. Negli stessi anni sempre a Bologna brillava nel campo della fisica Laura Bassi; Bassi seppe guadagnarsi la stima della comunità scientifica con le lezioni di fisica sperimentale tenute per trent’anni in casa propria (ma ufficialmente riconosciute e ricompensate), e con le memorie presentate nell’Accademia delle scienze della città. Era stata ammessa a questo prestigioso consesso, come socia onoraria, fin dal 1732, e nel 1745 avrà un posto nella ristretta classe degli accademici Benedettini, istituita dal papa Benedetto XIV allo scopo di incrementarne la produttività scientifica. Le luci dell’illuminismo e le ombre del medioevo forse andrebbero riviste e forse anche ricollocate.

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domenica, 09 maggio 2010

Nicola d'Oresme
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Immagine di 
Nicole Oresme
Vescovo della Chiesa cattolica Nato Ordinato sacerdote Consacrato vescovo Ruoli ricoperti vescovo di Lisieux dal 1377 al 1382 Deceduto Nicole Oresme conosciuto anche come Nicolas Oresme, Nicola d'Oresme o Nicolas d'Oresme (1323 – 11 luglio 1382) è stato un matematico, fisico, astronomo e economista, filosofo, psicologo e musicologo francese. Fu uno dei più famosi e influenti pensatori del tardo Medioevo; fu inoltre un teologo appassionato, traduttore competente, influente consigliere di re Carlo V di Francia e vescovo di Lisieux. Viene considerato uno dei principali fondatori e divulgatori delle scienze moderne e uno dei più originali pensatori del XIV secolo, è considerato un filosofo della Scolastica. Indice [nascondi] * 1 La vita di Oresme * 2 L'attività scientifica di Oresme o 2.1 Matematica o 2.2 Altro sul pensiero di Nicola d'Oresme o 2.3 Musicologia o 2.4 Psicologia o 2.5 Filosofia Naturale o 2.6 Fisica * 3 Note * 4 Bibliografia * 5 Voci correlate * 6 Altri progetti * 7 Collegamenti esterni La vita di Oresme [modifica] Nicole Oresme: Perciò, io davvero non so niente, tranne che saper di non sapere.
Oresme nacque intorno al 1320-1325 nel villaggio di Allemagne ([1], oggi Fleury-sur-Orne) vicino a Caen, nella diocesi di Bayeux in Normandia. Non si sa praticamente nulla della sua famiglia. Il fatto che Oresme frequentasse il Collegio di Navarre, patrocinato e sovvenzionato dalla famiglia reale, un'istituzione per studenti troppo poveri per pagarsi gli studi presso l'Università di Parigi, lascerebbe supporre che provenisse da una famiglia di contadini. Oresme studiò le “artes” a Parigi (prima del 1342), insieme a Jean Buridan (il cosiddetto fondatore della Scuola Francese di filosofia naturale), ad Alberto di Sassonia e forse a Marsilio di Inghen, e lì ricevette il Magister Artium. Una lettera papale ritrovata recentemente, relativa ad un provvedimento che garantiva a Oresme il diritto ad un beneficio, comprova che era già un maestro reggente nelle arti dal 1342. Questo datare così precocemente la laurea nelle arti di Oresme lo colloca geograficamente a Parigi durante la crisi della filosofia naturale di Guglielmo di Ockham. Nel 1348 era uno studente di teologia a Parigi; nel 1356 conseguì il titolo di dottore e nello stesso anno divenne Gran Maestro (grand-maître) del Collegio di Navarre. Molti dei suoi trattati in latino più meditati risalgono a prima del 1360 e mostrano che Oresme era già un filosofo scolastico affermato e con la più alta reputazione; questo attirò l'attenzione della famiglia reale e lo mise in stretto contatto con il futuro Carlo V di Francia nel 1356. A partire dal 1356, durante la prigionìa del padre, Giovanni II, in Inghilterra, Carlo agì come regnante e dal 1364 al 1380, come Re di Francia. Il 2 novembre 1359, Oresme divenne segretario del Re, "secretaire du roi", e nel periodo seguente sembra fosse nominato cappellano e consigliere del Re. Secondo una lunga tradizione, Oresme fu anche il tutore del delfino (che più tardi divenne Carlo V), ma la cosa non è certa. Carlo sembra abbia avuto la più alta stima per il carattere e il talento di Oresme, spesso seguì i suoi consigli e gli commissionò molte opere in francese allo scopo di divulgare le scienze e il gusto per la cultura in tutto il regno. Su insistenza di Carlo, Oresme pronunciò un discorso davanti alla corte papale di Avignone, denunciando il disordine ecclesiastico di quel tempo. Si può dire, senza tema di smentita, che Oresme fu per tutta la vita un amico intimo e consigliere di Re Carlo, "Le Sage", fino alla morte di questi nel 1380. La sua influenza sulla politica progressista, economica, etica e filosofica di Carlo fu probabilmente molto forte, ma un'approfondita indagine di questi fatti non è stata ancora compiuta. Oresme fu la persona più importante di una stretta cerchia di intellettuali alla corte di Carlo, quali Raoul de Presle, Philippe de Mézières. La fiducia da parte del re nelle capacità di Oresme è evidenziata dal fatto che il gran maestro di Navarre fu inviato dal "delfino" a chiedere un prestito alle autorità municipali di Rouen nel 1356 e nuovamente nel 1360. Nel 1361, con il sostegno di Carlo, mentre era ancora gran maestro di Navarre, Oresme fu nominato arcidiacono di Bayeux. È noto che Oresme, fervente filosofo scolastico, abbandonò mal volentieri l'interessante posto di gran maestro. Il 23 novembre 1362, l'anno in cui divenne maestro di teologia, Oresme fu nominato canonico della Cattedrale di Rouen. All'epoca di questa nomina, insegnava ancora regolarmente presso l'Università di Parigi. Il 10 febbraio 1363, fu nominato canonico alla Saint Chapelle, ricevette una semiprebenda e il 18 marzo 1364 fu elevato alla posizione di decano della Cattedrale di Rouen. È probabile che la mano regale di Giovanni II, padre di Carlo, fu influenzata dai suggerimenti del delfino, visti i frequenti cambiamenti di posizione di Oresme.[4] Durante lo svolgimento dei diversi ruoli a lui assegnati di volta in volta nella cattedrale di Rouen (1364-1377), Oresme trascorse molto tempo a Parigi, specialmente per occuparsi degli affari dell'Università. Sebbene molti documenti attestino la presenza di Oresme a Parigi, tuttavia, non possiamo altresì affermare che egli insegnasse anche là a quell'epoca. Con l'inizio delle prolungate attività di traduzione di Oresme su richiesta di Carlo V, egli risiedette in modo continuativo a Parigi, come è provato dalle lettere datate dal 28 agosto all'11 novembre 1372, inviate da Carlo a Rouen. La permanenza di Oresme a Parigi sembra esser stata prolungata da Carlo fino al 1380, quando Oresme iniziò a lavorare alla sua traduzione dell'Etica di Aristotele nel 1369, che sembra sia stata completata nel 1370. La traduzione della Politica e della Economia di Aristotele sembra essere stata completata tra il 1372 e il 1374, il De caelo et mundo nel 1377. Oresme ricevette una pensione dalla tesoreria reale agli inizi del 1371 come ricompensa per il suo grande lavoro. Grazie all'infaticabile lavoro svolto per Carlo e la famiglia reale, , il 3 agosto 1377 con l'appoggio del Re, Oresme ricevette l'incarico di Vescovo di Lisieux. Sembra che Oresme non prese dimora a Lisieux fino al mese di settembre del 1380, e si sa poco riguardo agli ultimi cinque anni della sua vita. Oresme morì a Lisieux l'11 luglio 1382, due anni dopo la morte del Re Carlo e fu seppellito nella chiesa della cattedrale. L'attività scientifica di Oresme [modifica] Oresme è noto principalmente come economista, matematico e fisico, e, come si legge nell'opera di Taschow (Nicole Oresme und der Frühling der Moderne, 2003), anche come musicologo, psicologo e filosofo. Il pensiero economico di Oresme è contenuto in un "Commento sullEtica di Aristotele", la cui versione francese è datata 1370; un "Commento sulla Politica e l'Economia di Aristotele", edizione francese del 1371; e il Trattato sulle Monete(De origine, natura, jure et mutationibus monetarum). Queste tre opere furono scritte sia in latino che in francese; da esse, e specialmente dall'ultima, si evince che l'autore è stato un precursore della scienza dell'economia politica e rivelano la sua padronanza della lingua francese. In questo modo, Oresme divenne uno dei primi fondatori del linguaggio e della terminologia scientifica francese. Coniò un gran numero di termini scientifici in francese ed anticipò l'utilizzo di termini latini nel linguaggio scientifico del 18º secolo. L'opera in francese Commenti sull'Etica di Aristotele fu stampata a Parigi nel 1488; quella sulla Politica e lEconomia nel 1489. Il Trattato sulle monete, fu stampata a Parigi all'inizio del 16º secolo, anch'essa a Lione nel 1675, come appendice all'opera De re monetaria di Marquardus Freherus, è inclusa nella Sacra bibliotheca sanctorum Patrum di Margaronus de la Bigne IX, (Parigi, 1859), p. 159, e negli Acta publica monetaria di David Thomas de Hagelstein (Augsburg, 1642). Il Traité de la première invention des monnoies, in francese, fu stampato a Bruges nel 1477. Per consultare la lista completa delle opere di Oresme si rinvia alla pagina Web della sua bibliografia: Oresme-Bibliography. Per dare un breve cenno dell'eclettico ingegno di Oresme, di seguito citeremo alcuni brani da opere che trattano di matematica, musicologia, psicologia, filosofia naturale e fisica. Sulla rotazione della terra sul proprio asse d'Oresme confutò l'obiezione più diffusa all'epoca che consisteva sul perché una freccia scoccata in aria sulla verticale non cadeva davanti o dietro a chi la scoccava mentre ricadeva sulla persona stessa? La risposta fu che la freccia così lanciata aveva non solo una spinta verticale data dall'arco ma anche un moto orizzontale dato dalla Terra che gira. Matematica [modifica] Il suo contributo più importante alla matematica è contenuto nel Tractatus de configuratione qualitatum et motuum, ancora in forma di manoscritto. Un' edizione ridotta, stampata come Tractatus de latitudinibus formarum di Johannes de Sancto Martino (1482, 1486, 1505 e 1515), è stata per lungo tempo l'unica fonte per studiare il pensiero matematico di Oresme. Nella "qualità" o nella forma casuale, come il calore, gli Scolastici distinguevano lintensio (il grado di calore in ogni punto) e lextensio (come la lunghezza della barra riscaldata). Questi due termini furono spesso sostituiti da latitudo e longitudo, e dai tempi di Tommaso d'Aquino fino al 14º secolo, ci fu un vivace dibattito sulla latitudo formae. Per amore di chiarezza, Oresme ebbe l'idea di utilizzare ciò che dovremmo chiamare coordinate rettangolari nella terminologia moderna, una lunghezza proporzionale alla longitudo, l'ascissa di un dato punto e una perpendicolare a quel punto, proporzionale alla latitudo, l'ordinata. Oresme mostra che la proprietà geometrica di una tale figura potrebbe essere considerata come corrispondente ad una proprietà della forma stessa. I parametri longitudo e latitudo possono variare o rimanere costanti. Oresme definisce latitudo uniformis quella rappresentata da una linea parallela alla longitudo, ed ogni altra latitudo è difformis; la latitudo uniformiter difformis è rappresentata da una linea retta inclinata rispetto all'asse della longitudo. Oresme dimostrò che questa definizione è equivalente ad una relazione algebrica in cui figurerebbero le “longitudini” e le “latitudini” di ogni terna di punti: cioè, ottiene l'equazione della linea retta, e quindi precede molto Cartesio nell'invenzione della geometria analitica. Nella sua dottrina, Oresme considera anche le figure a tre dimensioni. Oltre alla longitudo e alla latitudo di una forma, prese in considerazione anche la mensura o quantitas della forma, proporzionale all'area della figura che la rappresenta. Dimostrò il seguente teorema: una forma uniformiter difformis ha la stessa quantità di una form uniformis della stessa longitudo ed avente come latitudo la media tra i due limiti estremi della prima. Dimostrò poi come questo metodo di raffigurare la latitudo delle forme fosse applicabile al movimento di un punto, a condizione che il tempo fosse assunto come longitudo e la velocità come latitudo; la quantità è allora lo spazio percorso in un dato tempo. In virtù di questa trasposizione, il teorema della latitudo uniformiter difformis divenne la legge dello spazio percorso nel caso del moto che varia uniformemente. Oresme dimostrò esattamente ciò che fece di Galileo un personaggio famoso nel XVII secolo. Inoltre, questa legge non fu mai dimenticata durante l'intervallo di tempo tra Oresme e Galileo, perché la insegnarono ad Oxford William Heytesbury ed i suoi discepoli, poi a Parigi e in Italia, tutti i successivi discepoli di questa scuola. Intorno alla metà del XVI secolo, molto prima di Galileo, il Domenicano Domingo de Soto applicò la legge di caduta dei corpi pesanti uniformemente accelerati al moto ascensionale uniformemente decelerato dei proiettili. Nell'Algorismus proportionum e nel De proportionibus proportionum, Oresme sviluppò il primo metodo di calcolo delle potenze con esponenti irrazionali frazionari, cioè il calcolo delle proporzioni irrazionali (proportio proportionum). Alla base del metodo c'era l'uguaglianza posta da Oresme tra grandezze continue e numeri discreti, un'idea che a Oresme venne dalla teoria monocordo della musica (sectio canonis). In questo modo, Oresme superò il limite Pitagorico della divisione regolare di intervalli Pitagorici come 8/9, 1/2, 3/4, 2/3 e fornì lo strumento per generare l'eguale temperamento 250 anni prima di Simon Stevin. Ecco un esempio della suddivisione equa di un'ottava in dodici parti: \left(\frac{2}{1}\right)^\frac{1}{12}\cdot\left(\frac{2}{1}\right)^\frac{1}{12}\cdots\left(\frac{2}{1}\right)^\frac{1}{12} = \left(\frac{2}{1}\right)^\frac{12}{12} Per esempio, Oresme utilizzò questo metodo nella sua sezione musicale del Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum nell'ambito della sua “teoria degli ipertoni o toni parziali” (vedi sotto) per produrre proporzioni irrazionali del suono (timbro brutto o colore del tono) nella direzione di un “tono parziale continuo” (rumore bianco) [5]. Infine Oresme si interessò molto ai limiti, ai valori di soglia e alle serie infinite mediante addizioni geometriche (Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum, Questiones super geometriam Euclidis) che prepararono la via per il calcolo infinitesimale di Cartesio e Galileo. Dimostrò la divergenza della serie armonica, utilizzando il metodo standard insegnato ancora oggi nelle lezioni di calcolo. Per l'anticipazione di Oresme della moderna teoria stocastica, si veda più avanti il paragrafo "Filosofia Naturale". Come senza dubbio ha mostrato Taschow, Oresme trasformò il metodo grafico discusso sopra nel suo Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum dalla teoria musicale del suo tempo. Da qui arriviamo all'importantissimo contributo di Oresme nel campo della musicologia [6]. Altro sul pensiero di Nicola d'Oresme [modifica] Pensatore della tarda Scolastica, come teologo affermò che "La creazione di Dio è più simile a quella di un uomo che costruisca un orologio e gli permetta di funzionare continuando il suo movimento autonomamente." In Astronomia sostenne la possibilità dell'esistenza di più mondi e del moto sul suo asse della Terra. Riguardo alla rotazione della terra sul proprio asse Oresme confutò l'obiezione più diffusa all'epoca che si basava sul perché una freccia scoccata verticalmente in aria non cadesse davanti o dietro all'arciere nel ricadere sulla persona stessa? La risposta fu che la freccia così lanciata aveva non solo una spinta verticale data dall'arco ma anche un moto orizzontale dato dalla Terra che gira. In economia sostenne la teoria della moneta-merce contrariamente al pensiero corrente dell'epoca ed anticipò un principio, chiamato successivamente "legge di Gresham", secondo cui bisognava tener distinta l'economia dalla politica e dalla morale. Musicologia [modifica] Nelle opere di Oresme “configuratio qualitatum” e la collegata “pluridimensionalità funzionale”, si può notare che esse presentano delle strette correlazioni con i moderni diagrammi musicologici e, cosa più importante, con la notazione musicale, che ugualmente quantifica e visivamente rappresenta le variazioni di un suono secondo date misure di extensio (intervalli di tempo) e di intensio (tono). Le complesse rappresentazioni delle notazioni musicali divennero, nelle opere di Oresme, configurationes qualitatum o difformitates compositae, musica funzionante ancora di più secondo un paradigma legittimante. L'ambito della musica, comunque, non solo fornì una legittimazione empirica alla teoria di Oresme, ma fu di aiuto per esemplificare i vari tipi di configurazioni uniformi e difformi che Oresme aveva sviluppato, in particolare l'idea che le configurazioni dotavano le qualità di specifici effetti, estetici o di altro tipo, che potevano essere analiticamente catturati mediante rappresentazioni geometriche. Quest'ultimo punto ci aiuta a spiegare il generalizzato approccio estetico ai fenomeni naturali da parte di Oresme, che era basato sulla convinzione che la valutazione estetica dell'esperienza sensoriale (graficamente rappresentabile) fornisse un adeguato principio di analisi. In tale contesto la musica giocava, ancora una volta, un importante ruolo come modello per la “estetica della complessità e dell'infinito”, riscuotente il favore fra gli intellettuali del 14º secolo. Oresme cercò i parametri del suono in modo empirico sia a livello acustico microstrutturale della singola tonalità sia a livello macrostrutturale della polifonia. Nel tentativo di catturare analiticamente i vari parametri fisici, psicologici ed estetici del “sonus” in conformità con la “extensio” e la “intensio”, Oresme volle rappresentarli come le condizioni degli infinitamente variabili gradi della “pulchritudo” e della “turpitudo”. Il livello a cui arrivò con questo metodo è cosa più che unica per il Medioevo, perché rappresenta la più completa descrizione matematica del fenomeno musicale prima che Galileo scrivesse i suoi Discorsi. Degno di nota in questa impresa di Orseme è non solo la scoperta dei “toni parziali” o ipertoni tre secoli prima di Marin Mersenne, ma anche il riconoscimento della relazione intercorrente tra ipertoni e colore dei suoni, che Oresme spiegò in una dettagliata teoria fisico-matematica la cui complessità fu raggiunta di nuovo nel XIX secolo da Hermann von Helmholtz. Infine, dobbiamo anche ricordare l'intendimento meccanicistico da parte di Oresme del suono nel suo Tractatus de configuratione et qualitatum motuum come uno specifico discontinuo tipo di movimento (vibrazione) , della risonanza come un fenomeno di ipertono e della relazione di consonanza e dissonanza, che andarono anche oltre la teoria della coincidenza della consonanza formulata nel 17º secolo. La dimostrazione fornita da Oresme dell'esistenza di una corrispondenza fra un metodo matematico (configuratio qualitatum et motuum) ed un fenomeno fisico (suono) rappresenta un caso veramente raro sia per l'epoca in generale sia per l'opera di Oresme in particolare. I paragrafi del Tractatus de configurationibus riguardanti la musica rappresentano delle pietre miliari nello sviluppo dello spirito quantificatore che caratterizzerà l'epoca moderna. Oresme, l'amico più giovane del famoso teorico della musica Philippe de Vitry, compositore e Vescovo di Meaux, è il fondatore della moderna musicologia. Oresme trattò, con senso moderno, quasi tutti i temi della musicologia quali: * acustica (in Expositio super de anima, Quaestiones de anima, De causis mirabilium, De configurationibus, De commensurabilitate vel incommensurabilitate), * estetica musicale (in De configurationibus, De commensurabilitate vel incommensurabilitate), * fisiologia della voce e dell'udito (in Quaestiones de sensu, Expositio super de anima), * psicologia dell'udito (in Quaestiones de anima, De causis mirabilium, Quaestiones de sensu), * teoria della misurazione musicale (in Tractatus specialis de monocordi,[2] De configurationibus, Algorismus proportionum), * teoria della musica (in De configurationibus), * esecuzione musicale (in De configurationibus), * filosofia della musica (in De commensurabilitate vel incommensurabilitate). Mediante la sua specialissima "teoria delle specie"(multiplicatio specierum) Oresme formulò la prima corretta teoria della onda del suono e della luce, 300 anni prima di Christian Huygens. Con questa teoria, Oresme descrive un trasporto di pura energia senza alcuna diffusione di materia. Il termine species nel senso usato da Oresme significa la stessa cosa del termine moderno "forma dell'onda". Oresme scoprì anche il fenomeno dei toni parziali o ipertoni, 300 anni prima di Mersenne (vedi sopra) e la relazione fra ipertoni e timbrica, 450 anni prima di Joseph Sauveur. Nella dettagliatissima "teoria fisico-matematica dei toni parziali e del timbro", Oresme anticipò la teoria formulata da Hermann von Helmholtz nel 1800. Nella sua estetica musicale, Oresme formulò una moderna soggettiva “teoria della percezione”, che non era la percezione dell'oggettiva bellezza del Creato, bensì il processo costruttivo della percezione che è la causa della percezione del bello o del brutto tramite i sensi. Quindi, da ciò si può dedurre che ogni individuo percepisce un altro “mondo”. Molti degli approfondimenti condotti da Oresme in altre discipline come la matematica, la fisica, la filosofia, la psicologia, anticipando quasi un autoritratto dei tempi moderni, sono strettamente collegati al “Modello Musica” (insolito per il pensiero attuale). La “Musica” funzionava quasi da “Computer del Medioevo” e in questo senso, nel 14º secolo, essa rappresentava l'inno globale della nuova coscienza quantitativo-analitica. Psicologia [modifica] Dal libro di Taschow apprendiamo, anche, che Oresme fu un valente studioso di psicologia che mediante un efficace metodo empirico, investigò l'intero complesso dei fenomeni della psiche umana. Oresme fu persuaso della validità dell'attività del "sensus interior" e della costruttività, complessità e soggettività della percezione del mondo. Basandosi su queste progressistiche nozioni, Oresme entrò a far parte della "Scuola Parigina di Psicologia" che comprendeva autori quali Jean Buridan, Bartolomeo di Bruges, Jean de Jandun, Heinrich von Langenstein, ecc. e le sue opere furono messe in stretta relazione con quelle di scienziati dell'ottica come Alhazen, Roger Bacon, Witelo, John Pecham, ecc. Ma è anche da ricordare che l'innovativa e ardita mente di Oresme anticipò molti importanti fatti della psicologia del 19º e 20º secolo, in specie, nel campo della psicologia cognitiva, psicologia della percepzione, psichologia della coscienza e della psico-fisica. Oresme scoprì l'"inconscio psicologico" e la sua grande importanza per la percezione e il comportamento. A partire da ciò, egli formulò la eccellente "teoria delle conclusioni inconsce della percezione" (500 anni prima che Hermann von Helmholtz formulasse la sua "ipotesi delle due attenzioni"), concernente l'attenzione conscia ed inconscia come presa in esame dagli studiosi nel 20º secolo. Con la sua moderna "teoria della cognizione", Oresme dimostrò che non esistono al di fuori della coscienza umana categorie, termini, qualità e quantità. Per esempio, Oresme svelò le cosiddette "qualità primarie" come misura, posizione, forma, moto, riposo, etc., trattate dagli scienziati del 17º secolo (Galilei, John Locke etc.), .), e sostenne che esse non erano presenti in modo 'oggettivo' nel mondo esterno, bensì dovevano essere considerate come delle complesse costruzioni cognitive della psiche formulate nelle condizioni individuali del corpo e dell'anima dell'uomo. Poiché la realtà è solo in un momento privo di estensione (instantia), Oresme argomentò che, nessuna azione può esistere eccetto che a livello della coscienza. Ciò significa che l'azione è un risultato della percezione e della memoria, nel senso dell'attiva composizione del "prima" e del "dopo". Questa ingegnosa teoria si rende plausibile nel campo del suono. Oresme scrisse: "Se una creatura esistesse senza memoria, non potrebbe mai sentire un suono..." Il suono, dunque, è un costrutto umano e niente altro. Con le sue antesignane "psico-cibernetica" e "teoria dell'informazione" Oresme risolse il problema del dualismo mondo fisico/mondo psichico ricorrendo allo schema tripartito species - materia - qualitas sensibilis” (in termini moderni: informazione - mezzo - significato). La species (l'informazione) trasportabile come un'onda sonora, muta il mezzo che attraversa (legno, aria, acqua, sistema nervoso, etc.) e il sensus interior da essa trae per mezzo di conclusioni inconsce un significato soggettivo. Oresme aveva già sviluppato un primo abbozzo di "psicofisica" che presenta molte similitudini con l'approccio di Gustav Theodor Fechner, il fondatore della moderna psico-fisica. Le idee di Oresme sulla psiche sono di tipo meccanicistico. I processi psichici e fisici sono equivalenti nella loro struttura (configuratio qualitatum et motuum). Ogni struttura presenta un momento qualitativo (psichico) ed uno quantitativo (fisico); ed è per questo che i processi psicologici (le intensità) possono essere misurati come quelli fisici. In tal modo, Oresme fornì la prima legittimazione scientifica della misurazione della psiche ed anche dell'anima immateriale in contrapposizione ad Aristotele e agli Scolastici. Tuttavia, il contributo maggiore di Oresme fu rivolto alla psicologia della percezione. Egli fu l'unico in tutto il Medioevo a scrivere un trattato sulla percezione e i suoi disturbi e disfunzioni (De causis mirabilium), in cui esaminò ciascun senso (vista, udito, tatto, odorato, gusto) e le funzioni cognitive. Con lo stesso metodo usato dai psicologi del 20º secolo, cioè per mezzo dell'analisi di disfunzioni e disturbi, Oresme riconobbe, già allora, molte leggi essenziali della percezione, per esempio la "Gestaltgesetze" 500 anni prima di Christian von Ehrenfels, i limiti della percezione (maxima et minima), ecc. Filosofia Naturale [modifica] Taschow nell'opera Nicole Oresme und der Frühling der Moderne rivela anche il complesso mondo del pensiero filosofico del Vescovo di Lisieux. Oresme anticipò molte essenziali idee proprie dei tempi moderni, quali, l'intuizione della incommensurabilità delle proporzioni naturali, la complessità, la indeterminazione e l'infinita mutabilità del mondo, ecc. Nel lineare e, al contempo, progressistico mondo di Oresme ogni cosa ogni volta è unica e nuova e perciò allo stesso modo lo è la conoscenza umana. Il modello eccellente di questo nuovo infinito mondo del 14º secolo fu la oresmiana machina musica (in contrapposizione alle infinite ripetizioni presenti nella musica mundana della antichità). Per Oresme in modo analogo con la musica, mediante un limitato numero di parametri e proporzioni, chiunque potrebbe produrre delle strutture molto complesse, di infinita mutabilità e mai ripetitive(De configurationibus qualitatum et motuum, De commensurabilitate vel incommensurabilitate, Quaestio contra divinatores). Questo è lo stesso messaggio della “teoria del caos”, formulata nel 20º secolo, secondo la quale con l'iterazione delle più semplici formule si produce un mondo altamente complesso e senza alcuna prevedibilità di comportamento. Basandosi sui principi musico-matematici di incommensurabilità, irrazionalità e complessità, Oresme finalmente creò una dinamica struttura-modello per la formazione di sostanziali specie e individui della natura, la coasiddetta "teoria della perfectio specierum" (De configurationibus qualitatum et motuum, Quaestiones super de generatione et corruptione, Tractatus de perfectionibus specierum). Utilizzando un'analogia delle qualità musicali con le “prime e seconde qualità” di Empedocle, un individuo oresmiano si trasforma in un sistema che si autorganizza e che si preoccupa di raggiungere il suo stato ottimale difendendosi dagli influssi negativi dell'ambiente in cui vive. Questo "controllo iterativo automatico" influenza la forma sostanziale (forma substantialis), già presente, nel senso moderno, nei principi di evoluzione, "adattamento" e"mutazione" del materiale genetico. È più che evidente che la rivoluzionaria teoria di Oresme superò il dogma Aristotelico-Scolastico della immutabilità della specie sostanziale ed anticipò i principi della "teoria dei sistemi", dell'auto-organizzazione e della evoluzione biologica di Charles Darwin. Un ulteriore approccio progressista di Oresme si rinviene nella sua estesa indagine sui valori e misurazioni approssimati fatta mediante i margini di errore. Egli formulò la "teoria della probabilità", allo stesso modo, nei campi della psicologia, fisica e matematica: Per esempio, Oresme formulò due regole della psicologia (De causis mirabilium). La prima regola recita: Con un incremento del numero di giudizi inconsci della percezione (intensità del significato) aumenta la probabilità di falsi giudizi e in questo modo la probabilità di errori percettivi. La seconda regola recita: Quanto più il numero dei giudizi inconsci della percezione vanno oltre un certo limite, tanto più improbabile è un errore fondamentale di percezione perché esso non inficia la maggioranza di giudizi inconsci. Il punto teoretico di queste regole ed altre correlate è che la percezione non è altro che un valore di probabilità nell'area indefinita di queste due regole. La percezione non è mai una "fotografia" di ciò che ci circonda, bensì una complessa costruzione senza alcuna assoluta evidenza. Ora forniamo un esempio delle anticipazioni da parte di Oresme degli elementi della moderna stocastica (De proportionibus proportionum). Oresme afferma: "Se prendiamo una moltitudine di numeri interi positivi, la quantità di interi perfetti o di cubi perfetti è molto inferiore rispetto a quella di altri numeri." Inoltre, più numeri prendiamo più ampio è il rapporto intercorrente fra i numeri non-cubi e i cubi ovvero fra numeri imperfetti e perfetti. Perciò, se non conosciamo un numero è probabile (verisimile) che detto numero non sia un cubo. Così avviene nel gioco (sicut est in ludis) in cui qualcuno ci chiede se un numero ignoto sia un cubo. È preferibile rispondere con un 'No' perché ciò è più probabile (probabilius et verisimilius). Oresme considerò un insieme di 100 differenti oggetti matematici che aveva formato in un certo modo e determinò che da ciascuna coppia di elementi possono essere formate (100 • 99) : 2 = 4950 combinazioni. In queste combinazioni, 4925 mostrano una interessante qualità E, mentre le rimanenti 25 non presentano questa qualità. Infine, Oresme calcolò 4925: 25 = 197: 1 è concluse che è probabile (verisimile) che se qualcuno cerca tale ignota combinazione questa presenterà la qualità E. Quindi Oresme calcolò il numero di casi favorevoli e sfavorevoli e i relativi quozienti. Tuttavia, egli non ottenne il quoziente risultante dal numero dei casi favorevoli e il numero dei casi egualmente possibili. Oresme non riuscì ad ottenere la "misura della probabilità", tuttavia sviluppò un ingegnoso strumento per valutare quantitativamente la "facilità" di compimento di un evento. Oresme usò per i suoi calcoli di probabilità dei termini come verisimile, probabile / probabilius, improbabile / improbabilius, verisimile / verisimilius / maxime verisimile e possibile equaliter. Nessuno prima di lui, ed anche per lungo tempo dopo, usò queste parole nel contesto delle probabilità di gioco od aleatorie in genere. I metodi di Oresme li ritroviamo di nuovo nelle opere di Galileo Galilei e di Blaise Pascal nel 17º secolo. Per concludere ricordiamo brevemente un esempio di Oresme per la probabilità in fisica. Nelle sue opere De commensurabilitate vel incommensurabilitate, De proportionibus proportionum, Ad pauca respicientes ecc. egli afferma: "Se consideriamo due grandezze naturali ignote come il moto, il tempo, la distanza, etc., è molto probabile (verisimillius et probabilius) che il loro rapporto sia irrazionale invece che razionale." Secondo Oresme questo teorema è in genere applicabile a tutta la natura, al mondo terreno e a quello divino. Questa posizione ha un grande effetto sul modo in cui Oresme considera la necessità e la contingenza, e di conseguenza sul modo in cui considera le leges naturae e critica l'astrologia. È ovvio che Oresme per la "teoria della probabilità in fisica, matematica e psicologia della percezione" si rifece alle sue ricerche in campo musicale: la divisione del monocordo (sectio canonis) comprovò il senso dell'udito e la ragione matematica per la quale molte divisioni della corda producono intervalli irrazionali, dissonanti. Fisica [modifica] Il pensiero di Oresme riguardo alla fisica è esposto in due opere, il Traité de la sphère, stampato per due volte a Parigi (la prima edizione è senza data; la seconda è del 1508), e il Traité du ciel et du monde, scritto nel 1377 su richiesta del Re Carlo V, ma non vene mai stampato. Nella maggior parte dei problemi essenziali di statica e dinamica, Oresme si attiene alle posizioni sostenute a Parigi dal suo predecessore, Jean Buridan de Béthune, e dal suo coetaneo, Alberto di Sassonia. In contrapposizione alla teoria aristotelica dei pesi, secondo la quale la naturale collocazione dei corpi pesanti è al centro del mondo, mentre quella dei corpi leggeri è nella concavità della sfera lunare, Oresme propose quanto segue: "Gli elementi tendono a disporsi in una maniera tale che dal centro verso la periferia il loro peso specifico diminuisce gradatamente." Oresme pensava che una regola simile potesse applicarsi anche in mondi diversi dal nostro. Questa è la dottrina che prese il posto di quella aristotelica per opera di Copernico e dei suoi seguaci come Giordano Bruno. Quest'ultimo argomentò in un modo così simile a quello di Oresme che si potrebbe pensare che abbia letto il Traité du ciel et du monde. Oresme, comunque, è da considerare, ancor di più, quale precursore di Copernico, allorché si considera ciò che scrisse sul quotidiano moto della terra, un argomento cui dedicò ampie spiegazioni alla fine, rispettivamente, dei capitoli xxiv e xxv del Traité du ciel et du monde. Oresme, per cominciare, stabilì che con nessun esperimento si può stabilire se è il cielo a girare da est verso ovest oppure è la terra a ruotare da ovest verso est; perché l'esperienza sensoriale non può stabilire niente altro che un moto relativo. Quindi dimostrò la non validità delle ragioni addotte dalla fisica aristotelica contro il moto della terra. Oresme sottolineò, in modo particolare, il principio ricavato dal movimento dei proiettili per risolvere la questione. Oresme, poi, controbatté le obiezioni basate sui testi della Bibbia. Interpretando questi passaggi trasse delle regole seguite ancor oggi dagli esegeti cattolici. Infine, egli addusse argomenti estremamente semplici per la teoria del movimento della terra e non del cielo. L'argomentazione di Oresme a favore del movimento della terra è al contempo più esplicita e più chiara di quella fornita da Copernico. Nei paragrafi precedenti, ci siamo occupati della teoria di Oresme sulla natura ondulatoria del suono e della luce. Pertanto, non ci dobbiamo meravigliare che Oresme per primo sostenne l'identica natura del colore e della luce. Secondo la corretta credenza di Oresme "i colori sono parti dalla luce bianca". Anche questa ingegnosa teoria venne ispirata dalle ricerche musicologiche condotte da Oresme: nella sua teoria degli ipertoni e della timbrica Oresme fece un'analogia fra i fatti musicali e il fenomeno della mescolanza dei colori posti su di un piano rotante. Concludiamo ricordando la geniale scoperta della curvatura della luce dovuta alla rifrazione atmosferica: mel trattato De visione stellarum Oresme si chiese se le stelle fossero collocate realmente nel punto del cielo in cui esse ci appaiono. Ricorrendo all'ottica, Oresme rispose che le stelle non erano lì dove ci sembra di vederle. Due secoli prima della Rivoluzione Scientifica, Oresme propose una corretta soluzione del problema della rifrazione atmosferica, cioè la luce viaggia lungo una curva attraverso un mezzo di densità uniformemente variabile, ed arrivò a questa soluzione utilizzando gli infinitesimali. Oresme, mettendo in dubbio tutti i dati acquisiti con il senso della vista, concluse che pressocché nulla di ciò che vediamo nel cielo o sulla terra è collocato realmente lì dove ci appare. Questa soluzionè sfuggì sia a Tolomeo che ad Alhazen. Essa non fu presa in considerazione neanche da Keplero nel 17º secolo, e fino ad oggi la prima scoperta di questo fenomeno è stata attribuita a Robert Hooke, mentre la relativa dimostrazione matematica è di Isaac Newton. Questi brevi accenni alla poderosa opera di Oresme mostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, che fu uno dei più innovativi scienziati all'"Alba dell'Evo Moderno" ed un pioniere del mondo moderno.

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medioevo, oresme

martedì, 16 marzo 2010


Il francescano Roger Bacon
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Il francescano Roger Bacon (Ruggero Bacone  docente a Oxford, ammirato per la sua opera matematica e ottica
e considerato un precursore del metodo scientifico moderno.
Bacon scrisse di filosofia della scienza ed enfatizzò l'importanza della sperimentazione
Nel suo Opus maius osservò: «Senza esperienza nulla può essere adeguatamente conosciuto. Un argomento ha validità teorica  ma non dà la certezza necessaria a rimuovere ogni dubbio; ne la mente riposerà nella chiara visione della verità, a meno che non la trovi per mezzo dell'esperienza».
 Similmente, nell'Opus tertium Roger Bacon metteva in guardia che «i più forti argomenti non provano alcunché, se le conclusioni non sono verificate dall'esperienza »
Bacon identificò vari ostacoli che si frapponevano alla trasmissione della verità: fra questi, la cieca opinione dei più e la consuetudine invalsa ma erronea.

T.Woods
da  :Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale  Cantagalli



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medioevo

domenica, 14 marzo 2010


Jean Leclercq, il benedettino libero nell'obbedienza
 L'Europa convertita dei monaci

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È in libreria il libro di Massimo Borghesi, Maestri e testimoni. Profili filosofico-teologici del '900 (Padova, Messaggero, 2009, pagine 124, euro 13,90), che raccoglie una serie di articoli su figure di filosofi e teologi del Novecento; il volume si chiude con interviste ad Hans-Georg Gadamer, Augusto Del Noce e Jean Leclercq (1911-1993), autore più volte ricordato da Benedetto XVI, che in particolare lo ha citato a Parigi durante l'incontro con il mondo della cultura al Collège de Bernardins. Dell'intervista a Leclercq - svoltasi a Roma il 27 febbraio 1986 e in quell'anno uscita sulla rivista "30giorni" - pubblichiamo un'ampia sintesi.
di Massimo Borghesi e Paolo Vian
Studioso universalmente noto del monachesimo medievale e benedettino egli stesso, Jean Leclercq è l'emblema dell'uomo che coniuga la passione per l'indagine scientifica con la passione per la vita. A lui si devono l'edizione degli Opera omnia di san Bernardo e testi sul monachesimo medievale divenuti fondamentali per chiunque si occupi della storia culturale o religiosa del medioevo, tra cui il suo capolavoro, L'amour des lettres et le désir de Dieu, pubblicato a Parigi nel 1957 e che ha conosciuto molteplici traduzioni. Egli ha voluto intraprendere un cammino del tutto diverso da quello della grande tradizione erudita benedettina incarnata nel Novecento da Germain Morin, Henri Quentin, André Wilmart. In fondo, tutta la vasta opera di Leclercq può essere letta come una testimonianza della sua gioia di essere monaco. E questa testimonianza egli ha voluto renderla spesso personalmente, viaggiando per l'Europa, l'America, l'Asia, e offrendo in tal modo una concezione dinamica della stabilitas benedettina.

Negli anni Trenta la cultura cattolica francese ha avuto una grande stagione con Gilson, Marcel, Maritain, e poi ancora, tra gli altri, Mounier, Claudel, Bernanos. Come ha vissuto questa rinascita culturale? Che peso hanno avuto nella sua formazione quei poeti, romanzieri, pensatori che creavano e riflettevano a partire dalla fede?

Nella situazione di disorientamento dell'Europa e della Francia tra le due guerre questi grandi spiriti - Claudel! Ho letto molto di lui, e non solo la sua opera poetica ma anche il Claudel filosofo-teologo - ci confermavano nella fede: questo forse è il loro più grande contributo. Esprimevano cose che noi tutti pensavamo, ma il loro genio, letterario, artistico, dava espressione a ciò che in noi era solo intuizione e presentimento. Questo ci confermava nella fede e ciò era motivo di gioia profonda, poiché sapere perché si crede è fonte di grande gioia. Così, oggi abbiamo bisogno di maestri i quali non si limitino a mettere in questione e a creare problemi ma ci confermino nella fede.

Come è maturata la sua vocazione religiosa e intellettuale?

Avevo quindici anni quando decisi di farmi monaco. Clandestinamente, all'insaputa dei miei genitori, feci il mio primo soggiorno presso l'abbazia di Clervaux, in Lussemburgo, ove poi entrai a diciassette anni. Dopo il noviziato e il servizio militare, mi recai a Roma dove studiai per quattro anni a Sant'Anselmo, passando a Parigi per la tesi di laurea in teologia.

Su quale argomento?

Il tema riguardava un trattato di teologia politica della fine del XIII secolo, intorno alla controversia tra Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo il Bello. La Chiesa, l'indagine ecclesiologica, mi aveva sempre attratto. Così, pubblicai poi il trattato di Giovanni di Parigi sulla teoria del Papa e del re, nonché vari articoli di ecclesiologia.

E dopo la tesi?

Ho passato quattro anni come addetto al reparto manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi e ho potuto studiare manoscritti di grande interesse, che via via pubblicavo. Si è così aperta una parentesi di cultura umanistica che non si è più richiusa. È stato viaggiando per le biblioteche di mezza Europa che ho avuto la possibilità, in Svizzera, di scoprire testi inediti di san Bernardo, di cui in seguito curai l'edizione delle opere. Il mio riferimento in questo peregrinare nello studio è sempre rimasta la comunità di Clervaux.

Ci sono nella sua biografia persone che lei considera come maestri?

Certo. Ho avuto buoni maestri. Vorrei ricordare innanzitutto il mio professore di dogmatica a Sant'Anselmo, il benedettino Anselm Stolz, un vero pioniere che nello studio sul trattato de Ecclesia spalancava orizzonti che troveranno conferma nel concilio. E poi all'École de Études Supérieures e all'Institut Catholique di Parigi: Charles Samaran, paleografo, Louis Halphen, medievalista, Jules Lebreton, storico della Chiesa; e ancora, il gesuita Yves de Montcheuil, ucciso dalla Gestapo durante la Resistenza. Tra tutti, un ricordo particolare è per Étienne Gilson, di cui seguii i corsi a Parigi e con il quale poi divenimmo amici.


Che corso teneva Gilson quando lei seguiva le sue lezioni?


L'argomento riguardava lo svolgimento dell'idea agostiniana di "città di Dio" nel corso dei secoli. Il tema, tornerà poi nel suo studio Les métamorphoses de la Cité de Dieu (1952).


Gilson ha avuto una qualche influenza sulla sua attività storiografica?

Sul piano personale fu Gilson che mi incitò, quando ero ancora incerto fra varie direzioni di ricerca, a dedicarmi alla cultura monastica. Sul piano storico devo a lui non tanto delle conoscenze particolari quanto il senso della persona umana che egli sapeva comunicare nel suo insegnamento e nei suoi studi. Tanti storici studiano i testi, identificano il chi, il quando e così via, ma una volta fatto questo non si chiedono chi sia l'uomo che sta dietro i fatti descritti, come viveva, cosa pensava. Gilson invece ogni volta che trattava di Abelardo, Bernardo, Dante, Tommaso, aveva di mira la persona. Da questo punto di vista egli ha contribuito a fare maturare il mio interesse per l'umano. Mi sono ripromesso, dalla mia giovinezza, di non essere mai un intellettuale, uno di questi eruditi che sanno tutto, ma non cogliere l'umanità dell'uomo. Devo a Gilson questo senso dell'umano, questo "umanesimo" nella ricerca.


Altre figure, oltre ai suoi diretti maestri, hanno rivestito importanza per lei?


Certo. Una è sicuramente stata Jacques Maritain, che ci aiutava a cogliere la direzione di marcia della Chiesa dentro i problemi del tempo. Così, fu per me essenziale il suo chiarimento a proposito della posizione di Roma al tempo della condanna dell'Action Française da parte di Pio XI. Ancora, importanti furono le sue prese di posizione al tempo della persecuzione nazista contro gli ebrei. Sul tema della persecuzione devo molto anche a un grande studioso espulso dalla Germania: Erik Peterson. Sul piano filosofico la corrente speculativa che ho avvertito più vicina è stata quella della philosophie de l'Esprit, con Marcel, Lavelle, e via dicendo. In particolare Gabriel Marcel: seguivo le sue conferenze e ho soggiornato con lui in Marocco. Ricordo, tra le sue opere, Être et avoir e Position et approches concrètes du mystère ontologique. Mi colpiva della sua riflessione il nesso tra persona e comunione: quello che fa la persona è la capacità di comunione. Ciò che è autentico non è quindi l'individualismo, che radicalizzato porta all'assurdo (Sartre), ma l'esigenza di essere in comunione, di essere comunione, di creare legami. Qui mi si è chiarita, sul piano teorico, l'importanza dell'amicizia. Io ho sempre avuto molti amici, ho sempre creduto molto nell'amicizia perché creare dei gruppi di amicizia, incontrarsi, cambia la vita. Tra i grandi amici, voglio qui nominare in particolare padre Congar e padre de Lubac.

E Thomas Merton?


È un'altra delle grandi amicizie che ho avuto. L'ho conosciuto già prima di andare in America, mediante corrispondenza. Era molto curioso, pur non essendo uno storico. Era una personalità molto equilibrata, allegra, niente del Merton drammatico come oggi è di moda pensare. Era un grande monaco.

Veniamo alla sua attività di storico. Nel 1957 uscivano contemporaneamente in Francia due libri: la sua opera fondamentale, L'amour des lettres et le désir de Dieu, e La théologie comme science au xiiie siècledi padre Marie-Dominique Chenu. Lei sottolineava il valore autonomo della teologia "monastica", contemplativa ed esperienziale, diversa da quella "scolastica", tendenzialmente formale e metodica, mentre il maestro domenicano insisteva sulla positività del metodo scolastico, nonché sulla fecondità della rivoluzione mendicante di fronte all'incapacità monastica di cogliere la nuova civiltà urbana, e non più feudale, che si veniva profilando. Le due versioni allora apparvero come alternative. Lo sono realmente?

Direi di no, direi piuttosto che sono complementari. Aggiungo che personalmente, come storico, diffido di un uso troppo spinto delle categorie sociologiche come criteri esplicativi. Quindi, il contrasto tra mondo rurale e mondo cittadino, feudale e comunale, è vero, ma non sufficiente a chiarire la differenza tra l'esperienza monastica e quella dei nuovi ordini mendicanti. Per averne una singolare controprova basti osservare come oggi siano più letti gli autori monastici, in primis san Bernardo, che quelli scolastici, le cui opere pure apparterrebbero a una civiltà urbana analoga alla nostra. Questo non toglie nulla all'ammirazione e alla stima che personalmente nutro per l'opera del più grande scolastico: Tommaso d'Aquino. Voglio dire - per questo parlo di complementarità - che nella vita della Chiesa non tutti possono fare tutto: a ognuno secondo il suo carisma. Così la vita monastica non ha per compito primario quello di evangelizzare le città; essa è una vita di preghiera e di dedizione totale a Cristo che, in quanto tale, ha la sua legittimità. Detto ciò, è chiaro come l'identità monastica non sia tutto nella Chiesa e come gli ordini mendicanti, specialmente i domenicani, abbiano svolto una nuova e preziosa forma di servizio.

La sua nozione di "complementarità" vale anche per il rapporto tra vita "attiva" e vita "contemplativa"?


L'Europa è stata convertita da monaci che facevano vita contemplativa. Uno di loro che più ha contribuito a questo fatto, Beda il Venerabile, non è mai uscito dal suo monastero. In effetti, il problema del rapporto tra contemplazione e azione non può mai avere una soluzione definitiva; il nodo può sciogliersi solo nella vita di ognuno. Occorre essere attivi nella contemplazione, nel senso che fine della preghiera non è l'autogodimento personale bensì, in termini cristiani, il suo situarsi dentro il mistero della comunione ecclesiale. Questo non è fuggire la storia, come oggi si ama dire.

La distinzione, in L'amour des lettres et le désir de Dieu, tra una teologia affettiva e una tendenzialmente razionalistica pare avere una realtà, sia pure in una forma nuova, anche nell'epoca moderna. Von Balthasar, nel saggio "Teologia e santità" contenuto in Verbum Caro, accenna a un dualismo moderno tra una teologia dogmatica separata dall'esperienza di fede, da una parte, e una nozione sentimentale della fede (la devotio moderna), dall'altra. Ora, questa distinzione corrisponde solo formalmente a quella medievale, poiché sia la teologia monastica che quella scolastica coniugano assieme, sia pure con accentuazioni diverse, esperienza e dogma. Non le sembra che il compito attuale della teologia stia proprio nel ricomporre assieme questi due momenti divisi nell'arco della modernità?

Innanzitutto mi rallegro della citazione di von Balthasar, che per me è anche un grande amico. Certo, credo pure io che la meta stia nell'incontro di questi due fattori. I più grandi teologi sono stati, insieme, acuti pensatori e uomini per i quali la fede era una reale esperienza di vita. Oggi l'opera di de Lubac, Congar, Balthasar porta la chiara impronta di questa sintesi. Io penso che la teologia debba condurre alla contemplazione, alla preghiera, all'ammirazione. Una teologia così concepita non è iniziata certo nel XII secolo, è ben presente in tutta la tradizione della Chiesa. Nel medioevo le grandi personalità sono al contempo metafisici e mistici, basti pensare a sant'Anselmo, san Bernardo, san Bonaventura, san Tommaso. È dopo Tommaso - secondo quanto pensava anche Gilson - che il rapporto si incrina e il pensiero perde il contatto con la verità dogmatica.

Lei attribuisce molta importanza al momento dell'"esperienza" nella fede. In L'amour des lettres et le désir de Dieu, a proposito di san Bernardo lei afferma che "la grande parola non è più quaeritur ma desideratur; non è più sciendum ma experiendum".

Sì, questo concetto fa parte in modo particolare della tradizione monastica. Non si può intendere la teologia di san Bernardo senza il riferimento a un'esperienza che la sottende. Nel primo dei Sermoni sul Cantico egli asserisce esplicitamente che un "Cantico di questo genere solo l'unzione lo insegna, e solo l'esperienza lo apprende. Quelli che non ne hanno l'esperienza, ardano dal desiderio, non tanto di conoscere, quanto di esperimentare". Il cristianesimo non è, in primo luogo, una teoria. Cristo è una realtà per cui tutto sta nella partecipazione alla sua vita.


Veniamo ora alla realtà del monachesimo oggi. Oltre al monachesimo cristiano, ve n'è anche uno non cristiano. Cosa pensa del dialogo tra le due forme e di certe espressioni di inculturazione da parte cattolica?

Soprattutto le grandi religioni dell'estremo Oriente - per la cui comprensione molto si deve agli studi di de Lubac - sono quasi tutte monastiche. Perciò l'incontro con esse, da parte cristiana, sarà in primo luogo l'incontro dei monachesimi. Ciò però non implica mettersi alla loro scuola, come se noi non avessimo una grande tradizione di fede e di preghiera. Per cui nel dialogo occorre evitare ogni rischio di sincretismo. Non possiamo mettere Cristo tra parentesi. No, Cristo bisogna proclamarlo. Questo, come vuole Giovanni Paolo II, è il punto fermo su cui non possiamo fare concessioni. Dunque dialoghiamo e confrontiamoci, ma conserviamo la nostra identità poiché loro hanno il diritto di sapere ciò in cui noi crediamo.

Avrà il monachesimo un futuro nella moderna società degli affari, dominata dall'ideale dell'homo faber?


Se il monachesimo è passato attraverso quindici secoli di crisi successive, perché dovrebbe finire? Ma soprattutto se esso esprime una forma reale di servizio dentro la Chiesa, un suo momento essenziale nella misura in cui mantiene presente nel mondo un aspetto di Cristo, la sua fine non coinciderebbe forse con un grave impoverimento della stessa Chiesa?


Un'ultima domanda: qual è, a suo giudizio, l'essenza della libertà benedettina?


La libertà benedettina è la libertà cristiana. Essa consiste primariamente in un consenso all'essere, a Dio, così come fa Cristo nel Getsemani. La vita monastica, improntata alla Regola di san Benedetto, è una scuola di vita in cui si è educati a essere liberi. Liberi dentro un'obbedienza. Questo è infatti il mistero della vita cristiana: più si obbedisce più si è liberi.

©L'Osservatore Romano - 30 dicembre 2009
da:  http://segnideitempi.blogspot.com


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europa, medioevo


Nel medioevo la ragione incoronata come arbitro
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Christopher Dawson,uno dei maggiori storici del Novecento, osservò che dai giorni delle prime università «gli alti studi furono dominati dalla tecnica dell'argomentazione logica (quaestio) e dalla disputa pubblica, che ha così decisamente determinata la forma della filosofia medievale, persino nei suoi maggiori rappresentanti.Roberto de Sorbonne diceva che "non si può avere perfetta conoscenza se non delle cose che sono state masticate dai denti della discussione", e la tendenza di sottoporre ogni questione, dalla più ovvia alla più astrusa, a questo processo di "masticazione", non solo acuì la prontezza d'intelletto e la precisione di pensiero, ma sviluppò soprattutto quello spirito di critica e di dubbio metodico, al quale la cultura occidentale e la scienza moderna sono così grandemente debitrici» 33.

Lo storico della scienza Edward Grant contribuisce a chiarire questo punto con le seguenti osservazioni:
Che cosa permise alla civiltà occidentale di sviluppare la scienza e le scienze sociali in un modo che nessun'altra civiltà arrivò a concepire?La risposta, ne sono convinto, sta in uno spirito di ricerca pervasivo e profondamente radicato, uno spirito che fu la conseguenza naturale dell'attenzione che nel Medioevo si cominciò a porre sulla ragione. Se si eccettuano le verità rivelate,la ragione fu incoronata nelle università medievali l'arbitro più alto degli argomenti e delle controversie più intellettuali. Fu assai naturale che studiosi immersi in un ambiente universitario facessero ricorso alla ragione per indagare aree che non erano state mai prima esplorate, e per discutere possibilità che non erano state mai prima contemplate seriamente
La creazione dell'università, l'adesione alla ragione e all'argomento razionale e lo spirito di ricerca che caratterizzarono la vita intellettuale del Medioevo furono «un dono del Medioevo latino al mondo moderno (...), pur se un dono che potrebbe non esser mai riconosciuto appieno; forse conserverà lo status che ha avuto negli ultimi quattro secoli, di segreto meglio tenuto della civiltà occidentale»  Un dono della civiltà il cui centro fu la Chiesa Cattolica.


T.Woods
da  :Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale  Cantagalli




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medioevo, wodds

sabato, 13 marzo 2010



       LA CHIESA E L'UNIVERSITÀ
                               ***



Sebbene non siano in grado di definire il Medioevo cronologicamente, molti studenti universitari di oggi sono sicuri che si sia trattato di un periodo pieno di ignoranza, superstizione e repressione intellettuale. Niente di più lontano dalla verità: è al Medioevo, infatti, che dobbiamo il maggior contributo intellettuale alla civiltà occidentale, ovvero il sistema universitario.

L'università fu un fenomeno del tutto nuovo nella storia europea: nulla di simile era esistito in Grecia o a Roma1. L'istituzione che conosciamo oggi, con le sue facoltà, corsi di studio, esami e lauree, come anche la divisione in corsi di laurea e corsi post lauream, ci viene direttamente dal mondo medievale. Fu la Chiesa a sviluppare il sistema universitario perché, secondo lo storico Lowrie Daly, fu «l'unica istituzione europea che mostrò un interesse costante verso la conservazione e la coltivazione del sapere»2.

Non possiamo indicare una data esatta per la nascita delle università di Parigi e Bologna, Oxford e Cambridge, dal momento che esse si svilupparono lungo un certo arco di tempo, avendo come nucleo Parigi e Bologna le scuole delle cattedrali, Oxford e Cambridge riunioni informali di maestri e studenti, ma possiamo dire con sicurezza che le università cominciarono a prendere forma durante la seconda metà del XII secolo.

Per essere identificata come università una scuola medievale doveva possedere certe caratteristiche.
L'università possedeva un nucleo di testi obbligatori, sui quali i docenti basavano le lezioni aggiungendovi le proprie considerazioni, era inoltre caratterizzata da programmi accademici ben definiti, che duravano per un numero più o meno definito di anni, e si distingueva per il conferimento di diplomi. Poiché autorizzava il laureato ad essere chiamato "maestro", comportava l'ammissione alla corporazione della propria professione.
Sebbene le università fossero spesso in conflitto con le autorità esterne per veder riconosciuta la propria autonomia, generalmente ottenevano sia questa sia il riconoscimento legale di corporazione3.

Non solo la Chiesa in senso lato protesse le università, ma il papato stesso svolse un ruolo centrale nell'agevolare la loro creazione e nell'incoraggiarle. La concessione di uno statuto autonomo a un'università era da intendersi come un chiaro segno di protezione papale. Allo scoppio della Riforma esistevano ottantuno università, di cui trentatré possedevano un privilegio papale, quindici un privilegio reale o imperiale, venti l'uno e l'altro e tredici né l'uno né l'altro4. Era inoltre opinione diffusa che un'università non potesse conferire lauree senza l'approvazione del papa, del re, o dell'imperatore. Nel 1254 Papa Innocenzo IV concesse ufficialmente questo privilegio all'Università di Oxford. Il papa (di fatto) e l'imperatore (in teoria) avevano potere su tutta la cristianità, e per questa ragione era a loro che l'università doveva rivolgersi per ottenere il diritto al conferimento delle lauree. Forti dell'approvazione dell'una o dell'altra delle due figure universali, i certificati di laurea avrebbero goduto del rispetto di tutta la cristianità; le lauree conferite sulla base della sola approvazione dei monarchi nazionali, invece, erano considerate valide solo nel regno in cui erano conferite5.

In certi casi, tra cui si annoverano le università di Bologna, Oxford e Parigi, il certificato di laurea autorizzava a insegnare in qualsiasi luogo (ius ubique docendi). Il primo testo in cui si trova riferimento a questo privilegio è il documento, firmato da Papa Gregorio IX nel 1233, relativo all'Università di Tolosa, che sarebbe diventato un modello per le altre università. Alla fine del Duecento lo ius ubique docendi era diventato «il marchio giuridico di un'università»6. In linea teorica, gli studiosi potevano essere ammessi automaticamente a qualsiasi altra facoltà dell'Europa occidentale, sebbene in realtà le singole istituzioni si riservassero il diritto di esaminare il candidato prima di assumerlo". In ogni caso, il privilegio conferito dai papi svolse un ruolo importante nell'incoraggiare la diffusione del sapere e lo sviluppo del concetto di comunità scientifica internazionale.


1 Si vedano CHARLES HOMER HASKINS, The Rise of Universities, Cornell University Press, Ithaca 1957 [1923], p. 1; ID., La rinascita del dodicesimo secolo, traduz. di P. Marziale Bartole, Il Mulino, Bologna 1998 [1972], p. 307 (ediz. originale: The Renaissance of the Twelfth Century, Meridian, Cleveland, Ohio 1957 [1927]); LOWRIE J. DALY, The Medieval University, 1200-1400, Sheed and Ward, New York 1961, pp. 213-14.
2 L.J. DALY, op. cit., p. 4.
3 RICHARD C. DALES, The Intelliectua! Life of Western Europe in the Midle Ages, Universit. Press of America, Washington, D.C. 1980, p. 208.
4 Vedi voce "Universities", Catholic Encyclopedia, 1913. Le università che non avevano statuti autonomi si erano formate spontaneamente ex consuetudim.
5 Ibid.
6 GORDON LEFF, Paris and Oxford Universities in the Thirteenth and Fourteenth Centuries:
An Institutionai and Intellectuai History
, Jon Wiley and Sons, New York 1968, p. 18.
L.J DALY, op. cit., p. 167.

T.Woods

da  :Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale  Cantagalli


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medioevo

mercoledì, 10 marzo 2010

L'Età medievale
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Parlando dell'Età medievale si fa spesso riferimento ad un periodo buio sotto tutti i punti di vista.
In realtà il Medioevo vide la nascita di un bagliore culturale molto forte, radicato nei principi classici rielaborati in senso metafisico.
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S'intendeva per cultura, un complesso organico di conoscenze che tendeva a dare un'armonia e un fine ultimo a ciò che l'uomo conosceva. L'insegnamento era rivolto in gran parte a discepoli di famiglie ricche, veniva compreso anche dai ceti più bassi che di trovavano a vivevere in un clima culturale tale da far loro concepire idee generali avvertendo la presenza di sommi valori.
Tra questi vi era anche il re carolingio Carlo Magno, analfabeta ma dotato di un'acuta intelligenza.
La nascita della Schola Palatina: il Trivio e il Quadrivio
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In quel tempo, la Chiesa era un organo fondato da elementi di notevoli conoscenze intellettuali.
Non a caso, infatti, tutti i componenti del clero erano in grado di leggere e scrivere.
Affascinato da queste attività, Carlo Magno si prodigò alla creazione di un istituto pubblico in grado di istruire il popolo ad un buon livello di conoscenze.
Questo fu il principale ideale su cui si basò la Rinascita carolingia che diede alla luce la Schola Palatina presso la corte di Aquisgrana che vantò la presenza dei maggiori dotti dell'epoca.
Gli insegnamenti si distinsero in due diverse tipologie:
le arti del Trivio (gestite da esponenti del clero) basate sullo studio di:
- retorica
- grammatica
- dialettica
le arti del Quadrivio (gestite da privati) basate sullo studio di:
- aritmetica
- geometria
- musica
- astronomia
 
La riforma della Chiesa e l'Admonizio Generalis
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Nel 789 Carlo Magno volle unificare le leggi religiose in materia liturgica che sancivano l'applicazione della regola benedettina, della revisione uniforme della Bibbia e dell'istruzione del clero con l'Admonizio Generalis.

Per attuare queste riforme il re chiamò alla corte di Aquisgrana i migliori intellettuali dell'epoca come Teulfo, Paolino d'Aquileia, il longobardo Paolo Diacono e soprattutto Alcuino di York.
Questo geniale riformatore inglese fu la figura di primaria importanza per la raccolta delle informazioni sulla sapienza dell'età classica cui ne seguì la trasmisione alle generazioni future attraverso la scrittura amanuensa dei monaci.
Il desiderio di uniformare e codificare la fede cattolica, ebbe alcuni sbocchi pratici di cui ancora oggi ono presenti le conseguenze nella cultura e nella fede del mondo occidentale.
I risultati di questi sviluppi furono:
1. l'uniformità della scrittura con la codificazione della grafia: la minuscola carolina, ancora presente nei nostri caratteri di stampa come nello stile Times New Roman, a cui si aggiunse anche l'introduzione dei segni di interpunzione come il punto interrogativo;
2. l'uniformità della liturgia, con l'applicazione del Canone Romano e della liturgia delle ore per tutto il clero con l'obbligo di saper scrivere e leggere in latino in tutti i monasteri del Sacro Romano Impero;
3. l'uniformità di compilazione della Bibbia il cui risultato sono trenta splendidi volumi realizzati da Alcuino;
4. L'uniformità della fede, sanciva la condanna dell'iconoclastia (rifiuto dell'adorazione di immagini sacre) attuata nel'Impero d'Oriente e l'ammissione della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (filioque), espressamente e voluta da Carlo Magno.
Il risultato più alto di questo lavoro teologico fu rappresentato dai libri Carolini, quello di più immediate conseguenze negative fu invece lo scisma con la Chiesa d'Oriente (867)
5. l'uniformità del metodo di studio teologico, basato su tre punti:
- lettura della Bibbia
- studio dei padri e dei filosofi antichi
- applicazione delle arti liberali (in special modo il Trivium)
La Scolastica
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Grazie all'Admonitio Generalis si sviluppò un nuovo tipo di insegnamento: nacque la Scolastica.

Essa venne divisa in tre periodi:
- la fase iniziale da Carlo Magno (782) alla fine del XI secolo
- la fase intermedia che comprende il XII e il XIII secolo
- la fase conclusiva dal XIV secolo al '400.

Nel primo periodo il corso di studi veniva gestito dai monaci e dai preti per materie a carattere religioso o legato all'epoca classica mentre argomentazioni di tipo tecnico-scientifico venivano lsciate ai privati.

Nel secondo periodo i due tipi di insegnamento si fusero in un unico corso di studi e finirono con l'avere un'unica sede d'insegnamento, dividendosi in sedi:
- parrocchiali
- episcopali
- palatine
- di piazza

Queste terminologie vennero adottate secondo il luogo in cui venivano impartite le lezioni.
In questa fase cominciò a nascere una lieve spaccatura tra gli insegnamenti dei religiosi e quelli dei privati.
A partire dal XII secolo, l'umanità cominciò a marciare dall'agricoltura verso una fase di evoluzione in cui si svilupparono i commerci e aumentarono gli scambi tra paesi di media e lunga distanza.

A questo punto la Scolastica dovette adeguarsi ampliando il suo campo di insegnamenti.
Nacque così una netta contrapposizione tra la "sapientia" dei monaci e la "scientia" degli intellettuali.
La nascita delle Università
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Nel terzo periodo nacquero infine le prime università che inizialmente erano solo dei luoghi privati in cui si incontravano docenti e allievi.
Fra i maggiori istituti di questo genere si ricordano soprattutto quelli di Ravenna, Pavia, Bologna, Padova e l'Università Federico II di Napoli
Le lezioni universitarie erano costituite in tre parti:
La Lectio
Nella Lectio veniva letta un'opera classica in assoluto
silenzio.
La Questio
Nella Questio si contrapponevano due allievi di opinione opposta (l'"opponens" ed il "respondens" venivano nominati dal maestro).
La Disputatio
Gli studenti intervenivano e si esaminavano i pro e i contro del testo.
Non era però permesso affrontare dibattiti su pareri personali.



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medioevo


Alcuino da York


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Biografia del Padre della Chiesa autore delle "Propositiones ad Acuendos Juvenes"
Uno dei tre uomini raffigurati in questa immagine è il diacono Alcuino da York, ma quale?

Rabano, Alcuino e Otgaro
Alcuino è il monaco in secondo piano, caratterizzato dal ciuffo di capelli sulla fronte, che tiene la mano sulla spalla del proprio allievo Rabano Mauro mentre lo presenta al vescovo Otgaro.
Nel 781, all'età di 46 anni, Alcuino fu invitato dal re Carlo Magno a trasferirsi dalla scuola episcopale di York, di cui era direttore, al palazzo di Aquisgrana, sede della corte reale, per organizzare la diffusione della cultura in quello che sarebbe diventato un grande impero di breve durata.
Alcuino riusciva molto bene nell'insegnamento e fu un grande civilizzatore.
Diresse la celebre Schola Palatina, e fissò l'ordinamento pedagogico-culturale delle scuole che sorgevano, per ordine di Carlo Magno, presso le sedi episcopali e nei principali monasteri. Introdusse il sistema di discipline noto come "Trivio" (grammatica, retorica e logica) e "Quadrivio" (aritmetica, geometria, musica e astronomia).
Favorì la diffusione di una scrittura semplice, elegante e facilmente leggibile chiamata minuscola carolina. Con questa scrittura si ricopiarono non soltanto testi religiosi ma anche le più antiche versioni di molte opere matematiche greche giunte fino a noi.

Un esempio di font minuscola carolina
realizzata al computer ma abbastanza fedele a quella originale
Una piccola curiosità: la minuscola carolina si trasformò, nel secolo XII, a Roma, nella minuscola romanesca, che può essere considerata l'antenata di un font di caratteri oggi molto noto e diffuso: il Times New Roman.
 da:http://utenti.quipo.it/base5/


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medioevo, alcuino

venerdì, 08 gennaio 2010

Cassiodoro
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Flavio Magno Aurelio
CASSIODORO SENATORE


Cassiodoro nacque a Squillace, tra il 485 e il 490, da prestigiosa e illustre famiglia, che vantava parentela con i Simmachi e con la famiglia degli Anicii, alla quale apparteneva anche Boezio. Il nome proprio, che lo distingue dai sui antenati e familiari tutti illustri , era quello di Senatore, spesso confuso con l'appellativo della funzione senatoria.
Il padre (CASSIODORO III), già comes sacrarum largitionum sotto Odoacre, passato poi alla corte di Teodorico aveva ricoperto importanti cariche, divenendo, unica eccezione alle leggi di quei tempi che vietavano di svolgere l'incarico nella regione di origine, Corrector di Lucania e Calabria, dando l'onore a Squillace di diventare capoluogo del
la Regio tertia, poi Prefetto del pretorio e conquistando la dignità di Patrizio.
Assai interessante la figura del bisnonno (CASSIODORO I) che nel 440 difende e libera Sicilia e Calabria dei Vandali di Genserico; ma soprattutto è importante quella del nonno (CASSIODORO II), legato alla famosa e leggendaria ambasceria presso ATTILA, da lui guidata nel 448 insieme a CARPILIONE, figlio di Aezio, che consentì al Papa LEONE MAGNO di assumere il merito storico di aver fermato la distruzione dell'Italia dalle orde del   "Flagello di Dio".

"... Ad Attilam igitur armorum potentem cum. . . Carpilione legationis est officio non irrite destinatus... Pacem retulit disperatam...", Variae, 1, 4.
Statista e Letterato

Avviato dal padre alla carriera politica, il giovane Cassiodorus Senator percorse rapidamente, sotto Teodorico e i suoi successori, il cursus honorum, conseguendo le più prestigiose cariche. Questore ancor giovanissimo, dal 507 al 511, fu nominato anch'egli corrector Lucaniae et Bruttiorum; nel 533 fu nominato praefectus praetorio, carica che tenne fino al 536, l'anno che segna il tramonto della potenza gotica in Italia a seguito della disastrosa guerra contro i Bizantini. Quattro re dei Goti: Teodorico, Atalarico, Teodato e Vitige e la Reggente Amalasunta lo ebbero a proprio ministro.

Nella ideologia e nella prassi politica è intuizione e progetto sapiente e lungimirante di Cassiodoro l'integrazione e la fusione, pur nella distinzione, fra Gothia e Romania cementata dalla civiltà cristiana, con ciò anticipando di quindici secoli il cammino dell'unificazione delle culture e dei popoli europei, che si va concretizzando nei tempi attuali e di cui è propugnatore fervente il Papa Giovanni Paolo II.

E' anche merito di Cassiodoro, della sua saggezza, della sua correttezza e del suo consiglio se al regno di Teodorico, viene concordemente riconosciuto il massimo di "rigore amministrativo, "tolleranza" religiosa e recupero dell'antico nell'Italia ostrogota".
 
Ritiratosi dalla vita politica, raccolse nel 537 - 538 i documenti della sua attività cancelleresca alla corte dei re, in un'opera che, per il suo carattere eterogeneo, reca il titolo di Variae: raccolta di 568 lettere divise in 12 libri, scritte da Cassiodoro sia in propria persona sia, per la maggior parte, a nome dei vari re goti, opera che riveste un'importanza fondamentale per la conoscenza del periodo storico cui si riferisce.
Caduto il regno dei Goti ed esaurita la missione-esilio a Costantinopoli a fianco di Papa Vigilio per sostenerne le ragioni nella controversia dei Tre Capitoli, Cassiodoro, immerso in una radicale conversio, attraverso un itinerario eccezionale e ammirevole santità , si dedicò interamente all'attività intellettuale e religiosa, nel tentativo di attuare un grandioso programma di educazione culturale e formativa, unica luce e punto di riferimento nei secoli tristissimi che si aprivano.


1. V A. SIRAGO,  I Cassiodoro - Una famiglia calabrese alla direzione dell'Italia nel V e VI secolo,
                           Soveria M. 1983.
2. B. SAITTA,       La civilitas di Teodorico, "LERMA" DI BRETSCHNEIDER, Roma 1993.
3. G. PALERMO,  L'itinerario di un'anima, Introduzione e traduzione, con testo a fronte, del De Anima di  
                           Cassiodoro
, Catania, Centro di Studi sull'antico Cristianesimo, 1978.
4. L. CODISPOTI,  L'Anima secondo Cassiodoro illustre figlio di Squillace. Catanzaro 1983.

. . . salva la civiltà classica

Fallito un primo tentativo di fondare a Roma, nel 536, con l'aiuto di Papa Agapito, un'università del sapere cristiano e profano , sul modello di quelle fiorite in Oriente, ad Alessandria e a Neocesarea-Nisibi, riuscì nel suo intento nella natìa SQUILLACE, ove fondò tra il 554-560, a lato del fiume Pellene (attuale Alessi), il monastero di
Vivarium, che si può a ragione considerare il primo esempio di università cristiana d'Occidente.
Quivi compose, per l'istruzione dei suoi monaci, le Institutiones divinarum et humanarum litterarum, I'opera sua più importante e più nota, una specie di introduzione allo studio delle lettere sacre e profane, ma anche una traccia di Regola per i suoi Monasteri.
Lo studio imposto ai monaci, insieme alla trascrizione degli antichi codici, dava un originale ed autonomo indirizzo alla Regola benedettina, privilegiando, in senso intellettuale, l'obbligo del lavoro, prescritto da S. Benedetto, secondo uno schema che, come si sa, ha i suoi prodromi nella Regula Magistri, da molti attribuita allo stesso Cassiodoro.
Sui colli di Squillace (territori degli attuali Comuni di Squillace e Stalettì) disseminò inoltre i "secreta suavia", che facevano capo all'altro monastero di Montecastello, destinato ad accogliere la preghiera, l'ascesa e il lavoro manuale degli anacoreti. Si deve a Cassiodoro, più che ad ogni altro, se i monasteri tennero viva, in mezzo alla barbarie generale di quei secoli, la luce della scienza, salvando dalla distruzione, i tesori della cultura antica. Purtroppo, l'istituzione non sopravvisse a lungo al suo fondatore.
Venuta meno la forte personalità di Cassiodoro, che morì ultranovantenne, intorno al 583, i Monasteri cassiodorei ebbero un rapido declino, e già nel sec. VII la sua celebre biblioteca del Vivarium, che aveva raccolto pressochè tutto quello che in quel tempo esisteva della cultura sacra e profana, andò smembrata e dispersa.
Delle altre opere di Cassiodoro, oltre le già citate Variae e le Institutiones, si ricordano: una Cronaca universale, una Historia Gothorum in 12 libri (perduta, ma della quale si possiede un riassunto fattone dal goto Jordanes), il De anima di ispirazione agostiniana e platonica, il De orthographia, la Historia ecclesiastica tripartita (traduzione e rielaborazione delle storie ecclesiastiche di Socrate, Sozomeno e Teodoreto), e una serie di opere biblico - esegetiche: (Expositio in Psalmos, prevalentemente in dipendenza da Agostino; Complexiones in Epistulas Apostolorum, brevi note esegetiche, particolarmente alle Epistole paoline; Complexiones in Acta Apostolorum; Complexiones in Apocalypsim Johannis).
_________________

S. PRICOCO, Spiritualità monastica e attività culturale nel cenobio di Vivarium, in Flavio Marco Aurelio Cassiodoro, Atti settimana studi Cosenza-Squillace 19-24 settembre 1983 a cura di Sandro Leanza, Soveria M. 1986, p. 359:
J.J. O' DONNEL, Cassiodorus, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1979, p. XVI+177-222;
A. MOGLIANO, Cassiodorus and Italian Culture of is time, "Procedings of the British Academy" 41 (1965); ID.,
                         Cassiodoro. "Dizionario Biografico degli Italiani", XXI, 1978:
S. ESPOSITO, Cassiodoro, la Bibbia e la cultura occidentale, "Divus Thomas" 79, 1958. pp 193-204.
 A. LIPINSKI, Il Monasterium Vivariense, in: Università d'Europa a cura di Pietro Borraro. Radio Vaticana: Orizzonti
                      Cristiani, 20/11/62, riprodotto in La Voce di Squillace, Anno Xl-1964, n. 5-6;
V FARAONI, L' Universita' Cattolica Italiana dal Medioevo ad oggi, in L'Osservatore Romano, 1964.
 I. SCHUSTER, Come finì la biblioteca di Cassiodoro?, Milano 1942.
  ...Monaco e Santo *

"Tra i contemporanei di san Benedetto, il monaco più celebre, che dieci anni dopo Montecassino fondò un monastero, fu Cassiodoro.
Era stato un uomo di Stato. Quando Teodorico tolse a Odoacre la corona e la vita, Cassiodoro si ritirò nelle sue terre. Si è conservata una lettera di Teodorico a Cassiodoro, che fa di quest'ultimo un elogio senza riserve: "Sei degno che si venga in cerca di te con premura, dopo che hai ottenuto al nostro regno una così alta reputazione e gli hai procurato tanti elogi e gloria... Hai adornato la corte con l'integrità della tua coscienza, hai procurato ai popoli una quiete profonda... Ti sei acquistato nel mondo una stima tanto più alta quanto meno ti sei venduto, quale che fosse il prezzo offerto".
Per tutto il tempo della sua vita pubblica, aveva unito, a un perfetto disinteresse, una grande austerità di costumi e una profonda pietà. Si dedicava con particolare predilezione allo studio della Scrittura: era in questa frequentazione assidua, come testimonia re Atalarico, che quest'uomo di Stato attingeva la forza di restare fedele a tanta virtù: "Ecco dove ha appreso a opporre il timore salutare del Signore ai moti della natura umana; ecco dove s'è ricolmato di celeste sapienza, sempre accompagnata dal gusto della verità; è attraverso questa scienza sacra e questo santo studio che s'è radicato nell'umiltà cristiana". Redasse un Trattato dell'anima, in cui si rivela buon discepolo di sant'Agostino. Gli mancava di abbandonare l'azione per la contemplazione. Alla massima, ereditata da san Martino, che è "meglio servire il re dei cieli anziché il più grande re della terra", aggiungeva quella secondo cui "è più lodevole occuparsi della propria salvezza che non della sorte dello Stato".
La caduta di quelle istituzioni di cui era stato per più di cinquant'anni il saggio operaio, costituiva per lui un avvertimento del cielo. Da lunghi anni si considerava ormai un prigioniero della politica e supplicava Dio di liberarlo da quelle catene...le basse rivalità dei clan e lo scatenarsi di ambizioni irresponsabili gli mostrarono quanto la sua devozione alla causa pubblica fosse diventata inutile.
Senza indugi, volle essere monaco. Avrebbe potuto bussare alla porta di numerosi monasteri: ma l'avrebbero accettato a quell'età avanzata ? Non avrebbero soprattutto avuto timore di avere in quell'alta personalità politica un religioso ingombrante? La sola condotta da tenere era quella di fondare.
Cassiodoro fece sistemare in terra calabra, sul fianco di una montagna che dominava il mare, una proprietà che aveva nome Vivarium: "Le acque vive". Lì, sorgenti chiare scaturivano dalla roccia, si diffondevano per gli orti ridenti e facevano girare le ruote dei mulini; più in basso, il fiume Pellene, brulicante di pesci, costeggiava il dominio prima di gettarsi nel mare. Ritiro pieno di risorse nutritive e incantevole per lo spettacolo della natura. Da quell'ingegnere che era, Cassiodoro vi fece collocare orologi che controllavano gli orari canonici.
La proprietà era vasta. Il fondatore voleva che essa rispondesse alla verità delle vocazioni. In basso, c'era la casa dei cenobiti, che conservò il nome di Vivarium: vi fu installata una grande biblioteca, ricca di libri preziosi, e costruita una chiesa, che fu dedicata a san Gregorio Taumaturgo. In alto, nel luogo che venne chiamato
Castellum , furono sistemate le celle degli anacoreti. Questa duplice destinazione precorreva l'ordine camaldolese, ma traeva forse il suo modello da Lérins. I due monasteri sebbene facenti parte di uno stesso complesso, furono giudicati tali da dover avere due superiori, quello dei cenobiti fu Calcedonio, quello degli anacoreti Geronzio. Secondo la tradizione egiziana, di cui Lèrins era ugualmente tributario, i cenobiti di Vivarium erano ammessi alla vita anacoretica (di Montecastello), dopo una lunga esperienza di vita religiosa.
Tuttavia non è come fondatore o legislatore che Cassiodoro è stato venerato, bensì come storico, esegeta e pedagogo. Il Venerabile Beda ne fa un dottore della Chiesa e dichiara che i suoi commenti ai salmi non sono inferiori a quelli di san Giovanni Crisostomo e sant'Agostino. Paolo Diacono celebra "lo straordinario vigore del suo spirito". Incmaro loda l'acutezza della sua intelligenza. Il cardinale Sirleto, bibliotecario vaticano sotto Pio IV°, lo considera l'uomo più dotto di tutto il VI° secolo.
Aggiungeremo che Cassiodoro brillò per santità di vita non meno che per sapienza ed erudizione. Alcuino lo colloca tra i beati e Bollandus gli dedica una notizia negli "Atti dei santi".
Tutti i suoi contemporanei hanno testimoniato la sua umiltà, la sua carità, la perfetta castità, la costante unione con Dio. Egli - dice Giovanni Cocleo, teologo del Rinascimento tedesco - ha sempre
"difeso la causa della Chiesa cattolica con indomita fedeltà e perseveranza".

IVAN GOBRY*
Università di Reims - Istituto Cattolico di Parigi

____________
*I. GOBRY, Storia del Monachesimo, Città Nuova Editrice, Roma 1991, 1 pp. 711-717.
1.
La tradizione consolidata e studi più recenti indicano nel colle su cui sorge l'attuale Squillace il sito maggiore 
   dell'insediamento del monastero di MONTECASTELLO, intorno a cui si formò l'attuale Città, dove vennero trasferite tutte le   istituzioni civili ed ecclesiastiche, compreso il Vescovado, dalla romana SCOLACIUM.
.
grazie a:   http://www.cassiodoro.it/index.htm

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medioevo, cassiodoro

giovedì, 17 settembre 2009


Come Guido d'Arezzo inventò l'alfabeto musicale
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Prima di Guido d’Arezzo tutta la musica veniva necessariamente imparata a memoria, perché potesse essere anche trasmessa alle generazioni successive.

Ci furono tentativi per fissare sopra un rigo di carta i suoni musicali, ed erano degli accenti rivolti verso l’alto o verso il basso, a indicare l’andamento della melodia. Ma è chiaro che da quei segni sibillini non si poteva ricavare nulla, se il canto non era conosciuto a memoria.

Il monaco benedettino Guido, che insegnava nella scuola episcopale di Arezzo agli inizi del 1000, notò che un canto gregoriano, l’inno dei primi vespri di S. Giovanni Battista, aveva una caratteristica particolare: ogni mezzo versetto (emistichio) iniziava con una nota che saliva di un tono o semitono, secondo l’ordine naturale, conosciuto fin dal tempo di Pitagora.

L’inno era questo:

UT queant laxis REsonare fibris
MIra gestorum FAmuli tuorum
SOLve polluti LAbii reatum
Sancte Iohannes.

(Affinché i tuoi servi possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue azioni, cancella il peccato del loro labbro impuro, oh San Giovanni).

Egli pensò così di segnare sopra dei righi (in genere 4, il tetragramma) e negli spazi intermedi le singole note di qualsiasi canto, semplicemente confrontandole a mente con quelle iniziali dell’inno di S. Giovanni.
Aveva così inventato il solfeggio cantato e soprattutto il nome delle note (Ut Re Mi Fa Sol La) e il modo di segnarle sui righi: aveva inventato l'alfabeto musicale, come i fenici quello letterale.

La prima nota, per la durezza della pronunzia, nei paesi latini (ma non in Francia) venne sostituita con il DO (che è l’inizio della seconda strofa del medesimo innno); la settima nota, il SI venne aggiunta da altri, e sono le iniziali di Sancte Iohannes.

Il papa, Giovanni XIX, venuto a conoscenza del nuovo sistema di scrittura musicale, chiamò Guido monaco a Roma e volle cimentarsi con la scrittura guidoniana. Con sua stessa grande meraviglia imparò in pochi minuti un canto che altrimenti avrebbe richiesto ore ed ore. Ed era ovviamente un canto monodico.

Pensiamo ai canti polifonici, oppure alla VIII sinfonia di Mahler, denominata Sinfonia dei Mille: mille sono gli orchestrali e i coristi…
Noi oggi non potremmo ascoltare la musica che ci piace, qualunque sia, se il monaco Guido, ad Arezzo, nel 1025, non avesse inventato l’alfabeto musicale.

 grazie a: amicusplato

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bellezza, medioevo

giovedì, 12 marzo 2009

 I diritti umani secondo Francisco de Vitoria
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Il domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546), giurista e filosofo di profonda ispirazione tomista, fu tra i principali esponenti della scuola teologica di Salamanca. Nelle sue Relectiones theologicae, tenute annualmente proprio all’università di Salamanca e pubblicate dopo la sua morte, egli prese posizione in difesa degli Indios contro gli abusi dei conquistadores, criticò i teorici dell’assolutismo monarchico, pose le basi per la codificazione di uno ius inter gentes (antesignano del diritto internazionale), ma soprattutto elaborò la prima definizione moderna dei “diritti dell’uomo”.
Offriamo di seguito l’elenco di tali diritti, come riferito da F. González-Fernandez, lasciandolo alla vostra intelligenza (alcuni storceranno il naso al n. 9, che va comunque collocato nel contesto dell’epoca; ma non potranno non restare colpiti dalla penetrante attualità, in particolare, dei nn. 3,5,6,10,13,14,15):

1. Per nascita gli uomini sono liberi.
2. Per diritto naturale nessuno è superiore agli altri.
3. Il bambino non viene all’esistenza in ragione degli altri, ma di se stesso.
4. È meglio rinunciare al proprio diritto che violare quello altrui.
5. È lecita all’uomo la proprietà privata; ma nessuno è talmente proprietario che non debba, a volte, condividere con altri i suoi beni. In caso di estrema necessità tutte le cose sono comuni.
6. I malati di mente – che abbiano perduto per sempre l’uso della ragione – sono soggetti di diritto e possono essere proprietari.
7. Al condannato a morte è lecito fuggire, perché la libertà si equipara alla vita.
8. Se il giudice, non curando l’ordine del diritto, ottiene a forza di torture la confessione del reo, non può condannarlo, perché così agendo non si è comportato da giudice.
9. Non si può mettere a morte una persona che non sia stata giudicata e condannata legittimamente.
10. Ogni nazione ha diritto a governare se stessa e può scegliere il regime politico che vuole, anche quando non è il migliore.
11. Tutto il potere del re viene dalla nazione (popolo), perché questa è libera per principio.
12. L’orbe intero, che in certa maniera costituisce una res publica, ha il potere di dare leggi giuste e convenienti a tutta l’umanità.
13. Non è lecita una guerra che porti alla nazione un male ben maggiore dei vantaggi che per mezzo di essa si vogliano raggiungere, quali che siano le ragioni e i titoli per cui si ritiene che sia giusta.
14. Se il suddito constata l’ingiustizia della guerra, può rifiutarsi di parteciparvi, anche contro il mandato del principe.
15. L’uomo non è lupo per l’uomo, ma è innanzitutto uomo.


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medioevo

mercoledì, 11 marzo 2009

Con Eco è un altro Medioevo
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di Umberto Eco

Di quell'epoca, il Medioevo, apparentemente così lontana noi usiamo ancora in gran parte l'eredità. Pur conoscendo ormai altre fonti di energia, usiamo ancora i mulini ad acqua e a vento, già noti agli antichi, e in Cina o in Persia, ma che solo dopo il Mille vengono introdotti e perfezionati in Occidente. E pare che di quel legato si debba fare buon uso ora che, con la crisi del petrolio, si sta riconsiderando seriamente l'energia eolica.

Il Medioevo molto apprende dalla medicina araba, ma nel 1316 Mondino de' Liuzzi pubblica il suo trattato di anatomia ed esegue le prime dissezioni anatomiche di corpi umani, dando inizio alla scienza anatomica e alla pratica chirurgica nel senso moderno del termine.

I nostri paesaggi sono ancora costellati da abbazie romaniche e le nostre città conservano maestose cattedrali gotiche dove i devoti vanno ancor oggi a seguire le funzioni religiose.

Il Medioevo inventa le libertà comunali e un concetto di libera partecipazione di tutti i cittadini ai destini della città e ancora oggi nei palazzi di quei comuni risiedono le nostre autorità cittadine. In queste città nascono le università: la prima appare, sia pure in forma embrionale, nel 1088 a Bologna, ed è la prima volta che una comunità di professori e studenti, i primi dipendendo economicamente dai secondi, si costituisce al di là del controllo sia dello Stato che della Chiesa.

Nascono nelle stesse città varie forme di economia mercantile e prende origine la banca, insieme alla lettera di credito, e pertanto l'assegno e la cambiale. Ma infine sono le invenzioni medievali che ancora usiamo come se fossero cosa del nostro tempo: il camino, la carta che sostituisce la pergamena, i numeri arabi adottati nel XIII secolo con il 'Liber Abaci' di Leonardo Fibonacci, la partita doppia, con Guido d'Arezzo il nome delle note musicali - e qualcuno elenca anche bottoni, mutande, camicia, guanti, cassetti dei mobili, pantaloni, carte da gioco, scacchi, i vetri alle finestre. Nel Medioevo iniziamo a sederci a tavola (i Romani mangiavano sdraiati), a usare la forchetta, e appare l'orologio a scappamento, diretto antenato dei nostri orologi meccanici. Viviamo spesso ancora delle diatribe tra Stato e Chiesa, sperimentiamo in forme diverse il terrorismo mistico degli entusiasti di un tempo, dal Medioevo abbiamo ereditato l'ospedale, e le nostre organizzazioni turistiche si ispirano ancora alla gestione delle grandi vie di pellegrinaggio.

Il Medioevo, ispirandosi alle ricerche degli Arabi, ha prestato molta attenzione all'ottica, e Ruggero Bacone dichiarava che essa era la nuova scienza, destinata a rivoluzionare il mondo: "Questa scienza è indispensabile allo studio della teologia e al mondo (...). La vista ci mostra tutta la varietà delle cose, e per essa ci si apre la via a conoscere tutte le cose, come risulta dall'esperienza". E sono gli studi di ottica, insieme all'esperienza dei maestri vetrai, che portano all'invenzione quasi casuale, e dalle origini alquanto oscure (chi parla di Salvino degli Armati, nel 1317, chi risale al Duecento con frate Alessandro della Spina), di qualcosa che da allora non è fondamentalmente mutato: gli occhiali.

A parte l'uso che ancora ne facciamo, gli occhiali hanno avuto un'altra influenza di enorme portata sullo sviluppo del mondo moderno. Ciascun essere umano tende, dopo i quarant'anni, a soffrire di presbiopia, e in un'epoca in cui si compitavano manoscritti, e per metà della giornata alla luce di una candela, si può considerare che dopo una certa età l'attività di un uomo di studio declinasse paurosamente. Con
gli occhiali non solo gli uomini di studio, ma anche chi si dedicava ad attività commerciali e artigianali, hanno prolungato e aumentato le proprie capacità di applicazione. È come se le energie intellettuali di quei secoli si fossero di colpo raddoppiate, se non decuplicate. Se pensiamo a quanto ha giovato allo sviluppo scientifico americano il fatto che poche decine di scienziati ebrei, fuggendo il nazismo, fossero venuti ad arricchire la scienza e la tecnica del Nuovo Continente (in fin dei conti a costoro, in gran parte, è dovuta la scoperta dell'energia atomica e le sue applicazioni), ci facciamo una pallida idea di che cosa abbia significato l'invenzione degli occhiali. (...).
(24 febbraio 2009)
Peccato che anche adesso a scuola si racconta del medioevo come  secoli bui di assoluta arretratezza,  adesso invece inizia ad apprezzarlo anche Umberto Eco meglio tardi che mai!!!!.

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medioevo

domenica, 29 giugno 2008

Chi disse eppur si muove?
Galielo Galilei? o Giuseppe Baretti?
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In realtà, la frase, che che si credeva pronunciata da Galileo Galilei al tribunale dell'Inquisizione (nel 1616), è stata del tutto inventata da un giornalista italiano, tale Giuseppe Baretti, che aveva ricostruito la vicenda in maniera anticattolica, per il pubblico inglese in un libro pubblicato a Londra nel 1757. Italian Library cliccaqui
 grazie ad: AlessandroG

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medioevo

sabato, 19 gennaio 2008

La condanna di Galileo
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«La carcerazione coincise con qualche mese trascorso nella villa di campagna dell'arcivescovo di Firenze, si direbbero oggi gli arresti domiciliari, dove ha potuto svolgere la sua solita vita. Dopo di che, tornò ad Arcetri e in considerazione della sua tarda età gli furono sospese tutte le restrizioni salvo l'obbligo di recitare una volta alla settimana i sette Salmi penitenziali. Tuttavia, la Chiesa ammetteva da tempo che uno potesse passare la sua pena ad altri, nel caso fossero disposti ad attuarla al suo posto. Galileo, avendo una figlia Maria Celeste clarissa, affidò a lei il compito di recitare al suo posto i Salmi, cosa che la figlia fece. Documentazione di questo episodio è conservata in uno splendido epistolario in cui Maria Celeste scrive della vita in convento, raccontando che aveva adempiuto rigorosamente all'incarico datogli di recitare i Salmi. » 
L. Negri  Il processo a Galileo: contesto storico e suo significato.
                            

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medioevo, negri

giovedì, 03 gennaio 2008

……dai secoli bui!!!!! J
L'invenzione degli occhiali da vista
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«Prima dell'invenzione degli occhiali, un gran numero di lavoratori adulti era limitato nei compiti che poteva svolgere, specialmente se impegnato in attività artigianali. Per questa ragione, l'invenzione degli occhiali da vista, avvenuta all'incirca nel 1284 nell'Italia settentrionale, cambiò radicalmente la produttività. Senza occhiali, molti artigiani del Medioevo a quarant'anni non potevano più lavorare. Con la loro introduzione, non solo la maggioranza di queste persone fu in grado di continuare a svolgere la propria attività, ma si ritrovò addirittura ad avere davanti a sé gli anni più produt- tivi, grazie all'acquisizione di maggiore esperienza. Non solo; molti compiti vennero enormemente facilitati dall'uso di lenti d'ingrandimento anche da parte di persone che ave- vano un' ottima vista. Queste attività erano spesso più impegnative di quelle degli antichi artigiani. Non c'è da stupirsi se gli occhiali si diffusero con una rapidità incredibile. A un secolo dalla loro invenzione, venivano prodotte in se- rie ogni anno decine di migliaia di paia di occhiali in stabilimenti a Firenze e a Venezia. Nonostante ciò, quando nel 1492 Colombo spiegò le sue vele, gli occhiali erano cono- sciuti solo in Europa »
Rodney Stark. Lindau "La vittoria della Ragione"


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medioevo, cristianesimo, stark

sabato, 15 dicembre 2007

L 'Inventività Tecnologica Medioevale

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Si dirà, forse, che è audace fondare l'inventività tecnologica medioevale su qualche scoperta, anche se a dire il vero importante (il collare per cavallo, il timone, l'orologio) quali sono quelle che abbiamo appena citato.
Per meglio sostenere la nostra tesi, enumero, allora, brevemente, altre invenzioni che hanno fatto la loro comparsa durante quei secoli che, di solito, vengono chiamati oscuri, invenzioni che, notiamolo, hanno continuato ad esercitare i loro effetti fino ai nostri giorni. Sono: i ferri da cavallo (IX sec.) che proteggono gli zoccoli in terreni rocciosi, pesanti e umidi, grazie ai quali è possibile ottenere un migliore utilizzo dell'animale; l'aratro ad avantreno, coltro e versorio (XI sec.) che permette di dissodare vaste zone boschive e ricche pianure alluvionali; le innumerevoli specie di mulini ad acqua o a marea e, più tardi, a vento, che sostituiscono il lavoro dell'uomo, sia esso libero o servile, attraverso il lavoro di una macchina, una macchina che utilizza risorse energetiche inesauribili e non inquinanti (tratto caratteristico della società monastica medioevale: alcuni monaci, nel X sec., decidono di costruire un mulino ad acqua "per avere più tempo da consacrare alla preghiera". Ovvero: la tecnica al servizio dell'uomo); il cabestano e il martinetto a vite (XIII sec.), che permette di sollevare grossi carichi -il cric -; nel XIV e XV sec. la carriola e la ruota a cerchione e raggi; la bussola (1185), senza la quale non sarebbe stato possibile effettuare navigazioni d'altura; gli occhiali (1286 ca.), che prolungano la vita intellettuale dell'uomo; la chiusa a sassi o a doppia porta (1285) che permette di controllare il corso dei fiumi e dei canali. Non dimentichiamo l'orologio meccanico a pesi e ruote (fine del XIII sec.), un'invenzione, ha scritto il tedesco Ernts JUNGER, "più rivoluzionaria di quella della polvere da sparo, della stampa e della macchina a vapore"; il cannone (1327); la caravella (1430 ca.), di gran lunga la migliore imbarcazione del suo tempo; la stampa (1445) di cui non è necessario sottolineare l'importanza. Ci sono, così, più di cento invenzioni, senza le quali la rivoluzione industriale del XVIII sec. non sarebbe potuta avvenire. Alla fine del XV sec. l'Occidente prevale, e di gran lunga (sulle altre civiltà n.d.t.), nei campi decisivi della siderurgia, dell'armamento e della navigazione. In quest'epoca. gli Europei sono i soli ad aver risolto i problemi di navigazione in altura: bussola, timone di dritto, astrolabio. La loro siderurgia è, senza paragone possibile, la migliore.
Già nel secolo XVI l'Europeo inventa la tecnica del prefabbricato. Sappiamo, infatti, che il conquistador Fernando Cortes, fece costruire 13 brigantini per prendere d'assalto la capitale messicana. Poi li fece smontare, segnandone ogni pezzo in modo tale che si potesse, assemblandoli, rimontare la flottiglia senza difficoltà, nel luogo desiderato. Spirito organizzatore, razionale.
Nel XVII secolo, l'Europeo dispone di più di cento utensili, laddove l'abitante delle Indie non ne ha che 2 o 3. Privo di banco da lavoro, il falegname di Calcutta impegna 3 giorni a fendere una tavola, mentre l'artigiano europeo non impiega che un'ora. Questo stesso secolo vede apparire i primi segni di una istituzionalizzazione della ricerca scientifica, in Inghilterra. Nel 1608, infine, si contano 108 università in Europa e nessuna nel resto del mondo, e di queste università le prime 56 sono state create dal 1209 al 1499.
Ma, molto prima di questo, si era prodotta quella che lo storico francese Jean GIMPEL, definisce, molto giustamente, la "rivoluzione industriale" del Medioevo. Vi si trovano tre caratteristiche proprie del mondo moderno: l'idea di performance, l'idea di progresso, e l'idea di razionalità
 intellettuale.
Leo Moulin Medio Evo Cagliari

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medioevo, moulin

martedì, 27 novembre 2007

Il cristianesimo culla della scienza

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"Ora, il giudaismo e, il suo seguito, il cristianesimo, è essenzialmente una religione desacralizzante, "distruttore di religiosità", scrive Henri DESROCHES, "controllore del sacro", una fede demistificatrice e demistificante", scrive ancora, che segna la fine delle ideologie e "la perenzione delle dogmatiche".
In termini sociologici, è un'impresa di "razionalizzazione", di "demitificazione", di "desacralizzazione", di "secolarizzazione", di "demistificazione", -sul piano profano questo sarà opera di Machiavelli, Max Weber, Karl Marx, Sigmund Freud. Affermo che questo processo, che sta a fondamento del mondo moderno, si trova in germe nel patrimonio genetico del giudeo- cristianesimo. E' il contrario del panteismo, il contrario dell'induismo, di cui Marx diceva che pratica "il culto bestiale della natura". Il cristianesimo, presentando all'uomo un'immagine del mondo -che non si identifica con Dio, il cui mistero è a lui accessibile; affidando all'uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1 ,28), il compito di "dominare" la terra e tutto ciò che vive su questa terra (Genesi 9,2-3), ha aperto la strada alla conoscenza scientifica del mondo e alle applicazioni della tecnica; perché l'uomo, liberato ormai dalle pastoie magico-religiose, può concepire un metodo di conoscenza, di apprendimento del reale, che sfugge all'autorità delle autorità laiche e religiose, come al principio d'autorità stesso, e fa della natura l'oggetto di una conoscenza priva di significato etico, e della conoscenza stessa, un obiettivo in sè. Siccome -se si crede al teologo Guillaume de CONCHES -, Dio rispetta la proprie leggi, allora il mondo, creato da Lui, è conoscibile.
Il mondo non è un'illusione, una trappola, un fantasma. Dio ha fatto qualcosa di "buono"; la Genesi ripete, per 6 volte: "e Dio vide che quel che aveva fatto era buono". (Diciamo, en passant, che questa certezza, della bontà delle cose create da Dio, spiega l'atteggiamento dell'Europa dinnanzi alla valanga di prodotti nuovi venuti dalle Americhe; li adotta, molto velocemente, tenuto conto dell'estremo conservatorismo degli uomini in materia di abitudini alimentari).' Non solamente il mondo è conoscibile ma, inoltre, è 'buono" da conoscere ("E' impresa nobile cercare di conoscerlo" n.d.t.).
Il mondo, secondo i Lama tibetani, è popolato di demoni; proibizione, dunque, di scavare le montagne, dove essi si nascondono. Ostacolo, questo, decisivo allo sviluppo del settore minerario in Mongolia.
Di contro, ad esempio, i minatori tedeschi del Cinquecento, credevano, anch'essi, che dei geni astuti (in tedesco dialettale dei piccoli "Nicolas", dei "Nickel", donde il nome del minerale), dei folletti (in tedesco "Kobold", da cui: Cobalto) minacciassero coloro che scavavano la terra per trovarvi il minerale. (A riprova, sia detto, en passant, che tutte le culture conoscono dei momenti nei quali trionfano i sentimenti magico-religiosi). Interviene allora Georg BAUER, detto Agricola (1494-1555), medico e geologo tedesco, che risponde, nel 1544, che Dio non può essere all'origine di cose cattive o inutili.
Altro esempio destinato a illustrare la nostra tesi; l'lslam interdisse di utilizzare la pressa per stampare il Corano, perché la pressa schiacciava a ciascun giro il nome di Dio. L'installazione, nel 1727, di una tipografia a Costantinopoli solleva tali opposizioni che si rinuncia al progetto per tutto il secolo. Esempio di "letteralismo", di fondamentalismo religioso, che blocca ogni novità.
Ugualmente, una stamperia istallata dai Portoghesi a Goa si scontrò con la decisa opposizione dei Bramini. Nell'Europa cristiana, dove essa si sviluppò, molto prima della Riforma, notiamolo, Benedettini e Cistercensi, Fratelli Della Vita Comune e Gesuiti, Fratelli Minori e Canonici Regolari di Sant'Agostino, contendono il mercato della stampa ai Tedeschi e agli Ebrei.
Parlando dei progressi tecnici dovuti al Medioevo, lo storico francese Robert DELORS. osserva che ''l'empirismo delle 'ricette' lascia poco a poco il posto ad una riflessione razionale": abbiamo visto che questo è ciò che è realmente accaduto. Quanto all'empirismo, ancora occorrerebbe spiegare perché si sia rivelato essere così fecondo e noi abbiamo proposto una spiegazione basata sulla presenza dell' "humus" cristiano.
Robert DELORS aggiunge che si sarebbe potuto far progredire altre tecniche, ma che questo esigeva investimenti troppo elevati. Precisa d'altronde -ed è qui l'essenziale -che l'epoca non imponeva di migliorare le tecniche esistenti (nel senso che soddisfacevano in modo sufficiente i bisogni), il che potrebbe spiegare una certa e molto relativa rarità di invenzioni.
I Signori, scrive egli ancora, preferivano consacrare il superfluo di cui disponevano a spese "improduttive". Conosciamo la canzone! Tutto ciò che è culturale -i palazzi, le chiese, i musei, le opere d'arte, la ricerca scientifica -è molto sbrigativamente considerato come "improduttivo", dunque "inutile"!
DELORS osserva ancora -e qui siamo di nuovo al cuore della nostra riflessione -: "Soli, i monaci, vivendo in autarchia e, per di più, meno animati, ali 'inizio, da desiderio di danaro, hanno potuto favorire la macchina che evita o moltiplica lo sforzo", il che è un'eccellente definizione dei fini della tecnologia. I monaci, fattore di progresso tecnico. Noi non abbiamo mai detto altro. E, sottolineiamo, per ragioni spirituali. Tutta l'economia monastica medioevale, che è l'immagine stessa di un'economia di progressi e di perfezionamenti incessanti -la viticoltura, l'agricoltura, la silvicoltura, l'allevamento, l'apicoltura, la pescicoltura -, si sviluppa in ragione della presenza dell'imperativo spirituale. E' esattamente il rovescio della tesi marxista sull'infrastruttura e la sovrastruttura: qui, l'infrastruttura è lo spirituale. E' un altro modo di richiamare ciò che ho detto, iniziando, e cioè che il perché dell'invenzione tecnologica si trova, sempre, nel gruppo, nella sua percezione del reale, nella sua visione dell'uomo nel mondo.
E lo stesso si può dire delle opere sociali, le opere caritative (ospedali, case di riposo per i pellegrini, case per vecchi, per i soldati mutilati, le scuole. ..) o le innovazioni politiche: le T.E.D., Tecniche Elettorali Deliberati- ve (che prevedevano lo scrutinio, il ballottaggio, la maggioranza assoluta. dei 2/3, etc. ..).
A questo proposito notiamo che il Capitolo Generale, costituisce la prima assemblea Europea sovranazionale, nata dalla CARTA CARITATIS di CITEAUX (1115) e che tale istituzione ha ispirato la Magna Charta inglese, embrione del parlamentarismo.
Altro apporto decisivo della vita monastica alla vita che noi chiamiamo moderna: la razionalità, la regolarità e il controllo dei comportamenti, la funzionalità delle costruzioni, la puntualità; senza dimenticare il fatto memorabile che l'immenso affresco monastico che si sviluppa nel corso di XV secoli, senza interruzione, è il frutto unicamente dell'iniziativa individuale di un uomo, seguito da un pugno di altri, e che non sempre fu ben accolto a Roma. Eccovi tutti i fattori che possono contribuire a spiegare il destino eccezionale della tecnologia nell'Europa medioevale."
    Leo Moulin Tecnologia e Cristianesimo Ass.cult. Icaro CA

 



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venerdì, 09 novembre 2007

Perché la cura della malattia ha potuto nascere e svilupparsi tra Logos greco e Caritas cristiana
di Francesco Agnoli
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Tratto da
Il Foglio del 8 novembre 2007

La medicina, come ogni altra scienza, nasce da un atto di fede nella ragione, nel Logos, nella possibilità cioè di risalire dagli effetti alle cause, seguendo un filo logico, causale e non casuale.

Per questo la sua patria è anzitutto la Grecia, che fa dell’idea di ordine e di armonia della natura il fondamento delle sue riflessioni filosofiche. Per I
ppocrate, come nota Michelangelo Peláez, “il divino si manifesta nella regolarità stessa delle leggi naturali”. Analogamente Galeno si ispira al finalismo platonico e al principio di Aristotele secondo cui “la natura non fa nulla invano”, riconoscendo dunque come base dell’indagine medica la fiducia nel senso e nell’ordine della realtà, l’idea di cosmos contrapposta a quella di caos. Nulla a che vedere dunque con la realtà come illusione, propria della filosofia induista, o con lo scetticismo gnoseologico di un David Hume.

Ma perché la medicina si sviluppi veramente, oltre a un riconoscimento pieno del Logos, occorre anche quello della Caritas. Diversamente da altre scienze, infatti, essendo una scienza “applicata” all’uomo, la medicina non risponde solo al desiderio infinito di conoscenza, ma affronta anche il cuore della natura corporale, la sua fragilità e finitezza. Se infatti il desiderio di conoscere è innato, perché risponde alla nostra natura razionale, la misericordia e la pazienza, virtù rispettivamente del medico e del malato, richiedono invece, spesso, uno sforzo, una fatica, perché combattono con la natura umana decaduta.

Ebbene, non è un caso che la medicina sorga, dopo l’alba greca, nella Cristianità, in cui il Logos incontra la Caritas, prende una carne che patisce e si fa “infermo tra gli infermi”.
“Curate infirmos” è il comandamento straordinariamente nuovo di Cristo, antitetico a un ideale di liberazione dualista o spiritualista; un comandamento che va insieme all’esortazione ad annunciare la Verità.

Il Logos manifesta dunque se stesso nella carità, e chiede che ogni uomo faccia altrettanto, facendosi prossimo, nel corpo e nello spirito: veritatem  facientes, in caritate. Per questo assistenza ai poveri, ai malati, agli orfani, sono sin dall’origine nel cuore della chiesa, e proprio per questo l’Italia e l’Europa saranno la culla di ospizi, xenodochi, ordini ospedalieri, confraternite e ospedali, che sorgono in tutto il medioevo sulle vie dei pellegrini, oltre che delle università di medicina, dalla Schola medica di Salerno, alle università pontificie di Bologna e Ferrara, sino all’università di Padova, nelle quali nascerà, appunto, la medicina moderna.

La carità verso i poveri e i malati, sin dal medioevo, è così importante che il re stesso, in Francia e Inghilterra, è anche taumaturgo: san Luigi di Francia, ad esempio, incontrava e benediceva scrofolosi e malati tutti i giorni, dopo la Messa, alloggiava a palazzo e nutriva i ritardatari e poiché tra i “malati che venivano a chiedere ai re la guarigione si trovavano molti bisognosi”, i re inglesi e francesi provvidero, sino all’età moderna, con grande generosità, al loro mantenimento (Marc Bloch, “I re taumaturghi”). Il sommo potere regale era dunque legato, nella mentalità di quell’epoca, al servizio, e chi era capo era chiamato a prendersi cura della abiezione e della miseria dei ultimi.

L’ospedale Santo Spirito
Ma l’esempio più interessante storicamente della carità medievale, che esploderà ancor più dopo il Concilio di Trento, con le figure di Camillo de Lellis, Giovanni di Dio e Vincenzo de Paoli, è l’ospedale di Santo Spirito, istituito a Roma con la protezione dei Papi, e “vero precursore dell’assistenza ospedaliera e sociale” moderna. I suoi statuti, tramandati nel famoso “Liber Regulae Sancti Spiritus” ci dicono quanta fosse l’attenzione verso il dolore fisico dell’uomo. Santo Spirito era un ospedale organizzato in modo straordinario, con un reparto di maternità, un brefotrofio, il baliatico, la ruota per i bambini abbandonati, il gerontocomio, il lazzaretto, il pronto soccorso… I frati che vi operavano, in grande povertà, si consideravano “servi” del loro “signore”, il malato, in cui vedevano lo stesso Cristo sofferente; giravano periodicamente per la città con una specie di carriola per raccogliere malati e poveri nelle vie e nelle piazze; provvedevano ad affidare, se possibile, i trovatelli presso famiglie che li adottassero e accoglievano le prostitute, in alcuni periodi dell’anno, nelle loro case, specie su esortazione di Innocenzo III, che aveva elargito speciali indulgenze a chi le avesse sposate e le avesse così ricondotte a una vita dignitosa. Qui, a Santo Spirito, avrebbe fatto il suo tirocinio anche Camillo de Lellis, qualche centinaio di anni più tardi, dopo aver abbandonato la sua vita di mercenario e di giocatore incallito. Mentre san Filippo Neri, suo confessore, invitava i giovani sbandati di Roma, col celebre detto “state buoni se potete, tutto il resto è vanità”, Camillo esortava i suoi frati a domandare la grazia a Dio di ottenere un “affetto materno verso il prossimo infermo”, per poterlo servire, con carità, sia nell’anima che nel corpo. Migliaia di persone, da allora, lo avrebbero seguito, in mezzo a ogni difficoltà, sino alle persecuzioni dei sovrani assolutisti e di Napoleone, sino alla rinascita. Sempre, per quanto possibile all’uomo, col carisma dell’amore, che rende anche l’occhio del clinico, dello scienziato, più acuto e penetrante, perché gli fa intravedere, dietro il corpo, l’anima, e il peso anche morale della sofferenza. Perché la sapienza del medico, senza la carità, è come la cultura

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medioevo, cristianesimo

domenica, 28 ottobre 2007

Col cristianesimo termina la schiavitù
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Alcuni storici negano che la schiavitù fosse terminata nel Medioevo e ritengono che si trattò solamente di uno slittamento linguistico per il quale la parola «schiavo» fu sostituita dalla parola «servo» . Ma, in questo caso, sono gli storici e non la storia a giocare con le parole. I servi infatti non erano beni; avevano dei diritti e un sostanziale grado di discrezionalità. Sposavano chi volevano e le loro famiglie non erano " soggette a vendita o dispersione. Pagavano degli affitti che permettevano loro di poter controllare tempi e ritmi del lavoro . Se, come avveniva in alcuni luoghi, i servi dovevano ai padroni un certo numero di giornate di lavoro all' anno, i loro obblighi erano comunque limitati e più simili al lavoro dipendente che alla schiavitù. I servi erano certamente legati al padrone da molti vincoli, ma allo stesso modo il padrone aveva obblighi non solo nei loro confronti ma anche verso un' autorità superiore e così via, perché la natura del feudalesimo si fondava su reciproci accordi d'obbligo. Non si può certo affermare che i contadini medievali fossero liberi nel senso moderno del termine, ma non erano nemmeno schiavi e, per la fine del X secolo, la brutale istituzione era fondamentalmente sparita dall'Europa.
Rodney Stark. Lindau "La vittoria della Ragione"


 

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medioevo, cristianesimo, stark

sabato, 27 ottobre 2007

Il medioevo
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 «Gli uomini di oggi cominciano ad accorgersi che è più facile distruggere la civiltà che ricostruirla. Furono necessari sei secoli alle genti del Medioevo per ritrovare, dopo il disastro  delle invasioni, lo slancio creatore della Grecia e di Roma. Questa rinascita dell'Europa, che ebbe come animatrice la chiesa, iniziò nell'XI secolo. Come tutti i movimenti analoghi, si manifestò in ogni campo: riforma cluniacense, arte romanica, reconquista spagnola, crociate. Spontaneamente la chiesa ritornava alla austerità delle sue origini mentre si adoperava al tempo stesso, con spirito generosamente umano, nell'organizzazione di un mondo il cui: avvenire riposava ormai su di lei. A questo mondo diviso dallo smembramento feudale, esaurito  dalle eterne guerre dinastiche e in cui il Faustrecht si era sostituito all'antico concetto del diritto, restituiva l'unità romana, la pace romana, il bell'ordinamento latino dello spirito. Da Gregorio VII a Innocenzo IV affrontò l'egemonia germanica e la spezzò. Di fronte alla minaccia asiatica fu, durante tutta l'epoca delle crociate (e fino alla battaglia di Lepanto), la coscienza stessa dell'Europa. Nella pace dei suoi chiostri, ricomparve la grande filosofia. La  ragione umana si confrontò di nuovo con l'universo. [...] A questo impeto metafisico corrisponde lo slancio delle cattedrali. Dapprima lo slancio romanico, che si potrebbe anche chiamare francese e lo è talmente, infatti, per la sua stessa misura, per l'equilibrio fra l'ardore (dell'ispirazione e la solidità dell'architettura. [...] Ma la cattedrale vuoI slanciarsi ancora più in alto nel cielo. L'architettura gotica, scaturita da questo slancio verticale, è anch'essa specificamente francese per la sua logica e il suo idealismo -logica ascensionale, partito preso di alleggerimento che, sembrando disprezzare le leggi della gravità, approdano ai grandi reliquari aerei di Notre-Dame e di Reims, di Chartres e di Arniens. "Musica di pietra" è stato
detto di queste cattedrali».
R.Grossuet, Bilancio della storia, Jaca Book
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bellezza, medioevo, cristianesimo, grossuet

sabato, 13 ottobre 2007


L’Età di mezzo come repressiva e chiusa al genio femminile? La società feudale come riflesso di un patriarcalismo ottuso? La Chiesa nemica numero uno del «sesso debole» e artefice della sua subordinazione? Tutti luoghi comuni sul ruolo di madri, spose e religiose nell’epoca in cui il cattolicesimo permeava ogni aspetto della vita pubblica e privata. Jacques Le Goff, il massimo medievista vivente, ribalta da un punto di vista meramente storico falsificazioni e distorsioni di prospettiva. «Oggi si tende a sminuire il ruolo della donna, sia nel cristianesimo sia nella storia dell’Occidente. Eppure mi colpiscono i progressi che la donna ha fatto nella società cristiana del Medioevo. Pensiamo a figure come quella di Ildegarda di Bingen, badessa renana del XII secolo, coraggiosa studiosa razionale che con la sua autorità e con il prestigio esercitò un notevole potere all’epoca. Poi, a partire dal XIII secolo, con la comparsa del misticismo le donne si imposero nuovamente nell’universo della santità»
Medioevo, quando il cristianesimo liberò le donne
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Facciamo attenzione alle illusioni, diffidiamo dell’idea che il progresso sia irreversibile, costante, in movimento lineare dai tempi passati all’epoca contemporanea. Oggi il numero di donne che ha accesso al potere è molto ridotto. In Occidente non vi sono più donne Primo ministro di quante fossero nel Medioevo regine o reggenti
Maria, Maria Maddalena, Marta... I Vangeli sono abitati da figure femminili che circondano Cristo e lo ispirano. Il cristianesimo medievale, lungi dal rinchiudere la donna in un ruolo secondario, l’ha autenticamente posta a fianco dell’uomo. La donna, nel Medioevo, è in gran parte identificabile, nella visione della Chiesa, con due figure antitetiche, quella di Eva, la peccatrice e la tentatrice, e quella di Maria, la madre di Cristo. Certo, l’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle donne nel Medioevo non può risolversi in questa antitesi, ma bisogna riconoscere che essa è centrale.
Vorrei tuttavia ricordare che il culto mariano, fondamentale nella religione e nella società medievali (è difficile isolare, nel Medioevo, la religione da tutto il resto, poiché essa è pervasiva) ha inizio, in Occidente, solo nell’XI secolo, a differenza di quanto accade nel mondo bizantino. È soprattutto a partire dal XII secolo che la figura di Maria si impone, mentre la figura di Eva, quasi sempre complemento della coppia che forma con Adamo, si era già imposta da molto tempo.
Vorrei anche sfumare l’idea che abbiamo di una opposizione netta tra la figura di Eva e quella di Maria: dopo il Medioevo molto spesso si è irrigidita ed esasperata questa antinomia, facendo in particolare di Eva la peccatrice e la tentatrice. Tuttavia, molto precocemente, Eva è stata utilizzata come immagine simbolica della Chiesa: essa non poteva quindi essere considerata in modo totalmente negativo dagli uomini di quel tempo.
Nel Medioevo la Chiesa è una persona, se ne parla come se fosse tale. È molto interessante a questo proposito notare che, simbolizzata da Eva, essa partecipa per questo al peccato originale. La cristianità è diretta da un’istituzione non esente da errori e da peccato, fallibile; concetto, questo, che per noi contemporanei è scontato.
Si relativizza così l’atteggiamento di Giovanni Paolo II, che alcuni trovano particolarmente sconvolgente, rivoluzionario, e che invece non fa altro che riallacciarsi all’antichissima tradizione del cristianesimo. Per capire il contenuto di questa allegoria, è necessario non dimenticarsi che il cristianesimo medievale ha costantemente cercato nella Bibbia riferimenti e spiegazioni alle realtà del suo tempo.
In Eva, quindi, è stata trovata una sorta di figura primitiva, primigenia, della donna. La società medievale, che non possiede il senso della storia, ha naturalmente rappresentato la Chiesa in questa prospettiva eterna, astorica. Eva è la prima creatura femminile di Dio e, di conseguenza, è essa stessa un’istituzione divina: credo che sia questo fatto che ha indotto gli esegeti a elevarla a simbolo della Chiesa.
Veniamo ora all’idea del suo secondo posto, essendo il primo naturalmente riservato all’uomo. In altri termini, come definisce la tradizione cristiana il posto della donna sul piano divino? Eva è una creazione diretta e volontaria di Dio, ma in effetti è apparsa tardi, dopo tutto il resto della Creazione. Vi sono state anche interpretazioni, del tutto ortodosse, del testo della Genesi che hanno ritenuto Eva il risultato di una sorta di pentimento di Dio: Egli avrebbe inizialmente pensato di creare un uomo, se non asessuato, almeno dotato di entrambi gli attributi sessuali, androgino. E poi, dopo aver valutato negativamente questa soluzione, avrebbe preferito creare una donna a fianco dell’uomo, Adamo. Da tutto questo deriva la convinzione che la distinzione dei sessi sia stata un’idea secondaria nella mente del Creatore e non un’idea primigenia.
Perché gli esegeti hanno ritenuto fosse così? Innanzi tutto perché Eva è stata creata dopo tutto il resto del mondo, e poi perché, come gli animali, essa non ha ricevuto il nome direttamente da Dio, ma da Adamo: Dio l’ha creata senza attribuirle un nome, e una creazione senza nome è una creazione imperfetta. Per finire, Dio, al momento di darle la vita, annuncia che lo fa per non lasciare solo Adamo; da ciò si può inferire non solo una secondarietà, ma persino una sorta di assoggettamento funzionale della donna nei confronti dell’uomo, poiché la sua ragione di essere sta nel tenergli compagnia. Eva è in effetti stata creata da una costola di Adamo, da cui dipende quindi anche nella sua esistenza carnale. Essa è un pezzo di Adamo, ma non possiamo accontentarci di questa definizione. Sono fioriti innumerevoli riflessioni e commenti sul passo della Genesi che narra la creazione di Eva. Uno dei più interessanti, a mio avviso, è quello di Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo.
Egli afferma, a grandi linee, che Dio ha creato Eva da una costola di Adamo e non l’ha creata dalla testa o dai piedi; se l’avesse creata dalla testa, ciò avrebbe voluto dire che Egli vedeva in lei una creatura superiore ad Adamo, al contrario, se l’avesse creata dai piedi, l’avrebbe considerata inferiore: la costola si trova a metà del corpo, e la scelta quindi stabilisce l’uguaglianza, nella volontà di Dio, di Adamo e di Eva. Io ritengo che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la concezione cristiana della donna e abbia influenzato la visione e l’atteggiamento della Chiesa medievale nei suoi confronti.
PER LE NOZZE CI VUOLE IL SUO SÌ.
Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la Chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì.
LA NOVITÀ CRISTIANA.
Si potrà controbattere che questi sono princìpi, ma la realtà è ben diversa... Effettivamente, ci sono stati pochi matrimoni in cui il consenso della donna è stato decisivo; il matrimonio ha continuato ad essere un elemento fondamentale nelle strategie familiari, o di lignaggio, nel caso di matrimoni nobili, oppure dinastiche nel caso di matrimoni reali. Georges Duby ha descritto efficacemente il ruolo di paraninfo del re d’Inghilterra, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo; egli intervenne in particolare nei confronti di Guglielmo il Maresciallo, suo vassallo, uomo di guerra e consigliere, ricompensato dal re con un brillante matrimonio. Ma anche negli ambienti contadini è il parentado, più precisamente i genitori, che impongono il matrimonio; e lo impongono soprattutto alla donna.
Ciò nonostante, e vorrei insistere poiché non credo affatto che la teoria sia irrilevante, teoricamente il matrimonio si fonda sulla volontà reciproca dell’uomo e della donna. E la Chiesa, per giustificare questa disposizione, ricorda in prima istanza il matrimonio di Adamo ed Eva e poi, soprattutto, quello di Maria e Giuseppe.
Nell’ebraismo, la donna è quasi del tutto subordinata al marito; la questione è un po’ più complessa, e in un certo modo prefigura il cristianesimo, nel paganesimo romano, poiché, da un lato la donna romana è una persona con minori diritti, non può cioè compiere un certo numero di atti giuridici senza il consenso del marito, dall’altro, i romani sviluppano una concezione egualitaria di questa unione, che si traduce con la celebre formula «Ubi Gaius tu Gaia», «Laddove sono Gaio, tu sei Gaia». Insomma, credo vi sia stata un’autentica promozione della donna, messa in luce, almeno a livello dottrinale, dal cristianesimo e ritengo che ciò sia stato avvertito come tale, al di là di tutte le consuetudini familiari e sociali che tendevano a mantenerla in una condizione di inferiorità.
I testi che si citano sempre condannano l’atto sessuale o ritengono la donna responsabile della tentazione: si tratta di una certa forma di divulgazione della dottrina. Ma di cosa è rappresentativa, esattamente? Si dice spesso che in caso di adulterio non vi è uguaglianza fra uomo e donna. Ora, in un certo numero di casi molto particolari, e spesso molto famosi, l’uomo è stato severamente condannato dalla Chiesa, pensiamo al re di Francia Roberto il Pio o a Filippo Augusto. Roberto il Pio, nei primi anni dell’XI secolo, dovette separarsi dalla seconda moglie, Berta di Blois, poiché il clero lo considerava bigamo (la prima moglie era ancora viva) e incestuoso (i due erano consanguinei in terzo grado). Il papa Innocenzo III, invece, eletto nel 1198, lanciò l’interdetto contro il regno di Filippo Augusto, che aveva ripudiato nel 1193 la moglie, Ingeborg di Danimarca, e aveva sposato Agnese di Merania. Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano articoli sulla punizione dell’adulterio che prevedono dure pene sia per gli uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del 1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un marito adultero...
IL CULTO DELLA MADDALENA.
Il fondamento del pensiero e della pratica cristiani, nel Medioevo, sono le Sacre Scritture. Abbiamo rapidamente commentato la creazione di Eva nella Genesi. Vi sono, ben inteso, numerose figure di donne nell’Antico Testamento, perverse come Dalila, virtuose come Rachele, eroiche come Ester... e sempre secondarie rispetto agli uomini. Poi, giunge la rivoluzione del Nuovo Testamento. Gesù è accompagnato fino alla fine da sua madre. Dispensa il proprio insegnamento a Marta e a Maria. Resuscita Lazzaro, per rispondere al desiderio delle sorelle. Una delle più belle figure femminili dei Vangeli è, evidentemente, Maria Maddalena, creatura complessa, una sorta di smentita apportata all’immagine negativa di Eva, votata al peccato: Maria Maddalena ha peccato, ma non è nella sua natura, è capace di ripensare se stessa e di pentirsi, e Gesù afferma che essa è migliore, nella sua debolezza e nella sua redenzione, di coloro che non hanno mai peccato. Il culto di Maria Maddalena esploderà alla fine del Medioevo: ne ha parlato in modo dettagliato e apprezzabile Georges Duby.
Ai piedi della croce vi sono Giovanni, il discepolo preferito, Maria e Maria Maddalena a partecipare all’agonia di Gesù. Sono essi che seppelliscono il Dio sofferente; e tre giorni dopo, sono delle donne che scoprono che la tomba è vuota e diffondono la notizia della resurrezione... Non si può certo dire che i Vangeli siano una questione fra uomini! Tale concezione radicalmente nuova dei rapporti tra uomo e donna avrà ripercussioni sulla struttura stessa della Chiesa, sulla sua gerarchia. So bene che non vi sono donne sacerdote, ancora meno papa, ma, a partire dal Medioevo, esse possono trovare collocazione nel clero regolare, realizzarsi, essere riconosciute al pari degli uomini ed esercitare potere: all’epoca, contava qualcosa essere badesse!
È una donna, Maria, a chiedere a Gesù di compiere il primo miracolo, ed Egli obbedisce, trasformando l’acqua in vino, alle nozze di Cana. Questo è un episodio proprio difficile da interpretare! Ciò che possiamo notare, è che la scena ha luogo prima dell’inizio della predicazione pubblica di Gesù, e che Maria lo incita a fare qualcosa per la prima volta. È come se lei lo rivelasse a se stesso; anche la sua filiazione divina gli è stata rivelata, Egli non ne era a conoscenza prima: e chi meglio di una madre può rivelare il segreto delle origini?
Maria, nel Medioevo, era, credo, profondamente venerata, malgrado il monoteismo ortodosso, come una sorta di quarta componente divina, la quarta persona della Trinità. Ho esitato a lungo prima di esprimere questa intuizione, ma mi pare corrisponda alla verità della fede medievale. Ma è così; pensiamo a tutti i dibattiti intorno all’Immacolata Concezione, dogma vigorosamente combattuto anche da personaggi come san Bernardo e san Tommaso d’Aquino, ufficialmente riconosciuto solo nel 1854: ritengo che la violenza di questo rifiuto, da parte di alcuni santi e alcuni eminenti teologi, avesse origine, certo, da una sorta di impossibilità a giustificarlo teologicamente, ma anche dal fatto che vedessero in questa «eresia» il fondamento o la conseguenza di una devozione quasi pagana a Maria, una sorta di ritorno al culto pagano delle dee madri. Sono persuaso che nel Medioevo si sia effettivamente assistito a una divinizzazione di Maria. Sicuramente tale fenomeno si potrebbe interpretare come una forma di politeismo, ma, per quel che mi riguarda, voglio leggervi la valorizzazione della donna nella religione e trovo che sia un fatto estremamente positivo. Una delle mie convinzioni più salde, confortata dai progressi degli studi storici è che il Medioevo, era di tenebre e di violenza, sia stato anche e soprattutto un momento decisivo per la modernizzazione dell’Occidente.
Si pensi ad esempio all’evoluzione dell’interesse estetico, nell’Antichità volto soprattutto alla celebrazione di un ideale maschile e che nel Medioevo evolve verso la celebrazione del corpo - e soprattutto del viso - della donna. Non credo ci si debba vedere una «strumentalizzazione», come si dice oggi, della donna, donna-oggetto, semplice oggetto del desiderio. No, credo che vi sia stata una vera e propria promozione della donna, attraverso, in particolare, le rappresentazioni del corpo di Eva, occasione insperata per gli artisti che finalmente potevano rappresentare la donna nuda, e il volto di Maria.
Nella dottrina della Chiesa vi è senz’altro un certo grado di paura della donna, che è stata, come ha detto Jean Delumeau, una delle grandi paure dell’Occidente, e la Chiesa non l’ha ancora del tutto superata. Ma è una questione che dipende dalla Chiesa o dagli uomini? È così facile liberarsene? Questo aspetto è veramente cambiato?
Veniamo alle sante: un’altra occasione, se così si può dire, di promozione della donna nell’universo cristiano. Vi sono state molte donne martiri; esse hanno forzato molto presto le porte della santità. Vi sono molte sante alle quali i fedeli si rivolgono con devozione. Ma sono necessari alcuni riferimenti cronologici. Durante i primi secoli del Medioevo, il modello maschile della santità è la figura del vescovo: i santi sono nella maggior parte dei casi dei vescovi - trasposizione nella gerarchia celeste della gerarchia terrestre. Si impone, in seguito, lentamente, la santità delle badesse, ricordiamo ad esempio Ildegarda di Bingen, badessa renana del XII secolo, grande mistica, ma anche coraggiosa studiosa razionale, la cui autorità e il cui prestigio esercitarono un notevole potere all’epoca.
Infine, a partire dal XIII secolo, con la comparsa del misticismo, in modo eclatante, le donne si impongono di nuovo nell’universo della santità. Una scrittura, quella delle sante mistiche, che con tutta evidenza privilegia l’interiorità, l’esperienza di sé. Penso che abbia potuto modificare la sensibilità occidentale, e penso anche che sia una sfera da cui gli uomini sono stati esclusi. Il misticismo femminile è infatti una tendenza molto occidentale, al contrario di ciò che avviene invece in Oriente, dove il personaggio chiave dell’effusione mistica è lo sciamano, che è anche stregone. La Chiesa accoglie il misticismo e respinge la stregoneria, separa questi due universi, li definisce come antagonisti, anche se entrambi sono abitati essenzialmente da donne.
DONNE AL POTERE.
Le donne hanno avuto senza alcun dubbio un ruolo politico molto importante durante il Medioevo, ma vorrei tornare sul fatto che non mi piace utilizzare il termine «politico», come non mi piace utilizzare il termine «religione», riferendomi a questo periodo; sono parole che non esistono nel Medioevo, che non corrispondono ad alcuna categoria intellettuale. Allora, se vuole, si può parlare del ruolo delle donne nel governo - neanche questo termine esiste all’epoca, ma è meno arbitrario utilizzarlo.
Perché in Francia, in virtù della legge salica, le donne sono state escluse dalla successione diretta e dal trono? Vi è stato un abbozzo di teorizzazione all’inizio del XIV secolo, dopo la morte dell’ultimo figlio di Filippo il Bello, per escludere il re d’Inghilterra dalla successione al trono. Poi, alla fine del regno di Carlo V, nel XV secolo, si «inventa» la legge salica, applicata nel regno di Francia. Ma quest’idea non riusciva a imporsi nel sistema feudale, che non vedeva sistematicamente escluse le donne. Bianca di Castiglia, nel XIII secolo, ha tenuto senza impedimenti le redini del regno. In Francia il potere reale è stato precocemente e rigidamente affidato solamente a uomini, più per ragioni pratiche che teoriche: il capo del regno deve infatti essere forte, innanzi tutto fisicamente, poiché deve essere un guerriero.
MA PER LA DONNA IL VERO SECOLO BUIO È L’800.
In linea generale, penso che sia necessario ponderare sia la visione negativa, sia la visione dorata della condizione femminile nel Medioevo. Oggi si tende a sminuire il ruolo della donna, sia nel cristianesimo sia nella storia dell’Occidente. Mi colpiscono i progressi che la donna ha fatto nella società cristiana del Medioevo, anche se ciò non deve indurci a ritenere che vivesse in una situazione di uguaglianza con l’uomo; bisogna considerare però che si partiva da molto lontano... e vedremo anche che in seguito sarà peggio: sono profondamente convinto che non vi sia stata peggiore condizione femminile di quella della donna in Europa nel XIX secolo. La cosa peggiore per la donna è stata la diffusione e il trionfo dei valori borghesi. E praticamente la borghesia non esisteva prima del XIX secolo. Nel Medioevo vi sono nobili e contadini e certo non sono essi a mostrarsi più duri con le donne.
Facciamo dunque attenzione alle illusioni, diffidiamo dell’idea che il progresso sia irreversibile, costante, in movimento lineare dai tempi passati all’epoca contemporanea. Oggi il numero di donne che ha accesso alle più alte sfere del potere è molto ridotto. In Occidente non vi sono più donne Primo ministro di quante fossero nel Medioevo regine o reggenti.


le regine
Teodolinda
(?-628) Regina dei longobardi. Cattolica - mentre la gran parte dei longobardi era ariana - cercò un avvicinamento con la Chiesa di papa Gregorio Magno, con il quale intratteneva uno scambio epistolare. Furono restituiti così beni alla Chiesa, reinsediati vescovi e avviati sforzi per comporre lo scisma tricapitolino che divideva il papa di Roma dal patriarca di Aquileia. Il suo aperto incoraggiamento dato alla riforma monastica di san Colombano approdò, nel 612, alla fondazione del monastero di Bobbio. Fu sepolta nel Duomo di Monza, da lei voluto. Fu in seguito canonizzata.
Matilde di Canossa
(1046-1115) Marchesa di Toscana, signora di immensi domini in Toscana, Emilia e Lombardia, sposò prima Goffredo di Lorena, e poi Guelfo di Baviera. Motivi religiosi e politici la indussero a schierarsi costantemente al fianco del papato nella lotta per le investiture. Sconfitta negli anni seguenti dalle armate imperiali, si sottomise formalmente a Enrico V, mantenendosi poi neutrale nelle lotte tra papato e impero, che in seguito a lungo si contesero la sua eredità.
Eleonora di Aquitania
(1122-1204) Figlia di Guglielmo IX, ultimo duca d’Aquitania, sposò Luigi VII di Francia. Annullato il matrimonio, Eleonora sposò Enrico Platageneto, conte d’Angiò e duca di Normandia, divenuto nel 1154 re Enrico II d’Inghilterra. Allontanata anche da quest’ultimo, tenne corte a Poitiers, circondandosi di poeti e artisti. Reggente d’Inghilterra durante la crociata del figlio Riccardo Cuor di Leone (1189-1194) si ritirò, infine, nell’abbazia di Fontevrault.


le mistiche
Ildegarda di Bingen
(1098-1179) Di nobili origini, Ildegarda fu messa a otto anni sotto la guida della badessa Jutta di Spanheim. Le successe nel 1136 alla guida del monastero benedettino di Disinbodenberg, in Germania. Ne fondò altri, tra cui Bingen, in cui si trasferì e dove morì nel 1179. Ebbe molte visioni, delle quali scrisse a Bernardo di Chiaravalle, che ne apprezzò il genio femminile. La lode del creato la portò a scrivere anche trattati di botanica. Ma il suo talento enciclopedico si espresse in particolare nel canto. Fu forse la prima donna musicista della storia cristiana.
Angela da Foligno
(1248-1309) Una delle prime mistiche italiane, Angela nacque nella cittadina umbra di Foligno. In gioventù indulse alle vanità femminili, vivendo poi in una tranquilla agiatezza. Dopo essersi recata ad Assisi ed aver avuto esperienze mistiche avviò un’intensa attività apostolica. Una volta morti marito e figli diede tutti i suoi averi ai poveri ed entrò nel Terz’Ordine Francescano.
Giuliana di Norwich
(1342-1416) È considerata una delle più grandi mistiche inglesi. All’età di trent’anni, soffrendo per una grave malattia e credendosi prossima alla morte, Giuliana ebbe una serie di intense visioni. Queste sarebbero state vent’anni dopo la fonte della sua opera principale, chiamata Sedici Rivelazioni dell’Amore Divino. Probabilmente il primo libro scritto da una donna in lingua Inglese.


le sante
Chiara d’Assisi
(1193-1253) Aveva appena dodici anni Chiara quando Francesco d’Assisi compì nella pubblica piazza il gesto di spogliarsi di tutti i vestiti per restituirli al padre. Conquistata dal suo esempio, la giovane, della nobile famiglia degli Offreducci, sette anni dopo lo raggiunse alla Porziuncola. Fondò l’Ordine delle «povere recluse di San Damiano» di cui fu nominata badessa e di cui Francesco dettò una prima Regola. Per aver contemplato, nella notte di Natale, sulle pareti della sua cella, il presepe e le funzioni solenni che si svolgevano a Santa Maria degli Angeli, è stata scelta da Pio XII quale protettrice della televisione. Erede dello spirito francescano, si preoccupò di diffonderlo, distinguendosi per un culto speciale del SS. Sacramento, che salvò anche il convento di Chiara dai saraceni.
Caterina da Siena
(1347-1380) Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua "cella" di terziaria domenicana, e poi cenacolo di artisti, dotti e religiosi. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia.
L’autore e il libro
Jacques Le Goff è considerato uno dei più insigni medievisti contemporanei. Allievo di March Bloch, erede dello spirito de Les Annales, è direttore di ricerca dell’«École des Hautes Études en Sciences Sociales». È autore di numerose opere, fra cui La civiltà dell’Occidente medievale, San Luigi, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, La nascita del Purgatorio, Storia e memoria. Qui pubblichiamo ampi stralci del capitolo «Il cristianesimo ha liberato le donne», presente nel volume Un lungo Medioevo, in libreria per le edizioni Dedalo (pagine 236, euro 20,00). Un testo raccolto a suo tempo da Véronique Sales per la rivista L’Histoire.
Fino al XVIII secolo l’immagine diffusa del Medioevo è quella di un’epoca che inizia con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e si conclude con la scoperta (inconsapevole) dell’America. Per l’autore, invece, si tratta di un periodo più esteso, i cui aspetti salienti si prolungano ben oltre il Rinascimento. Un periodo né oscuro, come lo volevano umanisti e illuministi, né completamente dorato, come lo immaginavano i romantici del XIX secolo. Esso è, come ogni periodo della storia, fatto di ombre e luci. Tra queste ultime, l’autore mette in evidenza alcune delle principali forze d’innovazione di quell’epoca, come appunto il riscatto sociale della donna

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medioevo

domenica, 26 agosto 2007

 Roberto Grossatesta (1168 - 1253),
 il Big Bang nel ’200
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 da: www.avvenire.it 11-08-07
MEDIOEVO
Uno studio ripropone la figura del vescovo scienziato, che già nel Medioevo parlava di un universo nato da un punto di energia
Solo il cristianesimo, con la sua idea di creazione, rese possibile lo sviluppo della scienza. E il maestro di Oxford intuì il nesso tra il «Fiat lux» e la "genesi" cosmica riconosciuta nel Novecento

Di Francesco Agnoli
La prima domanda che si pone lo storico della scienza moderna è sicuramente perché essa sia nata in Europa, e non altrove. Le spiegazioni possibili sono tante, ma sicuramente ve ne è una che risulta fondamentale: perché solo qui esisteva il concetto di creazione. Solo il cristianesimo infatti si fonda sull’idea che il mondo non coincida con Dio, ma sia, semplicemente, una creatura. Si tratta di una idea fondamentale, perché libera l’universo da presenze divine immanenti, spirituali, che portano ad una visione magica ed astrologica della realtà, e che rendono impossibile la nascita del concetto di legge fisica. L’universo greco, romano, animista ecc., è un "grande animale", un’entità eterna, mai nata e destinata a esistere per sempre, secondo una visione ciclica del tempo. Solo l’universo cristiano non coincide con Dio, ma ha iniziato ad esistere nel tempo, un tempo lineare, ed è regolato da leggi fisiche poste in essere da un Creatore, inteso come Legislatore supremo, "divino Artefice", come scriveranno Copernico e Keplero. Quest’idea è talmente importante nella storia della scienza che proprio da essa nascono, già nel medioevo, una serie di riflessioni cosmogoniche straordinarie. Tra queste si segnala senza dubbio quella di Roberto Grossatesta, un vescovo legato alla scuola francescana di Oxford, che in Italia è purtroppo pressoché sconosciuto. Eppure Grossatesta non fu solamente un grande studioso di lenti, di specchi, e dei fenomeni della luce in genere, tanto da essere considerato uno degli inventori degli occhiali, ma è anche colui che ha proposto, forse per primo, una straordinaria ipotesi: che il mondo sia nato da una sorta di puntino piccolissimo di luce-energia, posto in essere dal Creatore, ed espansosi sino a formare l’universo intero. Grossatesta parte dal «Fiat lux» del Genesi, e dalle sue osservazione di ottica, per affermare che la luce, prima creatura, «è capace per natura di moltiplicare se stessa in ogni direzione. Naturalmente infatti la luce generando si moltiplica in ogni direzione, e, insieme con l’esistere, genera. Per questo riempie immediatamente ogni luogo circostante». Proseguendo spiega che la creazione della luce è anche l’origine di moto, tempo e spazio: il moto della luce crea lo spazio, e il rapporto tra moto e spazio dà vita al tempo. Moto, tempo e spazio, non sono quindi degli assoluti, ma dei relativi, che hanno iniziato ad esistere, in un istante di tempo che «dà inizio al tempo», non «continuazione del passato verso il futuro, ma solo inizio del futuro». Nelle sue riflessioni a metà tra lo scientifico e il filosofico, Grossatesta arriva quindi a negare l’esistenza di una materia eterna, teorizzata ad esempio nel Timeo platonico, e a sostenere che il moto degli astri non solo non abbisogna di anime astrali, ma neppure di intelligenze motrici, essendo il mondo materiale non un "grande organismo" vivente, ma una "mundi machina", una macchina del modo, regolata, come ogni meccanismo, da precise leggi intrinseche. In Grossatesta, ha scritto la Battisti Saccaro, «concezione creazionista del mondo e concezione meccanicistica della sua formazione sembrano poter coesistere grazie all’azione della luce: l’evento soprannaturale della sua posizione è, nel De luce, dato per scontato, e l’unico accenno che vi riscontriamo è là dove si parla della forma prima nella materia prima creata; può quindi essere delineato il successivo costituirsi del cosmo come sistema autoproducente senza l’ulteriore intervento del Creatore». Si capisce quindi, dopo quanto si è detto, perché diversi studiosi inglesi della scuola di Oxford, tra cui il Crombie, abbiano parlato di Grossatesta come di un precursore della scienza moderna e soprattutto dell’odierna teoria del Big Bang. Una teoria, è il caso di ricordarlo, che fu ripresa da Galileo Galilei in una lettera del 1615 a monsignor Pietro Dini, in cui partendo dal fiat lux del Genesi, ipotizzava appunto l’origine dell’universo da un punto di luce energia. La teorizzazione moderna di questa possibile origine del cosmo si deve però al gesuita Lemaitre, ideatore dell’"atomo primordiale". Franco Prattico racconta al riguardo questo aneddoto: «Si dice che quando Georges Lamaitre, un sacerdote scienziato che, con George Gamow, fu autore di una delle prime formulazioni del Big Bang, cercò di discutere con Einstein la possibilità di descrivere lo stato iniziale dell’universo, il più grande fisico del nostro secolo abbia scrollato le spalle: "Questa faccenda somiglia troppo alla Genesi", avrebbe detto, "si vede bene che siete un prete". E non manca ancora oggi chi considera questo modello con un certo sospetto, per la sua somiglianza appunto con un "atto di creazione"» (Franco Prattico, Dal caos… alla coscienza, Laterza). A ben vedere infatti il Big Bang, così chiamato con disprezzo dal fisico ateo sir Fred Hoyle, che lo considerava "troppo cristiano", è una teoria perfettamente compatibile con la fede, in quanto presuppone, come notava Grossatesta, un mondo originatosi dal nulla, in cui moto, spazio e tempo hanno iniziato ad esistere e potrebbero un giorno, magari con un Big Crunch, scomparire. Scrive Francis Collins, direttore del Progetto Genoma umano, nel suo Il linguaggio di Dio: «Per la tradizioni di fede secondo cui Dio ha creato l’universo dal nulla, questo [il Big Bang] è un risultato elettrizzante». A un evento così sbalorditivo si addice la definizione di miracolo? La sensazione di meraviglia generata dal Big Bang ha indotto parecchi scienziati agnostici ad esprimersi in termini nettamente teologici. L’astrofisico Robert Jastrow, per esempio, conclude così il suo God and Astronomy: «Sulla teologia, la teoria del Big Bang ha conseguenze profonde. Per lo scienziato che ha vissuto alla luce della fede nel potere della ragione, la storia finisce come un brutto sogno. Ha scalato le montagne dell’ignoranza; è sul punto di conquistare la vetta più alta ed ecco che, arrampicatosi sull’ultima roccia, viene accolto da un gruppo di teologi seduti lì da secoli». E Collins chiosa: «Il Big Bang domanda a gran voce una spiegazione divina. Non riesco a capire come la natura avrebbe potuto crearsi da sé. Solo una forza soprannaturale al di fuori del tempo e dello spazio avrebbe potuto fare una cosa simile».
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medioevo, cristianesimo, collins, grossatesta

sabato, 25 agosto 2007

Medioevo: secoli bui!
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All’inizio dell’XI secolo il monaco di nome Eilmer volò con un aliante per più di 180 metri; la sua impresa fu ricordata per i successivi tre secoli. Secoli dopo, il bresciano Francesco Lana Terzi (1631-87), non un monaco ma un padre gesuita, proseguì in modo più sistematico lo studio del volo, guadagnando si l'onore di essere chiamato il padre dell'aviazione. Il suo libro Prodromo alla arte maestra, del 1670, fu il primo a descrivere la geometria e la fisica di un vascello volante.  I monaci annoverarono anche abili orologiai. Il primo orologio di cui abbiamo notizia fu costruito dal futuro Papa Silvestro II per la città tedesca di Magdeburgo intorno all'anno 996.
T.Woods  Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale.Cantagalli
 

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sabato, 23 giugno 2007

La comunicazione nel Medioevo
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Il Medioevo non è stato sprovvisto di mezzi di informazione e comunicazione. Questi grandi secoli luminosi e vibranti ne abbondano. Elenchiamoli brevemente: la predicazione, la Messa, la statuaria delle chiese, l'insegnamento delle Università, la vita monastica, la traditio, le liturgie, la vita quotidiana.
La predicazione nel Medioevo
Le cronache ci parlano di moltitudini che ascoltano con le lacrime agli occhi e spesso singhiozzando, la parola degli oratori, spesso vendicativa, minacciosa, apocalittica. Ci si può chiedere in quale lingua predicassero questi monaci venuti dall'Irlanda o dall'Inghilterra. I cronisti ci dicono che folle stupite ascoltavano San Bernardo che non comprendevano, e ascoltavano con difficoltà colui che traduceva le sue parole: mistero del carisma e mistero della calda comunicazione attraverso la Parola che annuncia la Parola.
La Messa
Ho visitato, l'anno scorso, nel "Forez" in Francia, delle chiesette romaniche dei X-XI secolo bisognava arrampicarsi per assistere alla Messa e il pendio era ripido. In inverno... in estate... immaginavo questo pugno di contadini irsuti, maleodoranti, ignoranti, spossati dal lavoro dei campi, che, una volta alla settimana si sforzavano di vivere e di pensare da cristiani per qualche istante: che, una volta alla settimana, intravedevano una scintilla, subito estinta, di vita spirituale. Un prete, un piccolo prete di campagna, non molto più istruito di loro, bene o male riusciva ad istruirli. Egli comunicava con tutto il cuore, essi ascoltavano, tormentavano il loro povero cervello per comprendere qualcosa. La liturgia veniva loro in aiuto. Permetteva ad ognuno di comprendere senza sapere ed essere istruito senza conoscere. Essa permette a coloro che comunicano di riconoscersi gli uni negli altri, senza mai essersi conosciuti. Comunicando, entrando in comunione con l'altro attraverso segni, simboli, riti lentamente messi a punto lungo i secoli (…). La statuaria primitiva e sontuosa, che ornava le chiese, aiutava i fedeli ad istruirsi, a comprendere ciò che la profonda ignoranza non sempre permetteva loro di afferrare. Questa Bibbia degli analfabeti, poteva essere letta da tutti, anche dalla madre "poverella e anziana" descritta dal poeta Villon (1431-1489), il "paradiso dipinto dove ci sono arpe e liuti" dove vengono accolti i beati, e l'inferno dove i malvagi vengono "bolliti". La magnificenza dei luoghi - quando c'era - parlava loro della grandezza di Dio; l'illuminazione sontuosa per l'epoca, nonostante la cera fosse rara e di conseguenza alquanto costosa, prefigurava la luce nella quale essi sarebbero vissuti un giorno, per l'eternità. Queste ed altre forme di linguaggio erano dunque mezzi di informazione, ma la cosa importante da constatare è che coloro che venivano formati ed informati in questa maniera aspiravano a questo tipo di insegnamento ed erano aperti al linguaggio di chi ne sapeva un po' più di loro, attenti ai Misteri, al Mistero, al Dio sconosciuto, alla percezione dell'aldilà. L'individualismo razionalistico non aveva ancora reso sterili gli uomini. Un'altra fonte di informazione nel Medioevo: i pellegrinaggi. A questi pellegrinaggi la Chiesa, e specialmente gli ordini religiosi, si sforzavano di dare consistenza costellando le strade che conducevano ai luoghi santi, di centri di accoglienza, di ostelli, di ospedali, di alberghi. Durante il suo lento cammino, il pellegrino veniva istruito, informato, illuminato. Gli si raccontavano le pie leggende locali, si illustrava loro il significato dei timpani della chiesa, si spiegavano le origini delle reliquie che arricchivano il luogo e lo rendevano famoso. Si recitavano alcune canzoni di gesta illustrando con una luce meravigliosa la strada da seguire. I religiosi, canonici regolari agostiniani, cistercensi, templari, ed altri specialisti dei "turismo sociale", spiegavano ai pellegrini le ragioni profonde delle loro fatiche e delle loro sofferenze; facendo ciò che oggi chiameremmo "animazione culturale". La comunicazione era un appuntamento, poiché non era affatto raro che il pellegrinaggio raggruppasse diverse centinaia di persone, annoverando nei suoi ranghi professionisti, delinquenti comuni che speravano di sfuggire in questo modo ai gendarmi, una o più donne di strada non del tutto pentite, ed anche - bisogna tener conto della debolezza umana - dei professionisti della strada che si impegnavano - in cambio di denaro contante - a fare il pellegrinaggio al posto dei cristiani più deboli o timorosi. L'esemplarità della vita monastica era un altro modo per educare ed informare le rudi masse dell'epoca. Come bisogna vivere per essere veri cristiani? A quali dure esigenze - sonno interrotto, austerità, obbedienza ("sine murmurazione", regola S. Benedicti, 35, 24), lavoro, silenzio - occorre piegarsi se si vuole vivere alla lettera l'insegnamento di Cristo? Vivendo, giorno dopo giorno, una vita conforme ai precetti loro trasmessi dal santo fondatore, i religiosi illustravano con insistenza l'essenza del messaggio cristiano così come loro lo vivevano. (…) Altro fattore di informazione e di diffusione, di conoscenza e di notizia: l'obbligo per i religiosi, canonici, monaci o mendicanti che fossero, - almeno due per monastero - di recarsi a piedi presso i luoghi dove si tenevano i Capitoli generali (è il momento di ricordare che la prima Assemblea internazionale europea è opera dell'Ordine di Citeaux, nel 1115, cioè un secolo prima della concessione della Magna Charta in Inghilterra). Lungo la strada essi raccoglievano il maggior numero possibile di informazioni sui frutti, i legumi, le piante medicinali e d'altro genere, e i rimedi, le ricette di ogni specie, i segreti e le astuzie di fabbricazione... di cui essi assicuravano la diffusione; comunicavano i risultati delle loro esperienze e dei loro esperimenti, trasmettevano l'essenza della saggezza acquisita durante gli anni e per le strade. E sicuramente raccontavano ad ogni tappa voci di guerre, di epidemie, di carestie che correvano lungo il cammino, notizie buone e cattive alla rinfusa, pettegolezzi riguardanti le famiglie principesche ed i vescovi, esattamente come la radio ai giorni nostri, e nessuno si stancava mai di ascoltarli. Non dimentichiamo la pratica dei "rotoli dei morti": all'interno degli ordini, l'annuncio della morte di un fratello veniva trasmesso in tutte le case, si dava ad un religioso l'incarico di portare la lettera di partecipazione, ogni caso presentava le condoglianze scrivendo qualche pensiero, più o meno stereotipato, qualche volta alcuni versi, elogiativi all'indirizzo del defunto (il che, tra l'altro permetteva di controllare l'andata e il ritorno del portatore di notizie) (…). Se guardiamo più in alto abbiamo l'insegnamento delle Università, luoghi privilegiati della comunicazione e del dialogo (e delle querele), creazione tipica di questi secoli che alcuni chiamano oscuri. Nel 1602 il numero delle Università era di 102 e al di fuori dell'area cristiana non esistevano affatto. Infine, all'altro lato della catena di informazione e di comunicazione, troviamo la Traditio, cioè la trasmissione dei valori antichi, dialetti, credenze, canzoni, usi e costumi, rituali alimentari, proverbi, liturgie socioculturali di ogni tipo, frutti elaborati lentamente da una cultura contadina e montanara, marinara, artigiana o forestiera. Questa tradizione trascina un gran numero di pregiudizi e di superstizioni, una quantità di terror panico, di credenze ingenue ai miracoli, ai quali si mescolava una aspirazione al meraviglioso non cristiano, sempre presente, e la certezza che la magia e la stregoneria giocavano il loro ruolo nel gran teatro del mondo. Nell'insieme era un'informazione rudimentale (…). E’ incredibile che una società che ha visto nascere dei geni della comunicazione come Dante o J.S. Bach, Michelangelo e mille altri, si sia lasciata disorientare al punto di accettare per più di tre decenni una tesi tanto condannata dai fatti e dalle esperienze, come la dottrina sartriana della incomunicabilità e della solitudine esistenziale. Si può parlare di solitudine e, quindi, di assenza di comunicazione solo quando ci si rinchiude, volontariamente, in una volontà altezzosa (o disperata) di essere soli di fronte a se stessi, in una pretesa libertà radicale che altro non è, in realtà, che una cieca sottomissione a forme di schiavitù consentita, di sottomissione alle pulsioni della paura e dell'istinto. "La soddisfazione dei loro desideri serve a loro come legge: considerano santo tutto ciò che pensano o che decidono, e ciò che non piace a loro, dicono che è vietato... Sempre erranti, mai stabili..." Non vado oltre: avrete indubbiamente riconosciuto la descrizione che, più di 15 secoli fa, San Benedetto ha fatto di un certo tipo di monaci che rifiutavano la grande scuola dell'esperienza. "L’inferno sono gli altri", così ha scritto Sartre che ha lottato durante tutta la sua vita (sempre contro corrente) perché la giustizia fosse resa agli altri. Questa è una curiosa contraddizione, ma soprattutto una strana affermazione che nessuno dei grandi Santi che hanno plasmato gli uomini, molto più e molto meglio di quanto non abbia mai fatto J.P. Sartre, ha mai formulato. Ma il fatto che l'autore de La Nausea abbia potuto portare avanti questa affermazione merita una riflessione. Come è potuto arrivare a questo punto di disperazione e tuttavia di rivolta radicale? Il terribile dramma di Sartre trova una spiegazione nella sua autobiografia, La Parole, dove si trasmette l'idea di un mondo senza un punto di riferimento trascendentale; senza punto di aggancio nell'Assoluto, i valori come la gioia, la forza e la fecondità dell'Europa sbandano e si trasformano in tossine, cioè in veleni. L'individualismo si trasforma in anarchia, il sentimento di uguaglianza in egualitarismo, la scienza in scientismo. Il legittimo diritto alla felicità si corrompe in edonismo. I processi di secolarizzazione estendono la loro azione fino al campo dell'umano che ne muore. Il secolo scorso, con Feuerbach, ha condannato tutto ciò che gli appariva come la prima e più grave di tutte le alienazioni, e cioè l'alienazione religiosa. L'uomo ha voluto essere simile agli dei che conoscono il Bene e il Male, cioè decidere, come loro, ciò che è bene e ciò che è male. Il risultato, lo conosciamo bene, è la società attuale, è l'uomo disorientato, destrutturato, disarmato di oggi, aperto alle avventure mortali della droga e delle sette. Incapace di esprimersi, di dialogare, di comunicare, vive la sua solitudine in seno alla vita tumultuosa e frenetica delle grandi città (…). Ma non è tutto: in balia di se stesso, l'uomo di oggi è più credulo o, almeno, credulo quanto il suo antenato del Medioevo. E’ sprovvisto di spirito critico perché crede che sia sufficiente vivere in seno a una Società critica (nel pieno senso del termine), per avere le capacità necessarie per acquisirlo. Infatti è rimpinzato di informazioni, ma è incapace di digerirle, in altre parole di selezionarle per integrarle in una visione costruita e solidamente fissata del Mondo, dell'Uomo, della Città, secondo una scala di valori stabile e ben definita che darebbe loro tutto il significato; è ignorante quanto gli uomini d'allora. Poiché lo scopo della comunicazione, quali che siano i mezzi che essa intende utilizzare, è un uomo, più esattamente una persona (che non è una cosa data, ma creata) che conosce il senso del suo destino ed è capace di assumerlo. In altre parole, l'informazione non è fine a se stessa, deve aiutare alla formazione, altrimenti perde qualsiasi ragione d'essere. (…) I processi di socializzazione agiscono a stadi diversi: l'educazione familiare si colloca ad un altro livello rispetto all'indottrinamento ideologico, l'insegnamento religioso su un altro piano rispetto all'iniziazione civica. Possono entrare in conflitto; meglio ancora, è attraverso la forza delle cose che entrano in conflitto. E’ il caso della fedeltà alla patria e di taluni impegni (per esempio 'tu non ucciderai') ed esigenze di civismo (il servizio militare ecc.). Tutti questi fatti creano delle spiagge di libertà per l'individuo. Non si tratta e non si tratterà mai della libertà totale, astratta, ideale dei 1789 - che non è mai esistita e che non esisterà mai - né della libertà sovrumana di Nietzsche, né di quella di Sartre. E’ una serie di libertà che l'Uomo deve difendere e proteggere e utilizzare nella sua completezza se vuole vivere in piena dignità di essere comunicante e in comunione.
L. Moulin (Meeting di Rimini)


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