Pensiero d'autunno
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“Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde che vedo oggi nel sole
tremar dell’olmo sul piu’ alto ramo.
Tremano, si’, ma non di pena: e’ tanto
limpido il sole, e dolce il distaccarsi
dal ramo per congiungersi alla terra.
S’accendono alla luce ultima, cuori
pronti all’offerta; e l’agonia, per esse,
ha la clemenza di una mite aurora.
Fa ch’io mi stacchi dal piu’ alto ramo
di mia vita, cosi’, senza lamento,
penetrata di te come del sole”.
Ada Negri
Postato da: giacabi a 17:01 |
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negri
L'Italia negata dal Risorgimento
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di Luigi Negri
03-11-2011
Anticipiamo
qui sotto ampi stralci dell'introduzione di "Risorgimento e identità
italiana: una questione ancora aperta" (Cantagalli, pagine 120, euro
12), il nuovo libro del vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor
Luigi Negri.
L’Italia ha una storia che non può essere ridotta agli ultimi 150 anni, alla storia dello Stato unitario. Esiste una nazione italiana da molto prima, così come ha ricordato il cardinal Giacomo Biffi nel suo ultimo, breve ma estremamente significativo, scritto sull’argomento: con la costituzione del Regno d’Italia «è vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli».
Questo perché l’identità italiana nasce innanzitutto da un punto di vista culturale e religioso, come non ha mancato di evidenziare anche Benedetto XVI: «Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. […] Perciò l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo».
L’Italia ha una storia che non può essere ridotta agli ultimi 150 anni, alla storia dello Stato unitario. Esiste una nazione italiana da molto prima, così come ha ricordato il cardinal Giacomo Biffi nel suo ultimo, breve ma estremamente significativo, scritto sull’argomento: con la costituzione del Regno d’Italia «è vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli».
Questo perché l’identità italiana nasce innanzitutto da un punto di vista culturale e religioso, come non ha mancato di evidenziare anche Benedetto XVI: «Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. […] Perciò l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo».
Tuttavia troppe volte nelle recenti celebrazioni del 150° anniversario della nascita dello Stato unitario ci si è dimenticati di tenerlo presente. Nasce lo Stato, la nazione e il popolo: questo è il dogma che attraversa centocinquant’anni di storia d’Italia. L’identità italiana viene fatta coincidere con la nascita di un assetto statuale nuovo. In questo consiste il più grande limite di molta storiografia, di molti discorsi che si sono sentiti nelle celebrazioni dei mesi scorsi. Infatti, l’identità di un popolo è caratterizzata da una cultura, da una concezione globale della vita, che diventa un ethos, un insieme di princìpi morali, che diventa una capacità di aggregazione e di creazione civile; una cultura crea inesorabilmente una civiltà.
Spesso si confondono termini come Nazione e Stato, concependoli come sinonimi, dimenticando così che si tratta di realtà distinte, finendo per identificare la società con lo Stato. Tale confusione, non bisogna dimenticare, nasce da un processo storico che, nel corso della modernità, ha preteso di ricondurre la dimensione sociale e culturale alla dimensione statuale.
Esiste oggi la possibilità di ricostruire la verità storica al di là dei miti e della retorica del Risorgimento, senza con questo volere mettere in discussione il valore dell’unità d’Italia? Occorre innanzitutto prendere coscienza che esiste un’identità italiana che precede l’unità politica. Si deve inoltre cercare di capire se la modalità con cui è stata costruita l’unità politica si sia fondata su tale identità, l’abbia rispettata e l’abbia promossa realmente. Per fare ciò è necessario, oltre a riconoscere i guadagni indiscutibili del Risorgimento (indipendenza e unità statale italiana, l’affermazione di un potere di tipo costituzionale, ecc.), non censurare nessun aspetto, anche quelli più controversi. (...)
Risulta necessario evitare tanto il parlare dell’unità d’Italia come del male assoluto, tanto assumere un atteggiamento acritico, incapace cioè di cogliere quei nodi problematici della costruzione dello stato italiano che hanno segnato drammaticamente la storia del popolo italiano: un modello di governo statalista e centralista che è prevalso, il difficile rapporto tra Stato e Chiesa, la guerra civile combattuta nel Sud Italia.
Un tale sguardo consente
di cogliere l’evento della nascita e poi del consolidamento del nostro
Stato nella sua complessità, così come si è determinato, cercando di non
trascurare la molteplicità di fattori, che spetta proprio alla ricerca
storica far emergere. In particolare, gli studi più recenti sul
Risorgimento e sull’unità d’Italia permettono di avere una visione meno
ideologica rispetto a quella che è prevalsa in passato e che ha
trasformato la nascita dello Stato, del popolo e della nazione in una
sorta di culto civile, come non senza la sua consueta ironia ha
evidenziato il cardinal Giacomo Biffi: «Una volta conclusa l’azione
unificatrice, con molta accortezza si è elaborato e imposto una specie
di “catechismo risorgimentale” edulcorato, nel quale Vittorio Emanuele
II, Cavour, Garibaldi e Mazzini erano indicati alla venerazione degli
italiani come gli autori della mirabile impresa. In realtà, la sola cosa
che accomunava questi padri del Risorgimento è che nessuno di loro
poteva soffrire gli altri tre».
Un contributo decisivo
alla nazione italiana è stato dato dal cristianesimo. L’identità
italiana è stata curata, educata e sviluppata dalla Chiesa insieme alle
famiglie cristiane; per secoli è stata custodita dai padri e dalle madri
di famiglia. L’identità italiana quindi è in una storia, che siamo
chiamati a riscoprire, riconoscendo anche l’importante contributo dei
cattolici.
È nella inculturazione della fede,
nel tessuto culturale, antropologico, etico e sociale del popolo
italiano che si è costruito ciò che noi chiamiamo Italia, pur nella
varietà delle situazioni e delle condizioni che essa ha vissuto negli
ultimi 1.800 anni. La Chiesa ha contribuito a formare tale identità
attraverso un’opera assolutamente rigorosa e puntuale di educazione. E
l’identità italiana è emersa attraverso la vita di un popolo, sia
nell’ordinarietà della vita quotidiana, sia nelle grandi vicende
culturali e artistiche. È emersa attraverso la vita di un popolo, che
cristianamente mangia, beve, veglia e dorme, vive e muore, non più per
se stesso, ma per Colui che è morto e risorto per noi. Non c’è niente di
straordinario: è stato un cammino lungo di educazione, che ha dovuto
fare i conti con le differenze etniche e, nei secoli centrali della
nostra storia, con le litigiosità dei piccoli potentati, ancor più gravi
delle inimicizie dei grandi potentati. Ne è nato un popolo,
un’esperienza storica che gridava la sua bellezza e la sua verità. Ne
sono ancora oggi testimonianza le numerosissime opere d’arte che
costituiscono il principale patrimonio del nostro Paese, rendendolo
unico al mondo.
Tuttavia un’ideologia
ha cercato di sostituirsi a questa identità, di contrastare questa
esperienza storica, attraverso il cosiddetto Risorgimento. Se non si
comprende la differenza fra un’identità che si vive nella storia e
un’ideologia che si impone e pretende di cambiare la storia, non si
comprendono le vicende degli ultimi due secoli in Europa e nel mondo.
Certamente non si capisce la vicenda del passaggio dalla situazione
tradizionale alla situazione unitaria e risorgimentale. Ebbene, una
minoranza estremamente ridotta di ideologi, di massoni, di
filo-protestanti e di borghesi ha preteso che la sua visione delle cose
fosse l’unica possibile e che quindi questa dovesse prevalere sulle
altre. È la tragica presunzione di chi sostiene che un’idea giusta possa
essere imposta anche con la forza, come aveva già previsto Thomas
Hobbes (1588-1679). Questa sostituzione è stata fatta senza nessuno
scrupolo, usando la violenza, la manipolazione, l’ingiustizia, la
sopraffazione e il disprezzo per una maggioranza considerata informe,
per quei “cafoni” dei contadini e per quei “fanatici” dei preti, dei
frati e delle suore. (...)
Non c’è nessuno che
possa dire che sulla storia del Risorgimento abbiamo già conosciuto
tutto. Non esiste nessuna autorità, né civile, né religiosa che possa
dire: “Avete studiato abbastanza”. Fatta questa precisazione, credo che
quello attuale sia un periodo fortunato, perché di queste vicende
storiche si sta componendo un quadro sicuramente più inquietante, ma
indubbiamente più oggettivo, favorendo quella necessaria purificazione
della memoria. È, cioè, sempre più chiaro che non si può procedere senza
sottrarre alla vulgata del Risorgimento il suo carattere di
indiscutibilità. Occorre ricordare (e forse pochi lo sanno) che, per la
prima volta nella storia delle guerre europee, i piemontesi hanno
combattuto la grande battaglia di Gaeta (per intenderci quella che
formalmente pose fine allo Stato borbonico) bombardando anche civili
inermi; così uomini e donne, in fila per il pane o per l’acqua,
diventarono improvvisamente nemici da mitragliare e da uccidere.
Per la prima volta in Italia
– ha scritto Cardini – la guerra uscì dalla cerchia degli “esperti” e
divenne una questione di popolo. Quello stesso assedio deve essere
ricordato anche per un altro atto di efferata brutalità: «Di fronte
all’inutilità di un’ulteriore resistenza, Francesco II autorizzò il
governatore di Gaeta […] a trattare la capitolazione. Era l’11 febbraio e
per due giorni si protrassero i colloqui senza che il generale Cialdini
cessasse di rovesciare sulla sventurata fortezza una valanga di fuoco;
ne aveva anzi approfittato per far entrare in azione altre due micidiali
batterie di cannoni a canna rigata. Visto che la resa era sicura,
quell’ulteriore dispiegamento di artiglieria era mortalmente inutile».
Ebbene il generale Cialdini, che si macchiò di questo delitto contro
l’umanità, venne gratificato dal Re d’Italia con il titolo di Duca di
Gaeta.
Evidentemente l’ideologia
ha sostituito l’identità del popolo non solo con la violenza, ma
tacendo una parte sostanziale della storia che non aveva diritto di
esistere, dal momento che non era prevista nei piani delle strutture
centraliste, burocratiche e amministrative che hanno guidato l’unità. Un
progetto che al Sud arrivò con il prefetto di polizia, il capo dei
carabinieri e la tassa sul macinato (il cibo dei ricchi!). Senza
dimenticare la coscrizione obbligatoria che, come spesso avviene in
Italia per i meccanismi a sorteggio, penalizzò i figli dei poveri e mai i
figli dei ricchi.
Tuttavia la Chiesa in questi frangenti
non si è tirata indietro e, diversamente da quanto spesso si sostiene,
non si è posta in termini reazionari contro la novità dello Stato
italiano, ma, anche se condannando duramente la modalità con cui era
stata realizzata l’unità, non ha mancato di assumersi pienamente le
proprie responsabilità, svolgendo un ruolo decisivo attraverso le sue
articolazioni (le parrocchie, le confraternite, le opere sociali ed
educative) e attraverso lo sviluppo del Magistero sociale, custodendo la
cultura del popolo italiano e contribuendo in maniera decisiva a
sviluppare una società più democratica. La Chiesa cattolica, pur
additando sin dall’inizio i limiti gravissimi di questa operazione
ideologica, non ha mai trascurato l’educazione. Tant’è che nel fondo del
cuore di ogni cattolico e del cuore delle famiglie cristiane essa ha
proseguito la sua azione. È proprio grazie all’opera educativa della
Chiesa – consentitemi questa affermazione ardita ma rispondente al vero –
che il popolo ha sopportato il susseguirsi delle ideologie, senza mai
che il suo cuore ne rimanesse totalmente manipolato: né una certa
costruzione dello Stato unitario, né il fascismo, né l’azionismo o il
marxismo vi sono riusciti. Ecco perché ha saputo affrontare le
condizioni sociali e politiche avverse con molta dignità e capacità di
sacrificio.
Chi ha educato
centinaia di migliaia di soldati cristiani a essere uomini e a morire
sui campi di battaglia in guerre pienamente assurde come la Prima guerra
mondiale? Chi ha insegnato loro a servire la patria anche per una causa
non condivisa? La risposta è semplice: i parroci e quei cappellani che
gli sono rimasti accanto e sono morti al loro fianco. L’esempio più
chiaro in tal senso è quello del beato don Gnocchi, che ha vissuto in
prima linea la terribile tragedia della spedizione italiana in Russia
durante la Seconda guerra mondiale. Il fatto è che in tutta la storia
umana non si trova una struttura più realista della Chiesa. Essa
continua ad educare i propri figli perfino nelle avversità.
L’esistenza
di una certa componente ideologica, già tendenzialmente totalitaria,
che negava la cultura popolare di allora radicata da secoli nei princìpi
del cattolicesimo, determinante nella concezione di Stato sorto a
completamento del processo risorgimentale, è un aspetto importante da
tenere presente anche perché, nel lungo periodo di questi 150 anni, le
ideologie di allora si sono diffuse nel popolo e hanno costituito
culture alternative a quella cristiana. (...)
Ma che cosa può fare la Chiesa affinché la sua identità non sia ridotta soltanto a memoria del passato o denigrata come il male assoluto? Deve, oggi come allora, educare i suoi figli a portare nell’esistenza la testimonianza di Cristo – Via, Verità e Vita. Incontrerà così molti più uomini di quanto si possa credere. Incontrerà anche quegli uomini di buona volontà ancora in attesa di un annunzio chiaro, di una certezza e di un’affezione che li accompagni nella solitudine delle masse tele-manipolate. Non so – storicamente parlando – se la Chiesa italiana sarà capace di assumersi fino in fondo questa responsabilità. So, tuttavia, che laddove un Pastore e una comunità ecclesiale riescono a farlo, si genera una società sana, che lentamente cresce ben al di là dei propri limiti.
Ma che cosa può fare la Chiesa affinché la sua identità non sia ridotta soltanto a memoria del passato o denigrata come il male assoluto? Deve, oggi come allora, educare i suoi figli a portare nell’esistenza la testimonianza di Cristo – Via, Verità e Vita. Incontrerà così molti più uomini di quanto si possa credere. Incontrerà anche quegli uomini di buona volontà ancora in attesa di un annunzio chiaro, di una certezza e di un’affezione che li accompagni nella solitudine delle masse tele-manipolate. Non so – storicamente parlando – se la Chiesa italiana sarà capace di assumersi fino in fondo questa responsabilità. So, tuttavia, che laddove un Pastore e una comunità ecclesiale riescono a farlo, si genera una società sana, che lentamente cresce ben al di là dei propri limiti.
Per il resto è compito di chiunque riceva questa educazione portarla lietamente nel mondo come la cultura della vita e la cultura di un popolo che sa da dove viene e qual è il senso della sua esistenza. L’unica alternativa – ha affermato Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae – è la cultura della morte: in effetti tra l’umanità dei figli di Dio e coloro che non hanno conosciuto il Mistero (sant’Ambrogio diceva che non sarebbe nemmeno valsa la pena di nascere, se non fosse per essere stati salvati dal Mistero di Cristo) non esistono vie di mezzo.
Postato da: giacabi a 21:14 |
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negri, risorgimento
A colui che non è venuto
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Io t'aspettavo fin dal giorno in cui***
di fiorire m'accorsi all'improvviso,
primula di marzo. E venne uno, con viso
dolce. Ma io mi dissi: << Non è lui. >>
Pioggia e sole, spine e rose, fieno e paglia
m'apportarono gli anni. Anche l'amore.
Non te ! ... Qualcuno ti assomigliò, che il cuore
aggrovigliar mi seppe in gemmea maglia:
ed io mi persi a capofitto, giù,
col desiderio folle d'annientarmi
tra forti braccia che potevan spezzarmi
come la creta. Ma non eri tu.
Così, polvere e cenere divenne
ciò ch'io toccai. Seccarono le polle.
Avvizzirono i tralci e le corolle,
e morte, in vita, in suo poter mi tenne.
Tu, nato troppo presto o troppo tardi,
per me creato ed a me occulto, solo
perch'io son sola, indifferente al volo
degli anni, se nel tuo deserto guardi ! ...
Tu, che m'avresti avuta come il mare
ha l'onda, uguale a te ma in te perduta,
e nel dominio avvolgitor veduta
a somiglianza tua trasfigurare ! ...
Non venisti, non vieni, non t'attendo
più. Domani morrò. La vita ha fretta,
non vedi ? ... Appena schiusa, appena detta
una parola, fugge, impallidendo,
quasi colpita da terrore ...Ma forse
di là, nell'ombra ove uno spirito tocca
l'altro in silenzio, io troverò la bocca
che solo in sogno la mia bocca morse
ADA NEGRI
Postato da: giacabi a 19:21 |
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negri
Postato da: giacabi a 08:51 |
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negri, risorgimento
L'accoglienza ha dei criteri
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di Luigi Negri e Riccardo Cascioli
31-03-2011
In questi giorni drammatici per il continuo arrivo di barconi di immigrati a Lampedusa, si sono sentiti e letti molti discorsi anche contrastanti sull'accoglienza e sul dovere di solidarietà, soprattutto riferiti al compito dei cattolici. Noi pensiamo sia il caso anzitutto di confrontarsi con quanto dice su questo tema il Catechismo della Chiesa cattolica, cercando di capirne le implicazioni. Per questo proponiamo un passaggio del capitolo dedicato all'immigrazione tratto dal libro scritto da monsignor Luigi Negri e Riccardo Cascioli, "Perché la Chiesa ha ragione", Lindau 2010 (pp.151-156).
Mentre le singole soluzioni politiche possono essere opinabili, il magistero della Chiesa indica chiaramente i criteri con cui affrontare i vari problemi legati alla questione della migrazione. E non è corretto insistere su uno dimenticando gli altri. Troviamo una sintesi importante del magistero nel Catechismo della Chiesa cattolica (Ccc) al paragrafo 2241 che fissa tre criteri fondamentali.
Il primo è il dovere delle nazioni ricche ad accogliere lo straniero «alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita». Di fronte al povero e al sofferente non è lecito per nessuno girare la testa altrove o lasciarlo morire in nome di principi astratti. È dunque importante, ad esempio, garantire adeguate strutture di prima accoglienza, magari favorendo – in base al principio di sussidiarietà – quelle organizzazioni della società civile impegnate su questo fronte che dimostrano competenza ed efficienza in materia. Non c’è dubbio che questo sia l’ambito proprio per l’azione delle organizzazioni ecclesiali e di volontariato. E allo Stato è lecito chiedere di non ostacolare questa azione di carità.
È giustizia anche la rapidità nelle procedure di «screening» per stabilire chi abbia il diritto, e chi non, di rimanere sul suolo del Paesi di accoglienza. E per chi diventa regolare non si possono creare artificiosamente altre difficoltà alla permanenza, o intralci burocratici che lo trattano sempre e comunque da intruso. D’altra parte, chi non ha il diritto di rimanere deve essere rimpatriato, sempre in condizioni di sicurezza ma senza ambiguità e tentennamenti. La politica del chiudere un occhio, o il foglio di via senza controllo, favoriscono oggettivamente clandestinità e criminalità danneggiando anche gli immigrati regolari. Anche la certezza del diritto è un modo per rispettare i diritti umani.
In ogni caso, restando all’articolo del catechismo, il fondamentale diritto di accoglienza incontra due limiti.
Il primo è definito dall’inciso che segue il dovere di accoglienza, ovvero «nella misura del possibile». Vale a dire che l’ingresso di immigrati non può essere a briglie sciolte, anzi è dovere dello Stato regolare il flusso migratorio secondo le possibilità del Paese di accoglienza. Si stabilisce qui un’importante distinzione tra la persona del migrante – nei confronti del quale va sempre rispettato il «diritto naturale» e va protetto – e la politica migratoria che, nel regolare i flussi, deve stabilire un limite alla permanenza di stranieri in un determinato Paese. Di più: le politiche migratorie devono tenere conto della situazione e dei bisogni dei Paesi di accoglienza quanto di quelle dei Paesi di origine dei migranti.
Nel caso dei barconi che arrivano sulle coste siciliane, ad esempio, un conto è il dovere di soccorrere delle persone in mare, altra cosa è il garantirne la permanenza in Italia, che va invece regolata in base ai flussi decisi dal governo e da altre norme di diritto internazionale, quali quella sull’asilo politico.
Su questo punto ci si deve giustamente chiedere quali siano però i criteri con cui stabilire la «misura del possibile». Ci soccorre in questo il Compendio della Dottrina Sociale (Cds) che, al n. 298, parla di flussi migratori da regolare «secondo criteri di equità ed equilibrio» in modo che «gli inserimenti
avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana». L’obiettivo è quello di facilitare l’integrazione dell’immigrato «nella vita sociale» del Paese che lo accoglie, nell’orizzonte del bene comune. Il Cds fa riferimento esplicito al Messaggio di Giovanni Paolo Il per la Giornata Mondiale della Pace 2001, secondo cui si tratta di «coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (n. 13).
Le politiche migratorie, dice ancora il Catechismo, vanno definite «in vista del bene comune». Quest’ultimo concetto, «il bene comune», non va ristretto alle questioni implicate nell’accoglienza o meno di un immigrato, ma deve avere un orizzonte ampio, che consideri tutti i fattori legati alle persone e alle società coinvolte. Dobbiamo aver chiaro, infatti, che il problema dell’immigrazione si pone in quanto un precedente diritto fondamentale è stato violato. Quello di poter vivere nella propria terra. Non stiamo ovviamente parlando di chi «sceglie» di andare all’estero per cogliere migliori opportunità professionali, ma di chi è «costretto» ad abbandonare il proprio Paese spinto dalla fame. A questo aspetto si deve dedicare maggiore attenzione, tenendo anche conto che
la migrazione priva i paesi di origine di una importante forza lavoro, in genere delle migliori energie e professionalità. Un fenomeno che tende a rendere questi paesi ancora più poveri e fragili, come ha chiaramente detto il demografo e rettore dell’Università della Sorbona di Parigi, Gérard- François Dumont, in risposta a chi vede l’immigrazione come una risposta al calo demografico dei paesi europei: «Se l’Europa attira forza lavoro dai Paesi in via di sviluppo, questo significa anche che da quei Paesi attira le forze migliori, impedendo di fatto lo sviluppo di quei Paesi. Pensare perciò di risolvere i nostri problemi con l’immigrazione è un metodo molto egoista: se si vuole davvero aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, si deve anche trovare il modo di non danneggiarlo»
Non a caso il già citato articolo del Compendio invita esplicitamente a «favorire tutte quelle condizioni che consentono accresciute possibilità di lavoro nelle proprie zone di origine». Se è vero che la migrazione è un fenomeno naturale – tanto più in questa epoca di globalizzazione – ciò non toglie che parte integrante di una politica migratoria debba essere quella di eliminare o ridurre le cause che stanno all’origine della migrazione: siano esse cause di sottosviluppo o di atteggiamenti criminali di singoli governi o tutte e due le cose insieme (ricordiamo quando Turchia e Albania
incoraggiavano l’afflusso di clandestini sulle coste italiane).
Parte di una seria politica migratoria è dunque anche la revisione dei meccanismi della cooperazione internazionale – italiana ed europea – e dell’economia mondiale in modo da promuovere un vero sviluppo dei Paesi poveri.
Un secondo limite posto dal Catechismo attiene ai doveri dell’immigrato che «è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, a obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». L’accoglienza non è dunque una strada a senso unico e lo Stato ha il dovere di vigilare sull’osservanza di questa indicazione. La difficoltà o addirittura l’aperto rifiuto a integrarsi nella nostra cultura, proprio di alcuni gruppi, costituisce dunque un problema oggettivo alla permanenza in Italia e, più in generale, in Europa. Integrarsi non vuoi dire ovviamente omologarsi, assumere in tutto e per tutto la nostra cultura, ma conoscerla e rispettarla. Imparare la lingua italiana, ad esempio, è il primo passo in questo senso. L’integrazione nella scuola italiana, per i bambini, è altrettanto essenziale e a questo non contribuiscono certo classi della scuola pubblica dove i bambini italiani sono in minoranza.
Ma questo impone che il Paese di accoglienza sia chiaro nella propria identità o la riscopra, facendo rispettare con decisione i valori – culturali, spirituali, sociali e giuridici – che lo fondano. Come ha spiegato nel 2000 l’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, in una nota pastorale:
"I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte".
Lo Stato ha il dovere quindi di far rispettare le sue leggi, che nascono da una ben precisa cultura: non ci può essere spazio per la poligamia, per l’applicazione della sharìa (la legge coranica) anche se limitata ad alcuni casi, per il burkha laddove la legge vieta di circolare con il volto coperto, men che meno per la rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici o per il reclutamento di terroristi.
Postato da: giacabi a 20:48 |
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islam, negri
Impegno culturale nell’oggi, per un futuro democratico
28/05/2010
Non riesco proprio a credere che la discussione sull’Unità d’Italia veda confrontarsi due posizioni antitetiche: l’una che ritiene il Risorgimento e l’Unità d’Italia il male assoluto, e quindi avrebbe una nostalgia invincibile della situazione italiana prima dell’unità, l’altra rappresentata da coloro che ritengono che il Risorgimento e l’Unità d’Italia siano il “bene assoluto”.
La storia non torna indietro e quindi l’Unità d’Italia è un dato sostanzialmente innegabile e irrinunciabile. Coloro che, soprattutto negli ultimi vent’anni, hanno proposto una serie di interpretazioni più articolate e compiute del Risorgimento e dell’Unità d’Italia (e anch’io ho dato il mio piccolo contributo) hanno certamente aiutato a comprendere che il Risorgimento e l’Unità d’Italia, come tutti i fenomeni storici, è caratterizzato da luci ed ombre. Sulle luci si è detto e stradetto da più di cent’anni. E le ombre non possono ormai più essere negate. Certamente ci fu nel Risorgimento una tendenza anticattolica molto decisa. Tutta l’operazione ha certamente risentito di una ideologia illuministica ed antipopolare che in più di un caso ha avuto la fisionomia di una vera e propria violenza. Non si possono certamente negare episodi di strage, bombardamento di civili, atteggiamenti tesi ad impedire che la realtà del popolo assumesse una posizione in qualche modo da protagonista, discriminazioni anche feroci nei confronti delle più diverse minoranze.
Ma qual è il problema oggi? Non criminalizzare l’Unità d’Italia, non presentarla come una mitologia indiscutibile, ma leggere in questo nostro passato fattori che indicano la nostra responsabilità nel presente.
Essere italiani non è una disgrazia, ma non è neppure un orgoglio meccanico. Essere italiani oggi è un impegno, una responsabilità nella quale il nostro popolo è chiamato ad assumere un volto più maturo e responsabile. È indubbio che l’Italia è nata senza una cultura forte, capace di aggregare le differenti esperienze e posizioni; è anche chiaro che lo Stato italiano è nato tentando di emarginare in modo definitivo la cultura popolare di ispirazione cattolica. Non i cattolici, ma la seconda generazione dei liberali storici ammetteva tristemente che era nata una “Italietta”.
L’Italia può diventare una esperienza viva se si mette al primo posto il problema della cultura, o meglio il problema delle culture che ormai esistono nello spazio del nostro territorio e della nostra nazione. L’Italia diventa esperienza di vita soltanto se si favorisce una maturazione critica e sistematica delle varie posizioni culturali presenti nel nostro paese. L’Italia ha bisogno di una vera libertà di cultura e quindi che tutti rinunzino alla pretesa di una qualsiasi egemonia.
L’Italia ha bisogno di una autentica libertà di educazione: senza questa libertà le culture non sono assunte in modo critico e sistematico. Un paese dove la libertà di educazione è ancora pesantemente penalizzata impedisce quel cammino educativo che forma personalità coscienti della propria identità e, quindi, capaci di dialogo e di confronto critico.
Si diventa italiani se si matura nella propria identità culturale e morale, e se, in questo e per questo, si contribuisce a quel clima di dialogo in cui, secondo l’insegnamento di Giovanni Paolo II, consiste il cuore di un’autentica democrazia.
La tentazione dell’“Italietta” è sempre presente: contrabbandare retoriche invece di cultura, procedure politiche ed istituzionali anziché favorire quell’intensa esperienza di socialità che le istituzioni debbono riconoscere e promuovere. Dopo 150 anni l’Unità d’Italia è ancora da fare, e per certi aspetti è inevitabile che sia così.
Tocca a tutti, ma soprattutto alle istituzioni politiche, mettere le condizioni reali e positive perché la varietà delle culture presenti nel nostro paese possa dare il proprio effettivo contributo alla nascita di una società ricca, articolata, premessa obiettiva di un’autentica democrazia.
Questo è quello che si aspettano in molti dalle feste per i 150 anni dell’Unità d’Italia: che gli italiani possano comprendere criticamente tutta la propria tradizione, non soltanto questi 150 anni, e, presa coscienza della tradizione, attuarla nella esperienza del presente per costruire un futuro più libero, più giusto, più democratico.
Sono certo che i cattolici italiani sapranno prendere la loro parte in questa grande sfida.
+ Luigi Negri, Vescovo di San Marino - Montefeltro
da: http://www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it/
Postato da: giacabi a 15:18 |
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negri, risorgimento
Mons. Negri:
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Postato da: giacabi a 20:37 |
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negri
Scienza e fede
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Ciò che di permanente e di obiettivo rimane oggi della questione galileiana può essere sintetizzato nella domanda: quale rapporto c’è tra scienza e fede o, in modo più esplicito, quale rapporto c’è tra la scienza ed il destino dell’uomo?
Nella vicenda di Galileo possiamo infatti distinguere un aspetto immediato e un aspetto anticipatore o profetico. L’aspetto immediato è quello sotto gli occhi di tutti: una vicenda che sul piano scientifico si presentava molto complessa, con delle conseguenze di carattere ecclesiale e culturale e, in qualche modo, sociale e che quindi ha dovuto essere considerata e risolta con un procedimento molto più disciplinare ed amministrativo, che dogmatico o teologico in senso stretto. Ma c’è anche l’aspetto anticipatore che a distanza di qualche secolo può ben essere riconosciuto: il problema della scienza, a cui introduce il galileismo e quindi il razionalismo settecentesco, è quello di una scienza che pretende di rappresentare il sapere come tale, la totalità del sapere; che pretende di essere il punto discriminante sulla verità della fede. La sottovalutazione della fede come superstizione, la dichiarazione dell’impossibilità del soprannaturale, l’impossibilità dei miracoli, la riduzione dell’avvenimento cristiano dapprima a religione naturale e poi sostanzialmente a fenomeno in qualche modo "patologico", perché legato all’ignoranza del popolo, sono conseguenza di una concezione ed uno sviluppo di carattere scientistico. La Chiesa non poteva non avvertire la preoccupazione che in questa vicenda era contenuta anche la possibilità di uno sbilanciamento totale di un orizzonte, con una scienza che pretendeva di essere, da un lato, una conoscenza dei fenomeni a livello particolare e, dall’altro, una conoscenza assoluta e totalizzante. Questo non chiarisce tutti gli aspetti della questione, ma ne chiarisce una linea di comprensione che va dal 1600 a oggi. E oggi più che mai risulta attuale il problema del rapporto tra l’autonomia della ricerca scientifica e l’autorità della Chiesa. Se per autonomia della scienza si intende infatti la piena responsabilità degli scienziati di impostare la ricerca secondo quello che ritengono più adeguato per lo svolgimento della ricerca stessa, realizzando lo statuto proprio della scienza che professano con un’assoluta libertà di metodo e fissando per la ricerca obiettivi e metodi che non obbediscono ad altro se non alla ricerca stessa, l’autorità della Chiesa non ha niente da dire a questo riguardo; essa non può però non avere la preoccupazione di rappresentare un ambito di vita e di educazione a cui lo scienziato, in quanto credente, possa continuamente rifarsi, per un realismo nell’impostazione della propria indagine. Lo scienziato che crede in Dio, lo scienziato che crede che Dio si sia definitivamente rivelato nella Vita, nella Passione, nella Morte e nella Resurrezione di Gesù Cristo e quindi crede che esista il luogo che salva la verità di Dio e dell’uomo, uno scienziato che può pertanto essere rigenerato continuamente nella sua certezza corre meno degli altri la tentazione di ideologizzare la sua scienza, di concepirsi capace di trasformare "le pietre in oro". Comunque l’autorità della Chiesa educa un popolo che si assume la responsabilità della propria vita, e quindi anche la responsabilità di ogni ricerca scientifica particolare, rifiutando ogni ipotesi di lavoro che gli venga sotto banco imposta da preoccupazioni estranee alla scienza. Se per autonomia della scienza invece si intende pensare un mondo in cui la scienza è tutto, ne consegue pensare un mondo che alla fine è stato contro l’uomo: che la scienza non è tutto è quanto la Chiesa ha sicuramente voluto dire intervenendo su Galileo. Certo non si può dire che Galileo fosse di questo pensiero, ma non si può vedere la scienza del ventesimo secolo senza fare i conti con Galileo. Non si può guardare il problema come se fosse un particolare e basta: era un particolare che portava in "nuce" uno sviluppo secolare, per cui la scienza, svincolata da qualsiasi appartenenza è diventata totalizzante. Quanto detto della scienza vale anche per la filosofia, nel momento in cui la filosofia non è qualche cosa che si fa a comando, per illustrare i dogmi della Chiesa. La Chiesa per illustrare i suoi dogmi può avere bisogno di formule, che prende con estrema libertà e spregiudicatezza da vari sistemi filosofici, perché non è legata a nessun sistema filosofico. Consideriamo S. Tommaso d’Aquino: la Chiesa con Leone XIII (quindi non ai tempi di Galileo, ma tre secoli dopo) lo ha indicato come maestro esemplare, che ha vissuto integralmente il suo cammino verso la verità, e l’incontro tra la verità e la ragione con totale responsabilità, ma in un ambito di appartenenza che formava continuamente la sua personalità, anche di ricercatore filosofico. Quindi la Chiesa non si preoccupa del contesto ideologico e nemmeno dei contenuti della ricerca; si preoccupa di rappresentare, per colui che ricerca, un ambito di appartenenza, che rende realistico il lavoro. Quanto più è realistico il lavoro, tanto meno si possono realizzare delle contraddizioni assolute tra il contenuto della Rivelazione e il contenuto della ricerca, perché il contenuto vero della ricerca è in qualche modo il mistero stesso dell’essere. Qualsiasi ricerca, anche particolare, come ha confidato nei suoi scritti Newton, è come un approssimarsi alle tracce dell’Eterno, ma senza fretta, senza premure, senza concordismi inutili. La Chiesa per difendere la verità non ha bisogno della scienza e la scienza per porsi come scienza non ha bisogno di concordare con la fede. La scienza ha davanti a sé intero il campo della ricerca e del rischio, perché come ogni attività umana la scienza è un rischio. Occorre che il soggetto che compie questo rischio sia credente; se non lo è, lo compie lo stesso ma in modo implicito; dovendo ritrovare i termini del suo realismo all’interno della sua onestà intellettuale; un esempio in tal senso sono i filosofi greci, nessuno dei quali ha preteso che la sua posizione fosse un assoluto (Socrate insegna). Poichè il contenuto della ricerca è sempre mobile e la ricerca è continuamente in evoluzione, lo stesso incremento delle conoscenze e dei mezzi di ricerca, il traguardo stesso della ricerca si spostano continuamente. La verità cristiana non è dunque l’eliminazione delle ricerche particolari, ma la possibilità di fare queste ricerche senza esasperazioni e senza riduzioni. Non sarà la scienza a dirci se Dio esiste o no. E non sarà la scienza a cambiare l’uomo circa il suo Destino. La scienza può essere fatta nella certezza del Destino: se è fatta così, è fatta con totale responsabilità e con totale rischio. Non possiamo infine non riconoscere che la scienza e il progresso tecnologico-scientifico hanno incrementato i mezzi per conoscere e illuminare la realtà, quindi per trasformare in meglio le condizioni di vita dell’uomo, quanto meno quelle materiali. Il presupposto che è sempre valso dall’Illuminismo in poi a questo proposito è che l’incremento della scienza e del progresso tecnologico-scientifico comporta necessariamente l’incremento dell’uomo. Siamo però costretti a chiederci se è vero che l’incremento del progresso tecnologico-scientifico ha incrementato l’uomo come coscienza di sé, come rapporto tra sé e la realtà, come rapporto tra sé e il Destino proprio degli altri uomini. Per spiegarmi mi rifaccio alla terza parte della Redemptor Hominis: L’uomo cresce e crescendo può utilizzare in modo sempre più umano gli strumenti. L’idea che dagli strumenti vengono i fini è stata completamente negata dall’evoluzione stessa della scienza: la scienza non pone i fini, si occupa della ricerca dei significati particolari, che sono significati di fenomeni che interessano regioni del sapere, e non il sapere nella sua univocità. Che l’uomo possa utilizzare bene la scienza, non deriva dalla scienza, deriva dal livello di maturazione della personalità dell’uomo. Questo è un altro aspetto per cui quello che è successo nei primi 50 anni del XVII secolo, in quella che poteva sembrare un’ostinata controversia fra ecclesiastici e scienziati è invece quanto mai attuale. Se la Chiesa avesse detto "non ci interessa, pensate su questo quel che volete" avrebbe gravemente sbagliato nella sua vocazione di realtà educante la coscienza ecclesiale e la coscienza umana, perché non è possibile dire che la scienza non interessa a chi ha la preoccupazione di tenere viva l’intera esperienza dell’uomo. I fini l’uomo non li riceve dalla scienza, li riceve da autorità che sono morali, tanto è vero che la scienza per secoli ha ricevuto i fini dall’esperienza cristiana. I fini dell’uomo nascono a livello dell’impegno dell’uomo con il senso profondo della sua esistenza e non è l’analisi di un particolare, dei fenomeni che riguardano regioni del sapere, che possa darcene una formulazione chiara. Può confermarci un’idea di fine, ma non può certamente produrla a tavolino. Per questo la scienza non può fare a meno della filosofia, né può sostituire la filosofia, perché comunque, dal punto di vista naturale, la filosofia nasce come impegno dell’uomo col senso ultimo della sua vita. La scienza può favorire il progresso dell’uomo in quanto non pretende di fissare il fine, ma di dare all’uomo, che cresce nella consapevolezza del suo fine, strumenti per l’ottenimento di obiettivi particolari.
Luigi Negri.
Prefazione al libro "Galileo Galilei. Mito e realtà"
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Postato da: giacabi a 20:20 |
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fede, negri, scienza - articoli
Ada Negri,
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Pochi
ormai, almeno tra gli under 50, sanno qualcosa di Ada Negri. E quel
poco che sanno lo devono allo sbiadito ricordo di un trafiletto letto in
qualche antologia tra i banchi di scuola. Gli stessi banchi dove,
alcuni decenni prima, le poesie della Negri erano imparate a memoria,
assieme ai versi di Dante e di Leopardi. L’amicizia con Mussolini e la
stima che il regime le ha riservato valsero, probabilmente, come
pretesti che i suoi detrattori usarono per relegarla tra gli
intellettuali organici al fascismo. Il professor Pietro Zovatto, autore
del recente L’Itinerario Spirituale di Ada Negri, oltre a dimostrare quanto fossero infondate le ragioni della sua damnatio memoriae,
ci aiuta a comprendere le profonde intuizioni, il portato e l’eredità
culturali, per le generazioni immediatamente successive, della
scrittrice.
Professor Zovatto, quale fu il percorso spirituale di Ada Negri?
Ada
Negri (1870-1945) di Lodi, figlia d’una umile e laboriosa tessitrice,
proveniva dal cosiddetto ceto proletario. La madre si sacrificò fino
all’eroismo per farla studiare e compiere così il salto qualitativo
sociale che l’avrebbe immessa nella classe “intellettuale” del tempo.
La
prima tappa del suo percorso è quella che la individua come socialista a
Milano, con colleghi di partito quali Turati e il primo Mussolini.
Quello della Negri era un socialismo lirico e umanitario, senza supporto
di ideologie. Subì quindi una lenta progressiva evoluzione e la sua
produzione poetica passò da Fatalità (1892)
- un insieme di slogan scontati di propaganda socialista - ad un
impegno più approfondito, rivolto alla società civile, incentrato, con
un tono pensoso, sul problema sociale, con una particolare sensibilità
ai diseredati e ai miserabili.
Poi qualcosa è cambiato
Di qui passò a una fase di umanesimo intenso e commosso con Maternità (1904),
in cui esaltava il ruolo universale della madre sotto il profilo
spirituale ed educativo. Infine, la fase più specificatamente mistica,
in cui esprime l’esperienza intima del divino che provoca in lei
vibrazioni di alti pensieri sulla sorte dell’umanità intera, quando
l’Italia era stata travolta in una tragica quanto esecrabile guerra
dalla politica avventurosa del fascismo.
Quali sono i tratti specifici della sua produzione?
La
sua poesia andò via via affinandosi, sotto il profilo formale, grazie
alle influenze di Carducci, del Fogazzaro e del D’Annunzio. Ma,
soprattutto, la Negri rivelò una commozione estetica particolare, legata
alla sua fine sensibilità di donna, quando accostò anche la Sacra
Scrittura e l’agiografia delle mistiche classiche. La sua caratteristica
predominante fu quella di aver raggiunto, nella maturità, una
consapevolezza artistica e una senso del divino uniti indissolubilmente
all’ispirazione poetica. Era l’arte che s’imponeva con la sua magia
cattivante, divenendo spontaneamente paradigma di vita umana e di
testimonianza cristiana della vita.
In che termini emerge più radicalmente la sua concezione della trascendenza?
Nei
termini della pienezza artistica in sintesi armoniosa con l’afflato
religioso, trasfigurata nella preghiera ai più alti livelli mistici che
la poesia italiana abbia raggiunto, anche quando tocca l’umile vicenda
del quotidiano. Come Clemente Rebora, suo conterraneo, e come padre
David Maria Turoldo nei loro componimenti lirici d’ispirazione sacra.
Come ha inciso sulle generazioni successive?
Un
ruolo didattico specifico della poesia della Negri lo si può rinvenire
nei manuali scolastici che fino agli anni Cinquanta si trovavano nelle
scuole. Per coincidenza fortuita furono le maestrine d’Italia, sue
colleghe, a educare le nuove generazioni, e il suo magistero lo si trova
diffuso anche nei banchi della scuola secondaria. Il suo influsso si
blocca subito dopo la seconda metà del secolo scorso, segno del mutato
clima culturale. La sua prosa, tuttavia, fu molto apprezzata anche da
chi non la stimava come poetessa, come Cesare Pavese. Un suo importante
estimatore fu il raffinato letterato e saggista don Giuseppe de Luca,
che nel 1942 le voleva commissionare una Vita di Cristo, al di fuori
degli schemi edificanti abituali: «Una vita di Cristo non al modo delle
usuali, ma sul ciclo liturgico e cioè nel cuore degli uomini e nella
luce delle stagioni. Con quell’umanità che è vostra, così dolente e così
forte, così intima, e così alta; con quel sentimento degli uomini e
della natura; con quel segreto palpitare del cuore, come acqua notturna,
verso Cristo tanto presente e tanto assente al cuor nostro, così vicino
e così lontano, così dentro e così fuori». Ha influito anche su don
Luigi Giussani che, nelle sue conferenze alla Gioventù studentesca del
primo periodo, a Milano, spesso citava la sua poesia religiosa densa di
valori umani e cristiani e pedagogicamente efficace, per integrare con
il bello del sacro l’austera radicalità evangelica.
Che considerazione aveva della poetessa il mondo culturale dell’epoca?
La
sua produzione ottenne subito un grande successo, strepitoso per una
maestrina poco più che ventenne di un paesino come Motta Visconti. Fu
l’editore triestino operante a Milano, il Treves (il Mondadori del
momento, che pubblicava anche D’Annunzio) a dare alle stampe la sua
prima opera, che superò subito le venti edizioni. Provocando in questo
modo l’invidia di Benedetto Croce, che vedeva in lei un successo
immeritato, poiché la sua poesia non coincideva con i suoi canoni
estetici, quelli della “poesia pura”, un poetare svincolato da ogni
impegno “missionario” di intervento contingente. E pure Pirandello si
era adombrato di tanto successo, divenendo suo detrattore.
Ada
Negri viene spesso descritta come intellettuale organica al regime
fascista. Lo era effettivamente o si tratta di un’etichetta attribuita
alla poetessa dai suoi detrattori?
Di
Mussolini conservava l’amicizia della prima fase socialista (sul cui
socialismo Renzo De Felice ha lasciato un lavoro notevole). Ella per
temperamento non obliava mai i sodalizi amicali, iniziati con la
condivisione degli ideali sociali quand’era a Milano. Certo il regime
fascista la scelse quale membro della Reale Accademia d’Italia - unica
donna di quel consesso elitario - e le conferì il premio Mussolini,
poiché per poco aveva mancato il Nobel, che andò invece a Grazia
Deledda. Rimase, tuttavia, aliena da ogni tipo di politica militante
fascista, sempre assorbita con dedizione totale al suo lavoro d’artista.
Il Comes, che pubblicò la sua corrispondenza con Mussolini, non poté
certo dimostrare che ella partecipasse o ispirasse la politica del capo
del governo fascista. Difficilmente si può affermare che fosse
intellettuale conformista del regime. Nessun scritto la vede esaltare il
Duce, così com’era costume diffuso della retorica del tempo. Anzi ella,
dall’epistolario pubblicato dall’Itinerario spirituale,
è drammaticamente sofferente per la guerra disastrosa innescata dal
regime. Politicamente intuiva il grande groviglio di problemi futuri che
si sarebbero generati - a conflitto terminato – dalla volontà di
riappacificare gli animi dell’Italia divisa in due, e temeva per la sua
stessa sorte. Morì tre mesi prima del 25 aprile 1945, quasi certamente
per l’angoscia di vedere l’Italia dilacerata e disfatta sotto il profilo
morale e materiale. Non poteva prevedere l’opera lungimirante di
ricostruzione civile e diplomatica di Alcide De Gasperi.
Intervista a Pietro Zovatto,
tratta da [ilsussidiario.net] 17 novembre 2009
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Postato da: giacabi a 19:09 |
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negri
Con Eluana muore la nostra civiltà
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Da "La voce di Romagna" del 5 febbraio, un articolo di Claudio Monti:
“Se la procedura iniziata per portare Eluana Englaro alla morte riuscirà a compiersi, sarà la fine di una civiltà”. Sarà “la prima condanna a morte eseguita dopo la caduta del fascismo”. E’ la sferzata che arriva dal vescovo di San Marino Montefeltro, mons. Luigi Negri. Parole contro le quali non si può non andare a cozzare. Dal punto di vista storico è risaputo che dopo la fine della dittatura ci sono state altre condanne a morte, ma è chiaro il paradosso di Mons. Negri: nella civiltà di diritto, nel regno della democrazia, “in un paese che ha rinnegato la pena di morte e che si è assunto in gran parte il merito sulla moratoria sulla pena di morte in quasi tutto il mondo civile”, l’epilogo della vicenda di Eluana suona come una contraddizione stridente. Oltre che come una rottura epocale. “Questo delitto che si compie lancia una ulteriore, grave ombra di disumanità sulla nostra vita sociale e prepara tempi non lieti per le generazioni future”. Per questo il vescovo ha chiesto a tutte le chiese della sua diocesi che da ieri fino a domani, al calare del vespero, le campane suonino a morto per un congruo periodo di tempo”. E che le comunità reli L’ora è difficile. Non serve essere filosofi per sentire che ciò che è in Mons. Negri non ha dubbi: “Se la vita diventa disponibile a un’istanza umana, nel caso di Eluana a quella del padre, e con la mediazione del tribunale, si distrugge il fondamento i infatti la nostra società non ne ha più uno. Non so con quale fondamento lo sostituiranno, per adesso la pietra angolare che ha retto per millenni la civiltà occidentale la stanno sostituendo con la soggezione totale degli individui alla tecnoscienza”. Il vescovo di San Marino Montefeltro legge nella storia di Eluana il punto ultimo a cui è arrivato il degrado anticristiano e perciò l’annichilimento dell’umano. Cosa ci ha portati a questo punto? “Come diceva Pio XII nei suoi discorsi di Natale negli anni della guerra, quando già la disgregazione dell’uomo assumeva il volto di milioni di persone ammazzate in combattimento o nei campi di concentramento, è stata l’apostasia da Cristo, l’avere tolto il regno di Dio e l’averlo sostituito con un regno dell’uomo. Ma nell’uomo, anziché dimostrarsi tutto il suo valore e la sua forza positiva, è venuta a galla tutta la sua terribile meschinità. L’ha detto anche Benedetto XVI di recente: l’apostasia da Cristo conduce all’apostasia dell’uomo da se stesso”. E anche verso nuove forme di totalitarismo: “Se l’uomo non è più di Dio, se ha perso la capacità di stare di fronte al Mistero, magari anche senza riconoscerlo, allora diventa manipolabile. Se le radici dell’uomo non sono in Dio, allora sono sulla terra e quindi finiscono per dissolversi o politicamente o scientificamente. Per due secoli ha prevalso il totalitarismo politico, mentre adesso in maniera devastante sta prendendo il sopravvento la tecnoscienza”. E’ questa la posta in La sofferenza è diventata un’obiezione alla vita. Dice Mons. Negri: ”Attraverso il suono delle campane ricordiamo alla società che si sta compiendo un gesto efferato contro l’uomo. Non abbiamo potuto impedirlo nonostante i tenti tentativi fatti, ma consegniamo la vita di Eluana alla Madonna che l’aspetta per inserirla in un bene che non finirà più”.
Perché il rosario, una preghiera che non è più molto familiare nemmeno fra i cattolici, almeno per le
grazie ad : anna vercors
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Postato da: giacabi a 09:24 |
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eutanasia, negri
RITROVIAMO IL VERO SIGNIFICATO DELLA FESTA CRISTIANA
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I
sentimenti dell'infanzia? Un pasto dignitoso ai poveri? Qualche residuo
di bontà? No. E' la memoria della venuta carnale del Signore sulla
terra, inizio di un mondo nuovo
Luigi Negri Hanno accompagnato il mio cammino di questi mesi prima del Natale i brani di alcune lettere che S. Ignazio di Antiochia ha scritto ad alcune Chiese dell'Asia minore e a quella di Roma nel suo cammino verso il martirio, da lui amato come termine del suo personale rapporto di amore con il Signore. Questa grande personalità ecclesiale, che la tradizione cristiana ha considerato per secoli un quasi-apostolo e che, secondo le ultime indagini della scienza storica, pare abbia esercitato proprio nei lunghi mesi del suo avvicinamento a Roma, la funzione di Papa della Chiesa universale, scrive ai cristiani di Tralle un brano di assoluta chiarezza e di perentoria attualità. È da questo che intendo partire per introdurmi all'attualità del Natale. «Chiudete le orecchie quando qualcuno vi parla d'altro che di Gesù Cristo, della stirpe di David, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiava e beveva, che fu veramente perseguitato sotto Ponzio Pilato, che fu veramente crocifisso e morì al cospetto del cielo, della terra e degli inferi, e che poi realmente è risorto dai morti. Lo stesso Padre suo lo fece risorgere dai morti e farà risorgere nella stessa maniera in Gesù Cristo anche noi, che, crediamo in lui, al di fuori del quale non possiamo avere la vera vita». Il Natale 2008, come del resto il Natale 2007, sarà per tanti cristiani e non cristiani, quindi per l'intera società, il ritorno di una consuetudine largamente prevista e addirittura tollerata nella struttura impietosa e disumana di questa società. Una parentesi, nella quale cristiani e no si prodigano a ritrovare i sentimenti della loro infanzia, i sentimenti e le aspirazioni dimenticati da anni, qualche residuo di bontà che fa aprire almeno il giorno di Natale le case e le istituzioni ai poveri, come se il problema fosse un pasto dignitoso a Natale. Il Natale come una caramella: la si assapora, la si succhia, si scioglie e qualche istante dopo non rimane più niente. Non dico che non ci siano cose buone o momenti significativi o testimonianze di benevolenza contro l'orrore dei rapporti quotidiani, retti solo da logiche di potere e di sopraffazione, ma il Natale cristiano non è questo. Il Natale è la venuta di Dio nella carne: e Dio non è venuto "nella nostra carne mortale", come dice sant'Agostino, per costruire una precaria parentesi buonista in una società rigida e ferrigna ma per costruire in sé l'uomo nuovo ed il mondo nuovo. Perché accettiamo che il Natale diventi questa piccola e meschina caricatura? Perché il nostro cuore è malato o meglio perché, come dicevano i profeti, "il nostro cuore è lontano da Dio". Il popolo cristiano è quasi "costretto" a partecipare, impotente, a un fenomeno terribile che dura da secoli e che si sta compiendo sotto i nostri occhi. Benedetto XVI ha avuto il coraggio di chiamarlo con il suo nome e cognome: l'APOSTASIA DA GESÙ CRISTO. Il peccato mortale della cristianità di oggi è la mancanza di fede, non come intenzione morale o sentimentale, ma come mentalità. Dove la fede raggiunge la sua pienezza e la sua maturità: quando diviene cultura. Quanti cristiani di oggi, ecclesiastici e laici, vecchi e giovani, proclamano con orgoglio ed entusiasmo quel numero 423 del Catechismo della Chiesa Cattolica, in cui è stato genialmente sintetizzato il contenuto reale ed esauriente della fede? «Noi crediamo e professiamo che Gesù di Nazareth, nato ebreo da una figlia d'Israele, a Betlemme, al tempo del re Erode il Grande e dell'imperatore Cesare Augusto, di mestiere carpentiere, morto crocifisso a Gerusalemme, sotto il procuratore Ponzio Pilato, mentre regnava l'imperatore Tiberio, è il Figlio eterno di Dio fatto uomo, il quale è «venuto da Dio» (Gv 13,3), «disceso dal cielo» (Gv 3,13; 6,33), venuto nella carne; infatti «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. […] Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Gv 1,14.16)». Gesù Cristo non è uno dei contenuti fondamentali della fede, che trova la sua collocazione in rapporto ad altre certezze o valori che gli sono equivalenti: Gesù Cristo è il contenuto fondamentale e totalizzante della fede. Credere vuol dire credere in Gesù Cristo Figlio di Dio. I Padri dei primi concili, quelli del IV e del V secolo, hanno formulato in modo diverso una grande verità nella quale si riconosceva tutto il popolo cristiano: chiunque nega che uno di noi (cioè l'uomo Gesù Cristo) è Uno della Trinità, sia scomunicato. Il Cristianesimo è dunque l'incarnazione di Dio nell'uomo Gesù Cristo; non Dio che si collega ad un uomo ma che diventa un uomo, in un'unica persona in cui vivono in piena comunione la totalità della divinità e la totalità dell'umanità. Ma poiché un uomo diventa uomo perché nasce dal ventre di una donna, il Natale ci ricorda con puntualità e precisione anagrafica e carnale che il Figlio di Dio, Gesù Cristo, è nato a Betlemme, dalla Vergine Maria. E quella nascita, piccola e casuale come tutte le nascite umane, segnata da precisi condizionamenti, come il rifiuto a poter nascere in una casa di uomini, è già l'inizio dell'unico grande sconvolgimento della storia e del cosmo: la venuta di Dio sulla terra. Nel Bambino Gesù, verso cui va da 2000 anni l'affezione profonda e totale di tante generazioni cristiane, è già contenuta l'identità del Redentore: così che ogni gesto, anche faticoso, dell'inizio della vita di un uomo si carica della pienezza e della definitività del mondo nuovo di Dio, che nasce nel mondo vecchio e miserevole degli uomini. La Madre del Signore comprese tutto questo: dopo averlo generato dolorosamente dalla profondità del suo cuore e della sua carne e dopo averlo deposto nella mangiatoia e avvolto in poveri panni si prostrò ad adorare quel Dio cui aveva dato carne mortale. «La mira Madre in poveri / panni il Figliol compose, / e nell'umil presepio / soavemente il pose; / e l'adorò: beata! / innanzi al Dio prostrata, / che il puro sen le aprì» (A. Manzoni, Il Natale). San Luca con grande attenzione e tenerezza ci ricorda l'infanzia del Signore, questo suo crescere e diventare uomo, in questa misteriosa comunione di una umanità che cresce nel tempo e nello spazio, unita ad una divinità che è da sempre e per sempre. Che cosa mi aspetto per il mio Natale e per il Natale di tutti i cristiani? Che possiamo recuperare la radicale semplicità e la totalità della fede nel Bambino Gesù, cioè della fede nell'inizio della pienezza del mistero cristiano. Solo così potremo cercare di opporci efficacemente alla terribile conseguenza dell'apostasia da Gesù Cristo, che è, ed è ancora Benedetto XVI ad insegnarcelo, l'APOSTASIA DELL'UOMO DA SE STESSO. Il mondo è malato, assistiamo ogni giorno alle spaventose degenerazioni di questa multiforme malattia, che si possono sintetizzare in un'unica espressione: la bruttezza della vita. Gli uomini sono costretti ad una vita brutta, senza dignità, senza responsabilità, senza creatività. Questa bruttezza non è vinta da qualche particolare "aggiustamento": qualche impegno buonistico che rompa per qualche istante la logica devastante dell'egoismo e dell'istintivismo; qualche momento di solidarietà che riduca la logica ferrea dell'egoismo e della violenza. Dio non è venuto per qualche aggiustamento, Dio in Cristo è venuto per costruire quella bellezza che "sola salverà il mondo" (Norwid). La fede, ci ricordava Giovanni Paolo II, non è una appendice preziosa ma inutile della vita, ma la verità definitiva dell'esistenza. Questo è tutto quello che la mia coscienza cristiana dice a me stesso e a tutti i cristiani e agli uomini di buona volontà per questo Natale 2008. Un'ultima preghiera vorrei fare al Signore che nasce bambino: che aiuti la cristianità, ma soprattutto l'ecclesiasticità, a non essere complice di quel terribile fenomeno di gnosticizzazione della fede che è purtroppo in atto. L'aveva già previsto, con tragica lucidità profetica, il grande Papa Paolo VI: «Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia». Ci siamo dentro in pieno, solo la misericordia di Dio può salvarci. Ma la misericordia di Dio è la nostra forza. E nessuno ci fermerà in questa quotidiana testimonianza. "Tu, fortitudo mea" Luigi Negri, Vescovo di San Marino - Montefeltro 3 novembre 2008 |
Postato da: giacabi a 08:42 |
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gesù, negri, paolovi
Pensiero d’autunno
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“Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde che vedo oggi nel sole tremar dell’olmo sul più alto ramo. Tremano, sì, ma non di pena: è tanto limpido il sole, e dolce il distaccarsi dal ramo per congiungersi alla terra.
S’accendono alla luce ultima, cuori
pronti all’offerta; e l’agonia, per esse, ha la clemenza d’una mite aurora. Fa ch’io mi stacchi dal più alto ramo di mia vita, così, senza lamento, penetrata di Te come del sole.
Ada Negri
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Postato da: giacabi a 21:06 |
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negri
Se non guardiamo in Alto diventiamo bestie
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“Secondo
i più recenti studi pare che ci sia stato un periodo della vita umana
in cui eravamo quadrupedi, e che l’essere quadrupedi sia scomparso
perché l’uomo ha incominciato a guardare le stelle, e nel guardare le stelle la struttura fisiologica si è articolata nel senso che abbiamo anche oggi. Adesso
culturalmente sta avvenendo l’opposto, stanno rimettendoci in una
posizione “da quadrupedi”, perché invece di guardare le stelle, cioè il
senso, guardiamo noi stessi e le nostre reazioni, quindi corriamo il
pericolo di tornare quadrupedi, sia moralmente sia culturalmente. Anni
fa ho apprezzato le arti rupestri: lì si vede con molta chiarezza il
momento in cui l’uomo capisce che la sua vita sta nel guardare il cielo”
L. Negri, Emergenza educativa
Grazie a: www.cogitor.splinder.com
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Postato da: giacabi a 13:59 |
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negri, senso religioso
Ave Maria
prega per noi!
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“Oh
Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza!”. Questa è la frase
più importante per tutta la storia della Chiesa; in essa si esaurisce
tutto il cristianesimo”.
don Giussani
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“Ho detto che dobbiamo chiedere alla Madonna che ci liberi dal male, e che il male qui fra noi si chiama economicismo
totalitario, culto dissennato dei propri interessi, edonismo che brucia
il presente e il futuro delle nuove generazioni,
spesso abbandonate ai margini della società in assenza di proposte
adeguate che vengano dalla famiglia e dalle altre istituzioni educative,
compresa qualche volta la chiesa. Ho chiesto che Maria
ci aiuti ad attraversare la crisi terribile che attanaglia le famiglie,
soprattutto quelle giovani, che dissolvono i matrimoni per
pseudoragioni di carattere consumistico. Ma abbiamo la serena certezza che confidando nella Madonna potremo attraversare anche questo momento difficile. "
Mons.Luigi Negri vescovo di S. Marino per leggere tutto l'articolo clicca qui
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Postato da: giacabi a 07:20 |
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maria, negri, giussani
La verità
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A Te solo non posso
celarmi. Oscuro smisurato è il fondo
dell'essere. Non v'ha pupilla umana,
s'io lo nascondo, che a scrutarlo arrivi.
Ma nulla al tuo tremendo
potere è tolto. Sta l'anima ignuda
sotto il divino sguardo
che la trapassa: e il non aver difesa
gioia le dà, se pur vergogna e pianto
delle sue colpe. Mai sì forte io t'amo,
Signor che tutto sai, come nell'ore
in cui più sento che di me non fugge
al tuo giudizio un palpito, un pensiero,
un affanno, un rimorso - e la mortale
mia verità riflessa è nello specchio
della tua luce eterna.
solco d'odore; vedo voi lontano
cennar con fiamme piccole, infinite.
Ada Negri
§
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negri
MESSAGGIO
DEL VESCOVO MONS. LUIGI NEGRI AL CLERO, AI RELIGIOSI E AL POPOLO DI DIO
DI QUESTA CHIESA PARTICOLARE, NELL’IMMINENZA DELLE ELEZIONI POLITICHE
ITALIANE.
***
Il
Vescovo di San Marino-Montefeltro, nella imminenza delle elezioni
politiche italiane comunica queste direttive a tutto il Clero e
Religiosi di San Marino-Montefeltro e a tutto il Popolo di Dio di questa
Chiesa Particolare.
Il Vescovo intende immedesimarsi completamente nelle indicazioni che sono state pubblicamente formulate nell’ambito della Conferenza Episcopale Italiana, soprattutto nella prolusione del Card. Bagnasco, Presidente della Cei e nel comunicato finale del Consiglio permanente della stessa Cei. Ma poiché tocca e lui e soltanto a lui dare indicazioni di carattere normativo per il suo popolo e per il popolo di Dio di questa Chiesa Sammarinese-Feretrana, lo fa con un particolare senso di obbedienza alle autorità ultime della Chiesa e con una piena e totale responsabilità nei confronti del suo Popolo.
1) I valori fondamentali che
devono essere rigorosamente salvaguardati e promossi nell’ambito della
competizione elettorale, sono i valori fondamentali della Dottrina
Sociale della Chiesa, quelli che Papa Benedetto XVI con felice espressione ha indicato come valori non negoziabili.
• Il valore della vita in tutte le fasi del suo battuarsi, • il rispetto della sacralità della vita, • la libertà di coscienza, di religione, di cultura, di educazione. In particolare la Conferenza Episcopale Italiana indica, per i prossimi 10 anni della sua attività pastorale, l’emergenza educativa come un’emergenza che è ormai inderogabile, non soltanto per la Chiesa, ma per tutta la società italiana. Per questo il Vescovo di San Marino-Montefeltro chiarisce che non è possibile dare il proprio voto a formazioni di qualunque tipo che esplicitamente contestino questi valori fondamentali; o abbiano già formulato o si apprestino a presentare disegni di legge programmaticamente contrari a tali principi fondamentali.
2)
Il Vescovo di San Marino-Montefeltro depreca, come altre autorità della
Chiesa italiana, che in quasi tutte le liste che vengono presentate
alla scelta degli elettori italiani, i candidati dichiaratamente
cattolici siano stati posti in posizione subalterna, quando non
esplicitamente eliminati.
Al
loro posto può essere accaduto, come nella nostra Regione Marche, che
siano stati messi in posizione di quasi sicura elezione, candidati
che non solo hanno esplicitamente contestato i valori fondamentali
della Dottrina Sociale della Chiesa lungo tutta la loro carriera
politica, ma che abbiano fatto particolarmente della difesa ad oltranza
dello statalismo scolastico, una bandiera dell’attività politica
contestando, quando non sopprimendo quando è stato possibile, anche quel
minimo di libertà scolastica che vige in Italia.
Allo stesso modo che nel punto precedente il Vescovo ribadisce che è gravemente contraddittorio andare a votare per coloro che , anche solo personalmente, contestano i valori fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa e, in particolare, la libertà di educazione e di scuola.
3) Il Vescovo di San Marino-Montefeltro non può non
deprecare, vivamente, quel sostanziale attacco alla democrazia del
nostro Paese rappresentato dall’attuale legge elettorale, la quale andrà
bene per qualcuno ma non può andar bene per una coscienza
autenticamente democratica. Il
popolo italiano è, di fatto, espropriato di quella minima capacità di
scelta che era caratterizzata dalle preferenze. L’eliminazione della
preferenza consegna la competizione elettorale ai padroni dei vari
partiti e delle varie formazioni politiche che hanno preteso di
intervenire, anche nelle più piccole realtà locali dettando dal centro
candidati, nella maggior parte dei casi, assolutamente ignoti.
E’ una vicenda intollerabile che deve al più presto finire; il Vescovo confida che il nuovo Parlamento saprà fare giustizia di una legge elettorale che rimane vergognosa.
4)
Il Vescovo non può che indicare delle linee fondamentali di riferimento
affidando alla coscienza di ciascuno dei suoi fedeli le necessarie
mediazioni fra i principi formulati e le scelte particolari che
rimangono esclusiva responsabilità della coscienza personale. Certo la
coscienza personale cristiana non si forma automaticamente; la coscienza
cristiana si forma nel confronto con le indicazioni autorevoli che
vengono dalla Chiesa, cercando di immedesimarsi con esse e cercando di
prendere, di fronte ad esse, la propria responsabilità, anche quella di
sbagliare.
Un grande padre spirituale della mia infanzia e giovinezza diceva comunque che è meglio aver torto con il Vescovo che avere ragione da soli. Con queste indicazioni che mi sembrano non soffrano di nessuna possibilità di interpretazione equivoca, affido a questa Chiesa Particolare una linea di approfondimento e di cammino che matura la propria responsabilità personale, che non può essere delegata a nessuno, né al Vescovo né ai giornali, a cui normalmente ci si riferisce per le questioni sostanziali della vita personale e sociale.
Benedico
di cuore questo Popolo e gli chiedo di essere all’altezza della grande
Tradizione cattolica che è stata in questi luoghi per decenni, se non
per secoli, una tradizione religiosa e, insieme, una realtà
perfettamente laica.
Pennabilli, 25 Marzo 2008
+ Luigi Negri |
Postato da: giacabi a 19:45 |
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politica, negri
CARISSIMO FERRARA,
***
ti
giungano i sentimenti di profonda e affezionata solidarietà per
l'ignobile atto di barbarie di cui sei stato oggetto nel silenzio
connivente di troppa società che faccio fatica a chiamare civile.
La mia, proprio perché è una grande formazione cristiana, che debbo come sai a monsignor Giussani, è anche una grande formazione laica. Per me è stato sempre naturale lavorare e soffrire per la libertà, non solo mia ma di tutti. Eravamo ancora in ginnasio e abbiamo fatto grandi scioperi studenteschi contro la brutale repressione sovietica in Ungheria. E poi non abbiamo più perduto neppure un colpo. Certo la nostra generazione aveva accanto a sé dei grandi padri della chiesa che ci hanno sempre sostenuto e seguito in questa lotta per la libertà. Noi abbiamo imparato da Montini a Milano, da Fossati a Torino, da Della Costa a Firenze, da Roncalli a Venezia, da Lercaro a Bologna, da Siri a Genova, da Ruffini a Palermo, e soprattutto dal grande PioXII, che nei pochi e terribili giorni della rivoluzione d'Ungheria seppe scrivere due lettere encicliche e fare due interventi radiofonici. Poi abbiamo combattuto per la libertà nelle scuole e nelle università. Tante volte a me e ai miei ragazzi è successo quello che è successo a te a Bologna ieri. Tante volte ho cominciato la giornata andando a visitare negli ospedali gli studenti cattolici, colpevoli di voler soltanto essere integralmente cattolici nell'ambiente. Caro Ferrara, laici e cattolici oramai sono i capisaldi su cui si può costruire una civiltà meno disumana. Io non sono un politico raffinato e soprattutto sono vescovo, perciò non posso dirti se la tua lista abbia o no una convenienza politica, ma sono lieto di dirti che la tua è una limpida testimonianza ideale, e ti posso assicurare che non gli intellettualoidi delle grandi città ma il sano popolo cattolico riconosce la tua grandezza umana e perciò, lasciamelo dire, almeno implicitamente cristiana. Che tristezza quando penso che in questi decenni abbiamo mandato in giro per il mondo, dico noi pastori, dei cristiani incolori, inodori e insapori, pronti a dire subito che innanzitutto sono d'accordo con tutti gli altri perché dicono di essere " trasversali". Avrei tante altre cose da dirti ma ci vedremo presto. Non fare nulla per affrettare il tuo funerale, perché sai che un vescovo cattolico non può officiare funerali civili. Luigi Negri [Diocesi San Marino] Pennabilli, 3 Aprile 2008 |
Postato da: giacabi a 09:55 |
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ferrara, negri
Postato da: giacabi a 18:19 |
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nichilismo, negri
L'annuncio evangelico
nel mondo greco-romano e giudaico
***
a cura di Luigi Negri
L'avvenimento cristiano
si pone per la prima volta dentro la storia degli uomini, di fronte a
due mondi che coesistevano senza quasi entrare in contatto: il mondo greco-romano,
cioè il mondo della cultura e quello ebraico, considerato indegno di
ogni rapporto col primo. Esisteva in verità anche un terzo mondo,
costituito dai cosiddetti barbari, ma esso, rispetto agli altri due,
rappresentava solo una sorta di preistoria.
È
da notare che il cristianesimo è entrato in contatto con entrambi
questi mondi - e successivamente anche coi barbari - senza sceglierne
uno contro gli altri, ma diventando un fatto significativo per ciascuno
di essi. È evidente che il cristianesimo è un fenomeno capace di dialogo
con l'umano, fin dal momento in cui entra nella storia. Non esiste
nella storia degli uomini, e in particolare nella storia della civiltà
mediterranea, un altro fatto altrettanto «fruibile» da persone in
situazioni tanto diverse.
Le lettere scritte fra il 50 e il 100 d.C. da Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni sono i primi documenti che esprimono come la Chiesa stessa si è concepita o si è posta. Una frase di san Paolo (I Corinti 1,22) ci offre la chiave di lettura: «Mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani. Ma per coloro che sono chiamati sia Giudei che Greci predichiamo Cristo, potenza e sapienza di Dio».
Il cristianesimo si inserisce nell'ambito di una problematica fondamentale dell'uomo di ogni tempo e di ogni condizione: il problema della salvezza,
cioè della verità e del significato della vita. Per i Greci, cioè per
la cultura del tempo, la sapienza coincideva appunto con la ricerca di
tale significato. L'originalità
della Chiesa non consiste, pertanto, nel parlare della salvezza, ma
nell'annunciare che la salvezza è un fatto, un avvenimento.
Lo conferma il capitolo settimo degli Atti degli apostoli, quando Paolo
parla per la prima volta al mondo culturale greco, il più alto espresso
dagli uomini di quel tempo, che cercava la salvezza attraverso un
tentativo di interpretazione razionale della realtà. Nella ricerca del
senso ultimo delle cose, i Greci erano avanzati moltissimo, fino a
capire che esso è di natura totalmente diversa rispetto alla storia e
alla concretezza degli elementi dell'esistenza: è un altro mondo, il
mondo dell'Essere, di Dio. La drammaticità della vita umana consisteva
nel fatto che l'uomo si scopriva contemporaneamente parte di Dio e del
suo mondo, e parte della storia del mondo corruttibile; insieme anima e
corpo.
Il
vertice della sapienza greca era, quindi, l'idea di abbandonare la
materia, la storia, per rifugiarsi nell'assolutezza della vita come
contenuto e fine della propria ricerca intellettuale.
A loro volta i Giudei, per una degradazione interna della loro tradizione, ritenevano che la sapienza fosse una posizione morale di fronte alla vita e alla storia. L'essere di Dio aveva la sua espressione autentica nel codice di comportamento che aveva dato. Bisognava quindi comportarsi coerentemente per essere felici.
Di fronte a questi due grandi orientamenti culturali, la novità cristiana non consistette nel proporre un'altra dottrina della salvezza, ma nell'affermare che la salvezza c'era già, era accaduta nella storia.
Proprio qui sta la grande provocazione culturale del cristianesimo: i Greci sentirono con orrore Paolo parlare della resurrezione di Cristo, e a prezzo di un forte disagio Plinio, nel 112, scriverà all'imperatore Traiano di «questo Cristo che alcuni vogliono risorto» e Traiano, risponderà all'incirca: «Non preoccuparti: sono dei pazzi».
Ora, i cristiani, dicendo che «il Verbo di Dio si è fatto carne ed abita in mezzo a noi»,
affermano non solo che la salvezza è un fatto storico, contingente, ma
che continua a rimanere presente. Infatti il cristianesimo non è una
dottrina ma una realtà storica, un gruppo di uomini che afferma di
essere il luogo dove l'evento definitivo di Cristo continua ad essere
presente ed a influire sulla storia (il Concilio Vaticano II definirà la Chiesa «sacramento di Cristo»).
L'annuncio
cristiano della salvezza intesa come vita, morte e resurrezione di un
uomo, e continua presenza di Dio nella storia attraverso l'unità dei
cristiani, fu per gli uni follia, per gli altri scandalo.
La vita della Chiesa primitiva
Alla fine del II secolo appare una bellissima presentazione del cristianesimo al mondo greco-romano, nota come «Lettera a Diogneto»: «I
cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio né
per lingua, né per costumi: non abitano in città proprie, né usano un
gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro
dottrina non è la scoperta del pensiero di qualche genio umano, né
aderiscono a correnti filosofiche. Vivendo in città greche o barbare,
come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle abitudini del luogo, nel
vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno esempio di una vita sociale mirabile, o meglio paradossale».
La Chiesa appare dunque come una vita sociale che si esprime diversamente nella
consapevolezza che il fondamento della propria unità è l'avvenimento di
Cristo, che perdura nella storia come salvezza di Dio offerta a tutti
gli uomini. Travisiamo completamente il fatto cristiano se non ci rendiamo conto che è apparso come un popolo nuovo, non più caratterizzato dalla razza o dalla cultura, ma da un'unità profonda fra persone diverse.
Il termine stesso con cui la Chiesa si è chiamata, «ecclesia», (è il termine tecnico che indica l'assemblea degli uomini liberi nella «polis»
greca) è insieme il più generico e il più particolare. Esso indica,
contemporaneamente, l'unica assemblea e tutte le assemblee particolari
che via via nascevano. Fin dall'inizio la Chiesa appare nel mondo come universale e particolare insieme, e i due termini non si elidono.
Chiesa è la Chiesa che si raduna nella casa di Aquila e nello stesso
tempo, Chiesa è l'unica Chiesa cattolica. La Chiesa è dunque un'unica
realtà sociale che, in forza di questa sua unità, si esprime in modalità
anche molto differenziate.
Fin dai primi decenni appare assolutamente chiaro che questa unità ha come garanzia la funzione autorevole
particolare riservata a coloro che proseguono, dentro la vita della
Chiesa, la funzione dei dodici apostoli, cioè di coloro i quali avevano
condiviso la vita pubblica di Gesù. Tra di essi esercita una particolare
responsabilità il successore di Pietro nella sede in
cui l'apostolo aveva posto la sua residenza dopo aver abbandonato la
Palestina: Roma diventa guida di tutta la Chiesa.
In altre parole, l'unità
è garantita dal riferimento dei vescovi, successori degli apostoli, a
«colui che presiede l'universale carità della Chiesa» (come si esprime in una sua lettera uno dei più antichi e famosi vescovi, Ignazio di Antiochia), cioè al capo della Chiesa di Roma.
Già
alla fine del I secolo le questioni più importanti che sorgono tra le
Chiese sono risolte ricorrendo al vescovo di Roma, che interviene senza
incontrare nessuna difficoltà o contestazione. Allo stesso modo, a
partire almeno dalla seconda metà del I secolo, diventa abbastanza
consueto che l'elezione di un vescovo a capo di una comunità locale,
normalmente effettuata dal clero e dal popolo riuniti, venga ratificato dal vescovo di Roma o da qualche suo delegato.
Pertanto la teoria secondo cui la struttura gerarchica della Chiesa è
subentrata alla Chiesa dei Vangeli attraverso una rottura successiva
operata da un apparato ecclesiastico e dalla volontà di potere di
alcuni, urta contro questa realtà; la Chiesa, fin dalla Pentecoste, si è determinata come una realtà unitaria, universale e insieme particolare, gerarchica, garantita dal riferimento ultimo al ministero di Pietro.
Proprio
questa sua struttura agilissima ed essenziale ha permesso alla Chiesa
il massimo di penetrazione anche in contesti culturali, sociali ed
etnici assai diversi, a partire dalla consapevolezza espressa da san
Paolo nella lettera ai Galati (III, 26-29). «Tutti voi infatti siete
figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quanti siete stati
battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché voi tutti siete un essere solo in Cristo Gesù».
La Chiesa si rivela come una vita di popolo che sa integrare tutti. Le differenze che esistono non sono criteri determinanti, bensì semplici condizioni della vita. Ciò che invece definisce la persona è l'incontro con Cristo, che la coinvolge nel rapporto con Dio rendendola veramente «uomo». Mentre
nell'età moderna le grandi ideologie al potere hanno sempre tentato di
eliminare artificiosamente e violentemente le differenze (il nostro
stesso Stato unitario è nato tentando di cancellare le differenze
culturali), per la Chiesa le differenze non negano l'unità in nome di
Cristo, la quale anzi, essendo qualcosa di assoluto, si esprime
maggiormente proprio attraverso di esse.
Fin dall'inizio, dunque, la Chiesa ha affermato che la salvezza è legata ad un avvenimento storico continuamente presente attraverso la realtà della Chiesa stessa.
Quest'ultima si presenta strutturata come organismo vivente guidato e
fondato sulla regola della comunione nel nome di Cristo (ecco la
possibilità di mettere in comune la vita, considerando con molta libertà
le proprie risorse materiali e spirituali). Non solo: la Chiesa ha anche preteso di essere il luogo dove si fa esperienza della salvezza. L'affermazione
straordinaria è, dunque, che la salvezza accade storicamente per ogni
uomo nell'appartenenza alla Chiesa, senza alcun rinvio al futuro.
Vivendo in essa, infatti, accettando questa compagnia, la vera umanità
dell'uomo si manifesta e la salvezza diviene così esperienza. Come
dimostra ancora la lettera a Diogneto: «Abitano nella propria
città, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come
cittadini, ma sono staccati da tutto; si sposano come tutti e generano
figli, ma non espongono i loro nati; hanno in comune la mensa, ma non il
letto; vivono nella carne, ma non secondo la carne; dimorano sulla
terra, ma sono cittadini del cielo; amano tutti e da tutti sono
perseguitati; non sono conosciuti e sono condannati; vengono uccisi, ma
essi ne attingono la vita».
Questa diversità dimostra che la salvezza accade per chi vive nella Chiesa.
Ed ecco uno dei documenti più significativi del tempo (metà del III secolo) scritto dal grande vescovo Cipriano di Cartagine: «La
Chiesa estende i suoi rami in tutta la terra con esuberante fecondità e
si espande su vaste regioni. Uno solo però è il principio, una sola la
sorgente e una sola la madre feconda e ricca di figli. Nasciamo dal suo
grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo animati dal suo spirito. Chi
abbandona la Chiesa non raggiungerà mai Cristo, divenendo un forestiero,
un profano, un nemico. Non può avere Dio come padre chi non ha la Chiesa come madre».
Una
posizione culturale, quella greca, vede l'ideologia separarsi dalla
storia per tentare di tornare a Dio in vari modi, l'altra quella dei
Giudei può solo sperare in un'iniziativa finale di Dio. Invece la
Chiesa si pone come luogo dove da subito la persona fa l'esperienza
della salvezza, cioè della sua umanità vera, aderendo a questa comunità
viva ed entrando in comunione con Cristo nei sacramenti che
costituiscono il tessuto della Chiesa stessa. Per questo motivo le
espressioni «i salvati», «i redenti», «i rinati» sono tutte sinonimi
della parola «cristiani».
Una concezione nuova dell'uomo e della storia
L'uomo
che fa questa esperienza di salvezza sente come sua precisa
responsabilità quella di comunicarla a tutti: la salvezza è ciò che
tutti gli uomini in quanto tali desiderano.
Ora, questa vita nuova produce dei frutti fondamentali circa la concezione dell'uomo
e la sua esperienza. Innanzitutto la Chiesa afferma che ogni singolo
uomo, proprio perché è chiamato alla salvezza, acquista un valore
assoluto. Non è più un individuo in una massa anonima, ma una persona che
ha come fondamento ultimo della sua vita, quindi del suo valore, il
fatto di essere figlio di Dio. Ciò rende l'uomo infinitamente più grande
di tutti i condizionamenti in cui vive e di tutte le vicende che gli
capitano.
Il
mondo greco-romano non era riuscito a dare un valore all'uomo, in
quanto egli, ambivalente miscuglio di una scintilla divina e di una
materia corruttibile, era immediatamente riconducibile alla condizione
sociale in cui era nato (se era nato schiavo non aveva alcun diritto; se
barbaro non gli si poteva parlare). Anche nel mondo ebraico l'uomo è
ricondotto ai condizionamenti esteriori della sua vita. Ma
se l'uomo è figlio di Dio, s'innalza libero al di sopra di tutti i
condizionamenti. Col cristianesimo, pertanto, nasce l'uomo come soggetto
responsabile, in quanto risponde a Cristo, e libero.
La libertà,
cioè l'energia del proprio essere persona, è una parola ignota nel
mondo precedente, presente in esso solo come esigenza che stenta a
trovare la sua giustificazione. Si può dire, con una commovente
espressione di Pasternak ne Il dottor Zivago: «Nell'abbraccio di Cristo nasce l'uomo».
Ciò che definisce la persona
non è più la sua posizione nella piramide sociale o politica
(l'imperatore Diocleziano era arrivato al punto di fissare ognuno alla
propria condizione sociale, per rafforzare anche dal punto di vista
politico lo Stato), ma l'appartenenza a Cristo, che investe e trasforma tutto (l'essere «Giudeo o Greco», «schiavo o libero», «uomo o donna»).
Se in primo piano c'è la persona, la prima conseguenza dell'incontro con l'avvenimento di Cristo è che «all'uomo è rivelata tutta la verità di sé» (cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis):
gli è rivelato di essere figlio di Dio e perciò di avere un valore
infinito e una precisa responsabilità di fronte a Dio, a se stesso e al
mondo; di essere quindi un soggetto che conosce e ama e che, nella
conoscenza e nell'amore, è chiamato a costruire la sua personalità.
Tutto
il mondo è debitore al cristianesimo del concetto nuovo di persona, le
cui conseguenze, di fondamentale importanza, sono documentabili
storicamente. Il termine
stesso di persona, che nel mondo greco indicava la maschera
dell'attore, viene totalmente risignificato nel contesto cristiano
indicando per la prima volta il soggetto umano in quanto fruisce della
comunione con Dio che gli dà valore assoluto e capacità di agire nella
storia. Per quanto poi riguarda la responsabilità degli uomini negli avvenimenti, la mentalità greca era andata maturando nel tempo. L'immagine di una grecità che fonda la vita su un ideale di bellezza e di equilibrio, così
come ce l'hanno presentata gli illuministi, è deformata e parziale,
perché ignora il dramma di uomini chiamati a vivere entro grandi fatti
di dolore e di morte senza sapere essi stessi se come responsabili o
come vittime del fato. In quanto pone questo problema, la
tragedia è il punto di maggior crisi del mondo greco. Euripide certo
intuì che l'esperienza umana non poteva essere compresa dal mondo greco,
che pensava di arrivare alla salvezza esclusivamente attraverso la
dottrina.
L'altro grande elemento di valorizzazione della persona nella concezione cristiana è il potenziamento della sua capacità di ragione e di affezione. Viene rinnovata l'intelligenza che può conoscere il vero
e, anzi, deve ricercarlo continuamente (l'affermazione che la salvezza è
Cristo non elimina certo la ricerca delle verità che si celano dentro
il mondo e la realtà nelle sue varie dimensioni) e viene rinnovata la capacità di amare.
Una seconda conseguenza è che si dà inizio in maniera cosciente alla storia, intesa come campo di espressione di questa libertà e di questa responsabilità.
Per i Greci la storia, essendo lontananza assoluta da Dio, trovava un minimo
di comprensibilità solo se intesa come ciclo, cioè come un eterno
ritorno degli avvenimenti che si ripetevano, meccanicamente e senza
alcuna responsabilità da parte degli uomini dopo un determinato periodo
(secondo gli Stoici dopo «un anno», inteso con una durata corrispondente
a diecimila anni). Solo l'idea di questo eterno ritorno poteva, in un certo senso, avvicinare la storia alla divinità di Dio.
Ma:«I vostri cicli sono esplosi!» dirà sant'Ireneo di Lione (fine del II secolo). La
storia, con il cristianesimo, non è più un ciclo ma una costruzione in
cui si compone la libertà di Dio, che ha salvato gli uomini in Cristo e
guida la storia, e la libertà degli uomini, che possono impostare la
vita come risposta a lui o come rifiuto, esprimendo la loro personalità
nelle condizioni personali e sociali in cui vivono.
In
sintesi ad un uomo drammaticamente spaccato fra anima e corpo che
ignora dove sia la sua consistenza ed è quindi facilmente preda del
potere e ad una storia che è solo ripetizione meccanica di eventi
determinati fatalisticamente, subentrano un
uomo che ha la consistenza in Dio, ed è perciò più grande del mondo
intero, ed una concezione della storia come ambito dell'espressione
dell'uomo.
La fedeltà all'origine: lotta alle eresie e scontro con il potere
Se
l'avvenimento di Cristo è presente nella Chiesa attraverso la sua
stessa vita, la sua predicazione di Cristo e la sua pratica di Cristo
(il Sacramento), la Sacra Scrittura è
uno strumento fondamentale, interno alla Chiesa, per rendere sempre più
chiara e matura questa coscienza di lui. Ha cioè valore in quanto è
stata fissata dalla Chiesa come regola per l'interpretazione esatta
dell'avvenimento di Cristo. Non ha perciò senso per il cristiano leggere la Scrittura al di fuori della Chiesa. D'altro
canto quello che la Chiesa dirà di Cristo non potrà mai essere in
contrasto con ciò che dice il Vangelo; anzi per rendere sempre più vero
l'annuncio di Cristo, la Chiesa dovrà continuamente riproporre e approfondire il Vangelo.
Alla prima generazione cristiana, Cristo ha affidato questa
straordinaria avventura: la responsabilità di fissare la regola della
fede. Non c'è «parola», quindi, fuori dalla Chiesa. Il
contenuto della salvezza non è quella parola, bensì l'avvenimento di
Cristo presente nella Chiesa attraverso la predicazione e i Sacramenti.
L'ortodossia è accettare che l'intelligenza che abbiamo
dell'avvenimento di Cristo e, quindi di noi stessi, maturi
nell'appartenenza. Ciò che è accaduto e vive nella Chiesa giudica
l'intelligenza, il modo normale di percepire le cose. Viceversa non
ci si può accostare a Cristo e giudicarlo a partire dalla filosofia, o
dalle religioni orientali o dal modo greco-romano o ebraico di concepire
l'uomo. Occorre che l'avvenimento di Cristo sia il criterio di
giudizio, non il contenuto che viene giudicato. Questa è
la differenza tra l'ortodossia, cioè il modo esatto di sentire la fede,
e l'eresia, che è sempre il tentativo di leggere l'avvenimento di
Cristo a partire dalla mentalità mondana.
La prima terribile eresia fu la gnosi,
cioè l'insieme delle dottrine relative alla salvezza unificate. Fu come
una grande ideologia comune del mondo greco-romano nei primi secoli del
cristianesimo. Il tentativo degli gnostici fu di inserire il
cristianesimo in questo patrimonio comune, riducendo Cristo a una dottrina. Tra le fine del II secolo e l'inizio del III, l'eresia più diffusa fu l'arianesimo, che rappresentava il
tentativo di leggere la realtà di Cristo a partire dall'ideologia, cioè
dalla dottrina greca, che metteva un abisso tra Dio, essere assoluto, e
il mondo. Che un uomo, Cristo, fosse figlio di Dio era assurdo: semmai
poteva essere la più alta delle creature. L'arianesimo fu quindi il tentativo di «filosoficizzare» l'avvenimento cristiano. Tutte
le eresie hanno in comune il tentativo di cambiare il punto di
partenza, di sceglierlo (eresia = scelta), mentre il punto di partenza è
l'avvenimento di Cristo così come permane e si sperimenta nella vita
della Chiesa. Per questo una coscienza esatta
dell'avvenimento cristiano, e quindi della realtà del mondo - anche in
senso culturale - è frutto non solo dell'intelligenza, ma anche
dell'affezione.
L'appartenenza a Cristo nella Chiesa è un atteggiamento che impegna l'intelligenza e il cuore ed ha il suo punto più acuto nell'obbedienza a chi guida la comunità. C'è una conseguenza: l'avvenimento cristiano, conscio della sua originalità, è diventato subito capace di dialogo e di valorizzazione, sentendosi erede della sapienza greca.
Quello che i filosofi cercavano, l'aveva portato Cristo. Pertanto tra
Cristo e tutta la filosofia ci fu rottura ma anche continuità. La Chiesa, infatti, autocosciente e lanciata in un dinamismo missionario, si sentì in grado di dialogare senza complessi d'inferiorità con le tradizioni culturali precedenti, scegliendo più la filosofia che la religione, perché le religioni ufficiali erano molto più una corruzione del senso religioso che un'espressione di esso.
I motivi dello scontro politico tra la Chiesa e lo Stato romano vanno
capiti bene. L'accusa mossa ai cristiani fu di empietà (cioè di non
aderire ad una precisa religione) e di anarchia (cioè di rifiutare di
tributare culto all'imperatore). La storiografia più recente ha
dimostrato che non fu mai emanata una legge particolare contro i
cristiani, in quanto bastavano ad accusarli le leggi normali. Lo Stato romano, infatti, per la sua stessa struttura giuridica, non poteva non perseguitare i rei di questi due delitti.
Lo scontro frontale con lo Stato, estremamente violento, dura per tre secoli, attraverso le persecuzioni che falcidiano migliaia di persone. I cristiani, infatti, rifiutano l'assolutismo politico romano; rifiutano cioè che la dimensione (e quindi la struttura) politica sia la definizione ultima della persona.
A tanto era arrivato il mondo greco-romano; non potendo pensare
all'evento di Cristo, e tanto meno ad un fatto come la Chiesa, esso
aveva dovuto rendere assoluta la convivenza sociale. La «polis», intesa
come insieme di rapporti politici, non è l'espressione del valore ma costituisce tutto il valore dell'uomo che vale appunto in quanto inserito in essa. Il culto dell'imperatore nasce da questa concezione del potere come unica cosa che dà assolutezza alla vita, senza la quale non ci sarebbe che la disperazione universale.
Lo
Stato greco-romano propose ai cristiani di sacrificare all'imperatore e
di inserire la loro religione nel «pantheon» dei culti ammessi, dei
culti, cioè, che accettavano di essere ridotti a opinioni private
all'interno dell'affermazione che lo Stato era tutto.
I cristiani, che concepivano invece la vita sociale come espressione del valore della persona (che è ultimamente costituito dalla sua dimensione religiosa), non
accettarono né di inserire la loro religione nel «Pantheon» né di
sacrificare all'imperatore, anche quando il sacrificio era più formale
che sostanziale. L'uomo infatti o dipende da Dio o dipende dalla
struttura del potere: sono due logiche inconciliabili. Proprio per questo il cristianesimo lottò contro le altre religioni che avevano accettato la propria riduzione e dialogò invece con la filosofia che aveva resistito alla concezione assolutistica dello Stato, soprattutto dopo la nascita dello Stoicismo.
Il cristianesimo, sia ben chiaro, non rifiutava lo Stato come autorità politica, bensì il culto dello Stato.
Anche per i cristiani la convivenza sociale è una dimensione naturale,
ed è giusto organizzarla, purché il potere non pretenda di essere Dio,
di avere un valore assoluto.
Tertulliano:«L'imperatore è grande ma è sotto Dio». Il valore assoluto va riconosciuto solo alla persona, in forza del suo rapporto con Dio. Pertanto la convivenza sociale e il potere devono dare spazio alle persone e alla loro libertà. È notevole a questo proposito il fatto che attorno al 150 un gruppo di cristiani, chiamati apologisti,
abbia scritto all'imperatore chiedendo libertà per tutti (per i
cittadini, per i gruppi, per le religioni, per i popoli) e dando
l'immagine di una vita sociale assolutamente non anarchica, bensì
articolata, non certo simile ad un monolito che subisce i contraccolpi
del personalismo dell'imperatore. Questo dimostra come il
cristianesimo non si sia posto in posizione di rottura nei confronti
dello Stato negando le esigenze della struttura sociale-politica, ma ne
abbia già agli inizi rifiutato la logica assolutistica, che riduce la
persona alla vita sociale e al potere statuale. L'uomo è tale non in quanto ha una posizione sociale ma in quanto è figlio di Dio.
Per questo san Paolo nella Lettera a Filemone, rimandando lo schiavo al
padrone, gli dice: «Ti rimando lo schiavo che è tuo fratello».
Appare
chiaro che il cristianesimo, pur non discutendo subito la struttura
della società, pose dentro di essa una società diversa.
Col secolo IV finì lo scontro frontale col potere, ma non lo scontro politico in quanto tale perché, anche
quando gli imperatori furono cristiani, tentarono di mettere il vino
nuovo del cristianesimo nelle botti vecchie dello statalismo romano,
esercitando una pesante protezione nei confronti della Chiesa.
Il vecchio assolutismo adoperava ormai il cristianesimo come ideologia. Così nei secoli IV e V, soprattutto in Oriente, la Chiesa dovette difendersi anche dagli imperatori cristiani. Da
sempre la Chiesa ha difeso la libertà della persona e della sua
coscienza chiamando lo Stato, non a determinare, ma a servire l'uomo e
la sua libera espressione. Le testimonianze di questi scontri sono raccolte e documentate dal grande storico della Chiesa Hugo Rahner nel volume Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo dove si dimostra che, mentre
la Chiesa ha sempre sostenuto la relatività dello Stato alla persona,
la tendenza dello Stato romano, anche se guidato da imperatori
cristiani, fu costantemente di porsi come valore assoluto.
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Postato da: giacabi a 20:13 |
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cristianesimo, negri
La condanna di Galileo
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«La carcerazione coincise con qualche mese trascorso nella villa di campagna dell'arcivescovo di Firenze, si direbbero oggi gli arresti domiciliari, dove ha potuto svolgere la sua solita vita. Dopo di che, tornò
ad Arcetri e in considerazione della sua tarda età gli furono sospese
tutte le restrizioni salvo l'obbligo di recitare una volta alla
settimana i sette Salmi penitenziali. Tuttavia, la
Chiesa ammetteva da tempo che uno potesse passare la sua pena ad altri,
nel caso fossero disposti ad attuarla al suo posto. Galileo,
avendo una figlia Maria Celeste clarissa, affidò a lei il compito di
recitare al suo posto i Salmi, cosa che la figlia fece. Documentazione
di questo episodio è conservata in uno splendido epistolario in cui
Maria Celeste scrive della vita in convento, raccontando che aveva
adempiuto rigorosamente all'incarico datogli di recitare i Salmi. »
L. Negri Il processo a Galileo: contesto storico e suo significato.
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Postato da: giacabi a 08:37 |
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medioevo, negri
Tutti vogliono una cosa sola: strapparti la bandiera
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Tutti vogliono una cosa sola:
strapparti la bandiera.
Ti convincono che non devi combattere,
tanto c'è sempre da fare,
tanto: a letto, a teatro, in cucina,
sull'amaca, al ristorante, nel calduccio di casa tua.
E, poi, a loro sei utile per ingrossare il numero,
per nascondere quel Dio che sentono e temono:
a letto, a teatro, in cucina,
sull'amaca, al ristorante, nel calduccio di casa tua.
Ma quando in faccia gli getti il tuo scherno
e libero te ne vai e bello e forte,
come potranno sapere
a letto, a teatro, in cucina
che vi sono ancora degli uomini innamorati del cielo?».
Valentin Sokolov
grandissimo poeta russo contemporaneo, morto nel 1984 a 58 anni: era in campo di concentramento da quando ne aveva 21.
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Postato da: giacabi a 17:44 |
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negri, senso religioso
Pensiero d’autunno
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Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde che vedo oggi nel sole tremar dell’olmo sul più alto ramo. Tremano, sì, ma non di pena: è tanto limpido il sole, e dolce il distaccarsi dal ramo per congiungersi alla terra. S’accendono alla luce ultima, cuori pronti all’offerta; e l’agonia, per esse, ha la clemenza d’una mite aurora. Fa ch’io mi stacchi dal più alto ramo di mia vita, così, senza lamento, penetrata di Te come del sole.
Ada Negri
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Postato da: giacabi a 16:08 |
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negri
Comprendere
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No!...Comprenderti voglio, o vita, o vita
che m'attanagli con sì dure branche, e a prova nelle mie viscere stanche prima scavi, poi baci la ferita Io non ho membro che non porti il segno della tua violenza - e il sanguinante mio cor t'ha in sé confitta, rutilante scure che strappa alla radice il legno. Quando comprenderò, forse il tuo gioco barbaro diverrà per la mia mente un nulla, un fior che sboccia, una vanente nube, vermiglia del tramonto al fuoco. Quando comprenderò, ti sarò grata forse del vario strazio che m'infliggi, torturatrice che unghia e dente figgi dove la carne più ti par malata. Dimmi il perché, se un perché esiste. Io voglio saperlo, per gioire; e pel dolore far delizia pei sensi, urlo d'amore per l'anima, corona per l'orgoglio. Ada Negri, Comprendere |
Postato da: giacabi a 14:30 |
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negri, senso religioso
Cielo stellato
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Nell'ombra azzurra, brulicar di stelle.
Non lume ai campi. Tutto lumi il cielo.
E più gli occhi v'immergo, e più s'accresce
quel tremolio, quel palpito, quel folle
moltiplicarsi d'astri: -e Più mi perdo
nell'infinita vastità del coro
che d'angelici accordi empie gli spazi.
O stelle, e quando mai fui così vostra
come in quest'ora?
L'una canta: «Vieni»:
e l'altra: « Vieni»: e tutte: « Vieni, vieni,
anima innamorata della morte
ch'è vita eterna». -Or io vi prego, o stelle,
che alcuna fra di voi scenda stanotte
a raccoglier di me ciò che la terra
non può rapirmi; e via di fuoco in fuoco
mi porti al Dio che mi creò: ch'io possa
mirare il Volto e ascoltar la Voce.
Ada Negri
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Postato da: giacabi a 13:53 |
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preghiere, negri, senso religioso
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Postato da: giacabi a 10:47 |
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gesù, negri
Mia giovinezza
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Non t'ho perduta. Sei rimasta, in fondoall'essere. Sei tu, ma un'altra sei: senza fronda né fior, senza il lucente riso che avevi al tempo che non torna, senza quel canto. Un'altra sei, più bella. Ami, e non pensi essere amata: ad ogni fiore che sboccia o frutto che rosseggia o pargolo che nasce, al Dio dei campi e delle stirpi rendi grazie in cuore. Anno per anno, entro di te, mutasti volto e sostanza. Ogni dolor più salda ti rese: ad ogni traccia del passaggio dei giorni, una tua linfa occulta e verde opponesti a riparo. Or guardi al Lume che non inganna: nel suo specchio miri la durabile vita. E sei rimasta come un'età che non ha nome: umana fra le umane miserie, e pur vivente di Dio soltanto e solo in Lui felice. O giovinezza senza tempo, o sempre rinnovata speranza, io ti commetto a color che verranno: - infin che in terra torni a fiorir la primavera, e in cielo nascan le stelle quand'è spento il sole. Ada Negri |
Postato da: giacabi a 14:57 |
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negri
Rimorso
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Vita, dono di Dio: che ho dunque fatto
di te? Che folle e vana attesa è dunque
la mia, se ti posseggo, anima e senso,
corpo e pensiero, unico bene?
In nome di qual sogno t'offersi, per qual fede
a perderti fui pronta, a chi passai
la tua fiaccola ardente? Sol per questo
data mi fosti: e adesso è tardi, o vita.
Quando, misera e sola, innanzi al Padre
sarò, che gli dirò, qual luce in terra
avrò lasciata, a gloria sua?
Ma forse ancora è tempo di donarti, o dono
di Dio. Fin ch'io respiri, ancora è tempo.
Ada Negri
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Postato da: giacabi a 21:44 |
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preghiere, negri
IL SENSO RELIGIOSO
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Nulla, Signore, io sono
Nulla, Signore, io sono
su questa terra. Nulla è questa terra
nell'universo. Ed io non so di dove
vengo, né dove andrò: tenebra fonda
prima che il tuo voler qui mi chiamasse,
cieca speranza nella tua clemente
misericordia, oltre il traguardo estremo.
Unica realtà questo mio nulla
che avanza in solitudine su angusto
ponte sospeso fra due sponde ignote:
e sotto ondeggia e rumoreggia il fiume
che non ha foce, e sopra ardon nei cieli
parole incomprensibili di stelle.
Che vuoi da me? Qual dono
chiedi alla mia miseria, e di qual luce
folgorerai l'anima mia, nel giorno
ch 'ella in Te rivivrà?
Ma tu giammai
ti scopri. Ed è nel tuo pensiero occulto
ch 'io più ti cerco e imploro: è in quest'angoscia
di sapere da Te ciò che m'ascondi
ch 'io fona attingo per amarti -e il mio
tormento è grande come il tuo silenzio.
Ada Negri
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Postato da: giacabi a 16:29 |
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negri, senso religioso
L’ILLUMINISMO
GENERA TOTALITARISMO
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“..L'Illuminismo, che sottrae -come dice Kant -l'uomo dallo stato di minorità, sceglie per la lotta contro Dio.
Si badi: l'illuminismo è anche genuina conquista di valori umani:
diritti dell'uomo, peso ed importanza della ragione, della scienza,
lotta ai pregiudizi, eccetera. Tuttavia, se lo consideriamo dal punto di
vista del nostro tema, l'Illuminismo
con Rousseau (e altri) rende esplicito: se Dio non serve per la
costruzione della città terrena, Dio è inutile per l'uomo. Cosi, negando il dogma del peccato d'origine, per salvare l'uomo non è più necessario l'intervento di un Dio. Il
male (Reimarus sul piano teologico, poi Rousseau su quello filosofico) è
soltanto di superficie: ed è da imputarsi: a) all'educazione (Rousseau:
Contratto sociale); b) alla Società (Marx: Il Capitale). Quindi per liberare l'uomo occorrerà agire sia sulla sua educazione, sia sulle strutture politiche.
Il punto è: come agire?
Eliminato
Dio, l'uomo dovrà agire fondandosi su se stesso. La ragione sarà cosi
ragione scissa dal mistero e si strutturerà come ragione «scientifica» a
cui nulla può sfuggire (il progresso è ineluttabile e irreversibile: la
Luce [Illuminismo] rischiarerà le tenebre). Mediante questa ragione
scientifica l'uomo conosce: a) la natura; b) l'uomo stesso; c) la società.
Nell'illuminismo nascono le « scienze umane »: sociali e psicologiche e pedagogiche e politiche. Conosciuto l'uomo, l'uomo stesso può elaborare un progetto di salvezza: piano educativo e piano politico. Potrà
-in modo particolare -elaborare un piano politico generale mediante un «
contratto », cioè una convenzione arbitraria. Arbitraria perché spetta
soltanto all'uomo (che si
fonda su se stesso) dire qual è il valore. Non vi è più infatti
possibilità di un riferimento assiologico né a Dio, né ad eterni valori
presunti naturali (giusnaturalismo).
In conclusione: mentre
l'Umanesimo tentava di realizzare la democrazia in stretta comunione,
pur nell'autonomia della sua natura di strumento temporale, con la
religione, l'Illuminismo realizza la democrazia rompendo con la
religione. Questi gli estremi di un processo che vede nel Cinquecento e nel Seicento le due tappe intermedie.
Così se l'Umanesimo poteva essere epoca di « democrazia e religiosità », l’illuminismo è epoca di «democrazia e ateismo ».
Il totalitarismo post-illuminista e contemporaneo
Un
nota bene: l'epoca moderna ha fornito elementi tali che permettono
-letti alla luce del cristianesimo -di comprendere con maggior
profondità la dignità, umana. Tuttavia, come detto, la linea di fondo
della Modernità conduce all'antiumano e all'antidemocrazia.
Spieghiamo: il
Razionalismo e l'illuminismo ritenevano che il singolo individuo fosse
perfetto. Ma l'individuo muore: Rousseau muore. E muore la Rivoluzione
francese. Hegel è il primo che denuncia la « finitezza » dell'intelletto illuminista e di tutta la sua visione dell'uomo e della società.
Allora.
La nuova via -tenuto
fermo l'assioma dell'antropocentrismo immanentista ed ateo -è: non
l'individuo è perfetto, eterno, ma lo Stato, sorta di nuovo individuo
integrale, totale. Gli individui veri e propri sono soltanto delle
finitezze, espressioni dello Stato. Il valore è lo Stato. Lo Stato è Dio: lo Stato può tutto.
In
altri termini: se l'uomo è valore a sé stesso, l'uomo può dire chi
l'uomo sia, cioè quale sia la natura dell'uomo. Perciò, se l'individuo
vero è lo Stato, è lo Stato che dice chi siano gli uomini singoli. E
quindi lo stato può dire come gli individui possano divenire veramente
uomini: lo Stato dice la «morale », dice la via per realizzarsi. Ma una
morale, se non ha un riferimento ad una natura eterna diviene
arbitraria, quindi viene assimilata integralmente dalla politica. La
morale è ridotta a
politica. Lo Stato così è attore unico dell’esistenza: da lui tutto
dipende. È bene quel che giova allo Stato; è male quel che ostacola il
suo incremento di essere, cioè di potenza.
In
tal senso lo Stato moderno tenderà sempre più a ridurre a fatti
sporadici e privi di incidenza sociale le singole esperienze «private»
di gruppi di cittadini. La contrapposizione tra pubblico e privato sta
proprio a significare il tentativo di svuotamento della ricchezza
personale umana. E, poiché in fondo, lo Stato non può snaturare del
tutto l'uomo, tende a ricacciare in ambiti precisi e controllabili (il
privato) quel che non riesce a funzionalizzare allo suo scopo.
Cosi ha luogo il «totalitarismo »: lo Stato è tutto, l'individuo -come dice Hegel -merita di morire.
Il
connubio di democrazia e di ateismo, che nella mente dei padri
generatori doveva essere un togliere l'uomo e la città terrena agli
abusi di un__Dio-padrone. e di una religione oscurantista e
schiavizzante la natura umana, si converte non solo nel non saper
realizzare un individuo ricco di determinazioni (il singolo è solo
«funzione », «ruota di un ingranaggio », «numero », eccetera), ma anzi
annichila totalmente l'uomo e la città terrena. L'ateismo non genera «
democrazia ». Il controllo razionaI-scientifico della convivenza genera
totalitarismo.
Bakunin:
«È finito il regno di Dio. : È venuto il regno dell'uomo »: certo,
l'uomo senza Dio può costruire la città terrena, ma alla fine questa si
rivelerà essere contro l'uomo stesso (cfr. D. Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo).
Prospettive per una rinascita della democrazia
Occorre
saper salvare il valore. Quanto scoperto dal giusnaturalismo,
dall'illuminismo, dal liberalismo e anche dal marxismo non può essere
rifiutato in blocco. La natura umana va salvaguardata sia dal punto di
vista del singolo irripetibile individuo, sia dal punto di vista del suo
essere un individuo sociale e storico e lavoratore.
Però: tutti
i valori presenti nell'epoca moderna e che hanno sempre una radice
cristiana (è il Cristianesimo che scopre la dignità dell 'uomo) possono
essere salvati se vengono levati dal campo immanentistico
antropocentrico ed ateo in cui si trovano e trasposti in un campo in cui
l'umano e il religioso non si contrappongano. Indicazioni a questo proposito ci vengono fornite da Maritain, in «Cristianesimo e democrazia ». La
democrazia non è nemica della religione, anzi soltanto aprendosi al
mistero della propria persona di fronte a Dio, l'uomo può costruire una
città terrena realmente umana. Infatti, la crisi attuale è senza dubbio
crisi « politica », crisi « economica », crisi « culturale », e se si
vuole, crisi di « civiltà ». Ma soprattutto « crisi dell'uomo ». L'uomo
non sa più chi egli sia. Soltanto recuperando l'identità integrale umana
si può costruire una democrazia.
In conclusione dovremmo correggere il titolo così: « democrazia o ateismo », in cui la disgiunzione è netta e irrevocabile. La via per la costruzione è quella di una autonomia dell'umano, autonomia però organica al mistero di Dio….”
Luigi Negri vescovo di S. Marino
(il mio vescovo preferito)
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Postato da: giacabi a 22:09 |
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illuminismo, negri
Nulla, Signore, io sono
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Nulla, Signore, io sono
su questa terra. Nulla è questa terra
nell'universo. Ed io non so di dove
vengo, né dove andrò: tenebra fonda
prima che il tuo voler qui mi chiamasse,
cieca speranza nella tua clemente
misericordia, oltre il traguardo estremo.
Unica realtà questo mio nulla
che avanza in solitudine su angusto
ponte sospeso fra due sponde ignote:
e sotto ondeggia e rumoreggia il fiume
che non ha foce, e sopra ardon nei cieli
parole incomprensibili di stelle.
Che vuoi da me? Qual dono
chiedi alla mia miseria, e di qual luce
folgorerai l'anima mia,
nel giorno ch 'ella in Te rivivrà?
Ma tu giammai
ti scopri. Ed è nel tuo pensiero occulto
ch 'io più ti cerco e imploro: è in quest 'angoscia
di sapere da Te ciò che m'ascondi
ch 'io forza attingo per amarti -e il mio
tormento è grande come il tuo silenzio.
Ada Negri
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