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sabato 25 febbraio 2012

Nel nome del Padre perduto



Nel nome del Padre perduto

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INTERVISTA
«Il sacrificio della croce risiede nel fatto che in Cristo l’umanità riconosce di provenire dal Padre e che vi ritornerà». Per il francese Jean-Luc Marion, fra i più autorevoli pensatori viventi, il messaggio cristiano continua a stimolare ed irradiare, in modi anche imprevedibili, la filosofia contemporanea. Già docente presso prestigiose università europee e statunitensi, accademico di Francia, dei Lincei e membro del Pontificio Consiglio della Cultura, Marion parteciperà domani al grande convegno romano «Gesù nostro contemporaneo», intervenendo proprio su «La potenza e la gloria del sacrificio» (ore 15, Auditorium Conciliazione).

Professore, la frase di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» è stata recentemente scelta da vari scrittori francesi, credenti e no, come il passaggio più emblematico del Vangelo. Un puro caso?
«Comprendo bene che soprattutto oggi si possa restare colpiti da questa frase, apparentemente in contraddizione con quanto potremmo attenderci da Gesù. Credo si tratti del riflesso di uno stato d’animo diffuso fra i nostri contemporanei. I quali, spesso senza ammetterlo, sembrano voler dire: "Dio mio, Dio mio, perché ti abbiamo abbandonato?". Siamo noi ad abbandonare Dio. In proposito Nietzsche ha ragione, quando riconduce la morte di Dio all’interrogativo sul perché l’abbiamo ucciso. Dunque, ciò equivale pure a: "Dio mio, Dio mio, perché hai permesso che l’uomo ti abbandoni?"».

C’è un legame con l’atteggiamento di chi, in Europa, denuncia la crisi del valore repubblicano di fratellanza?

«Sì. Perché la società laica comincia a comprendere di non poter produrre questo valore. Se ci riferiamo alla triade dei valori repubblicani francesi, la libertà può forse essere garantita a livello pubblico. E, si spera, pure l’uguaglianza. Ma la fratellanza presuppone invece un padre, mentre la società laica è fondata proprio sull’assenza del padre. Il solo padre assente possibile è Dio, ma non è stato finora riconosciuto. Dunque, nei sistemi fondati sui tre valori francesi, c’è una contraddizione interna. I primi due termini non possono garantire il terzo. La fratellanza non doveva essere inclusa, perché va oltre il progetto illuministico».

Assistiamo dunque ad ammissioni d’insufficienza, sia pure spesso involontarie. Ciò tradisce pure un certo bisogno di tirar fuori l’amore dalle secche del relativismo?
«In certi casi sì, è evidente. In generale, cresce la consapevolezza che non vi è alcun legame serio e immediato fra edonismo ed amore. La confusione è di certo antica e rimane moneta corrente, ma il piacere non ha mai reso felici».

Kierkegaard giudicava la relazione con Dio come innestata sempre nel tempo presente. La filosofia contemporanea continua a rimuginare quest’idea?
«Questa riflessione non è mai scomparsa. Ma il problema è che quando si parla di una relazione con Dio, molte categorie abituali non sono applicabili, a cominciare proprio dalla relazione. Quest’ultima presuppone in teoria due termini paragonabili e che esprimono uno stesso tipo di presenza. Ma la relazione fra uomo e Dio non è riconducibile né alla relazione fra due sostanze, né a quella fra una sostanza e un suo attributo. Dunque, il nostro rapporto con Dio è più complesso e profondo di una semplice relazione. La filosofia è stata sempre cosciente che si può parlarne solo per paradossi. Kierkegaard è un ottimo esempio e non certo il solo. Quando non immaginiamo più questo rapporto come paradossale, smettiamo di comprenderlo».

Dopo il crollo delle ideologie novecentesche, la filosofia sta riallacciando nodi nuovi con il messaggio di Gesù?
«Ogni epoca ha avuto l’impressione di coltivare un rapporto onesto ed autentico con il messaggio di Gesù. Persino nei periodi di ateismo e d’iper-razionalismo. In generale, il rapporto della filosofia e della cultura con Cristo è conflittuale, nel senso che la ragione deve sempre fare autocritica per approdare a un rapporto corretto con l’avvenimento cristiano. Oggi, comunque, percepiamo molto meglio ciò che c’impedisce d’instaurare un rapporto autentico. L’eredità delle ideologie totalitarie, certo. Ma pure l’imperialismo un po’ ingenuo delle scienze umane o esatte».

Su quest’ultimo versante, cosa pensa dei promotori di un nuovo ateismo militante, come Richard Dawkins e Christopher Hitchens? 
«L’esposizione mediatica di cui godono ha un sapore molto ideologico. Da un punto di vista filosofico, invece, quanto scrivono è completamente ingenuo, dogmatico, acritico, con frequenti confusioni sui risultati scientifici citati e un’ignoranza evidente sulle conclusioni della filosofia. Trovo tutto ciò un po’ comico».

I vertici europei hanno negato le radici cristiane del continente. Stiamo già pagando in parte le conseguenze di quella scelta? 
«L’attuale crisi europea è soprattutto politica, perché l’Europa è ancora sprovvista di un orientamento politico. Dunque, non può divenire un’entità politica forte. Tutto il resto, mi pare una conseguenza. Ora, se non abbiamo una vera Costituzione europea, ciò è dovuto a un rifiuto da parte dei popoli. Occorre dunque interrogarsi sulle ragioni profonde di questo rifiuto. Ve ne sono forse diverse, ma occorre pure constatare che le élites europee ci avevano chiesto di avallare una menzogna sull’identità europea. I popoli hanno rifiutato pure questa negazione delle radici cristiane. Non si può costruire l’Europa senza i cristiani e il fatto cristiano. Spero sia stata compresa almeno questa lezione».

Daniele Zappalà



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