“Vieni e vedi”
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“solo
quando l’uomo scopre per sé Cristo, immortale, sempre vivo, allora si
compie quello che in uno specifico linguaggio biblico si chiama salvezza, cioè comunione dell’uomo alla Vita vera, alla quale l’anima brama, alla quale aspira. Ecco perché il Signore Gesù Cristo chiamò la Sua predicazione besorà, che significa “lieta novella”, in greco evanghelion. Noi la chiamiamo Vangelo, la Lieta o Buona Novella. Di che cosa tratta questa Novella?
I beduini hanno questa usanza: quando nasce un maschio, la donna che ha assistito al parto va dal padre del bambino e gli dice: “Io ti annunzio una grande gioia: ti è nato un figlio”. E noi, quando apriamo il Vangelo secondo Luca, leggiamo queste parole: di notte i pastori sorvegliano le proprie greggi, e all’improvviso si apre loro la Gloria del Signore. In linguaggio biblico ciò significa l’apparizione del Mistero in questo mondo materiale. E loro odono: “Io vi annunzio una grande gioia (...), oggi nella città di Davide vi è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore”. [...] Il Re venne per regnare, ma nacque come un povero. Trent’anni dopo l’evento della Natività, sulla riva del fiume Giordano ebbe luogo un dialogo interessante: due pescatori incontrarono un amico comune che, come loro, si trovava in riva al fiume nel mezzo della folla, e gli dissero delle strane parole: “Abbiamo trovato il Messia”. Il pescatore disse: “Chi è costui?”. “È Gesù di Nazareth, il figlio di Giuseppe”. Egli certamente non credette. Allora, semplicemente, gli dissero: “Vieni e vedi”. Fu questa la prova principale, la quale ancora oggi il cristianesimo mondiale mostra a coloro che lo vogliono conoscere. Si dicono queste due parole: “Vieni e vedi”. Ed ora cerchiamo di vedere meglio l’immagine di Colui il quale è raffigurato per noi nel Vangelo. Un’immagine che non si è sbiadita nel corso di venti secoli. Quale grande genio poté creare mai una tale immagine? Non senza ragione Jean Jacques Rousseau diceva che chi fosse stato in grado di inventare il Cristo sarebbe dovuto essere ancor più meraviglioso di Lui. Si è parlato anche di creazione artistica collettiva popolare. Io penso che una tale attività artistica non esiste. Esiste l’attività anonima. Ciò nondimeno è sintomatico che il Vangelo non sia stato scritto da una sola persona.” Aleksandr Men’, Io credo. Il Simbolo della fede, Nova millennium editrice, Roma, 2007 |
Postato da: giacabi a 19:05 |
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gesù, men
Florenskij, il Pascal delle steppe
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Una
delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il pope russo assassinato
nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel
1937
Florenskij
era legato all’Università di Mosca, ai progetti e agli istituti per
l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia
teologica di Mosca, docente di Storia della filosofia; al tempo stesso
era redattore della rivista Bogoslovskij
vestnik. La molteplicità di interessi era emersa in lui sin
dall’infanzia, lo chiamavano « il Leonardo da Vinci russo». Ma quando
diciamo Leonardo da Vinci ci viene in mente un maestoso vegliardo, che
guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni. Florenskij,
invece, è morto giovane. Era scomparso. Arrestato nel 1933, era sparito
e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa
gli fosse accaduto: lo ignorarono per molto tempo, perché nel 1937 gli
avevano tolto il diritto di corrispondenza.
Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di
guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: «Questa donna sta
portando un’enorme croce». E mi spiegava che non sapeva cosa fosse
accaduto al marito. Anche mio padre a quel tempo era appena stato
liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo
cosa voleva dire. In realtà, a quell’epoca Florenskij ormai era già
morto. Ai tempi di Chrušcëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la
riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che
Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna. Infatti
nel 1933 gli avevano dato 10 anni, come a un pericoloso delinquente.
Sì,
quando io e la mamma parlavamo della sua sorte, lui ormai non c’era
già più. Il certificato di morte i familiari l’hanno ricevuto solo nel
nvembre 1989. «Il
cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovic è deceduto 1’8 dicembre
1937... Età: 55 anni (non è vero, ne aveva 56). Causa del decesso:
fucilazione.
Luogo del decesso: regione di Leningrado». Un
uomo che, alcuni mesi prima, trovandosi ai lavori forzati in condizioni
infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che
aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai
figli le sue ricche conoscenze. Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso
di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté
andarlo a trovare. Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi
civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di
molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e i popoli.
Fra
i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico. Tutto immerso nei
suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla
vita pubblica. Era
innocente e il Paese aveva bisogno di lui: come ingegnere, come
scienziato, come lavoratore disinteressato. Eppure, preferirono
fucilarlo. Assieme al certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la
copia della sentenza. C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il
volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno
straziato e torturato. Ecco in che epoca siamo vissuti.
Padre
Pavel viveva come in un mondo a sé. Comprendeva più la natura che le
persone. Aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in
questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da
bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato
della materia.
Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia. Forse il mondo delle
persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente. Un certo dottor
Bochgol’c, ortodosso fervente, aveva incominciato a compilare con
Florenskij un vocabolario dei simboli, e qualcuno gli aveva chiesto che
cosa avesse in comune con quell’uomo, e Bochgol’c aveva
risposto che nessuno dei due amava gli uomini. Certo, lui parlava per
sé, di Florenskij è difficile poter dire una cosa del genere. Oggi,
leggendo le lettere di padre Pavel ai propri cari, alla moglie, ai
figli, possiamo constatare quale enorme tesoro di tenerezza, di
attenzione, di amore autentico e meraviglioso custodisse il suo cuore. E
tuttavia, non era un cure spalancato ma, al contrario, piuttosto
chiuso, nel quale più di una vota si erano aperte delle spaccature
dolorose.
Almeno
tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel. La prima fu
una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto
in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto
comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo e si
mise a cercare appassionatamente una via d’uscita. Vi fu un’altra grave
crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la
propria vita. Per uno come lui non era affatto semplice portare il
proprio fardello, il peso di se stesso. Un suo conoscente mi ha
raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di
vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente,
cose assolutamente contraddittorie. Il suo intelletto era una macchina
colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto,
era un uomo profondamente appassionato, un teorico. Berdjaev ricorda di
aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo
avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa
e piangeva, singhiozzando... Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine,
a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, quando Florenskij stava
scrivendo uno studio critico in cui avanzava una serie di tesi che
suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi. La critica
lo aveva messo così in subbuglio, che padre Pavel aveva detto: «Non
scriverò più niente di teologia». Non doveva essere stato semplice, per
un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il
fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Era
una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel. Si era laureato
brillantemente in matematica all’Università di Mosca, dove aveva subito
ottenuto una cattedra. La matematica era per lui come il fondamento
dell’universo. Alla fine, era arrivato a pensare che tutta la natura
visibile, in sostanza, può essere ridotta a punti d’appoggio invisibili.
Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è
la fonte di ciò che è visibile. Florenskij amò, studiò, commentò
Platone per tutta la vita.
Negli
anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir
Solov’ëv. Bisogna dire che entrambi erano platonici, che a entrambi
stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il
tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina. Forse per questo Florenskij
cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e – se
lo cita – lo fa in modo critico. Eppure, nella storia del pensiero i due
sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse
sospettare.
L
a matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita. Florenskij
abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia
teologica. Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla
con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo
chiamavano «il naso coi riccioli », perché Florenskij aveva un viso
olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e
lunghi capelli ondulati. Era basso di statura e di costituzione esile.
Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero:
senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico. Quando nel
1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’, quando fu tolto il drappo
un uomo esclamò: «Ma questo è Pavlik!». In effetti, la figura curva, i
capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
Lo
scrittore religioso Sergej Fudel’, figlio del noto sacerdote moscovita
Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij. Mi descriveva il
suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un
affresco egiziano che aveva preso vita. Raccontava che poteva ascoltarlo
a luno quando parlava con suo padre a voce sommessa. Non era sempre
chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti
aromenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile
della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori
delle icone; i significati profondi delle parole. Florenskij conservò
per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il
significato delle parole.
Sergej
Fudel’ mi raccontava che quando, nel 1914, aveva letto La colonna e il
fondamento della verità, era ritornato nella Chiesa, interiormente.
Perché nello spirito viveva in una sorta di bohème simbolica, e il mondo
della Chiesa gli sembrava antiquato, fossilizzato, quasi uscito da una
commedia di Ostrovskij. Ma improvvisamente si era accorto che della
Chiesa si poteva scrivere in modo raffinato, come faceano i simbolisti,
come faceva Anrej Belyj. Posso confermarlo sul mio esempio personale.
Ero studente del primo anno, quando lessi per la prima volta La colonna
(era l’anno della morte di Stalin). Il libro mi colpì, e mi colpì
proprio perché, esattamente come Solov’ëv, Florenskij si preentava come
uno che si trova ai vertici della cultura, e non come uno che ci era
arrivato per vie traverse e ne usava i frutti per i propri scopi. Come
uno che era lui stesso cultura. Florenskij
e Solov’ëv erano la cultura stessa fatta persona. E la cultura rende
testimonianza alla Chiesa, a Cristo, al cristianesimo.
di ALEKSANDR MEN’ Avvenire 9.6.09
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