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sabato 18 febbraio 2012

messori


MESSORI:

Quei dialoghi con la Madonna.
Il dilemma di Medjugorje
***

Pubblicato ilgiugno 23, 2011 da
 

22 giugno 2011 :: Corriere della Sera
di Vittorio Messori
Erano i primi anni Ottanta, le autostrade erano cosa da Paese capitalista, per attraversare l’Istria e poi scendere verso Sud, lungo la riviera dalmata, non c’era che la vecchia strada federale, angusta e pericolosa. Quando stavo finalmente per giungere alla meta, incappai nel posto di blocco della Milizia comunista: domande sospettose, perquisizioni, sequestro della Bibbia che avevo con me, ammonimenti a non fare «proselitismo». Ero tra i primi a giungere in quel luogo aspro e remoto, dal nome significativo: Medjugorje, in mezzo ai monti. Dal passaparola più che dai media, che davano solo poche e imprecise notizie, avevo saputo che un gruppo di giovanissimi affermava di «vedere la Gospa», la Signora, la Madonna. E che la cosa stava coinvolgendo folle crescenti nella Jugoslavia orfana di Tito da un anno e dove la religione era ancora una sorvegliata speciale. Partii, dunque, più che da devoto, da giornalista e da studioso del fenomeno delle apparizioni mariane, da amico e discepolo dell’abbé Laurentin, il maggiore storico di Lourdes e divenuto poi il più autorevole autore su Medjugorje.
Così, grazie alla tempestività del viaggio, fui tra i pochi che ebbero un privilegio invidiato poi dai milioni di pellegrini che seguirono. Quello che chiamavano «l’Incontro» avveniva all’imbrunire nella sagrestia della moderna e strana chiesa del luogo: strana perché enorme, in mezzo a una sorta di deserto stepposo e pietroso, un gigantesco edificio per una parrocchia povera e minuscola, come per l’intuizione che lì sarebbero accorse delle folle. La sagrestia era stipata da gente in piedi, ma tra i francescani qualcuno aveva letto la traduzione di qualche mio libro e mi concessero di pormi in prima fila. Dovetti sgomitare per mantenere la posizione, cui non volevo rinunciare: per la prima volta potevo assistere a un fenomeno che avevo conosciuto solo su libri e documenti polverosi. Arrivarono i sei giovanissimi, dai 6 ai 16 anni, cominciarono a pregare ad alta voce, anch’essi in piedi. Non avevano davanti una statua o una immagine, guardavano verso l’alto. Ad un tratto, la preghiera si interruppe e, in sincronia, si lasciarono cadere sulle ginocchia, a corpo morto, con un tale tonfo che pensai a rotule fratturate. Invece, sul volto dei ragazzi, comparvero i segni di una enigmatica trasformazione: si illuminarono, tutti, con un sorriso e, alternandosi, cominciarono un dialogo che si intuiva dalle labbra che si muovevano, senza che noi spettatori udissimo alcun suono. Ero lì come osservatore doverosamente critico, non cedetti all’aura di misticismo che impregnava il piccolo locale sovraffollato, scrutavo il volto dei giovani, a un paio di metri di distanza. Erano, lo dicevo, in sei, inginocchiati uno accanto all’altro: la visione doveva muoversi, perché la seguivano con lo sguardo. Fissai l’attenzione sugli occhi, constatando che tutti si muovevano in sincronia e nella stessa direzione: eppure, in quella posizione, l’uno non poteva vedere l’altro, era evidente che seguivano «qualcosa» che tutti vedevano e che si spostava nell’aria, davanti a loro. Eguale sincronia nell’alternarsi dei sorrisi e delle espressioni addolorate: nel colloquio la Gospa, se davvero di Lei si trattava, alternava parole amorevoli ad avvertimenti inquietanti e i ragazzi reagivano all’unisono. Ma, lo dicevo, vista la posizione, non era possibile che si spiassero e si imitassero a vicenda. In perfetta contemporaneità fu anche la fine, dopo circa un quarto d’ora. I sei riebbero il volto di sempre, non più trasfigurato, ritrovarono la voce udibile anche da noi per una preghiera, si alzarono e si allontanarono. Raggiungevano il francescano, loro padre spirituale, che li attendeva nella casa parrocchiale e a lui davano relazione dell’incontro e comunicavano il «messaggio». Non conoscendo il croato, per giunta nella particolare forma dialettale parlata in Erzegovina, non fui in grado di constatare di persona quanto mi avevano assicurato quei religiosi. I ragazzi, cioè, venivano interrogati subito e separatamente: la coincidenza dei loro resoconti si aggiungeva alla coincidenza dei loro sguardi e delle loro mimiche facciali durante «l’Incontro».
Trent’anni sono passati da quel giugno 1981 in cui tutto ebbe inizio, non sono più tornato in quei luoghi, ma non ho cessato di informarmi e, soprattutto, di imbattermi in chi vi era stato: gente di ogni età, condizione, livello culturale. Eppure protagonisti, tutti, di un’esperienza che considerano importante e non pochi addirittura decisiva. Ho visto vite cambiate, vocazioni religiose sbocciate, pratiche religiose riscoperte. Sulla «verità» di Medjugorje non si potrebbero avere dubbi, se le si applicasse il criterio enunciato da Gesù stesso: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo… Ogni albero si riconosce dal suo frutto…» (Lc 6,43). Tre decenni di esperienza mostrano quanto sia stato e sia spiritualmente abbondante e eccellente il raccolto prodotto da quell’albero cresciuto inaspettatamente nei Balcani.

Ma, per Medjugorje, è avvenuto il contrario che per Lourdes o per Fatima, dove la negazione è giunta da atei, laicisti, anticlericali. Qui, entrambi i due vescovi succedutisi alla guida della diocesi hanno assunto un atteggiamento sempre più negativo, sino a parlare di «una delle maggiori truffe nella storia della Chiesa». Altrove, poi, la difesa delle apparizioni ha caratterizzato i cattolici tradizionalisti, mentre quelli cosiddetti «aperti» esprimevano dubbi. Anche qui, le posizioni sono invertite: sono i seguaci di mons. Lefebvre che negano polemicamente che possa essere «vera» una Madonna nei cui messaggi ravvisano quelle che chiamano «deviazioni eretiche conciliari». Credenti pubblicano dossier dal titolo Medjugorje: è tutto vero. Ma altri credenti replicano con instant book: «Medjugorje: è tutto falso». Lo stesso episcopato è diviso: vi è il vescovo (magari il cardinale, come quello di Vienna) che si reca di persona in pellegrinaggio e chi fa rispettare puntigliosamente ai suoi preti il divieto di Roma di guidare ufficialmente dei gruppi.
Per la Santa Sede, Medjugorje è un dilemma tormentoso. Da un lato si riconosce con gratitudine l’abbondanza dei frutti spirituali, dall’altro lato non si dimentica il vulnus al diritto canonico, con un tale movimento mondiale combattuto dagli ordinari del luogo, cui spetta il discernimento. Al punto in cui si è giunti, una sconfessione ufficiale della verità dei fatti da parte di Roma sarebbe una catastrofe sul piano pastorale. Ma catastrofico sarebbe anche il contrario: una smentita ufficiale, cioè, della posizione di due vescovi che negano senza esitazione la soprannaturalità e parlano non di miracoli, ma di truffe e inganni. Questo avrebbe effetti inediti e imprevedibili sul diritto ecclesiale. Non c’è da invidiare, davvero, il cardinal Ruini, responsabile della commissione ufficiale d’inchiesta: è possibile che neanche la sua lunga esperienza e la riconosciuta prudenza riusciranno a chiarire questa sorta di «mistero» del rosario che sembra, al contempo, «gaudioso» e «doloroso».

Postato da: giacabi a 10:19 | link | commenti
medjugorje, messori

mercoledì, 14 luglio 2010

Il grande chirurgo
Stefano Zurlo                         da: www.tracce.it 04/2000
Un microchirurgo rilegge gli atti del miracolo di Calanda del 1640.
Tutti i sintomi del decorso postoperatorio dopo il reimpianto di un arto
descritti con un occhio clinico allora inimmaginabile

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Quante strade ci sono per arrivare a credere in un miracolo? C'è via classica della fede, ma c'è anche quella, sorprendente, della microchirurgia. Calanda, Aragona, 29 marzo 1640: Miguel Pellicer, un giovane contadino, "recupera", per intercessione della Virgen del Pilar, la gamba che gli era stata amputata due anni e mezzo prima, dopo un grave incidente. Per gli spagnoli quello di Calanda è el milagro de los milagros, il prodigio per eccel olenza. Verona, Policlinico universitario, estate del 1999: Landino Cugola, primario dell'Unità operativa di chirurgia della mano e dell'arto superiore, legge le testimonianze oculari raccolte 359 anni prima dall'Inquisizione. E resta sbalordito: quelle narrazioni, così antiche, sono straordinariamente moderne e descrivono con occhio clinico quel che allora era semplicemente inimmaginabile: tutti i sintomi che accompagnano il decorso postoperatorio dopo il reimpianto di un arto. Il gonfiore della caviglia, le macchie bluastre sulla pelle, le dita del piede chiuse a pugno.
Era scettico, lo specialista, ora ci crede: i verbali delle 24 persone che sfilarono davanti al tribunale dell'Inquisizione di Saragozza sembrano presi di peso da un odierno trattato di letteratura medica. Ma nel Seicento gli ortopedici non si sognavano nemmeno un'operazione del genere, il primo tentativo riuscito di riattaccare un braccio nel 1962. Cugola legge e rilegge quelle carte, poi si arrende all'evidenza: "è impossibile che tutte quelle persone abbiano bluffato, non potevano simulare una cosa che allora non era nemmeno pensabile". Così il professore, che ha sessant'anni e per mestiere riattacca braccia e piedi (in Italia non sono più dieci i centri in grado di fare operazioni del genere) è diventato, quasi involontariamente, il miglior testimonial del libro che sull'argomento ha scritto Vittorio Messori:
Il miracolo; sottotitolo: Spagna, 1640: indagine sul più sconvolgente prodigio mariano.

Lettore di eccezione
Merito di Messori se quell'evento, dimenticato o sconosciuto ai più è tornato d'attualità?La Rizzoli ha appena sfornato la decima edizione, le copie vendute in meno di due anni sono già cinquantamila, la Rai e la tv svizzera sono andate in Aragona a girare un film. Ora però arriva questo lettore d'eccezione a rendere ancora più intrigante la storia e a benedire il più politicamente scorretto dei matrimoni: quello fra la scienza più avanzata e il milagro più barocco, consegnatoci direttamente dalla Spagna del Seicento. "Un giorno - spiega Messori - sono andato a presentare il libro in una parrocchia dell'hinterland veronese. A un certo punto un signore ha alzato la mano e si è presentato. Era Cugola. Aveva letto il libro per scrupolo professionale, ma ne era rimasto impressionato". Racconta il professore: "Conoscevo giàl prodigio di Calanda: a casa ho una raccolta di foto e diapositive che spiegano tutti i miracoli presenti nell'iconografia tradizionale che in qualche modo mi possono interessare. Letto il testo, ho chiesto a Messori la documentazione del processo tenuto a Saragozza per ordine dell'Inquisizione e lui mi ha inviato le fotocopie: circa settanta pagine in spagnolo".
Cugola si è sobbarcato questa fatica supplementare e riga per riga si è lasciato conquistare da quelle narrazioni: "è tutto vero, troppo vero per essere falso". Più che nell'Aragona del Seicento gli è parso di essere fra la camera operatoria e il centro di riabilitazione del suo ospedale.

La storia
Che cosa successe a Calanda? Apparentemente la storia descritta dal giornalista e scrittore è così strepitosa da far sorridere. La sera del 29 marzo 1640 Miguel Pellicer, un giovane contadino, va a dormire. Due anni e mezzo prima finito sotto un carro e ha perso la gamba sinistra: gliel'ha dovuta amputare, quattro dita sotto il ginocchio, il chirurgo di Saragozza. Quella notte a Calanda ci sono i soldati e il ragazzo deve accontentarsi di un giaciglio di fortuna, per lui particolarmente scomodo: saranno le ultime ore di sofferenza. Quando si sveglia non crede ai propri occhi: al posto del moncone c'è la sua gamba, sepolta due anni e mezzo prima nel cimitero dell'ospedale di Saragozza. Non ci sono dubbi; è proprio quella che gli avevano tolta: ci sono perfino i segni del morso che un cane gli aveva dato quando era bambino.
Sembra fiction, ma a confermare lo strabiliante episodio ci sono i testimoni. Numerosi, numerosissimi: i genitori, gli amici, gli abitanti di Calanda, i canonici del Pilar, il chirurgo, i soldati accampati quella notte in casa Pellicer. È credibile che si siano accordati imbastendo una gigantesca truffa? Oppure, sono stati, essi stessi, "truffati" da un'abile messinscena? Per Messori, che è andato a Calanda e poi a Saragozza, dove ha frugato fra le carte dell'archivio del Pilar e ha allineato le diverse testimonianze, è impossibile. Il giornalista si ferma qui.
Particolari convincenti
Cugola va oltre. E si sofferma sulle ore immediatamente successive al risveglio: "Pellicer aveva recuperato l'arto, ma ci volle del tempo perché riprendesse a camminare correttamente. I testimoni dicono che la gamba era mortecina, smorta. Esattamente come capita oggi. Tanto per cominciare il sangue ristagnava e la caviglia si era gonfiata". Dettaglio notato dai calandini. Non solo: la folla dei curiosi coglie altri sintomi che sembrano presi di peso dalle riviste scientifiche degli ultimi trent'anni: la gamba è più corta e il giovane zoppica, sulla pelle ci sono macchie di colore scuro, marbrures, le dita del piede sono poco sensibili, il polpaccio piccolo. Tutti particolari che rafforzano i convincimenti di Cugola: "Durante l'intervento avvenuto a Saragozza l'equivalente di quattro dita di lunghezza ando perduto per lo spapolamento della frattura. Così almeno inizialmente, Miguel si ritrovò con la sua gamba, ma più corta. Succede anche a noi nel 95% dei casi. E anche noi, nella fase di riabilitazione, provochiamo l'allungamento dell'osso con uno strumento detto fissatore esterno". E gli altri particolari? "Non mi sorprendono. Il polpaccio si era ristretto perché il muscolo si era mummificato. Con il ritorno del sangue si è innervato e ha riassunto la grandezza naturale. Le chiazze invece sono facilmente spiegabili perché nelle prime ore dopo il reimpianto, il sangue ha ripreso gradualmente a circolare, ma in modo non uniforme. In certe zone è arrivato prima, in altre dopo. E anche le terminazioni nervose ci hanno messo del tempo, come da copione, a riattivarsi".
C'è di più. Ai calandini non sfugge nemmeno la posizione innaturale, a pugno, in cui teneva le dita del piede: corbadas hacia bajo, ricurve verso il basso. "è un classico", risponde tranquillamente Cugola, "le dita erano flesse perché dopo il reimpianto i tendini flessori prevalgono su quelli estensori. Un fatto normalissimo". Insomma, tutto trova se non una spiegazione esauriente almeno una giustificazione in linea con la logica e la conoscenza. Resta il quesito di fondo. Come era possibile ricreare una gamba perduta due anni e mezzo prima? "Secondo me - spiega il primario - la gamba non andò distrutta come si potrebbe ritenere. Si verificò invece un processo di mummificazione, frequente anche oggi. Per intenderci, dopo la caduta e la lesione, non ci fu un blocco repentino della circolazione, i tessuti non andarono in necrosi umida o gangrena, ma la gamba si mummificò lentamente. Questo spiega fra l'altro perché  Pellicer non sia morto di setticemia in quei giorni. La gamba assunse un color ambra, un po' come le reliquie che veneriamo nelle nostre chiese".


Oltre la ragione
Cugola sorride e previene l'obiezione, scontata: "Con questo non voglio sminuire il miracolo, noi oggi riattacchiamo una gamba solo se ce la portano entro un tempo brevissimo, 8-10 ore al massimo. Un intervento su un pezzo di arto dimenticato da due anni e mezzo va ben al di là delle nostre capacità. Ma in un certo senso – è la conclusione di Cugola - non le contraddice. La nostra razionalità almeno la mia, non viene mortificata dal chirurgo divino. Il miracolo va oltre la mia ragione, ma non la ridicolizza. Tutti i tasselli del mosaico che ho pazientemente ricostruito vanno al loro posto e i miei colleghi che sghignazzano dovrebbero studiare più attentamente la vicenda prima di emettere giudizi frettolosi".
Un milagro oltre, ma non contro la scienza, da sempre in prima linea nella guerra contro il Gesù caramelloso e assorto di certi santini, è soddisfatto: "La liturgia approvata da Roma per la festa del 29 marzo recita cos?"Non fecit taliter omni natione", Dio non ha fatto nulla di simile per nessun'altra nazione, né prima né dopo". El milagro de los milagros. "Un fatto di carne e di sangue per ricordarci che il cristianesimo non è un'ideologia, ma un avvenimento. Tener presente questo oggi può essere molto utile: il grande nemico del cristianesimo non è il materialismo, ma lo spiritualismo".
Il dialogo Messori-Cugola è già stato inserito nell'edizione spagnola del Milagro. La Rizzoli lo metterà in  coda al testo italiano nei prossimi mesi, quando Il miracolo verrà riproposto nei tascabili della Bur.

di Stefano Zurlo


Postato da: giacabi a 22:04 | link | commenti
miracolo, messori

sabato, 27 febbraio 2010

La verità sulla presa della Bastiglia

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 Quattro falsificatori di moneta che se la diedero subito a gambe. Due pazzi pericolosi che, scambiati per «filosofi» e, dunque acclamati sulle prime come «vittime della repressione», furono rinchiusi, chiarito l'equivoco, in un manicomio. Un maniaco sessuale: un giovane depravato allievo del marchese de Sade, messo dietro le sbarre per richiesta della sua stessa famiglia. Sette detenuti che sarebbe difficile definire «politici». Sette «perseguitati» assai improbabili.
Eppure, è sulle loro miserevoli spalle che, da due secoli, grava il mito della presa della Bastiglia da parte del popolo parigino, con conseguente liberazione di prigionieri che sarebbero stati tragico simbolo dell'assolutismo monarchico. In realtà, i quattro falsari, i due matti e il depravato erano i soli ospiti della fortezza-prigione quando fu assalita, nella tarda mattinata del 14 luglio 1789. La storiografia da manuale scolastico data ancora da quel giorno l'inizio del "mondo nuovo".
A duecento anni di distanza un grandioso corteo, con rappresentanze di tutto il mondo, sfila a Parigi, per ricordare il giorno glorioso, davanti a François Mitterrand (che della "Grande Révolution" si considera figlio diretto e legittimo). Sarà dunque bene vaccinarsi, una volta per tutte, con quei vigorosi antidoti alla retorica che sono ironia e senso critico, del tutto legittimi davanti al mix di ridicolo e di orrore che fu la vera «presa della Bastiglia». Si sa che ogni rivoluzione ha bisogno vitale di un «mito di fondazione» che, di solito, viene identificato in una «presa»: la «presa della Bastiglia», ma anche la «presa» di Roma per il Risorgimento, la «presa del Palazzo d'inverno» per il regime marx-leninista in Russia.
Quanto alla Pietroburgo del 1917, chi un poco frequenti la storia sa bene che non ci fu alcuna «presa» e che la residenza della corte, abbandonata da mesi dallo Zar, fu occupata da un piccolo gruppo di bolscevichi praticamente senza colpo ferire. Realtà, naturalmente, ben diversa dai manifesti, dai film, dalle cronache magniloquenti dei successivi settant'anni.
Quanto a Roma nel settembre del 1870, è noto che, ai suoi meno che quindicimila uomini, Pio IX aveva dato l'ordine di «sottrarsi al contatto con l'invasore, concentrandosi nella capitale». Così il papa al suo comandante, generale Kanzler. Quando, a partire dal 18 settembre, Roma fu assediata, l'ordine pontificio fu: «Il minimo di resistenza, possibilmente senza alcuno spargimento di sangue, solo per significare al mondo che si cede alla violenza. Appena aperta la breccia, alzare bandiera bianca e inviare una delegazione per la resa». In effetti, in due giorni e due notti di "assedio" non fu sparata che qualche fucilata casuale, con due morti e qualche ferito. Aperta a Porta Pia la breccia, il 34° reggimento bersaglieri si arrampicò sulle macerie. Vi fu un solo morto, il maggiore Pagliari che era alla testa, per un colpo partito a un franco tiratore che aveva disobbedito agli ordini, mentre i battaglioni pontifici si concentravano, con le armi al piede, in piazza San Pietro.
In dieci giorni di "guerra", i 60.000 soldati italiani di Raffaele Cadorna avevano perduto 32 uomini, morti per incidenti vari compresi: una percentuale di 0,5 caduti ogni mille soldati. Si sa che, in un qualunque week-end di oggi, i deceduti per incidenti stradali sono proporzionalmente assai di più.
La «presa» della Bastiglia, al ridicolo aggiunse anche la crudeltà che, purtroppo, in futuro avrebbe dato il suo frutto avvelenato. Ridicolo, il fatto che in quel «simbolo dell'oppressione» non ci fossero che prigionieri che elencavamo. Ma, ridicolo, anche il fatto che l'Assemblea Nazionale rivoluzionaria manifestasse il suo solenne sdegno, quando le furono mostrate «le orribili e sconosciute macchine da tortura» trovate all'interno della fortezza. Fu esibito quello che il relatore, Dussault, presentò come «un corsetto di ferro per stritolare le articolazioni». Nessuno osò dire che si trattava di un'armatura medievale conservata nel museo di armi antiche che proprio alla Bastiglia aveva sede. Si esibì anche «una macchina non meno infernale e distruttiva», ma così segreta che non si riuscì a spiegare in che modo torturasse. Saltò poi fuori che era una pressa sequestrata tre anni prima a un tipografo che stampava pubblicazioni oscene.
Si proposero allo sdegno del popolo anche «le ossa degli sventurati, giustiziati in segreto nelle celle». Pure qui, solo anni dopo qualcuno ebbe il coraggio di ricordare che gli scheletri erano quelli dei suicidi parigini che, non potendo essere sepolti in terra consacrata, erano deposti in un cortiletto interno della fortezza. Fu infine compilata una lista ufficiale dei "vincitori della Bastiglia": risultarono 954 nomi che, oltre a una pensione vitalizia, ricevettero il diritto di portare una divisa con l'insegna di una corona di gloria.
Solo molto dopo un'inchiesta rigorosa stabilì che, poiché agli eroi era stato permesso di testimoniare l'uno per l'altro, senza alcun'altra prova, più della metà dei valorosi non aveva partecipato al fatto. Il ridicolo, certo: ma anche l'orrore per il seme di sangue che fu deposto quel giorno e che dovrebbe rendere ancora più perplessi sull'opportunità delle celebrazioni. Il governatore della Bastiglia de Launay, invitati a pranzo i capi degli assalitori (e anche questo invito a mensa dà il clima dell'"epica giornata"...), aveva ricevuto da essi la parola d'onore che, arrendendosi senza difesa, avrebbe salvato la vita sua e degli "invalidi", i vecchi soldati ai suoi ordini. Fu, invece, massacrato a tradimento. Si chiese l'intervento di un garzone di macellaio (perché, dicono le fonti, «sapeva lavorare le carni») per staccarne la testa dal busto e portarla in processione infilzata su una picca.
Altra macabra picca per la testa di Flesselles, sindaco di Parigi, che era sopraggiunto per invitare alla calma. Massacrati anche gli altri ufficiali della guarnigione, due invalidi impiccati alle sbarre delle celle; altri torturati in vari modi tra cui il taglio delle mani. Così, proprio in quel 14 luglio dell'anno primo della Rivoluzione, si apriva la diga degli orrori inenarrabili che sarebbero seguiti. Fu il primo sangue dell'onda che avrebbe travolto la Francia e poi l'Europa.
 Al mondo d'oggi che non tralascia occasione per gridare la sua avversione a ogni violenza, per proclamare la necessità della pacifica tolleranza, c'è da chiedere se è davvero il caso di fare così solenne festa per l'anniversario dell'inizio di ciò che avrebbe portato al Terrore e al genocidio vandeano e poi all'Europa spopolata dal "fils de la Révolution" per eccellenza, il Bonaparte. 
( da: Vittorio Messori, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 310-313,


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messori


Il segreto dei Mille

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di Vittorio Messori [Da "Pensare la storia", San Paolo, Milano 1992]
Messori documenta il ruolo chiave del denaro straniero nella spedizione dei Mille contro il Regno delle Due Sicilie
Per alcuni è ancora una tradizione passare a Caprera la prima domenica di giugno, giorno in cui si celebra la festa della Repubblica. Caprera, si sa, vuoi dire Garibaldi: per un giorno, nei quindici chilometri quadrati di quell’isola, si medita su colui che qualcuno ancora chiama "l’Eroe dei Due Mondi".

Eroe dei Due Milioni
In realtà, la polemica cattolica aveva storpiato quel nome, trasformandolo in "Eroe dei Due Milioni", alludendo alla pingue rendita assegnatagli dallo Stato italiano. Non mancarono, in effetti, polemiche sulla "povertà" di colui che (stando a quanto si leggeva nei libri edificanti) "donò un Regno ai Savoia senza nulla chiedere per sé". Ma, proprio adesso, nuove ricerche, con relativi documenti sinora sconosciuti, gettano una luce inquietante sul mito "francescano" del Nizzardo (o, meglio, fatta salva la sua personale integrità, su quello dei suoi collaboratori diretti), e possono aprire nuove prospettive sui retroscena dell’epopea risorgimentale. Ci sono brutte novità, insomma, per i superstiti devoti dell’Eroe in capelli biondi, camicia rossa e poncho bianco.

I risultati di una ricerca per un convegno massonico
La sconcertante rivelazione viene dal convegno
"La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria", organizzato a Torino nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, con l’appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono stati pubblicati gli Atti, a cura dell’editrice ufficiosa dei massoni. Una fonte sicura dunque, visto il culto dei "fratelli" per quel Garibaldi che fu loro Gran Capo. Un breve intervento - poco più di due paginette, ma esplosive - a firma di uno studioso, Giulio Di Vita, porta il titolo Finanziamento della spedizione dei Mille. Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore della ricerca: "Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene solitamente riferito è un modesto versamento - circa 25.000 lire fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all’atto dell’imbarco da Quarto".

Tre milioni di franchi francesi per “alleggerire” la resistenza borbonica
E invece,
lavorando in archivi inglesi, l’insospettabile Di Vita ha scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata l’enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè (chiarisce lo studioso) "molti milioni di dollari di oggi". Il versamento avvenne in piastre d’oro turche: una moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo. A che servì quell’autentico tesoro? Sentiamo il nostro ricercatore: "È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall’oro".
Anche perché ai finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi, palesi) frutto di collette tra tutti i "democratici" di Europa e America, del Nord come del Sud.

La resa di Palermo – mille contro centomila - diventa meno inspiegabile
Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici voci: come, ad esempio, che
la resa di Palermo (inspiegabile sul piano militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma con le "piastre d’oro" versate al generale napoletano, Ferdinando Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si può forse valutare meglio un’impresa come quella dei Mille che mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari iniziali.

La sparizione della documentazione sui fondi
Ma c’è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui viaggiava, l"’Ercole", affondò per una esplosione nelle caldaie e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma l’inchiesta fu sollecitamente insabbiata
. Le cose possono ora chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell’intendenza, amministrava i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione sull’impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un atto doloso.

Lo sponsor fu il governo inglese
Si cominciava bene, dunque, con quella "Nuova Italia" che i garibaldini dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di corruzioni e di attentati Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille erano a conoscenza?
In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell’isola).

Il piano britannico
Come riconosce il "fratello" Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era quello già ben noto: aiutare Garibaldi per "colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico". Le monarchiche isole pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche l’Italia, "tenebroso antro papista", fosse liberata dal cattolicesimo.


Postato da: giacabi a 14:59 | link | commenti
messori, storia

lunedì, 25 gennaio 2010

La Chiesa
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La Chiesa non è altro che la grande comunità  dei credenti,condotta e sostenuta dallo Spirito Santo. Non sei solo dunque: sei nella Chiesa che dai tempi degli Apostoli ha sempre sostenuto ciascun credente affinché nella sua  solitudine la fede non gli si facesse troppo ardua. Questa comunità sostiene anche te. In questa comunità tu sei protetto, sei unito a tutti coloro che credono in Cristo sparsi nel mondo intero. Sei unito a quelli che “ passando” attraverso la Chiesa  sono arrivati alla Casa del Padre.
   ( Vittorio Messori  - Scommessa sulla morte)

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giovedì, 31 dicembre 2009

Il segreto dell’armonia, quel numero divino che scorre nel sangue   
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di Vittorio Messori, Corriere della Sera, 28.12.09
La medicina s’imbatte nella “sezione aurea” 
Ne ha dato notizia, di recente, anche questo giornale. Stando ai risultati di una vasta inchiesta di un’università austriaca (ben 150.000 soggetti di entrambi i sessi controllati e seguiti per anni), hanno miglior salute e speranza di vita più elevata coloro che hanno un rapporto tra pressione arteriosa massima e minima pari a 1,618. Il curioso è che, a quanto pare, i medici che hanno pubblicato i dati dell’indagine non erano consapevoli del fatto che non si tratta di un rapporto numerico «qualunque» e si sono sorpresi quando qualcuno ha rivelato loro di che si trattava. Che cos’è, infatti, questo 1,618? Gli strumenti elettronici ne mostrano sempre più la presenza, ma era già ben noto agli antichi, che lo legarono al Sacro, chiamandolo «proporzione divina» o «sezione aurea».
Per spiegarsi con l’esempio più semplice: da un bastone di un metro se ne taglino 38,2 centimetri, lasciandone dunque 61,8 centimetri. I due pezzi sono così in una dimensione armonica tra loro: in effetti, il rapporto tra il pezzo più lungo e il più corto è eguale al rapporto tra il pezzo più lungo e il bastone quando era intero. Questo rapporto è costante ed è sempre di 1,618, per dare solo i tre primi decimali. Questo numero è ancor più enigmatico di quanto non apparisse agli antichi che non conoscevano, pare, la «successione di Fibonacci», dove ogni cifra è data dalla somma delle due precedenti: 0,1,1,2,3,5,8,13... Sin dall’inizio, il rapporto tra due numeri successivi della serie si avvicina al valore esatto e, a partire da 34, diviene pari alla «sezione aurea» e tale resta all’infinito, diventando sempre più preciso. È certo che scultori, pittori e architetti greci e romani - e, forse, ancor prima egizi - si servirono largamente della «proporzione divina», tanto che secondo molti critici starebbe qui il segreto dell’armonia inimitabile di quelle opere d’arte. Forse la Grande Piramide di Cheope, certamente il Partenone di Atene, l’Arco di Costantino il Pantheon di Roma, l’acquedotto di Segovia e del Gard e molto altro hanno dimensioni calcolate in 1,618. Le Corbusier, forse il più celebre costruttore del secolo scorso, pur comunista e ateo, si fece apostolo della «proporzione divina», sostenendo che era il segreto per ritrovare una architettura a misura d’uomo. Partendo da quella dimensione armonica voleva disegnare case da abitazione e città intere, certo di contribuire così alla «pacificazione interiore». Comunque, gli artisti antichi non facevano che rifarsi al Creato che li circondava, secondo la legge classica: natura magistra  artis, la natura maestra dell’arte. In effetti era noto ai sapienti dell’era classica quanto siamo in grado di stabilire oggi con gli strumenti elettronici: quel rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica col tutto è presente nella fisica, nella botanica, nella zoologia, nella mineralogia, nella chimica. Come mostrò Leonardo con il celeberrimo disegno ispirato a Vitruvio, lo stesso corpo umano, quando le sue proporzioni sono perfette, è tagliato alla vita secondo il «numero d’oro» e nel medesimo rapporto stanno le varie parti tra loro, dal naso all’alluce. Secondo valori che coincidono o si avvicinano all’1,618 (o secondo dimensioni che rispettano la «sequenza di Fibonacci», legata direttamente a quel rapporto) sono molti altri organismi viventi, dai pesci, agli uccelli, alle farfalle. Sino al caso particolarmente evidente della stella di mare a cinque punte che non per nulla, con il pentagono che ne deriva, è antichissimo simbolo religioso - e poi massonico - perché tutto basato su questa misura. Così come molte conchiglie, cioè spirali logaritmiche rette dagli stessi rapporti presenti pure in botanica, a partire dalle foglie le quali, tra l’altro (lo si è scoperto di recente) con questa disposizione godono della migliore insolazione. Il caso più sorprendente, analizzato al computer, è il fiore di girasole, con le sue migliaia di gialli semi disposti in perfetta successione «alla Fibonacci». Bisogna guardarsi, certo, da forzature apologetiche e riconoscere che non tutto, nella natura, è misura ed armonia. L’ordine sembra convivere con il disordine, almeno apparente. Ma c’è da capire coloro che, dai tempi pagani sino ad oggi - in ambienti non solo cristiani ma anche ebraici, musulmani, buddisti, non dimenticando la tradizione delle Logge - dicono di scorgere nella «sezione aurea» le impronte digitali del Deus absconditus, del Dio che si cela e al contempo si rivela, lasciando tracce, indizi, segnali nella Sua creazione. La scoperta attuale dei ricercatori austriaci della presenza del «numero divino» nella circolazione del sangue, simbolo stesso della vita umana, sarà ulteriore conferma per chi crede di scorgere qui un enigma su cui indagare e meditare.



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bellezza, messori

sabato, 31 ottobre 2009

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Io sono stato discepolo di Norberto Bobbio, il quale diceva: Ricordino signori che la morale cosiddetta laica non è ragionevole”. Non è ragionevole perché manca del chiodo alla parete a cui può essere appesa. Nessuno è in grado di dare una risposta ragionevole alla domanda: “Perché fare il bene e non il male se facendo il male me ne viene un vantaggio e non sarò punito?”. Trovo inutile appellarsi alla coscienza, che è una realtà cristiana. Qual è la “coscienza” dell’indigeno antropofago? Perché Gesù è venuto sulla terra se fosse bastato un intellettuale per indicarci l’etica da seguire? Perché il Vangelo non sia svuotato dobbiamo pur segnalare dei comportamenti che ci sono richiesti proprio dal Vangelo. Se la ragione bastasse per stabilire l’etica, a che pro la rivelazione cristiana? Non sarebbe superflua? Non sarebbe bastato un Socrate qualsiasi?».
V. Messori         da  ilgiornale.it 11-01-2008


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bobbio, messori

domenica, 24 giugno 2007

Come reagire alla calunnia:

"la smentita "fredda, puntuale, precisa e immediata

Intervista a Messori (da Il Giornale del 23.06.07)

di Andrea Tornielli
Alla Biennale di Venezia sta per andare in scena uno spettacolo («Messiah Game») dove l’ultima cena si trasforma in orgia e Gesù crocifisso è rappresentato come un masochista. A Bologna era in programmazione un’iniziativa culturale intitolata «La Madonna piange sperma», mentre è di ieri la notizia della mostra «Recombinant women» che sempre nel capoluogo felsineo presenta i dieci comandamenti rivisitati in chiave omosessuale. Il cristianesimo sembra essere rimasta l’unica fede che può essere irrisa e oltraggiata. È giusto reagire e come farlo? Il Giornale l’ha chiesto a Vittorio Messori, scrittore e autore di best-seller, che trentun anni fa ha dato inizio alla nuova apologetica cattolica.
Messori, che cosa sta accadendo?
«C’è un’evidente tendenza a scavalcare gli ultimi secoli di storia cristiana, a chiudere una “parentesi” durata duemila anni. In fondo, che cos’è l’ambientalismo o la teorizzazione della liberazione sessuale se non un ritorno al paganesimo?».
Il cristianesimo è oggi l’ultima religione che può essere oltraggiata...
«Ne farei motivo di onore per i cristiani che non reagiscono come certi musulmani e non lanciano fatwa contro gli infedeli chiedendo la loro morte fisica. E non reagiscono nemmeno come certi ambienti ebraici, i quali ti isolano cercando di provocare la tua morte morale. Vorrei aggiungere che più che i cristiani, sono i cattolici ad essere attaccati: ciò significa che la Chiesa è un bersaglio ritenuto importante».
È nata nei mesi scorsi in Italia la Cadl, «Catholic Anti Defamation League», oggi in prima linea contro questi spettacoli blasfemi. Non era una sua vecchia idea?
«Sì, e ho visto che ciò viene riconosciuto nel loro sito. Per me è stata una sorpresa. Certo, avrei preferito un nome italiano, meno succubo di certo americanismo che fa chiamare anche la festa della famiglia “Family day”. Bastava chiamarla Lega anticalunnia...».
Apprezza dunque questa battaglia?
«Nella società dell’apparire ci vuole la giusta strategia. Non c’è niente di meglio, per chi fa queste provocazioni, che essere attaccati. Chi mette in scena un’ultima cena blasfema, l’ultimo arrivato che s’inventa la Madonna che piange sperma, spera proprio in una reazione indignata. Ci siamo dimenticati la fortuna che ha fatto fare al film di Mel Gibson la guerra preventiva mossagli dagli ambienti ebraici americani?».
Mi scusi, ma allora non bisogna reagire?
«Ho sempre creduto che fosse necessario far nascere una Lega anticalunnia cattolica per ribattere alle tante bugie sul cattolicesimo che quotidianamente vengono propalate sui media».
Faccia un esempio.
«Se un importante esponente del mondo ebraico dice che prima di fare la razzia degli israeliti nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, l’ambasciatore tedesco è andato a informare il Pio XII ottenendone il tacito assenso, questa è una falsità. E va subito smentita, ricordando all’interessato che Papa Pacelli era all’oscuro della razzia e appena fu avvertito convocò l’ambasciatore per protestare chiedendo di interromperla immediatamente. Chi afferma quelle bugie dovrebbe iscriversi a un corso di storia per corrispondenza. Ecco ciò che spaventa: la smentita fredda, puntuale, precisa e immediata. C’è, invece, un modo di indignarsi che finisce per fare il gioco di chi provoca dandogli importanza. Credo che buona parte dell’intellighenzia laica rimpianga l’Indice dei libri proibiti e farebbe di tutto per esservi iscritta».
Allora qual è, a suo avviso, la reazione adeguata?
«Rimanere sul piano dei fatti, ribadire la nostra tolleranza, essere consapevoli che se ti attaccano è perché in fondo ti considerano rilevante, evitare ogni indignazione moralistica, vittimismo e invettive del tipo “non c’è più religione!”, essere magnanimi. Soprattutto ricordare che il cristianesimo è sopravvissuto per venti secoli a tutte le bufere: Dio non ha bisogno che noi lo difendiamo, sa difendersi da solo e noi siamo servi inutili. La saldezza della fede si vede anche dalla serenità con cui si incassano questi colpi».
La trovo piuttosto remissivo...
«Gesù ha detto che saranno beati coloro che vengono perseguitati nel suo nome. Dobbiamo abituarci alla fine della cristianità come l’abbiamo conosciuta per secoli, dobbiamo considerare provvidenziale ciò che ci sta accadendo e tornare ad essere lievito nella pasta, sale che dà sapore. Considero un disegno della Provvidenza anche l’arrivo di tanti musulmani tra di noi, perché anche certi atei stanno scoprendo la grande differenza che esiste tra il Corano e il Vangelo».

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