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sabato 18 febbraio 2012

nembrini


CAPITOLO I –
LA LEALTÀ CON LA TRADIZIONE
SORGENTE DELLA CAPACITÀ DI CERTEZZA
1. Valore di questo principio
Fatte queste due premesse, entriamo nella definizione delle
prime due grandi parole. La prima è indicata da don Giussani
così: «la lealtà con la tradizione, sorgente della capacità di
certezza»5. Un titolo che sembra difficile, ma in realtà significa
quel che ho appena detto: la lealtà con la tradizione vuol dire
che il bambino ha bisogno di vedere qualcuno. La tradizione
per lui che cosa sarà? Saranno prima di tutto i suoi genitori,
la sua famiglia, ciò che precede. La lealtà con ciò che precede
è in lui la condizione per cui può crescere certo nella vita,
sicuro nella vita. Il contrario di questo è una malattia, dà
origine a una patologia. La certezza del bambino vive della
certezza dell’adulto che ha davanti, della solidità dell’adulto
che gli sta davanti. Solo così il bambino cresce sano, perché
cresce certo. Nella lealtà, nel dialogo, nel paragone con
l’adulto che ha davanti il bambino cresce nella sua certezza.
L’esempio che faccio sempre è questo: immaginate il bambino
che a tre anni comincia a fare le domande e chiede al papà:
 
«Papà, che cos’è quella cosa che c’è su in cielo?», e il pa-
 
pà gli dovesse dire: «Sai che non lo so! Prova a chiedere alla
mamma». Lui chiede alla mamma: «Mamma, che cos’è quella
cosa che c’è su in cielo?» e la mamma risponde: «Boh, secondo
me è la luna però la zia dice che è il sole, la nonna invece
dice che è una roba strana che gira». Immaginate un
bambino che a tre anni, quando pone le domande, invece che
sentirsi dare una risposta dovesse sentire un dubbio su tutto:
sarebbe come uno costretto a camminare sulle sabbie mobili,
verrebbe su storto, inevitabilmente. Invece il bambino ha bisogno
di sentirsi dire: «Figlio mio, è il sole! Si chiama sole!».
Poi il bambino chiederà perché si muove il sole, perché gira
intorno alla terra. Il papà magari, poiché non ha studiato, gli
dà una risposta sbagliata, scientificamente sbagliata, magari
gli dirà «perché la terra è ferma e il sole le gira intorno».È più
importante che il bambino creda a questa affermazione sbagliata
piuttosto che crescere nello scetticismo terribile generato
dall’idea che non ci sia una risposta; perché se lui crede a
quel che gli dice il babbo, a quello che gli dice la mamma, a
quell’ipotesi che gli offre l’adulto, cresce con una ipotesi sicura,
con una certezza, che da grande sarà perfino in grado di
correggere e di verificare. Andrà a scuola e una maestra gli
spiegherà che non è così, che la terra in realtà è lei che gira intorno
al sole, il sole è fermo. Sarà il bambino che corregge
l’ipotesi dell’adulto; ma prima ha diritto a ricevere un’ipotesi,
una possibilità di certezza, altrimenti viene su storto, viene
su malato.
Don Giussani chiama dunque «ipotesi esplicativa della realtà
» la presenza di un adulto capace di comunicare il senso
delle cose; cioè, tornando alla questione iniziale, un adulto capace
di testimoniare un bene della vita, una positività della vita.
Questo è il grande segreto dell’educazione. Don Giussani
lo dice con queste parole: «L’incontro con qualcuno che sia
per il bambino o il ragazzo portatore di quella che abbiamo
chiamato “ipotesi esplicativa della realtà” non è cosa che si
possa evitare»6. Non vi sto dicendo delle cose che se siete
d’accordo bene, se non siete d’accordo non importa... È proprio
così! Il bambino ci guarda così, ha bisogno di ricevere da
noi un’ipotesi della realtà, un’ipotesi sulla realtà, un modo di
stare al mondo, che noi lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli
o no. Possiamo anche negarlo, ma in ogni caso, per
il fatto stesso che gli siamo di fronte, gli comunichiamo un
senso della realtà, buono o cattivo, positivo o negativo.
«Il luogo primo in cui questo avviene è infatti la famiglia:
l’ipotesi iniziale è la visione del mondo che hanno i genitori,
o coloro cui i genitori demandano la responsabilità di educare
il figlio. Non può esistere una cura del figlio e una preoccupazione
della sua formazione, se non nell’almeno vaga e
confusa – quasi istintiva – visione di un senso del mondo.
L’educazione consiste nell’introdurre il ragazzo alla conoscenza
del reale – di tutta la realtà – precisando e svolgendo
questa originale visione. Essa ha così l’inestimabile pregio di
condurre l’adolescente alla certezza dell’esistenza di un significato
delle cose»7. Tutta la tragedia di oggi, tutta quella che
chiamiamo emergenza educativa, è la mancanza di questo: abbiamo
ragazzi che crescono pieni di paura e di incertezza, come
sulle sabbie mobili, perché non hanno davanti adulti capaci
di testimoniare una certezza, non hanno davanti adulti che
abbiano speranza sufficiente di fronte alla vita. Questo è il
problema. Quel che ha scritto quella ragazza è un grido, è un
grido che accomuna tutti i nostri figli e che dovrebbe accomunare
tutti noi: «
Qualcuno abbia pietà di me, qualcuno mi faccia
vedere che la vita ha un senso positivo, ha un senso ultimamente
buono; papà, fammi vedere che valeva la pena veni-
re al mondo. Ho bisogno solo di questo: vi perdono tutto, papà,
mamma, io lo so che anche voi siete due poveri cristi, lo
so che potete sbagliare e vi perdono i vostri sbagli come voi
spero perdoniate i miei; ma vi prego, ditemi, fatemi vedere
che valeva la pena venire al mondo, che c’è una ragione positiva
per l’esistenza»
.
Questa è l’emergenza educativa in cui viviamo: una generazione
di adulti che non ha più speranza sufficiente da comunicare
ai propri figli, da far vedere! Non da comunicare con le
parole, da far vedere. Un’ipotesi esplicativa della realtà! Si
può dire anche in un altro modo, come è scritto nel capitolo
sesto del Deuteronomio: «Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà:
“Che significano queste istruzioni, queste leggi e
queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?” tu risponderai
a tuo figlio...». Vale a dire: noi cerchiamo di insegnare
ai nostri figli le cose buone, a fare i bravi, a fare i buoni, a non
dire le bugie; ma quando il figlio diventa grande è come se ti
chiedesse: «Ma scusa papà, perché dovrei fare il buono in un
mondo che dice esattamente il contrario? Perché non dovrei
mentire quando conviene un po’? Perché non dovrei rubacchiare?
». Perché i valori di per sé non sono niente; i valori devono
essere fondati, devono avere una ragione adeguata.
«Quando tuo figlio ti domanderà: “Che significano queste
istruzioni, queste leggi?”» – come dire: «Papà e mamma, perché
insistete tanto? Perché dovrei impegnarmi e fare la fatica
di imparare il latino, la matematica e la fisica?» – la risposta
peggiore è: «Per il tuo futuro, perché ti servirà quando sarai
grande». Nessuno di noi accetterebbe una risposta così. Non
ci si impegna nel presente per una ragione futura, ci si impegna
per una ragione presente, per un bene presente: «Tu risponderai
a tuo figlio così: eravamo schiavi del faraone in
Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente.

Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi

e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua
casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato
ai nostri padri di darci» (Dt 6, 21-23).
Traduciamola in un linguaggio corrente: che cosa deve rispondere
un genitore a un figlio che gli chiede: «Papà, perché
devo essere buono? Dove fondi questi valori che mi chiedi di
praticare?»? Tu gli devi poter dire: «Ragazzo mio, sono anch’io
come te, siamo sulla stessa barca, ho lo stesso problema
tuo, ho il problema che hai tu di fronte al male, di fronte alla
noia, di fronte al nulla che a volte sembra divorare le cose, vivo
lo stesso dramma che vivi tu, vivo la stessa possibilità che
la vita sia al fondo una tragedia. Da questo, da questa tragedia,
da questa possibilità di male, dalla possibilità che la vita
alla fine sia niente, sia polvere, sia distruzione, sia il nulla che
vince, da questa possibilità di maleio sono stato salvato, tirato
fuori, mi è accaduta una cosa».
Lo dico da cristiano, ma la sfida è uguale per tutti. Se doveste
alzarvi e dirmi: «Ma io non credo», direi che non importa,
vale la stessa cosa perché, giratela nella forma più laica che conoscete,
la sfida è identica, è tuo figlio che ti guarda e ti dice:
«Dimmi comunque qual è l’ipotesi di bene su cui basi la tua
vita». Tu devi poter rispondere, non a parole ma per un’esperienza vissuta, per la testimonianza di un’esperienza vissuta. Io da cristiano cerco di far vedere ai miei figli rispetto a questo «nulla», rispetto a questo male che c’è nelle cose della vita, come io ne sono stato tirato fuori: Dio ha mantenuto la promessa che aveva fatto – per usare il linguaggio biblico – «ai nostri padri», che significa la promessa che ci trasmettiamo di padre in figlio, la promessa che abbiamo strutturalmente, la speranza di cui siamo costituiti. Dio ha mantenuto quella promessa,
Dio mi ha messo nel cuore un desiderio di felicità. «Sappi, figlio
mio, che Dio ha mantenuto la promessa, mi ha portato nel
paese che aveva promesso ai nostri padri di darci». Qual è questo
paese? Un rapporto buono con il reale, la scoperta che la
realtà è ultimamente buona, è ultimamente positiva. Questo è
il paese che ha promesso di dare a ciascuno di noi e a ciascuno
dei nostri figli: un rapporto positivo con il reale, e cioè una
possibilità di speranza: «Si può sperare, sì, figlio mio, valeva
la pena di metterti al mondo perché c’è un bene grande che
vince su tutto». «Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica
tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da
essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto
siamo oggi» (Dt 6, 24).
Tutto il segreto, tutta la meraviglia, tutta la bellezza dell’educazione
sta in questo: che un figlio possa guardare suo
padre e sua madre e sentire che c’è una promessa di bene nella
vita di cui il padre e la madre sono testimonianza. Una promessa
che lo incoraggia, che lo tiene su, che lo fa camminare
speditamente, che lo tira fuori dalle sabbie mobili di un’incertezza
che invece è la malattia del secolo: l’incertezza, l’insicurezza,
una paura della realtà. E perciò, inevitabilmente, una
cattiveria. Quante volte ce lo siamo ricordati: non si può rimanere
a lungo tristi senza diventare cattivi, senza cedere a quell’istintività
che spinge a diventare cattivi. Che cosa dunque
aiuta l’uomo a governare la propria istintività? L’educazione!
Anni e anni di educazione paziente, cioè di un paziente lavoro
per cui uno arriva a diciott’anni e ha visto tanto bene che
gli è più facile praticare la virtù, come diceva il buon Dante:
«Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda»8.La virtù,
essere virtuosi, essere buoni è possibile se si è molto felici;
solo se si è molto felici si può provare a essere buoni. È un
lavoro lungo e paziente: il problema non è insistere con l’altro
perché sia buono, l’altro è quel che è, esattamente come.
noi; bisogna insistere nel farlo felice, bisogna insistere non
nel chiedergli questo e quello, non nelle regole che pure sono
necessarie, ma nella testimonianza di un bene grande. Perché
un cuore felice governa di più la propria istintività, governa di
più la propria capacità di male; conosce di più, governa di più
la propria libertà.
Bisogna accompagnarsi in questa testimonianza di bene.
«Figlio mio, fai quello che ti dico perché io e la mamma e i
nostri amici facciamo queste cose per essere felici come appunto
siamo oggi». Questa è la questione: poter guardare negli
occhi i propri figli e – senza bisogno di discorsi, senza bisogno
di dirlo – far vedere un bene grande, un bene possibile,
una positività vissuta. Si chiama speranza questa cosa che è
l’unica cosa che i nostri figli ci chiedono.

Franco Nembrini
DA:
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Postato da: giacabi a 22:02 | link | commenti
educazione, nembrini


Prima lezione al Corso educatori scuola La Traccia

SECONDA PREMESSA LA REALTÀ NON È MAI VERAMENTE
AFFERMATA SE NON È AFFERMATA L’ESISTENZA
DEL SUO SIGNIFICATO
***
Leggo il di una lettera che ha scritto una ragazza al suo
professore: «In questi giorni sento più che mai di subire la vita
brano
» – ciascuno pensi ai propri alunni e ai propri figli, perché
la consapevolezza di questa ragazza di sedici anni definisce
esattamente quel che vive ciascuno di noi, il dramma che vive
ciascuno di noi – «e così facendo è come se fossi già morta,
e morire è l’ultima cosa che voglio. A essere sincera questo
vuoto, questo senso di persona inutile che vive solo perché
è nata, l’ho riscontrato per la prima volta due anni fa in un
modo acuto, ma come spesso accade poi l’amarezza si è impossessata
di me per poco tempo, poi sono tornata alla solita
vita fingendo che tutto andasse bene. Il punto è che ora sono
stanca, stanca di rimandare la questione, voglio affrontare ciò
che vedo, non importa se dovrò soffrire, perché sono convinta
che la soddisfazione e la pace e la gioia che proverò quando
troverò ciò che sto cercando sarà grande. Ora mi sento
grande abbastanza da sbattere la testa contro la realtà per
quanto dura possa essere. Quando ne parlo con le persone che
mi stanno vicine, i miei amici, i miei genitori e gli adulti che
ho intorno, nella maggior parte dei casi non mi capiscono, anzi
mi dicono che non ho niente di cui lamentarmi perché ho
tutto ciò che serve: sono amata, a scuola vado bene, ho tutto
il necessario. Quante sciocchezze! E la cosa peggiore è che mi
sento incompresa, mi hanno fatto credere che questo problema
riguardi solo me e che quello che sento è frutto dei miei
complessi, e invece credo che in fondo in fondo anche loro»
cioè gli adulti, cioè noi «si sentano come me, ma sono troppo
codardi per ammetterlo e si sono arresi prima ancora di fare
qualcosa. Così continuano la loro vita vuota, senza neanche
tentare di cambiare qualche cosa, perché puoi avere i soldi,
puoi avere la fama, puoi avere successo, ma la felicità, quell’unica
cosa che ti può rendere vivo, è la cosa più difficile da
raggiungere». Poi scrive questa affermazione che individua
già una possibile soluzione, un possibile percorso. Dice, sempre
rivolgendosi al suo prof: «Mi ha colpito molto il fatto che
tu da giovane ti sia sentito come me, perché per la prima volta
mi sono sentita compresa e mi sono sentita normale. Credevo
infatti di essere pazza».

Questo è il contenuto dell’educazione:
questo senso divuoto che chiede di essere colmato, questa tensione alla positività
delle cose è il contenuto dell’educazione

 

Quando nella

prima premessa don Giussani dice che l’educazione è introduzione
alla realtà totale, aggiunge: che cosa vuol dire che l’educazione
è introduzione alla realtà totale? Vuol dire che l’educazione
è introduzione alla realtà affermandone il senso, affermandone
il significato, affermandone una possibilità di bene.
Tutto il nostro compito di adulti sta in questo. Il termine
«educazione» può essere identificato con una parola che indica

già un metodo: «testimonianza». L’educatore non ha altro

da fare se non testimoniare, rendere conto nei fatti – non solo
nelle parole – di un’esperienza di positività. L’educazione è
una testimonianza. Quel che i nostri figli hanno bisogno di vedere,
quel che i nostri alunni hanno bisogno di vedere, è esattamente
questo: un adulto che sa ciò che nella vita bisogna sapere.

Ciò che nella vita bisogna sapere non è la fisica, non è
la matematica, non è il greco. Immagino che qualcuno tra di
voi non abbia fatto studi particolarmente elevati. Quel che dà
la statura della personalità, quel che dice del valore dell’uomo
non è che conosca il greco e il latino. La statura dell’uomo, il
valore della persona, è dato dalla certezza su cui riposa la sua
giornata, la sua vita, la sua decisione.
Questo si aspettano i nostri

figli da noi. Di questo hanno bisogno; e in questo senso al-
lora diciamo subito la questione fondamentale: il problema
non sono i figli.
Se è vero quel che ho cercato di dire, che i figli vengono al
mondo come Dio comanda, vengono al mondo con ciò che è
davvero necessario, tutto il problema dell’educazione è spostato
su di noi. Il problema dell’educazione sono gli adulti,
non i ragazzi, non i bambini. Il mestiere del bambino è guardare.
Non lo sanno, non lo sanno quando hanno un anno,
quando sono nel grembo materno; ma credo che fin dal grembo
materno i nostri figli ci guardino, sempre, con la coda dell’occhio.
Ci guardano sempre. Sembra che facciano altro,
sembra che giochino fra loro, che facciano i capricci, sembra
che mangino, che dormano, che siano all’asilo, che vadano a
scuola; ma l’attività vera che fanno è guardare: guardano sempre
l’adulto che hanno di fronte, prima il genitore e poi mano
a mano le altre figure di adulti che incontrano – cioè la maestra,
gli insegnanti – e poi l’ambiente circostante.Allora capite
in che senso tutto il problema è spostato su di noi: parlare
di educazione è parlare di adulti, non è parlare dei bambini.

Certo, non sono così ingenuo da pensare che non abbia valore
la conoscenza di una serie di dinamiche psicologiche, capisco
bene che c’è da parlare anche del bambino, del suo percorso;
ma l’educazione ha come protagonista, ha come soggetto
attivo l’adulto, perché è lì che è puntato lo sguardo del
bambino, è lì che è puntato lo sguardo dell’alunno.
Seconda premessa, dunque: la realtà non è mai veramente
affermata se non è affermato il suo significato. Che cosa vuol
dire? Vuol dire che la responsabilità dell’adulto è rispondere
in qualche modo a quella domanda di bene, a quella domanda
di senso, di felicità. Cioè vuol dire che l’educazione è una testimonianza;
e questo ha alcune conseguenze importanti. Se è
così l’educazione non è questione di discorsi, le parole in edu-
cazione sono assolutamente secondarie. Noi ci fidiamo molto
dei nostri discorsi, delle nostre prediche, delle nostre raccomandazioni,
e invece le parole in educazione contano pochissimo;
a volte servono – raramente – per descrivere un’esperienza
che si fa, ma mai la possono sostituire. L’educazione è
la testimonianza di un bene che si vive.

FRANCO NEMBRINI

Postato da: giacabi a 17:43 | link | commenti
educazione, nembrini


Prima lezione al Corso educatori scuola La Traccia
Calcinate (Bg), 5 febbraio 2010
È un lavoro impegnativo quello che ci apprestiamo a fare. Il
testo che intendiamo affrontare, Il rischio educativo1, non è
facile. Quella che propongo vuol essere solo una breve presentazione:
vorrei lanciare delle suggestioni, fissare alcune
parole che mi sembrano decisive e fondamentali per capire
come la questione educativa sia proposta da don Giussani.
C’è una premessa: per capirlo, soprattutto per entrare nella
prima parte dove lui propone le due grandi premesse, c’è bisogno
di un atto di umiltà. In un altro testo don Giussani, ricordando
un filosofo, dice: «Gli uomini raramente imparano
ciò che credono già di sapere»2. Perciò, per capire lo sviluppo,
le conseguenze, la dinamica di quella che chiamiamo educazione,
dobbiamo fare lo sforzo di riguardare le cose dall’inizio.
Ci vuole un atto di coraggio, necessario per capire i
termini della sfida che il testo presenta, la proposta che ci fa,
la radice del problema; perché, come sappiamo, l’educazione
è veramente «roba da uomini».
L’educazione infatti si identifica con il rapporto tra gli uomini,
l’educazione è ciò che fa del rapporto tra uomini un rap-
porto davvero umano: quel che fa la differenza tra l’uomo e
l’animale è proprio l’educazione, cioè l’introduzione alla realtà:
l’accompagnamento di un bambino, di un figlio d’uomo,
verso il suo destino, verso il reale, verso il significato delle
cose. L’educazione è cosa che riguarda tutti gli uomini e tutte
le donne. Certo, in particolare è il mestiere dei genitori e, in
altro modo, il mestiere dell’insegnante; ma è prima di tutto il
mestiere dell’uomo. L’uomo per come è fatto e ha relazione
con altri uomini, educa: l’uomo educa sempre. Quello che
facciamo in questo incontro è educarci, quando ci vediamo
per strada ci educhiamo, quando andiamo al lavoro ci educhiamo
ed educhiamo gli altri che ci guardano. Ci vuole questo
coraggio, questa lealtà, per provare a guardare le cose nella
loro struttura originale.
Ho la presunzione dunque di offrire un’introduzione al testo;
la densità stessa del quale mi costringe ad andare quasi
per titoli: cercherò di fare degli esempi e di commentare alcune
pagine, alcuni brani che leggerò, perché ciascuno possa
portare a casa alcune idee fondamentali, alcune parole chiave.
***
PRIMA PREMESSA
L’EDUCAZIONE È INTRODUZIONE ALLA REALTÀ
Partiamo dall’inizio, da una constatazione assolutamente elementare.
Potrebbe apparire ovvia, ma non lo è; come ogni cosa
veramente fondamentale che spesso è data per nota, per conosciuta,
e invece è proprio una cosa che abbiamo bisogno di
riguardare e di recuperare sempre. Mi verrebbe quasi da cominciare
con una domanda filosofica: che cos’è che abbiamo
intorno? Chi siamo? Che cosa siamo? Quando veniamo al
mondo, quando il bambino esce dal ventre di sua madre,
quando un uomo entra nella realtà, che cosa succede? Che co-
sa constatiamo? O, da un altro punto di vista, la domanda potrebbe
essere: che cosa ha fatto Dio quando ha creato il mondo?
Che cosa ha fatto Dio quando ha dato inizio alla creazione?
Ha fatto due cose – e la fedeltà di Dio si vede da questo,
Dio è continuamente ed eternamente creatore perché continua
a fare queste due cose che ha fatto fin dall’inizio –: la realtà,
le cose, l’essere, il mondo, l’universo così come lo guardiamo;
e l’uomo, il cuore dell’uomo
. Bene, l’educazione ha a che
fare con questo, ha a che fare con questo uomo. Immaginate
proprio il bambino che esce dal ventre di sua madre, quando
voi mariti lo avete tenuto in braccio all’ospedale appena vostra
moglie ha partorito, quel bambino lì è entrato nel mondo
dotato dalla natura, cioè da Dio, di queste due cose: la realtà
che ha intorno e sé stesso.Quando don Giussani nella prima
premessa dice che l’educazione è introduzione alla realtà3,
parla esattamente di questo: di che cosa siamo responsabili,
come genitori e come insegnanti? Dell’incontro di questo
bambino, di questo figlio con il reale, con le cose.
La realtà questo bambino ha il diritto di incontrarla intera,
cioè secondo tutte le sue dimensioni, per tutto quello che è,
per tutto quello che rappresenta, per tutto quello che gli suscita:
è innata in lui la necessità di incontrare e di abbracciare
tutta la realtà. Io credo che questa necessità ci sia da quando
Dio gli mette dentro l’anima, cioè dal concepimento, tanto
che gli esperti dicono che perfino nei nove mesi che passa nel
grembo di sua madre il bimbo comincia a costruire questo
rapporto con la realtà, comincia a strutturarsi, anche se in modo
completamente inconsapevole, l’esigenza di un rapporto
con le cose, di un rapporto con la realtà.Allora, quando don
Giussani nella prima premessa dice che l’educazione è l’introduzione
alla realtà totale, intende dire questo: la vita intera è
questa progressiva, mai finita – la fine sarà quando vedremo
il reale e ciò che lo fonda, cioè Dio stesso, faccia a faccia, Gesù
come Egli è, come dice san Paolo – avventura educativa;
passassero cent’anni o ne passassero mille, non finisce mai,
proprio perché è l’entrare passo dopo passo dentro questo mistero
che è la realtà.
Ma si entra dotati di che cosa? Armati di che cosa? Forti di
che cosa? Del nostro cuore; cioè di quel desiderio insopprimibile
che abbiamo di bene, l’esigenza insopprimibile di senso.
Per usare una parola che tornerà molte volte: dotati della nostra
natura; dotati da Dio di questo desiderio di bene, di felicità,
di questa tensione a poter abbracciare le cose, a conoscere
le cose, ad amarle e servirle.Come diceva l’antica formula
del catechismo: perché Dio ci ha creati? I più vecchi tra noi la
ricorderanno: «Per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa
vita e poterLo godere nell’altra in Paradiso».
Conoscere, amare, servire. Questa è l’insopprimibile esigenza
del cuore dell’uomo, di ogni uomo che venga nel mondo.
Conoscere la verità, sapere le cose, sapere perché le cose
esistono, sapere quale sia il senso delle cose; ma non solo saperlo
intellettualmente: non basta all’uomo conoscere la realtà,
ha un’altra esigenza, quella di poterla abbracciare, di potere
amare la verità. Perché l’uomo è fatto di ragione ma anche
di sentimenti, di affezione, di capacità di attaccarsi alle cose;
è esigenza di conoscere il vero ma anche di amare il vero, di
abbracciare il reale e perciò – terza parola – è esigenza che la
vita sia una cosa positiva, sia una bellezza. In termini teologici:
che la vita sia piena di speranza.

Nei termini del catechismo, nei termini dell’esperienza cristiana,
queste esigenze elementari che abbiamo, condensabili
nella parola «felicità», si chiamano «fede», «carità» e «speranza
». Sono le tre virtù teologali, le tre caratteristiche di Dio,
le tre facce di Dio. Sono le tre persone della Trinità: Padre, Fi-
glio e Spirito Santo. Siccome siamo fatti a immagine e somiglianza
di Dio, con tutto il tradimento e con tutto il male che
possiamo fare, che possiamo portarci addosso, siamo insopprimibilmente
fatti così: esigenza di verità, esigenza di bene
ed esigenza di bellezza. La prima cosa che dobbiamo dire
dunque è: se l’educazione è introduzione alla realtà vuol dire
che l’educazione è accompagnamento di un bambino, mano a
mano che diventa grande, a sentire soddisfatto questo desiderio,
a rendersene cosciente e a verificarlo nella vita. Questo è
ciò che facciamo tutti, tutti i giorni.
In questo senso dicevo che bisogna ripetersi le cose che
pensiamo di conoscere, perché proprio le cose che apparentemente
sono più ovvie sono quelle a cui dobbiamo richiamarci
di più, soprattutto in un mondo che le nega in modo sistematico
e organizzato, scientificamente determinato. Dobbiamo aiutarci
a ricordare come siamo fatti e perciò come sono fatti i nostri
figli. Anche il Papa l’ha detto in un memorabile discorso
sull’educazione a Roma alcuni anni fa, ha usato questa espressione:
i nostri figli vengono al mondo come siamo venuti al
mondo noi, e i nostri nonni, i nostri bisnonni, Adamo ed Eva,
cento anni fa, mille anni fa4. Sono come devono essere, nascono
come Dio comanda, cioè con un cuore fatto per la felicità.
L’educazione sarà introduzione alla realtà, cioè l’accompagnamento,
l’aiuto che diamo ai nostri figli a camminare dentro la
vita con sicurezza, brandendo, prendendo sul serio il proprio
cuore, questo desiderio di felicità che li caratterizza e che, diciamolo
subito, è così spesso dimenticato, tradito proprio dalla
cultura in cui siamo, dal mondo in cui siamo.

dal primo capitolo

Postato da: giacabi a 10:18 | link | commenti (2)
educazione, nembrini



La scuola che parla al futuro

Meeting Rimin


***
Grazie a tutti, buongiorno, farò un intervento poco politically correct e lo faccio prendendo
spunto da una lettera che ho ricevuto, che un amico insegnante, uno tra voi, mi ha dato
proprio in questi giorni. Mi è sembrato il modo più semplice di render conto del tentativo
che migliaia di insegnanti nella scuola italiana fanno ogni giorno. E’ una lettera che potrei
aver ricevuto io, potrebbe aver ricevuto ciascuno di voi che è qui. Anzi so per certo che
tutti gli insegnanti che sono qui e tantissimi altri custodiscono lettere come queste, come la
cosa più gelosa della loro vita, potremmo alzarci in tanti e tirar fuori dal taschino, dopo
tanti anni di insegnamento, lettere come questa.
Che ho pensato di leggere perché mi è sembrata descrittiva proprio di quello che mi ha
chiesto il presidente Scholz, provare a dar ragione, in pochissimi minuti, di una esperienza
che c’è, di che cosa sia l’educazione tra noi e per noi, e per tantissimi altri insegnanti, tra
l’altro lo voglio proprio dire, di destra o di sinistra di centro. Cadute le barriere ideologiche,
resta una grande quantità di insegnanti, che partendo anche da posizioni culturali diverse,
sfidano la propria responsabilità e la libertà degli alunni a tentare insieme un cammino
come quello che qui è descritto nella lettera di una classe che saluta il proprio insegnante
che l’anno successivo non avrà più, quindi una lettera scritta alla fine di questo anno
scolastico.
Caro prof. come prima cosa vorremmo ringraziarla di tutto. Grazie di averci fatto capire
che ciò che studiamo deve essere messo in discussione” - e cioè che l’insegnamento sia
un risveglio della criticità dei nostri ragazz
i - “per averci fatto vedere che ciò che studiamo
deve essere messo in discussione e guardato in profondità, grazie di non essere stato né
oggettivo, né imparziale”
- alla faccia della falsa neutralità che ha afflitto la scuola italiana
per decenni, perché invece l’educazione è il porsi di un adulto con un ipotesi di significato,

come è stato detto, è questa sola risveglia la libertà dei nostri figli e dei nostri ragazzi -
“grazie di non essere stato né oggettivo, né imparziale, perché così abbiamo imparato a
mettere in gioco la nostra responsabilità e il nostro senso critico e riusciremo a crescere.
Grazie di non aver nascosto il suo affetto per noi”
- perché se l’avvenimento è sempre una
conoscenza, la conoscenza è sempre un rapporto, è sempre un amore al destino dell’altro

- “Grazie di non aver nascosto il suo affetto per noi, distruggendo quel muro di inimicizia
che sempre divide alunni e insegnanti, grazie di averci mostrato le idee e sentimenti
nascosti tra i versi di una poesia, facendoli entrare nella nostra vita, permettendoci così di
viverla con una nuova responsabilità
” - il ministro deve far finta di non sentire “Grazie di
non aver rispettato i programmi
”, ma a me piace troppo, non ho voluto censurare questa
bellissima affermazione, perché poi in realtà si capisce che questi i programmi li ha fatti,
eccome! - “grazie di non aver rispettato i programmi e di averci guidato in un percorso
diverso, in questo senso lei è stato per noi il nostro Virgilio, senza il quale Dante non
avrebbe mai nemmeno potuto cominciare il suo viaggio. Ora è arrivato il momento di
separarci ed è proprio a questo punto del cammino che si ‘parrà la nostra nobilitat
e’” - cioè
ragazzi che dicono non c’è più, tocca a noi, tocca alla nostra responsabilità. E poi l’ultima
affermazione che mi ha commosso - “Lei ci ha dato gli strumenti per vivere in modo
diverso, per guardare il mondo con occhi più attenti”
- lei ci ha dato gli strumenti, come non
ricordare il grande insegnamento di don Giussani: “non sono venuto a convincervi delle
mie idee, ma offrivi gli strumenti per verificare voi se le mie idee sono giuste
”.
“Lei ci ha dato gli strumenti per vivere in modo diverso, per guardare il mondo con occhi
più attenti, ora tocca a noi trovare nelle profondità del nostro cuore l’ardire e la franchezza
per entrare nel ‘cammino alto e silvestro’”
, sono tutte citazioni di Dante naturalmente.
“Grazie di cuore, la sua quarta I”.
E fatemi dire una battuta su questa ‘la sua quarta I’, perché questi ragazzi hanno potuto
diventare così perché si sono sentiti di qualcuno, come disse, non lo dimenticherò mai,
quel bambino di sei anni, che aveva cominciato la prima elementare e stava male, non
mangiava, non dormiva, piangeva, bisognava trascinarlo a scuola, finché dopo qualche
mese i genitori disperati hanno provato a cambiare scuola, ed improvvisamente questo
bambino sta bene, è contento, si alza prima del tempo per andare a scuola e al papà che
gli chiede che cosa è successo perché adesso è contento, il bambino di sei anni risponde:
“papà, adesso io sono di qualcuno”, sono di qualcuno. Che i nostri figli ed i nostri ragazzi
possano sentirsi di qualcuno davanti ad una proposta, quale che sia, ma una proposta di
un adulto che li sfida, che metta in moto la loro libertà, la loro intelligenza, la loro
responsabilità.

Non so questa classe dove andrà, non so che fine farà, ma certamente si è messa a
correre incontro alla vita con un coraggio, con una baldanza che non avevano prima ed è
la cosa di cui ringraziano i loro insegnanti.
Bene ministro, io sono qui a dirle che tra noi migliaia di persone, centinaia di persone,
hanno lettere così, hanno visto accadere l’educazione così, come un avvenimento,
veramente come una conoscenza, ed è la prima osservazione che voglio fare.
Se l’educazione è questa, tranquilli è sempre possibile.
Prima e oltre ogni riforma, dentro ogni situazione, se l’educazione è questo avvenimento
non ce la porta via nessuno, un adulto così non lo frega nessuno e quindi tranquilli, andare
avanti nel nostro mestiere che è il più bello del mondo.
Gli ebrei facevano scuola ai loro bambini ad Auschwitz, sotto il potere comunista santi
preti e grandi intellettuali hanno educato un popolo attraverso il Samizdat, lo dico per dire
che neanche nelle peggiori condizioni l’adulto viene meno alla sua responsabilità di
educatore.

Detto questo, però, e vengo al secondo punto, ci sono delle condizioni che la favoriscono
ed è esattamente il compito della politica. Vorrei che ci fosse qui, a raccontarci, il mio
amico Chris Bacich di New York, il nostro amico insegnante, che mi ha raccontato delle
cose che faccio perfino fatica a ripetervi, perché non mi sembrano vere, però devo credere
che siano vere, perché me le ha raccontate così, che in America, per aver ricevuto questa
lettera, il nostro amico insegnante potrebbe andare in galera, potrebbe andare in galera
perché è così teorizzato che l’insegnamento non è un rapporto tra libertà che si
incontrano, che diventa reato farlo. Diventa reato andare a mangiare una pizza con i tuoi
alunni, diventa reato accostare un alunno in corridoio, con fare sospetto.
E lo stato di New York ha reso obbligatorio per tutte le scuole, paritarie o statali che siano,
un corso per i bambini dai sei agli otto anni, il cui il titolo è: ‘Impariamo a diffidare degli
adulti’. Allora il mondo sta andando così, siamo ad un bivio, dovremo, credo, difendere coi
denti la natura dell’uomo, la grandezza dell’uomo, che sta tutta nella educazione, sta tutta
in quello che ho appena descritto. E Chris, quando mi ha raccontato queste cose, ad un
certo punto, mi ha fatto venire i brividi, mi ha detto: “oh non pensare, questo è il vostro
futuro”.

No non può essere, io lotterò fino al sangue, fino alla morte, perché non sia il nostro
futuro.
Il nostro futuro voglio che sia il presente di questa lettera, per tutti, non per me o per noi,
per tutti.
E allora, lo dico agli insegnanti, lo dico a chi tra noi, secondo me equivocando un po’,
pensa che il problema educativo si risolva nel rapporto con i suoi alunni: non è più
sufficiente, dobbiamo occuparci di politica, dobbiamo occuparci di riforme, perché si può
andare dall’altra parte, si può andare nella direzione dell’America, capite, dove in fondo
l’educazione è un reato.
E dobbiamo difenderla perciò questa esperienza educativa che c’è. Difenderla con
strumenti adeguati, con riforme adeguate, con richieste adeguate alla politica.
Come mi ha insegnato il mio grande amico Mario Mauro, bisogna occuparsi di politica
perché è la politica che si occupa di te, è inutile che pensi che la lasci fuori dalla porta
dell’aula, si occuperà di te. Fino a cercare di impedirti quello a cui tieni di più, come padre,
come madre, come insegnante.
Allora, terza ed ultima cosa. Le richieste che facciamo alla politica: noi chiediamo da
sempre, umili discepoli di don Giussani, di chi ha gridato per primo ‘fateci andare in giro
nudi ma lasciateci educare’, noi chiediamo che la politica si occupi di scuola, anzi se ne
occupi come una emergenza prioritaria, non la occupi, se ne occupi, che sono due cose
un filino diverse. Se ne occupi, cioè ci lasci fare il nostro mestiere di insegnanti e di
genitori; chiediamo alla politica, come verrà dettagliato poi nelle proposte che sentiremo,
una grande iniezione di libertà. Perché il nostro paese è fermo a quel liberticida di
Napoleone, dal punto di vista della concezione della scuola. La libertà, da rivendicare
ormai con chiarezza per tutti, non è la difesa di una nicchia, non è la difesa della scuola
privata, è la difesa della libertà tout-court, la difesa della libertà di ogni scuola, di tutti,
dell’intero sistema scolastico, chiamiamola autonomia, poi ci sono i termini tecnici per
descriverla e non è il mio compito oggi, ma quel che chiediamo alla politica è di custodire
questa ricchezza, questa tradizione, questa dedizione di tanti ancora tra noi. Custodirla,
difenderla, agevolarla e renderla possibile.

Alla politica chiediamo un po’ di libertà, un po’ di libertà per noi e per tutti, per ogni scuola
e per tutte le scuole.
Grazie.
FRANCO NEMBRINI:
28 ago 2009
DA:www.meetingrimini.org/?id=673&item=4859


Postato da: giacabi a 08:33 | link | commenti
educazione, nembrini

DA:Quotidiano Meeting 2011 - sabato 27 agosto
E voi, da chi siete educati?
***

 
«Fin da quando nascono, i figli di mestiere
guardano. Guardano sempre».
In uno degli
incontri più affollati del Meeting di ieri
Franco Nembrini ha cominciato così, presentando
con don Stefano Alberto il suo «Di padre
in figlio. Conversazioni sul rischio di educare
» (edizioni Ares, prefazione del cardinale
Camillo Ruini).

Nembrini, preside in una scuola privata di
Bergamo, ha preso di mira il «grigio pragmatismo
della vita quotidiana»: un pragmatismo
che inquina anche le famiglie cattoliche,
trasformando l’educazione non più in una
testimonianza di vita che si propone, ma
in un rincorrere obiettivi fini a se stessi. Il
suo testo è la trascrizione di incontri con insegnanti,
genitori, studenti, avvenuti in questi
ultimi anni, tesi a documentare la biunivocità
del rapporto educativo: «Educare è
l’esser figli dei propri figli ha commentato
– secondo la geniale definizione che Dante
ha dato della Madonna nel XXXIII Canto
del Paradiso. Non è un processo unidirezionale
l’educazione, ma può accadere a chiunque».
Secondo Nembrini, la situazione attuale è
caratterizzata da una serie strutturale di debolezze
e di assenze: di ipotesi, di padri, di
realtà, tali da generare incertezza su tutto.
Ma c’è anche chi costruisce: se stesso e i
giovani. Il titolo del libro ha avuto una genesi
contrastata. Nembrini infatti era convinto
di altre due ipotesi: «Ho visto educare» (perché
«educare non è insegnare qualcosa a
qualcuno, deve essere qualcosa in azione,
qualcosa che si vede») oppure «Lasciateli
stare» (un appello alle madri, come ha ironizzato
Nembrini).
«Educare è partecipare alla manifestazione
della verità», ha proseguito l’autore: «È
incontrare qualcuno e sentire il proprio io risorgere,
sentirsi incuriositi e attratti dall’origine
di quello che vedi».
Come nel caso di quella ragazza che, vedendo
come vivono i suoi genitori, ha voluto
scoprire quale fosse l’origine del loro cambiamento.
«Perché cambiano anche gli adulti:
è un legame, l’educazione, un rapporto
nel quale o c’è la misericordia verso l’altro,
oppure fallisce. La misericordia è amare l’altro
prima che esso cambi, senza imporgli la
gabbia dei nostri pur buoni progetti».
Nembrini ha poi descritto i principali “errori”
commessi, anche per malinteso affetto,
dai genitori: «I figli non hanno bisogno di
genitori opprimenti né di padri-amici, ma di
adulti che li lascino andare e che restino a
garantire una casa in cui si può sempre tornare,
proprio come nella parabola del figliol
prodigo».

Don Stefano Alberto ha poi richiamato
un’immagine del libro di Nembrini, quella
del padre che la sera si inginocchiava e recitava
il Padre Nostro. Che ha fatto tornare in
mente al sacerdote altri due grandi inginocchiati:
il Papa in ginocchio a Madrid e don
Giussani, il 30 maggio del 1998, dolorante,
inchinato come un cavaliere antico davanti a
Giovanni Paolo II. «Non ci ha mai raccontato
quello che si sono detti lui e il Papa, ma si
vedeva la presenza viva di Cristo. Educare è
vedere qualcuno in azione, è vita che si comunica.
Come diceva don Giussani è “introduzione
alla realtà totale”: introduzione, non
spiegazione».
L’incontro si è chiuso non con una formula
ma con una domanda girata a insegnanti e
genitori, presenti in larga maggioranza all’incontro:
«Da chi vi lasciate generare voi,
oggi, per essere capaci di educare a vostra
volta?».

Q.M.

Postato da: giacabi a 07:03 | link | commenti
educazione, nembrini


EDUCAZIONE/

Ci sono ancora i padri capaci
di educare al senso della vita?
***

Franco Nembrini

da:www.ilsussidiario.net/

venerdì 26 agosto 2011
La tragedia del nostro tempo è che non c’è più educazione. Siamo forse la prima generazione di adulti che vive in modo così drammatico il problema della tradizione, cioè della consegna da una generazione all’altra di un patrimonio di conoscenze, di valori, di certezze, di positività, di un’idea buona della vita. Non è più così scontato, non è più così facile che avvenga quel miracolo che sempre è stata l’educazione e che ha garantito, nel bene e nel male, anche in momenti terribili della storia, che il mondo andasse avanti. Evidentemente ci sono delle ragioni. Per esempio, è stata troppo sistematicamente distrutta, da parte di una certa cultura, l’idea del padre. Perché è attorno a questo nodo che si gioca la partita dell’educazione: l’educazione c’è se in primo luogo c’è l’adulto.
Una certa cultura prima ha distrutto l’idea stessa di Dio, di una Paternità grande a cui l’uomo appartiene o è desideroso di appartenere; ma così si è tarlata la certezza stessa dell’uomo di avere qualche cosa di buono e di intelligente da dire ai propri figli, in casa sua. Il problema è il cinismo di una cultura che ha distrutto l’unica cosa di cui i nostri figli hanno bisogno: sapere a chi appartengono, cioè avere un padre e una madre. Sapere di chi sono, perché è l’unica cosa che li educa e li preserva, anche psicologicamente, da tutte le patologie da cui sono ormai massacrati. Ma perché un figlio sappia a chi appartiene, bisogna che anche il padre sappia a chi appartiene. Io da bambino ho questo ricordo vivo di mio padre: quando andavamo a letto a dormire la sera veniva a farci dire le preghiere: entrava, s’inginocchiava in mezzo alla stanza e cominciava: “Padre nostro che sei cieli…”.
Mio padre era uno che non faceva tante prediche, parlava pochissimo; ci ha tirati grandi semplicemente invitandoci, in modo sempre implicito, a guardare quello che guardava lui. Era come se dicesse: “Io e voi, cari figli, siamo sulla stessa barca, e l’unico problema che avete è andare nella giusta direzione. Io ci sto provando: così si vive bene! Venitemi dietro che probabilmente diventate grandi anche voi”. E io lo guardavo e capivo che in lui la vita era una saggezza. Lui guardava le cose e le conosceva: lo capivi da come si muoveva, da come stava, da come cantava, da come giocava a carte, da come serviva a tavola noi figli e tutti gli amici che sono venuti dopo.
Era uno che potevi scommetterci che sapeva le cose, le conosceva, che avrebbe potuto spiegarti che cos’è il bene e che cos’è il male, che cos’è la gioia, che cos’è il dolore, perché si muore, perché si fa fatica, perché bisogna vivere e che cosa ci aspetta alla fine. Ed esemplificava con la vita che cosa vuol dire muoversi in pace con se stessi e col mondo, senza dire no a nessuna delle responsabilità, delle provocazioni che vengono dalla realtà. Era uno che a guardarlo, a me da bambino veniva da dire: “Io da grande voglio essere così”. Se poi ci mettete insieme la mia mamma! Figlia di contadini, praticamente sempre chiusa in casa – con dieci figli! -; ma quando è morta abbiamo nel suo armadio trovato una scatola dove c’era scritto: “Se qualcuno trova queste cose, non le butti via perché sono la Storia dentro la storia del mondo”.
C’erano dentro ritagli di giornale che si riferivano alla storia della Chiesa: Papa Giovanni, la beatificazione di questo o di quello… Contadina e aveva la terza elementare, ma aveva una coscienza così delle cose. Io sono diventato grande, grazie a Dio, con due genitori così; per cui mi è sempre stato facile capire che cos’è l’educazione: non è una serie di prediche, non è una preoccupazione da avere. È un uomo che vive. L’educazione non è mai un problema dei giovani, dei figli, degli alunni. È sempre un problema tuo. Cioè l’educazione è la capacità che hai o non hai di rendere testimonianza tu; chiunque tu sia, dovunque tu sia è la testimonianza di una certezza e di una positività che i figli possono guardare. Basta questo.

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educazione, nembrini

domenica, 27 settembre 2009

Il desiderio
***
   << Qualcuno sostiene che etimologicamente la parola desiderio venga da de-sidera: de è il complemento di argomento in latino, che introduce l'argomento di cui si parla, sidera sono le stelle. La parola desiderio vuol dire  "tutto ciò che muove" - perchè anche il desiderio di questo bicchiere d'acqua è un desiderio - tutti i tuoi desideri (la donna, il bene, i soldi, la macchina, il mangiare, il bere, il dormire, lo star bene) tu non lo sai, ma sono in realtà movimenti verso le stelle, sono la dimostrazione, il mostrarsi dell'unico vero desiderio che ti muove, che è quello di un destino buono di una vita buona, vera, giusta, bella: della felicità. Il desiderio di questo bicchiere d'acqua ha scritto nella parola desiderio che c'entrano le stelle. Questa è l'idea che ha il medievale, è l'idea che ha l'uomo religioso.
Che tutti i nostri desideri, e, perciò, tutti i nostri movimenti, i moti del cuore, quello che vi dico questa sera, quello che ti attrae della tua donna, i tuoi figli, tutto, tutto si muove perchè desidera tornare all'Essere, a Dio. >>

(tratto da "Alla ricerca dell'io perduto - Conversazioni sull'Inferno" di Franco Nembrini)
grazie a : http://sofijeja.spaces.live.com/blog/


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desiderio, nembrini

martedì, 23 settembre 2008

L’educazione
è questa misericordia in atto
 ***
« Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho avuto lì l’idea che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia carità, sia quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non ti chiede prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì dove sei tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi,  col tuo temperamento, con i tuoi peccati.
Vedere  Giussani che senza paura, senza venir meno a niente di se stesso, regalava Carlo Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco, mi fece venire questa idea: che l’educazione è questa misericordia in atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove siamo. Insomma mi venne il sospetto che quell’uomo avesse a che fare con Dio, perché non mi avrebbe mai chiesto di cambiare prima di volermi bene: mi voleva bene così come ero.
 E’ la natura stessa dell’amore. Gratuità assoluta. “In questo sta l’amore: che Dio ci ha amati per primo, mentre eravamo ancora peccatori”. »
Testimonianza di Franco Nembrini
Convegno Ecclesiale Diocesano

GESU’ E’ IL SIGNORE
EDUCARE ALLA FEDE, ALLA SEQUELA, ALLA TESTIMONIANZA

Basilica di San Giovanni in Laterano, 11-12 e 14 giugno 2007


Postato da: giacabi a 20:53 | link | commenti
educazione, nembrini

lunedì, 04 febbraio 2008

L’educazione
***
L'educazione non poggia su tecniche psicologiche o pedagogiche o sociologiche. È l'offerta della propria vita alla vita dell'altro. È l'offerta di una proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente che ha le sue radici nella esperienza lieta e certa del testimone.
 Franco Nembrini


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educazione, nembrini

mercoledì, 23 gennaio 2008

Il Significato del nostro esistere
***
Stare al mondo così, stare al mondo come il tuo cane e il tuo gatto, cioè  senza il problema del rapporto con le stellesenza il  problema del rapporto con il destino, senza il problema del senso delle cose, di una felicità vera, senza il problema di conoscere la verità, di poterla in qualche modo riconoscere ed amare e, persino, costruire come operosità. Senza questo la vita dell'uomo è morte, non è vita, è il contrario della vita: «Tant'è amara che poco è più morte».”
Franco Nembrini da:Alla ricerca dell’io perduto1 Itaca

Postato da: giacabi a 20:59 | link | commenti
senso religioso, nembrini

sabato, 23 giugno 2007

GESU’ E’ IL SIGNORE
 EDUCARE ALLA FEDE,
ALLA SEQUELA, ALLA TESTIMONIANZA
***
Diocesi di Roma
Convegno Ecclesiale Diocesano Basilica di San Giovanni in Laterano, 11-12 e 14 giugno 2007
Contributo di Franco Nembrini (uno dei pochi che riesce ad entrare nel mio cuore)
(in corsivo le frasi trascritte, aggiunte al testo consegnato)
A. L’EDUCAZIONE COME INTRODUZIONE ALLA REALTA’
Dovendo parlare di educazione posso solo raccontarvi alcuni episodi, alcuni fatti attraverso i quali mi è parso di vedere che cosa fosse l’educazione, ma con una premessa, e cioè che per poter parlare della mia esperienza di padre e di insegnante devo partire dalla mia esperienza di figlio, perché non posso non riconoscere che io ho visto per la prima volta cosa fosse l’educazione con mio papà e mia mamma.
Sono il quarto di dieci figli e l’immagine che ho del mio povero papà è quando, nella stanzetta dove dormivamo noi sette figli maschi (siamo sette maschi e tre femmine), si inginocchiava in mezzo alla stanza e incominciava a dire il Padre Nostro. Questo era mio padre: uno che guardava una cosa più grande di lui e ci invitava ad andargli dietro senza bisogno di dircelo.
Era uno che, quando sono diventato più grande e tornavo a casa a tarda ora per i mille impegni che c’erano, lo trovavo sempre in piedi, perché non è mai in vita sua andato a letto se non dopo aver chiuso la porta alle spalle dell’ultimo figlio rientrato, e quando alle due o alle tre di notte arrivavo a casa, e per non farlo arrabbiare troppo gli dicevo: “Dai, papà, diciamo Compieta insieme” lui mi rispondeva: “Vai a letto, cretino, che domani mattina devi lavorare: dico io Compieta per te”, e si fermava e diceva la quarta o la quinta volta Compieta, la diceva per me, perché io potessi andare a riposare.
Il giorno prima di morire, paralizzato a letto, completamente afono, gli ho chiesto come stava, e ha risposto allo stesso modo con cui aveva risposto per tutta la vita: “farès pecat a lamentam” che in italiano significa “Tutto è Grazia”. Mio padre era così.
E così era mia mamma, che è morta ormai tanti anni fa (nell’85), una donna molto semplice, figlia di contadini, che aveva tirato su dieci figli e che morì confidandomi: “Mi dispiace di morire, perché adesso che siete un po’ più grandi, avrei potuto fare un po’ di bene”.
So bene che mi potreste obiettare: “roba da albero degli zoccoli, fatti e atteggiamenti di un mondo che non c’è più” e l’osservazione sarebbe assolutamente ragionevole.
Ma io vi ho parlato dei miei genitori perché credo di aver imparato da loro un criterio fondamentale, che il tempo ha mostrato come assolutamente decisivo nell’itinerario educativo. E questo criterio lo potrei definire così: che l’educazione è un problema di  testimonianza. Non è un problema dei bambini o dei ragazzi o dei giovani. Se sono così allo sbando oggi non è per colpa loro (o meglio, è anche per colpa loro) ma la prima responsabilità è la nostra.
In educazione il problema non è la generazione dei figli ma la generazione dei padri, non la generazione dei discepoli ma quella dei maestri.
In altre parole: i figli vengono al mondo, esattamente come 100 o 1000 anni fa, con lo stesso cuore, con lo stesso desiderio, con la stessa ragione di sempre, caratterizzati cioè da un insopprimibile desiderio di Verità, di Bene, di Bellezza. Cioè con il desiderio di essere felici.
Ma quali padri, quali maestri, quali testimoni hanno di fronte?
Questa cosa mi è sembrato di capirla in modo assolutamente radicale quando un pomeriggio me ne stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio Stefano, che poteva avere 4 o 5 anni, correggendo i temi come ogni insegnante di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non avevo notato che Stefano si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio mi stava guardando. Non chiedeva nulla di particolare, non aveva bisogno di nulla, solo osservava suo padre al lavoro. Ricordo che quel giorno, nell’incrociare lo sguardo di mio figlio, mi folgorò questa impressione: che lo sguardo di mio figlio contenesse una domanda assolutamente radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se guardandomi chiedesse: papà assicurami che valeva la pena venire al mondo.
Questa, mi sono detto, è la domanda dell’educazione e da quel momento non ho più potuto neanche entrare in classe e incrociare lo sguardo dei miei alunni e non sentirmi rivolta questa domanda: quale speranza ti sostiene? Perché di questo io ho bisogno per dare credito ai tuoi suggerimenti, al tuo insegnamento, persino alle cose che mi dici di studiare. Ti posso dare credito solo per una grande speranza presente.
L’educazione incomincia quando un adulto intercetta questa domanda e sente il dovere e la responsabilità di rispondere.
Ma è chiaro che non potrà rispondere con regole o raccomandazioni o teorie: può rispondere solo con la vita.
Lettura e commento di Deuteronomio 6, 20-25
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore Dio vi ha date? Tu risponderai a tuo figlio così: eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato.
Dante nel Paradiso, interrogato da S. Pietro sulla fede, si sente chiedere:
“Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?”
Perché io potevo desiderare, bambino, di essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del dolore, della vita e della morte.
Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso ultimamente positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di una Verità conosciuta.
Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è “introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo significato”, bene mio papà faceva esattamente questo.
E questo, mi pare, è proprio ciò che manca ai giovani oggi: sono cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi esplicativa della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché, lo sappiamo bene noi adulti: non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi.
Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra.
Ecco, mio padre, lo dico volutamente con un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “io sono felice, vedete la mia vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la sua santità, non la nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo per nostra libera scelta.
B. L’EDUCAZIONE COME MISERICORDIA
Ma questo non è bastato, non è bastato perché si è infilato nel rapporto tra me e loro qualcosa che lo ha incrinato. Avevo 17 anni, e nonostante l’educazione ricevuta in casa si insediò in me il dubbio, lo scetticismo, insomma, andai in crisi, una crisi profonda, di cui soffrivo molto.
La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era che il nulla divorava ciò a cui tenevo di più, divorava mio padre e mia madre, i miei fratelli e i miei amici: era un sentimento di inconsistenza della realtà, mi franava tutto addosso.
Guardavo mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di consistenza tutte le cose che mi erano care.
Vissi un anno o due in una crisi molto profonda, abbandonando evidentemente la pratica religiosa, che non mi diceva più niente, anzi, sfidando con cattiveria una mia sorella che nel frattempo aveva incontrato Comunione e Liberazione, dicendole: “Dimmi da che cosa ti avrebbe salvato il Salvatore, da che cosa ti avrebbe redento il  Redentore? Siete come gli altri, anzi peggio degli altri, soffrite e morite come gli altri: dove sta la salvezza? Da che cosa ti avrebbe salvato? Quando esci la domenica dalla Messa che cosa puoi dire di te stessa più di quello che posso dire io?”
Non poteva evidentemente dire allora (aveva 19 anni), non poteva rispondermi quello che oggi, risponderemmo insieme: che il di più che Gesù ha portato nella vita è semplicemente l’io, l’io, una persona che prima non c’era, una coscienza di sé e delle cose che prima non c’era, e che era quello che io stavo cercando.
Che cosa era mancato nell’educazione che avevo ricevuto? Era successo ai miei genitori quel che sarebbe accaduto al padre di una mia alunna qualche anno dopo. Vi racconto brevemente l’episodio.
Una volta è venuto a trovarmi il papà di una mia alunna (un po’ strana, un po’ fuori di testa), molto preoccupato e addolorato per la figlia che lo faceva tribolare. Suonò il campanello quella sera a casa mia, cenammo insieme, e alla fine, affrontando il problema che gli stava a cuore scoppiò a piangere, si tirò su la manica della camicia facendomi vedere le vene e, quasi urlando disperatamente, mi disse (siccome aveva capito che tra me e sua figlia, invece, un po’ di feeling era nato, ci si intendeva, insomma), mi disse, battendosi la mano sul braccio: “Professore, io la fede ce l’ho nel sangue, ma non la so più dare a nessuno. Può farlo lei? Lei può farlo: lo faccia, per carità, perché io ce l’ho nel sangue, ma non la so più comunicare nemmeno a mia figlia”.
Ecco, lì m’è venuta l’idea che il problema della Chiesa fosse il metodo, la strada, che tutta la genialità del contributo che don Giussani offriva alla Chiesa e al mondo era questo: la scoperta che la fede, tornando ad essere un avvenimento presente, fosse finalmente dicibile, comunicabile.
Poi ho capito che tutto il dramma di quel genitore era questo: pensava che tra lui e sua figlia ci fosse una generazione di differenza, e invece s’erano infilati tra lui e sua figlia quattrocento anni, cinquecento anni di una cultura che aveva negato tutta la sua tradizione e le cose di cui lui viveva, e che televisione e scuola – dal secondo dopoguerra in poi – avevano infilato tra lui e sua figlia.
Ecco cosa era mancato ai miei genitori e a quel padre: la consapevolezza di questa distanza e il metodo, la strada per superarla. E la si poteva superare solo riproponendo il cristianesimo nella sua elementare radicalità: una presenza viva, capace di illuminare le contraddizioni dell’esistenza in modo convincente. Non la soluzione dei problemi ma un nuovo punto di vista da cui affrontarli, non una teoria contrapposta ad altre teorie, ma, per dirla con Guardini “l’esperienza di un grande amore nel quale tutto diventa avvenimento nel suo ambito”.
E’ il grande richiamo di Benedetto XVI nel memorabile discorso di Verona alla Chiesa italiana. Allargate la ragione, sfidate la modernità per raccogliere tutto il positivo ma anche per denunciare le insufficienze di una cultura nichilista e relativista che si è costruita negli ultimi secoli e che per tanti aspetti si è rivelata nemica dell’uomo.
Poi è avvenuto l’incontro con don Giussani ed è stata una folgorazione.
Venne a casa mia. La mia povera mamma aveva un dolore grande, e cioè che il primo dei dieci figli, che era stato in seminario, ne era uscito sull’onda della contestazione e aveva non solo abbandonato la pratica religiosa e la Chiesa, ma aveva fondato uno dei primi gruppi extraparlamentari dei nostri paesi, insieme ad altri sette ex-seminaristi. Don Giussani venne a conoscere i miei genitori: confessò la mia mamma, che credo gli abbia parlato del suo dolore. Mio fratello non era in casa quel giorno. La settimana dopo da Milano arrivò un pacco di libri per questo mio fratello che lui non aveva conosciuto. E con mio grandissimo stupore il pacco di libri, invece che contenere Bibbie o Vangeli, conteneva Il Capitale di Carlo Marx e altri libri di quel tipo. Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho avuto lì l’idea che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia carità, sia quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non ti chiede prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì dove sei tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi, col tuo temperamento, con i tuoi peccati.
Vedere Giussani che senza paura, senza venir meno a niente di se stesso, regalava Carlo Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco, mi fece venire questa idea: che l’educazione è questa misericordia in atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove siamo. Insomma mi venne il sospetto che quell’uomo avesse a che fare con Dio, perché non mi avrebbe mai chiesto di cambiare prima di volermi bene: mi voleva bene così come ero.
E’ la natura stessa dell’amore. Gratuità assoluta. “In questo sta l’amore: che Dio ci ha amati per primo, mentre eravamo ancora peccatori”.
Questa identificazione dell’educazione con la misericordia porta con sé alcune conseguenze che mi sembrano decisive:
            a. che l’educazione non poggia su tecniche psicologiche o pedagogiche o sociologiche. E’ l’offerta della propria vita alla vita dell’altro. E’ l’offerta di una proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente che ha le sue radici nella esperienza lieta e certa del testimone. Se per educare fossero bastate le parole sarebbero piovuti Vangeli, invece Lui è venuto, compagno della nostra povera esistenza.
            b. Se è così l’azione missionaria del cristiano e della Chiesa tutta non può che consistere in una coraggiosa testimonianza della fede là dove gli uomini vivono, dove i giovani consumano la loro giovinezza, in primis la scuola. Non si può più immaginare di svolgere l’azione pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio e di lavoro, e di divertimento, ma bisognerà ricominciare a incontrare i nostri fratelli uomini là dove essi vivono i loro interessi, i loro affetti, la loro intelligenza e operosità. Una fede che non si dimostrasse pertinente alla vita reale, che non si mostrasse capace di esaltare l’io, il cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare curiosità e interesse e desiderio di seguire.
            c. Il problema coi figli o con gli alunni non può essere farli diventare cristiani, farli pregare, farli andare in Chiesa. Se ti poni così sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere le distanze.
Tutto il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti guardano: quando giocano non giocano mai soltanto, qualsiasi cosa facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli.
Lieto e forte non perché sei perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è patetico e triste il genitore che cerca di nascondere ai figli il proprio male) ma perché sei tu il primo a chiedere e ad ottenere ogni giorno di essere perdonato.
Così tra l’altro con loro sei libero, anche di sbagliare, libero dall’angoscia di dover far vedere una coerenza impossibile, perché il tuo compito di padre è semplicemente quello di guardare un ideale grande, sempre, e loro ti tentano, loro tendono l’elastico, ti mettono alla prova sempre: sono tutti figliol prodighi.
E’ quella che nel Rischio educativo si chiama “funzione di coerenza ideale” è la grande funzione educativa: che tu stai, che tu resti, resti lì, e magari loro si allontanano e di sottecchi guardano sempre se tu sei al tuo posto, se tu hai una casa, se tu sei una casa, e torneranno, anche quando fanno le cose peggiori.
Questa solidità, questa certezza che hai tu e che vivi tu con i tuoi amici e con tua moglie, è l’unica cosa di cui hanno bisogno i figli per essere educati, è l’unica cosa che anche senza saperlo ci chiedono, e su questa testimonianza poggia la loro speranza. Si tratta di scommettere tutto sulla loro libertà.
Pensate alla parabola del figliol prodigo (che ora che ho letto il libro del Santo Padre chiamerò sempre “la parabola dei due fratelli”): noi siamo sempre tentati di trattenerli in casa, e invece loro vogliono andare, misurarsi con tutto il reale, e noi a volerli tenere sotto una campana di vetro. Abbiamo paura della loro libertà, perché è uno strappo, una ferita che sanguina. Oppure confondiamo la responsabilità con il nostro diventare come loro: lascio anch’io la casa con te, così magari ti tengo d’occhio da vicino. Ma che disperazione per i nostri figli se, volendo tornare un giorno a casa, scoprissero che non hanno più dove tornare, non hanno più chi li aspetti, chi li perdoni!
E’ il RISCHIO EDUCATIVO: Un amore sconfinato per la libertà dell’altro perché è questa libertà che il Padre ha amato e stimato fino a sopportare lo strappo del figlio che se ne va.
C. L’EDUCAZIONE COME SLANCIO MISSIONARIO
Una volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo), serissimo: “Ma papà, noi siamo una famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui dice il contrario: scuola, TV, amici.
Allora ho capito che sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la vita, la vita nel mondo normale. Si trattava di fargli veder un altro “mondo”, un altro mondo in questo mondo. 6
Ho capito che mi chiedeva di fargli vedere che la cosa funzionava davvero, che c’erano amici, famiglie, realtà, movimenti, chiese, oratori, parrocchie missioni da cui poter capire e stare certo che quando fosse stato chiamato a sfidare il mondo avrebbe avuto ragioni sufficienti da portare, tutto il peso e la forza di tanti testimoni; che sarà un modo minoritario, quello che vive in un certo modo, ma che sia un mondo vero, famiglie vere, amici veri, case vere, ecc.
Dopo aver ospitato un ragazzo della Sierra Leone sono stato invitato ad andare a visitare quel paese e lì ho capito che Dio ci stava aiutando, non l’avessimo pensato noi, ci stava offrendo su un piatto d’argento un’esperienza missionaria perché la domanda dei miei figli potesse essere esaudita. Così godendo di questa amicizia è stato possibile aiutare i miei figli a vincerla questa sfida, a dire che si può uscire da una casa forti di un giudizio, di una cultura, di una carità, di una speranza così tenaci da sfidare le categorie culturali di questo mondo apparentemente così ostili.
Che si sposa con quello che ho detto all’inizio: la testimonianza di un ideale grande, verificato e verificabile ogni giorno nel paragone con tutto l’orizzonte dell’esperienza umana, con tutto il mondo.
Così che siano loro a poter dire “questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Ma devono ricevere una proposta decisa, intera che tenga conto di tutti gli aspetti della realtà e di tutte le dimensioni della persona. Con la consapevolezza che l’esito non è in mano nostra: non sappiamo cosa Dio riserva a noi, al Paese, al mondo. Dobbiamo probabilmente accettare l’idea di essere a lungo una minoranza, un piccolo gregge, forti solo di due cose: la certezza che ”portae inferi non prevalebunt” e la certezza della sua misericordia, di ciò che la tradizione chiama “merito”. Cioè la speranza certa che per la fede di alcuni, molti saranno salvati, come insegna l’episodio biblico di Abramo che contratta con Dio la salvezza della città per i meriti di dieci giusti.


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educazione, nembrini

venerdì, 26 gennaio 2007


Educazione,
responsabilità, bene comune
Franco Nembrini, genitore e docente *
20 febbraio 2004 – Parrocchia S. Ignazio di Loyola – Milano
Alcuni brani di questo incontro
***
 La tragedia che stiamo vivendo, è veramente una tragedia epocale. È la prima volta, forse, nella storia dell’umanità in cui in modo così grave si pone l’incapacità di una generazione di adulti di trasmettere alle nuove generazioni la cultura. È drammatica la debolezza di ragioni di questa generazioni di adulti che non sa più perché valga la pena dare la vita – tant’è che non si fanno più figli – e, meno ancora, sa le ragioni per cui vale la pena educare. Siamo la prima, forse la seconda generazione di adulti che vive il problema della tradizione – tradizione vuol dire consegna, vuol dire passaggio –, il problema della consegna da una generazione all’altra di un patrimonio di conoscenze, di valori, di certezze, di positività, di un’idea buona della vita. Le generazioni degli adulti hanno sempre consegnato tutto questo alle generazioni dei giovani. Ora non è più automatico, non accade più per tutta una serie di ragioni. Certamente non siamo aiutati neanche dal mondo in cui viviamo. Se pensate anche solo alla questione della tecnologia. Ad esempio, io faccio sempre la figura dell’incompetente con i miei figli perché se mi regalano il telefono non lo so usare e devo dire a mio figlio: «Senti dagli un’occhiata, poi mi spieghi cosa devo fare». O se compero una televisione appena appena aggiornata è mio figlio che capisce subito come funziona. Cioè, quello che è sempre stato assolutamente scontato e cioè che padre e madre sono, in qualche modo, depositari delle conoscenze e delle competenze necessarie per vivere si è rovesciato; il padre e la madre sono quegli incompetenti che non sanno neanche usare il cellulare. Anche questo non aiuta. Non è più così scontato, non è più così facile che avvenga quel miracolo che sempre è stata l’educazione e che ha garantito, nel bene e nel male, anche in momenti terribili della storia, che il mondo andasse avanti. Evidentemente ci sono delle ragioni: ad esempio è stata troppo sistematicamente, da una certa cultura, distrutta l’idea del padre. È attorno a questo nodo che si gioca la partita dell’educazione: l’educazione c’è in primo luogo se c’è l’adulto. Una certa cultura prima ha distrutto l’idea stessa di Dio, di una Paternità grande a cui l’uomo o appartiene o è desideroso di appartenere, e, a cascata, ha distrutto il resto. Si è sostituto Dio con alcune grandi ideologie, per cui si è potuto pensare di vivere della speranza o dello slancio ideale del comunismo. Si è in qualche modo tarlata la certezza stessa dell’uomo di avere qualche cosa di buono e di intelligente da dire ai propri figli, in casa sua. Come dice il grande Woody Allen: «Dio è morto, Marx pure, ma io stesso mi sento poco bene». Dice in tre passaggi come la cultura del nostro tempo ha distrutto in modo sistematico l’idea di paternità. Siamo tutti diventati grandi, i nostri figli in particolare, leggendo Topolino, cioè un fumetto pieno di zii e di zie, generalmente scapoli, ma nel quale non trovi un padre. È tutta una cultura che ha favorito che l’idea di paternità sparisse. Bisogna ripartir da qui, dall’educazione. Ha detto don Giussani: «Se ci fosse un’educazione del popolo tutti sarebbero meglio». Ecco, bisogna ripartire da qui. Allora, bisogna che qualche adulto si tiri su le maniche e dica: «Io voglio reinventarla, io voglio provare a educare». Bisogna che ognuno ci provi, tenendo l’occhio fisso a quelle due o tre persone, a quei due o tre episodi, a quei due o tre momenti in cui gli è parso di vedere l’educazione in atto, di vederla presente.
 Mio padre ci ha tirati grandi semplicemente invitandoci, in modo sempre implicito, a guardare quello che guardava lui. Era come se dicesse: «Io e voi, cari figli, siamo sulla stessa barca, e l’unico problema che avete è andare nella giusta direzione. Io ci sto provando: così si vive bene! Così si vive bene, venitemi dietro che probabilmente diventate grandi anche voi». …
con due genitori così per cui mi è sempre stato facile capire che cos’è l’educazione: non è una serie di prediche, non è una preoccupazione d’avere. È un uomo che vive. L’educazione non è mai un problema dei giovani, dei figli, degli alunni, dei ragazzi, degli scolari. È sempre un problema tuo. Cioè l’educazione è la capacità che hai o non hai di rendere testimonianza tu; chiunque tu sia, dovunque tu sia è la testimonianza di una certezza e di una positività che i figli possono guardare……
 Perché mio figlio si è accostato a me, quel giorno, senza aver qualche particolare bisogno; cioè non doveva chiedermi da bere, da mangiare, da dormire, da vestire era lì e mi guardava. Io, incrociando il suo sguardo mi sono sentito attraversare il cervello da una domanda, ho letto quello sguardo, ho letto in quello sguardo una domanda assolutamente radicale; era come se mio figlio mi dicesse: «Papà assicurami che vale la pena venire al mondo. Dimmi che valeva la pena venire al mondo. Dimmi qual è la speranza che tu hai, perché ti alzi al mattino e vai a letto la sera. Perché la fatica del vivere, la morte, il dolore, la fedeltà, il sacrificio? Qual è la ragione vera per cui mi hai messo al mondo, per cui io possa portare il peso della vita con dignità, con speranza, con forza? Accompagnami a questo è l’unica cosa che ti chiedo». …..
 perché i figli non hanno bisogno di altro che di questa testimonianza: di avere davanti un adulto che sa le ragioni per cui vale la pena portare il peso della vita. Tutto il resto viene di conseguenza, su tutto il resto si può essere assolutamente liberi. Invece il clima in cui crescono i nostri figli, gli alunni, dice il contrario; è come se fosse minato da una disperazione, da un cinismo, da un dubbio che rode sulla bontà della vita, sulla bontà dei rapporti. Che possa essere buona la scuola, che la giustizia possa essere buona, che il rapporto tra padre e madre possa essere buono, questa è la cosa che i nostri figli non sentono più e crescono con una disperazione di cui l’esito poi di volta in volta è la droga, la coltellata o tutte quelle cose brutte che succedono. Anni fa lessi una formula assolutamente sintetica per descrivere la cultura in cui siamo. Indro Montanelli carteggiava sul Corriere della Sera con il Cardinal Martini e scriveva: «Lo confesso, io non ho vissuto e non vivo la mancanza di fede con disperazione, ma l’ho sempre sentita e la sento come una profonda ingiustizia, che toglie alla mia vita, ora che sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo da dove vengo, dove vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli». A ottanta anni un uomo come Indro Montanelli arriva quindi a dire: se essere venuti al mondo vuol dire starci senza sapere da dove si viene, dove si va, cioè quali sono le ragioni vere per cui vale la pena vivere, tanto valeva non venirci affatto in questo mondo. È la formula sintetica del cinismo, terribile, che i nostri figli respirano a scuola, spesso anche in casa, comunque certamente dalla televisione, dalle battute degli amici, sono in un mondo così. Bisogna opporsi con ogni forza a questo cinismo! …..
C’è il cinismo di una società intera che non ha più una ragione buona per la vita. …..
il cinismo di una cultura che ha distrutto l’unica cosa di cui i nostri figli hanno bisogno: sapere a chi appartengono, cioè avere un padre e una madre. Sapere di chi sono perché è l’unica cosa che li educa e li preserva, anche psicologicamente da tutte le patologie da cui sono ormai massacrati. Sapere di chi sono, sapere a chi appartengono. Ma perché un figlio sappia a chi appartiene, bisogna che anche il padre stesso sappia a chi appartiene.
Quando i vostri figli iniziano a fare certe domande.! Allora a tuo figlio tu gli puoi dire: «Ma, vedi un po’ tu. Io ti chiedo di far queste cose, vienimi dietro se vuoi. Ma io ti chiedo di fare queste cose perché tu possa essere felice, come sono io». …..Hanno bisogno di adulti che amino la loro libertà, che scommettano sulla loro libertà, perché così insegnate il bene che ci vuole Dio ed è così forte il bene che affermate che non vi molleranno più……
….., primo: non abbiate mai paura di sbagliare, per i nostri figli siamo i migliori genitori possibili. Se l’educazione è quel che ho detto, non c’è il problema della coerenza, dell’incoerenza: i tuoi figli non sono stupidi, sanno che sei incoerente e far finta di vendergli l’idea di un padre particolarmente buono, bravo, coerente è una cosa che non li convincerà, non ce la farete mai a fregarli; lo sanno troppo bene di che incoerenza siamo capaci; cioè lo sanno che siamo straccioni come loro, non li convincerete mai del contrario. I nostri figli non hanno bisogno della nostra coerenza in senso moralistico, hanno bisogno della nostra coerenza ideale, quella che Giussani ne Il rischio educativo chiama «funzione di coerenza» L’adulto, l’autorità dell’adulto la chiama «funzione di coerenza»: è questo stare che vi dicevo prima. Non abbiate paura di sbagliare perché i figli sanno che sbaglierete e vi perdoneranno molto più di quello che siete disposti a perdonargli voi; perché i nostri figli ci perdonano questo. Non ci perdonano il non coraggio, la non responsabilità di fronte al reale, la non certezza ultima rispetto al destino: questo non ci perdonano….
È questo che intendo dire quando dico: «Non preoccupatevi». Anche tutta questa mania per cui dovremmo tutti avere lo psicologo fisso in casa! Nessuno è più capace di fare il padre, nessuna è più capace di fare la madre, al primo problema bisogna andare dall’esperto: l’ospedalizzazione del rapporto educativo a scuola e in famiglia. Bisogna avere tre lauree per tirar su un bambino! Basta con questa storia! Basta, perché siete i migliori genitori possibili e non preoccupatevi se sbagliate perché non è quello che traumatizza i bambini. Li traumatizza la sensazione di camminare sulle sabbie mobili, li traumatizza lo sguardo incerto di padri e madri quando si guardano, quando stanno a tavola, li traumatizza l’impressione che la loro casa sia costruita sulla sabbia e che basti un filo di vento per portar via tutto. Questo li spaventa la notte e non li fa dormire, anche se non urlano e non hanno gli incubi. Ma se pensa ad una casa fondata sulla roccia, tuo figlio dice che è una roccia anche se sbagli, anche se non le indovini tutte. Diversamente ci facciamo dei problemi pazzeschi: «Gli do una sberla o non gliela do? O Dio, ho letto che lo psicologo diceva che quel  ragazzo si è buttato giù da un ponte perché ha preso quattro in matematica. Cosa devo fare? La Carla dice sempre il contrario di quello che dico io. Se gliele voglio dare, mia moglie dice di no; se non gliele voglio dare io lo vuole la moglie!». Dargliele e basta! Nell’incertezza io suggerisco di dargliele! Non è qui il problema! Poi c’è quella trappola incredibile che è il ragionamento. Pensate alla televisione. Allora se mio figlio vede la televisione è documentario o cartoni animati, Disney naturalmente (quelli senza padri e senza madri): non c’è sesso, non c’è violenza, non c’è dentro niente di male quindi glieli posso permettere. Sul dosaggio ci sono tutte le contrattazioni sindacali: un’ora al giorno, un’ora e mezzo, due, secondo la pagella, secondo i compiti, perché tanto male non fanno. Quando un genitore rispetto ai suoi figli si fa la domanda: «Che male c’è a fargli vedere un’ora, due ore di documentario», ha già perso completamente la battaglia. La domanda “che male c’è?” nasconde la resa dell’educatore. Proprio ti sei già arreso, sei morto perché la domanda dell’educazione non è «che male c’è?», deve essere «che bene c’è?». E, allora, il 90% delle volte scopri che ci sarebbe, che gli puoi offrire qualcosa di meglio a tuo figlio, e comunque sei tu protagonista dell’educazione e non la televisione. La domanda: «che male c’è?», suppone che tu arretri e fai venire avanti la televisione a decidere di tuo figlio. La domanda deve sempre essere “che bene c’è?”. Che bene c’è in questo momento, per questo figlio, per il suo bene cosa posso affermare, cosa posso dire? una gita in bici, prender su portarlo via, andare in montagna, che ne so! Qualche bene c’è sempre! Ti liberi anche da tante altre cose. Mi viene in mente la questione della scuola, questa malattia mortale che hanno quasi tutte le mamme italiane, che sono convintissime che la scuola sia una roba seria.. Quando vengono a casa i figli, che quando arrivano sono già stracchi, per la scuola – provateci voi cinque ore seduti in un banco a sentire cinque signori che ti dicono cose di cui non te ne frega niente – allora, fanno questa faticata, vengono a casa, hanno una fame da giganti perché non andava la macchinetta delle pagnottine, arrivano a casa, hanno lo stomaco aperto, lasciano la cartella per terra: «Mamma-a-a». «Metti a posto quella cartella!». Gli metti davanti la pastasciutta, arrampa, infila il primo boccone, lo sta per portare alla bocca e si sente la domanda: «Come è andata stamattina la scuola?». Io tirerei fuori la pistola! Io tirerei fuori la pistola per sparare alla mamma in quel momento lì! Non può non venire questo istinto quando tutti i giorni, tutti i santi giorni, si sente dire: «Come è andata stamattina la scuola?» con il primo boccone di pastasciutta in mano! Risponde, come tutti gli studenti: «Niente!». Poiché la scuola coincide col nulla! Adesso la metto sul ridere, ma guardate che nascondono atteggiamenti psicologici e spirituali di un certo peso. Perché prima devi farlo mangiare almeno tre bocconi, poi quando i pirati della fame si sono calmati un attimo, lo guardi in faccia e gli dici: «Come è andata ieri con i tuoi amici? Ti sei divertito?». Così è un’altra cosa! È un’altra cosa perché lui capisce che c’è il problema del suo destino, della sua felicità! E, se lo pigli da lì, dopo lo porti anche sulla scuola. È facile, è ovvio, ma se lo prendi continuamente di petto sulla cosa che odia di più, e la metti fra te e lui gli è ben difficile essere libero con te nel tirar fuori le questioni, le preoccupazioni che ha, i gusti e i disgusti che ha; essenzialmente si sente estraneo, è nemico non ti dirà mai niente, e dopo ti lamenti perché i figli non si confidano. Ma te lo sei costruito tu questo abisso che ti separa da lui, mettendogli davanti cose che non dovevano essere la prima cosa da mettergli davanti agli occhi. La questione decisiva alla fine è quella di questa testimonianza che ho il coraggio di dare. I miei mi perdonano anche di essere poco a casa. Questo lo dico perché vuol dire che c’è una possibilità di educazione oggi come, forse, non c’è mai stata prima….
. Quando comincia a esserci un adulto, l’educazione si rimette in movimento: allora ti rimetti in movimento, apri una scuola insieme a loro, ecco tutte quelle cose che mi capitano di fare nella vita. I figli poi te li porti dietro, perché il problema non è dirgli le cose, ma fargliele vedere.
* Una delle poche  persone che riesce a penetrare la sc0rza del mio cuore.
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