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sabato 18 febbraio 2012

nichilismo4


LA MORTE
NELL’ERA DEL NICHILISMO
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 “Noi, oggi, andiamo a ritroso verso la morte, crediamo di aiutare gli anziani facendo loro scimmiottare la gioventù, ma essi non hanno più nulla da dirci, non hanno più nulla da raccontare ai bambini, non hanno più memoria perché non hanno più speranza.
Nel XVII secolo, all'epoca del primo trionfo della razionalità, si rinchiusero nei manicomi gli « idioti », gli «innocenti », testimoni della precarietà dell'esistenza normale, testimoni di abissi senza fondo, che ora erano quelli dell'ossessione e dell'orrore, ora quelli di una insostenibile sapienza... Nel « secolo dei lumi », gli ossari che stavano ancora a cielo aperto in piena Parigi sono stati accuratamente ricoperti e i morti sono stati raccolti alla periferia delle città, nei cimiteri, sotto le pesanti lapidi dell’orgoglio familiare. Ai nostri giorni,  gli anziani vengono rinchiusi in ricoveri asettici, quando poi non li si lascia vegetare e morire nella solitudine. E così li dimentichiamo, per meglio convincerci di essere giovani, nella rassicurante pienezza di un tempo infinito. I malati incurabili, a loro volta, sono condannati alla segregazione scientifica degli ospedali, dove si muore soli, irti di sonde e di aghi, quasi sempre nell'incoscienza: senza amicizia, e soprattutto senza quella preghiera che guida l'anima sulle vie dell'invisibile. E ancora, senza che chi muore abbia la possibilità di lasciare a chi gli è vicino una parola che già viene dall'altro mondo, una parola che potrebbe prepararlo, a sua volta, per questo passaggio...
Ormai si è già detto tutto sulla censura della morte nell'occidente contemporaneo e, a quanto pare, le cose sono ancora più rozze nell'Unione Sovietica, dove i cimiteri sono spesso abbandonati nell'incuria più assoluta e con altrettanta facilità distrutti per lasciare il posto a degli stadi: largo alla vita! Negli Stati Uniti, si truccano i morti come se andassero ad un ultimo ricevimento Keep smile(continua a sorridere)  ancora una volta ,- e i cimiteri si stendono su vasti tappeti erbosi, innocenti come l'oblio. In un cantone svizzero, poi, per evitare lo choc psicologico della visione della bara, i cadaveri vengono portati via su una barella, come un malato o un ferito.
Si allontanano i bambini dai morti, quando invece il volto di certi morti, pacificato e bello, potrebbe aprire l'infanzia al mistero. Non si vegliano più i morti, cosi come non si dice più ai malati incurabili che stanno per morire. Per dire di queste cose, per vegliare, bisognerebbe saper assumere l'altro nella tenerezza e nella preghiera, nella Chiesa. La malattia e la morte sono presentate come dei casi che non hanno alcun significato, ma soprattutto non quello di mettere in causa la sufficienza di questo mondo. Ogni cosa viene rinchiusa nei limiti di questo mondo, e si cerca soltanto di eliminare le malattie, di ritardare la morte. Si vive, si muore, e, dato che c'è solo questo mondo, i sopravvissuti non possono né pensare né dire nulla. Il mutismo dei morti ci coinvolge tutti. Ci si dedica interamente a delle tecniche il cui « accanimento terapeutico» non è altro che un'esasperazione assurda. E se poi questo fa problema, lo fa soprattutto per dei motivi finanziari.
E l'angoscia avvelena tutto, produce una vera e propria nevrosi spirituale. Il desiderio dell'uomo ,nel senso in cui l'Apocalisse parla, in maniera assolutamente positiva, dell'« uomo dei desideri» -è coinvolto e sconvolto in un consumo nevrotico. La medicina psicosomatica conosce perfettamente la bulimia degli angosciati. Tutta la nostra civiltà ne è affetta: bulimia di cibo, di impressioni, di immagini, di suoni, e persino di divertimenti culturali; in tutto ciò affiora, viene alla superficie e diventa struttura storica il « peccato originale », quella captazione cos1 profondamente ripiegata su se stessa che ha fatto sl che Romano il Melode, il grande innografo del VI secolo, potesse definire l'atteggiamento di Adamo come un « rifiuto del digiuno ». E si può ingannare l'angoscia anche con l'attesa, lirica o violenta, di una società perfetta...
E così si sviluppa una civiltà di drogati: eccitanti e tranquillanti fatti proliferare dall'industria medica, proiezione sull'altro, sul nemico, dell’ombra che ci è perseguita e nella quale le civiltà arcaiche vedevano l'immagine dell'alter ego, o dell'anima. E sono allora le grandi paure e i grandi odi astratti della politica. E l'erotismo, le droghe propriamente dette, un certo uso della musica o della velocità, le varie tecniche della estasi sradicate dal loro ambiente originario: si vorrebbe dare alla vita un'intensità che faccia scomparire tutte le ombre, ogni morte. Ma la morte ha sempre l'ultima parola. Non c'è nulla che lasci soli, ed in una solitudine tanto agghiacciante, come il parossismo. E resta solo il gioco con il suicidio -che è forse l'altra faccia di un'invocazione di aiuto -o il desiderio di farla finita con la società, non solo perché, a partire da Rousseau e soprattutto a partire da Marx, si è attribuita alla società la responsabilità di tutti i mali, ma perché, fatte cadere tutte le maschere, si scopre immediatamente che questa civiltà della felicità è in realtà una civiltà della morte.
Si finisce per rimaner presi nelle proprie reti. Quanti giovani si uccidono oggi perché ai loro occhi non c'è più nulla che abbia senso? Quante depressioni nervose, rapidamente cronicizzate, sfuggono alla terapeutica freudiana e possono essere spiegate solo da questa assenza di senso? La tentazione del suicidio si diffonde e l'esistenza stessa della specie ne è minacciata. Con la dissociazione tecnica della sessualità e della procreazione, gli indici della natalità crollano in tutti i paesi industriali, all'est più ancora che all'ovest; questa tendenza si sta ora diffondendo in Giappone, in Cina e nell'Asia del sud-est. Il trionfo del nichilismo rende ormai possibile, un po' dappertutto, un suicidio della specie.
Ormai il silenzio è rotto. Il tema della morte appare sempre più insistentemente nel pensiero filosofico, storico e medico. Viene denunciato lo scandalo di tante morti solitarie ed inconsapevoli, di tanti anziani abbandonati ed  ossessionati dall'angoscia. Non c'è dubbio che così si prepari una metamorfosi dell'ateismo. E sembra che sia ormai giunto il tempo di una tenerezza seria e triste, senza speranza, un tempo in cui gli uomini ormai orfani si stringeranno infreddoliti gli uni agli altri, circondando i morenti di un'attenzione tenera e delicata, e tuttavia vuota perché interamente di questo mondo. Si morirà fra amici, in una specie di estasi prodotta dalle droghe. Questo ritorno al nulla si consumerà come un incesto: anche qui, infatti, in questa privazione definitiva, non ci sarà più posto per il Padre...
E c'è ancora bisogno di dirlo? Non sarà certo la guarigione dalla grande nevrosi occidentale. Sarà il tempo di crisi spirituali ancora più grandi, contrassegnate da tentativi anticristici, ma anche da un rinnovato annuncio della Risurrezione.”
Oliver Clement  da: La rivolta dello Spirito  ed. Jaca Book



Postato da: giacabi a 08:52 | link | commenti (2)
nichilismo, morte, clement

martedì, 12 giugno 2007

Del Noce cura le piaghe dell'ateismo
Da: www.avvenire.it  del 02-06-07
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FILOSOFIA
In antologia l’analisi del pensatore cattolico, per il quale il rifiuto di Dio è il problema della modernità, non il suo destino inevitabile
Del Noce cura le piaghe dell'ateismo
La tecnocrazia dei nostri giorni non è figlia della scienza, ma del razionalismo ateo che riduce tutto all’umano: è questo il vero limite del ’900
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Di Edoardo Castagna
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Non ha fatto tempo a vederla, Augusto Del Noce. Ma l’inversione di rotta dell’Occidente, che negli ultimi anni ha dimostrato come la deriva secolarista non fosse affatto l’esito scontato della modernità, non l’avrebbe sorpreso. Anzi, gli scritti del filosofo cattolico scomparso nel 1989 prefigurano e addirittura quasi profetizzano la società di questo primo scorcio di XXI secolo, come ben mette in luce l’antologia Verità e ragione nella storia, curata da Alberto Mina per Rizzoli. Tanto che, sostiene Giuseppe Riconda nell’ampia introduzione, «la sua filosofia ci dà anche su questo punto criteri per una spiegazione e valutazione».
Del Noce ha mostrato come sia possibile ritrovare nel pensiero tradizionale i principi dei quali abbiamo bisogno per comprendere il mondo presente. Prevedendo fin dall’immediato dopoguerra la fine dell’ideologia marxista e l’avvento della tecnocrazia, individuò con sicurezza il grande problema della modernità: l’ateismo. A differenza di tanti altri pensatori di quegli anni, però, non lo considerò mai l’esito inevitabile dell’Occidente, bensì solo un fenomeno: indubbiamente motivato e storicamente comprensibile, ma che – sempre storicamente – avrebbe anche potuto tornare a regredire. Nella sua analisi, Del Noce distingue due tipi di ateismo. Quello "negativo", che muove dalla considerazione del male nel mondo e che è, più che altro, contestazione di Dio nel nome di Dio; moderna trasposizione dei lamenti di Giobbe, cristillizzata da Primo Levi nella formula: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». Un ateismo non radicale, argomenta Del Noce muovendosi tra Gilson, Marcel e Brunschvicq, in fondo ancora aperto: interrogando Dio per il suo silenzio, si lascia lo spazio per una risposta, per un incontro – negato qui e ora, ma comunque possibile. Altro è invece l’ateismo "positivo", che prima ha razionalizzato l’Assoluto, e poi – una volta resolo disponibile alle umane categorie – se ne è sbarazzato. È questa, per Del Noce, la secolarizzazione, che storicamente è passata dalle religioni secolari degli anni tra le due guerre, dominati dal trionfo delle ideologie di massa, alla perdita completa del sacro nel secondo dopoguerra.
È questo trionfo – provvisorio – dell’irreligioso che ha reso possibile la tecnocrazia: non si tratta quindi di uno sviluppo spontaneo della tecnica e della crescita delle sue potenzialità, ma di un innesto della tecnica stessa in un contesto, quello della secolarizzazione, che non conosce più limiti alla sua applicazione. Se il tecnicismo fosse l’inevitabile processo della tecnica, allora sarebbe inarrestabile: così non è, per Del Noce, che può argomentare la sua visione della secolarizzazione come qualcosa di diverso da un fatto compiuto – e questo lo faceva, ne Il problema dell’ateismo, nel 1964, quando il pensiero occidentale sembrava in gran parte concordare su un simile esito della nostra società.
L’atesimo non è il destino ma il «problema dell’età moderna», scriveva con lungimiranza; nonostante i tentativi di ridurla a fatto privato, la religione non si piegherà a quella sorta di silenziosa eutanasia cui il materialismo – sia marxista sia consumista – sembrava averla condannata.

Questa prospettiva tuttavia non significa, per un pensatore religioso come Del Noce, adagiarsi sul corso della storia, già pago di sapere che, prima o poi, il processo di secolarizzazione avrebbe invertito la sua rotta. Anzi, il filosofo cattolico è chiamato a prendere di petto la sfida del nichilismo, a farne il banco di prova delle sue proposte: senza confronto con il nichilismo, sostiene Del Noce sulla scia di Šestov e Maritain, il pensiero moderno si precluderebbe l’accesso alla realtà. Passaggio fondamentale è allora la critica al primo fondamento dell’ateismo, quel razionalismo che nega tutto ciò che va al di là della ragione umana, deride il mistero, rigetta il soprannaturale. Una battaglia che, per il filosofo, non può non appoggiarsi sulla Chiesa cattolica, depositaria di un pensiero tradizionale a lei «storicamente e necessariamente connesso». Rivendicando costantemente la libertà – ovviamente, in primo luogo la libertà religiosa – la Chiesa si pone non solo all’ascolto del mondo, ma anche in una sua perenne contestazione.

Augusto Del Noce
Verità e ragione
nella storia
Antologia di scritti

Rizzoli. Pagine 370. Euro 10,20

Postato da: giacabi a 06:23 | link | commenti
nichilismo, del noce

domenica, 10 giugno 2007

L'auto-distruzione dell'umanesimo

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"Nell’anima dell'uomo anzitutto si è scosso e si è distrutto qualche cosa, prima che si scuotessero e si distruggessero i suoi valori storici. La «morte di Dio» doveva avere il suo contraccolpo fatale. E noi oggi assistiamo a ciò che Nicola Berdiaev, lui pure dotato di un dono «profetico», ma cui si accompagna inoltre un 'esatta diagnosi, ha giustamente chiamato <l'auto-distruzione dell'umanesimo». Noi oggi stiamo verificando sperimentalmente che «dove non c'è Dio, non c’è neppure uomo»  Che è avvenuto infatti delle alte ambizioni di questo umanesimo, non soltanto nei fatti, ma anche nello stesso pensiero dei suoi adepti? Che cosa è avvenuto dell'uomo di questo umanesimo ateo? Un essere che appena si osa chiamare ancora «essere»; una cosa che non ha più interiorità, una cellula interamente immersa in una massa in divenire; «uomo sociale e storico» di cui altro non resta che una pura astrazione, al di fuori dei rapporti sociali e della situazione nella durata per cui si definisce. Non c'è più in lui né fissità, né profondità. Non si cerchi perciò qualche recesso inviolabile, non si pretenda di scoprire qualche valore che si imponga al rispetto di tutti. Niente impedisce perciò di utilizzarlo come un materiale o come uno strumento, sia che si tratti di preparare qualche società futura o di assicurare nel presente stesso la dominazione di un gruppo privilegiato. Nulla impedisce perfino di gettarlo via come inservibile. Egli si lascia inoltre concepire su tipi assai differenti, anzi opposti, a seconda che predomina per esempio un sistema di spiegazione biologico od economico, o a seconda che si crede o no ad un senso e ad un fine della storia umana: Ma sotto le sue diversità, si trova sempre lo stesso carattere fondamentale, o piuttosto si constata la stessa assenza. Questo uomo è letteralmente dissolto: che sia in nome del mito o della dialettica, l'uomo, perdendo la verità, perde se stesso. In realtà non c'è più uomo, perché non c'è più nulla che trascenda l'uomo.
Non parliamo soltanto di un fallimento, non accusiamo neppure certe deformazioni grossolane, troppo reali e troppo evidenti. Non tutta la posterità di Marx ha ereditato dal suo genio: la eredità di Nietzsche poi è ancora più arruffata ed è fuor di dubbio che il profeta di Zarathustra oggi sarebbe il primo a maledire, per molte ragioni, molti di quelli che si appellano a lui . Ma queste deformazioni sono spesso meno dei tradimenti che l'effetto di una corruzione fatale  L'umanesimo ateo non poteva terminare che in un fallimento. L'uomo è se stesso solo per il fatto che il suo volto è illuminato da un raggio divino. Divinitas in luto tamquam imago in speculo refulget . Se il fuoco scompare, sparisce pure il suo riflesso. «Basta distruggere in tutto quello che avviene nel nostro mondo sublunare il rapporto con la eternità, per distruggere nello stesso tempo ogni profondità ed ogni contenuto reale di questo mondo». Dio non è soltanto per l'uomo una norma che a lui si impone e che, guidandolo lo solleva: Egli è l'Assoluto che lo fonda, è la calamita che l'attira, è l'Al di là che lo eccita, è l'Eterno che gli fornisce il solo clima in cui respirare, è in qualche modo quella terza dimensione in cui l'uomo trova la sua profondità . Se l'uomo si fa il suo proprio dio, può nutrire per qualche tempo l'illusione di elevarsi e di emanciparsi: esaltazione passeggera! In realtà, egli abbassa Dio ed egli stesso non tarderà a sentirsi abbassato." .
Henry De Lubac da: “Il dramma dell’umanesimo ateo” ed. Morcelliana

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nichilismo, cristianesimo, de lubac

mercoledì, 06 giugno 2007

LA SCIENZA SENZA
SAGGEZZA RENDERÀ L’UOMO SUPERFLUO
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Ibridi umani e animali? “Come in Huxley e Shelley”
di Giulio Meotti - Il Foglio del 6 gennaio 2007
Dalla Genesi alla Genetica. “La soluzione finale al ‘problema umano’ è stata posta seriamente”. Per il filosofo  inglese Roger Scruton, visiting professor all’Università di Princeton, l’ibridazione umano-animale è solo l’ultima sfida ontologica che la tecnoscienza ha portato alla forma umana.

“Tutte le domande morali in questa area sono state presagite da Mary Shelley in ‘Frankenstein’ e da AldousHuxley in ‘Brave New World’. Gli abitanti del Nuovo Mondo sono creature da laboratorio, non nate ma prodotte, secondo i parametri di un governo razionale benigno. Ciascun cittadino può essere sostituito da un altro prodotto della manifattura senza la minima differenza morale. E’ il paradiso degli utilitaristi, il piacere massimizzato e il dolore sconfitto, controllando la propria riproduzione e rimuovendo l’elemento destino dalla vita umana”. Aristotele diceva che tutti gli uomini tendono naturalmente verso uno stato di maggiore conoscenza. “Chi non riconosce limiti morali alla conoscenza scientifica non ha compreso il primo capitolo della Genesi. Siamo nati per sfidare i segreti della natura. Tuttavia siamo stati messi in guardia dalla conoscenza. La Bibbia si apre con l’avvertimento, dettato da Dio, sul frutto che garantisce la conoscenza del bene e del male”. Il Dottor Faust di Marlowe perde l’anima in una corsa forsennata verso la gnosi assoluta. “Il Faust di Goethe è più moderno: assaporando ogni esperienza, rimane indifferente a tutte e nel suo onnivorismo distrugge tutto ciò che la conoscenza considera profondo. Gli esseri umani stanno cercando ora di accelerare il processo di evoluzione per soddisfare i propri desideri a breve termine”. Quali saranno le conseguenze? “Chi si arroga il diritto di fabbricare la vita, interferire con il suo disegno e scartare gli embrioni che non rientrano nel loro schema, cerca di migliorare un processo di milioni e milioni di anni di adattamento. Un patrimonio genetico che ci insegna a sacrificarci per i nostri figli e mai il contrario; a giudicare il corpo umano e l’anima umana come a parte dal resto della natura, da maneggiare con devozione e rispetto e da non ridurre a oggetti di curiosità ed esperimento. E poi ci insegna che l’essere umano è unico, irripetibile e da conservare per il proprio bene, non come un clone o un prodotto di routine. Sono pensieri semireligiosi distillati nella nostra storia evolutiva, residui di milioni di anni di sofferenza attraverso cui l’umanità è giunta fino all’attuale posizione di dominio. Metterli in dubbio equivale a mettere in dubbio ciò che siamo”. Tuttavia è difficile resistere a una visione biomedica in cui vengono curate le malattie neurodegenerative. “Ci sono terapie che possono essere sviluppate attraverso esperimenti immorali da parte di scienziati coinvolti con serena indifferenza. La ricerca medica ha beneficiato delle ricerche del dottor Mengele. Prima che un orrore, fu un atto di suprema hubris”. Non è casuale l’eccellenza inglese in questo tipo di ricerche. “Non riesco a spiegarmi perché siamo sempre in prima fila in questi spaventosi sviluppi. Forse ha a che fare con l’evaporazione della tradizione cristiana e con la nostra eccentricità e il desiderio di sperimentare. La tecnologia può facilmente distruggere i beni umani tanto quanto promuoverli. Questo è vero per la ricerca medica quanto per la fisica atomica”. Il caso di Ashley, la bambina affetta da encefalopatia a cui non è concesso crescere per il proprio bene, è invece pieno di dilemmi. “Quando leggiamo di nuove scoperte mediche gioiamo, non solo per noi stessi, ma per coloro le cui sofferenze possiamo alleviare. Ma dobbiamo riconoscere che c’è un costo morale incalcolabile. Le deformità sono spesso impossibili da affrontare sulla base della nostra moralità quotidiana. Ma non è una ragione per addurle come punto di partenza di una ricreazione dell’essere umano afflitto, come un’opera d’arte. Il calcolo costi e benefici è stato scisso dalla moralità e i veri costi, crollando sui non nati, vengono ignorati”. E’ l’assunto eugenetico. “E dei programmi fascisti e socialisti per la ridefinizione del genere umano. E’ la perdita della pietà e la convinzione che gli esseri umani sono oggetti da modellare secondo volontà. Lo scopo è rendere l’uomo superfluo. Una lesbica ha dato alla luce il bambino di suo fratello attraverso il vitro, un istituto di ricerca in Virginia fabbrica embrioni al solo scopo di cannibalizzarne le cellule per esperimenti e, stando alla scoperta degli scienziati australiani per cui gli ovuli possono essere fecondati senza sperma, c’è la prospettiva di femmine geneticamente create senza i padri”.


Postato da: giacabi a 14:18 | link | commenti
nichilismo

martedì, 05 giugno 2007

IL DRAMMA
DELL’UMANESIMO ATEO

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Nel mondo classico, cosi come nel mondo pagano del Mediterraneo orientale abitato da ebrei, come ricordato nella Bibbia ebraica, gli dèi o il Fato giocavano con uomini e donne, spesso con conseguenze letali; si ricordi ad esempio l'interferenza degli dèi nelle vicende umane nell' Ilia- de e nell' Odissea, o la costante battaglia di Israele contro la pratica dei sacrifici di bambini richiesta dalle divinità dei Filistei e di altre nazioni vicine. Al cospetto di queste esperienze, la rivelazione del Dio della Bibbia - l'apparizione nella storia di un Dio unico che non era né un tiranno ostinato (da evitare) né un predatore carnivoro (da calmare) né un'astrazione lontana (da ignorare) -fu percepita come una grande liberazione. Gli esseri umani non erano dei fantocci in mano agli dèi, né le vittime passive del Fato: potevano invece entrare in contatto col Dio unico e vero attraverso la preghiera e il culto, e coloro che credevano nel Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e Gesù potevano dare alla storia una direzione umana. La storia non era infatti un palcoscenico in cui gli esseri umani erano manovrati dagli dèi e dalle divinità come burattini; la storia era piuttosto un'arena di responsabilità e di propositi, essendo il mezzo attraverso cui il Dio unico e vero si era rivelato al suo popolo dotandolo della piena facoltà di condurre una vita degna, tramite l'intelligenza e il libero arbitrio che ha donato loro nella creazione.
Ciononostante, quella che un tempo per l'uomo biblico era una liberazione, divenne per i sostenitori dell'umanesimo ateo una schiavitù. La libertà umana non poteva coesistere con il Dio degli ebrei e dei cristiani e, secondo l'umanesimo ateo, la grandezza dell'uomo richiedeva il rifiuto del Dio biblico.
George Weigel “La  Cattedrale e il Cubo”

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nichilismo, cristianesimo, weigel

lunedì, 04 giugno 2007

IL DRAMMA DELL’UMANESIMO ATEO

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«Una società laica che non ha un fine al di della propria soddisfazione è una mostruosità, un cancro che alla fine la autodistruggerà»
Christopher Dawson

Postato da: giacabi a 15:16 | link | commenti
nichilismo, laicismo

domenica, 03 giugno 2007

IL DRAMMA DELL’UMANESIMO ATEO

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"De Lubac mostra efficacemente come comunismo, fascismo e nazismo siano state espressioni di un umanesimo ateo che ricevette l'imboccata dal positivismo di Auguste Comte (secondo cui la scienza empirica è la sola guida attendibile dell'umanità), dal soggettivismo di Feuerbach (per il quale «Dio» è la proiezione mitica delle aspirazioni umane) dal materialismo di Marx (secondo il quale il mondo spirituale è un'illusione) e dalla volontà radicale concepita da Nietzsche (per cui l'esercizio della volontà di potenza è indice della grandezza umana)."
George Weigel “La  Cattedrale e il Cubo”

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nichilismo, laicismo

venerdì, 01 giugno 2007


Contro il progressismo distruttivo e totalitario
da: www.tempi.it
Roger Scruton
Oltre agli appettiti abbiamo un'idea di bene.
Contro il progressismo distruttivo e totalitario che vive come se i morti e i non-nati non avessero voce. Per una modernità che non teme il sacro e il proibito

Manifesto dei conservatori
Autore R. Scruton
Editore Raffaello Cortina
Pagine 260
Prezzo 22 euro

di Meotti Giulio

«Il conservatorismo inglese ha le sue radici nel retaggio dei ceti alti, nel pacato buonsenso della vecchia costituzione e nelle abitudini senza pretese della gente comune». Si apre così, come un inno autobiografico all'"Inghilterra che non c'è più", il Manifesto dei conservatori (Raffaello Cortina) di Roger Scruton, filosofo e polemista inglese di genio che insegna a Princeton e all'Istituto di scienze psicologiche di Arlington. Come spiega Giuliano Ferrara nell'introduzione al volume, il problema dei conservatori è «fissare il limite della modernità dal di dentro della modernità». Scruton è maestro in questo, issa la bandiera del common sense cristiano anglosassone all'interno del pensiero postilluministico e razionale. Scruton non vede differenze sostanziali fra il cuore dell'antico conservatorismo e quello del nuovo, nonostante il pessimo servizio che i suoi sostenitori abbiano fatto al suo nome. «All'opera c'è la stessa significanza sociale, politica e spirituale che desideriamo conservare e il pieno riconoscimento che è più facile distruggere che creare», dice a Tempi. «Il contratto formulato da Edmund Burke è realmente una sorta di amministrazione fiduciaria: noi vivi abbiamo qualcosa di inestimabile che siamo chiamati a conservare per il beneficio di coloro che verranno. Questo pensiero è importante tanto più nell'era postmoderna, dal momento che abbiamo scoperto che l'idea di "progresso" è un mito pericoloso. Il postmodernismo risulta essere l'ultima impresa della "cultura del rifiuto" balzata alla ribalta della storia nel 1968. Come Burke sottoindendeva, solo chi ascolta la voce di chi non c'è più è in grado di proteggere chi non è ancora venuto al mondo. In questo senso la cultura è depositaria di un'esperienza che è al tempo stesso in un luogo e ovunque, presente e senza tempo, l'esperienza di una comunità santificata dal tempo. Ora gli europei invece vivono come se i vivi, i morti e i non-nati non avessero una voce».
Nel suo libro Scruton analizza il legame fra linguaggio e verità, vincolo perso nel tempo e distrutto dalla cultura del nulla. «Un nuovo linguaggio è sorto da quando abbiamo sostituito un pensiero vivo e fecondo con un linguaggio meccanico, abbandonando l'orizzonte del linguaggio religioso.
Quando l'uomo perde il senso della pietas, le parole perdono il loro contatto con le cose, la realtà. Per pietà intendo la disponibilità a riconoscere il nostro stato di debolezza, ad affrontare il mondo circostante con reverenza e umiltà. Tale sentimento è un residuo della religione in tutti noi, che si voglia ammetterlo o no. È qualcosa di cui un numero elevato di persone sta cercando di riappropriarsi in un mondo dove i risultati dell'arroganza umana sono tristemente evidenti».


La negazione dell'umanità

Quello di Scruton è un sentimento difficile da giustificare nei termini del freddo e duro ragionamento utilitaristico che piace a Peter Singer, il filosofo australiano che è arrivato a teorizzare l'equiparazione tra i diritti degli uomini e quelli degli animali. «L'utilitarismo trascura l'elemento distintivo della nostra condizione, la nostra radicata propensione a considerarci esseri morali, legati da relazioni di responsabilità ad altri della nostra specie. Al posto del mondo naturale fatto a immagine dell'umanità, troviamo un'umanità ridescritta come parte del mondo naturale».
Un capitolo del Manifesto dei conservatori è dedicato alla natura del totalitarismo, descritto da Roger Scruton come un fenomeno sovrastorico, addirittura teoclastico. «Il totalitarismo è il tentativo di organizzare la società umana senza il rispetto per la libertà dei suoi membri e i bisogni umani. Si rifiuta di vedere la società come qualcosa che ricerchiamo, e riesce a leggervi solo il prodotto artificiale dell'umana libertà, sulla base di convenzioni e consensi. Lo Stato postmoderno riscrive infatti tutti i vincoli come fossero contratti tra i vivi. La lezione che dovremmo trarre dai movimenti totalitari del Novecento è quella che ci insegna che il totalitarismo non è la forma naturale di un modo di vedere patologico, ma il contrario: la forma patologica di uno naturale». Come rileva Hannah Arendt, i lager nazisti non erano progettati semplicemente al fine di distruggere gli esseri umani, ma anche di privarli della loro dignità: «I prigionieri dovevano essere trattati come oggetti, umiliati, degradati, ridotti in uno stato di necessità pura, divorante, senza possibilità di soddisfazione, che avrebbe cancellato gli ultimi brandelli di libertà. Avevano lo stesso che perseguono Iago nell'Otello di Shakespeare in un modo e Mefistofele nel Faust di Goethe in un altro: derubare i detenuti della loro anima. Se scrutiamo nell'animo di Iago troviamo un vuoto, un nulla; come Mefistofele, è una grande negazione, un animo fatto di antispirito, proprio come un corpo può essere costituito da antimateria. I campi erano dominati dall'antispirito e chi vi era prigioniero si aggirava barcollando, gravato dal grande segno della negazione. A chi era permesso osservarli, questi antiumani apparivano repellenti, coperti di parassiti, moralmente offensivi e, di conseguenza, il loro sterminio poteva essere presentato come una necessità. La loro scomparsa in un oblio comune divenne l'equivalente spirituale della materia che viene inghiottita da un buco nero».
George Orwell parlava del totalitarismo come di un tradimento teologico. Dice Scruton che «se nell'impero sovietico è stato opera di forza, nel mondo occidentale è stato invece generato dal consenso. Nel primo caso la causa era il desiderio di distruggere Dio; nel secondo l'incapacità di percepirlo».
Per questo gli piace ricordare che all'orrore del sistema sovietico Aleksandr Solzenicyn rispose con una preghiera: «Non sia attraverso me che il male entri nel mondo».

Come nascono i bambini
L'idiota di Dostoevskij dice che la bellezza salverà il mondo, aforisma ormai neutralizzato dall'abuso kitsch. Ma per Scruton contiene sempre una verità: «
L'esperienza della bellezza è la riflessione e la comprensione che il nostro essere qui e ora non si esaurisce nel presente. Contiene un cuore di eternità che sale in superficie quando ci innamoriamo, nascono i figli e ci promettiamo fedeltà nel matrimonio. Le nozze sono infatti un rito di passaggio, durante il quale una coppia va da una condizione sociale a un'altra, e la cerimonia non coinvolge solo gli sposi bensì l'intera comunità a quale appartengono. E questo è il modo con il quale i figli sono "generati". Oggi è diffusa invece una cultura di dissacrazione, nella quale i rapporti sono svuotati delle antiche virtù religiose (innocenza, sacrificio, promesse eterne) e in cui poco o nessun riconoscimento è concesso alle idee di sacro, di santo e di proibito». In proposito, però, l'autore del Manifesto dei conservatori è contrario all'uso della parola valori: «I valori sono una questione di pratica non di teoria. Non sono insegnati quanto impartiti, dispensati. Li si apprende attraverso un'immersione, entrando in contatto con i propri simili, plasmando un "io" a partire da un "noi" collettivo»
.
La Chiesa cattolica è impegnata in una drammatica battaglia nella difesa della generazione umana.
Una battaglia che per Scruton «è degna di essere combattuta: tutte le altri visioni della riproduzione umana negano la dignità dell'uomo. La forma umana è vulnerabile alla profanazione e al sacrilegio. Alcuni momenti della vita (nascita, morte, procreazione) traducono il carattere sacro della vita in una percezione immediata e realistica. La riproduzione umana è un processo di milioni di anni di adattamento, perciò fino a ieri era vista come qualcosa di troppo sacro per metterci sopra le mani, come un dono degli dei. Oggi invece stiamo cercando di accelerare il processo dell'evoluzione per soddisfare i nostri desideri. Ma chi conosce le conseguenze? La "soluzione finale" al problema dell'uomo è già stata posta seriamente. L'uomo sembra ridondante. L'umiltà che un tempo circondava la creazione è stata data via per il cinico sfruttamento della vita. Riferirsi alle vecchie idee del destino, del sacro e dell'intoccabile non produce alcuna emozione nelle persone che credono che la biologia contenga l'intera verità della condizione umana. Il corpo non è più il ricettacolo nel quale si congiungono l'empirico e il trascendente, la nicchia dell'io nel contesto della natura. È diventato un bersaglio da aggredire, devastare e consumare, da vedere in tutti i suoi contorcimenti come un verme che si attorciglia miseramente in agonia. Noi, però, siamo motivati non solo da appetiti, ma anche da una concezione del bene. Non siamo solo oggetti in un mondo di oggetti, ma anche soggetti, creature sospese fra l'empirico e il trascendente. Abbassando gli occhi sulle nostre funzioni organiche, perdiamo di vista la vita morale. Questa non è scienza ma scientismo, che sta alla scienza come la pornografia sta all'amore
».
Roger Scruton è spesso accusato di pessimismo.
«Tutti i conservatori sono tentati dal pessimismo, perché rifiutano ciò che Schopenhauer chiamava l'"ottimismo senza scrupoli" delle facili soluzioni. Il pessimismo è però diverso dalla filosofia della negazione, che è sempre una forma di suicidio morale. Perché non essere felici di fronte al vino, all'amicizia e al volto imprescrutabile di Dio?». Quale verità è necessario preservare? «Quella secondo cui senza sacrificio, niente ha valore».
MANIFESTO DEI CONSERVATORI



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sabato, 19 maggio 2007

GRAZIE ! BUON PASTORE
RESPINGERE GLI ASSALTI DEI NUOVI “BARBAROSSA” CHE TENTANO DI ESPUGNARE LE NOSTRE CITTÀ
Omelia di S.E. Mons. Giuseppe Betori,
Segretario Generale della CEI,
in occasione della Festa di Sant’Ubaldo
Patrono di Gubbio (PG)
Nella prima lettura di questa liturgia il libro del Siracide ci ha offerto il ritratto del Sommo Sacerdote Simone, un ritratto che ben si attaglia anche alla figura di Sant’Ubaldo, così come ce l’ha consegnata la storia e la devozione dei suoi concittadini. Ne emerge in particolare la funzione liturgica, fondamentale nel ministero di un vescovo – e di cui nella vita di Sant’Ubaldo si ha testimonianza vivissima proprio alla vigilia della sua morte, a ciò invocato dal suo popolo che ne reclama l’azione sacerdotale –, ma non vanno trascurati gli altri segni che completano l’immagine, in particolare in rapporto al servizio del popolo.
Perché proprio questo fa grande Sant’Ubaldo e quindi da sempre e da tutti in Gubbio venerato e amato: il suo essere servitore della comunità ecclesiale e civile. Gli episodi che ne arricchiscono la biografia vanno tutti in questa direzione: la riforma della vita del clero, l’accettazione delle sofferenze che gli procura il suo comportamento mite e pronto al perdono, la povertà e l’uso benefico dei beni materiali a vantaggio dei poveri, il mettere a repentaglio la propria vita per riportare la pace, il ripudio di ogni timore davanti ai potenti per difendere la causa dei deboli, la serena accettazione delle sofferenze che colpiscono il suo corpo con il progredire degli anni, le numerose guarigioni di malati e afflitti durante la sua vita e dopo la sua morte.
Ma c’è una frase nel brano del Siracide che risplende di particolare vigore, illuminando il momento centrale del rapporto tra Sant’Ubaldo e la sua città:
“Premuroso di impedire la caduta del suo popolo fortificò la città contro un assedio”. Non possiamo non scorgervi una esaltante corrispondenza con il segno di croce tracciato da Sant’Ubaldo che pose fine all’assedio delle città nemiche. Ma non possiamo dimenticare che esso giunse solo alla fine di un itinerario di conversione del popolo e dopo la supplica che il Santo rivolse al Signore.
C’è una forte carica di esemplarità in questo episodio chiave della vita di Sant’Ubaldo, che molto più insegnare anche per la condizione odierna della nostra società.
Nuovi nemici tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento e di creare turbamento alla loro vita. Questi nuovi nemici si chiamano il nichilismo e il relativismo, che in modo più o meno esplicito nutrono le tendenze egemoni nella nostra cultura: fanno dell’embrione, l’essere umano più indifeso, un materiale disponibile per sperimentazioni mediche; danno copertura legale al crimine dell’aborto e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell’inizio e della fine della vita umana; introducono il concetto apparentemente innocuo di qualità della vita, che innesca l’emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati;
coltivano sentimenti di arroganza e di violenza che fomentano le guerre e il terrorismo; delimitano gli spazi del riconoscimento dell’altro chiudendo all’accoglienza di chi è diverso per etnia, cultura e religione; negano possibilità di crescita per tutti mantenendo situazioni e strutture di ingiustizia sociale; oscurano la verità della dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sé; scardinano la natura stessa della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna.
Occorre avere consapevolezza di questa battaglia in corso attorno alla persona umana e alla sua dignità e di quanto essa sia decisiva per il futuro della società, ma occorre anche riconoscere che può salvarci solo il riferimento al Dio creatore e alla sua legge scritta nei nostri cuori, e a noi rivelata in pienezza da Gesù che ci offre anche la grazia di adempierla. È questo riferimento trascendente che, giustamente, don Angelo Fanucci – nel suo commento alla vita di Sant’Ubaldo scritta da Giordano – vede in quel collocarsi “in alto” da parte di Sant’Ubaldo nel prendere posizione a favore dei suoi concittadini nel dramma dell’assedio. Così come la grandezza del Sommo Sacerdote Simone è tutta nel suo essere pontefice, ponte tra Dio e il suo popolo, altrettanto Sant’Ubaldo si colloca al di sopra di una visione puramente umana delle cose e si pone nella prospettiva di Dio, altrettanto anche noi oggi siamo chiamati a discernere e giudicare il presente con gli occhi di Dio e a chiedere a tutti, credenti e non credenti, di fare altrettanto se vogliamo salvare il nostro futuro, a vivere tutti – come ci ha invitato Benedetto XVI – etsi Deus daretur”, “come se Dio esistesse”, ribaltando l’ipotesi che ha retto il pensiero e l’agire della modernità, l’““etsi Deus non daretur“”, il “come se dio non ci fosse” che ha prodotto i forni di Auschwitz e i gulag della Siberia. Se vogliamo difendere il vero volto dell’uomo abbiamo bisogno di riscoprire il volto di Dio.
E il volto di Dio è l’amore, come ci ha ricordato il Santo Padre nella sua enciclica Deus caritas est. Non però l’amore debole che nasconde la verità, che crea ambiguità sotto il velo della falsa tolleranza, bensì quello esigente che non rinuncia a ferire per curare, a distinguere per poter allacciare ponti veri e non a voler rendere tutto fittiziamente omologo, a richiamare alla responsabilità senza indulgere in un buonismo alla fine perdente. Solo da questa carità nella verità può scaturire quella capacità di costruzione della comunione
che segna tante vicende della vita di Sant’Ubaldo e che la seconda lettura, tratta dalla lettera di San Paolo agli Efesini, descrive nei termini della benevolenza, della misericordia, del perdono, della carità a imitazione di Cristo che “ha dato se stesso per noi”.
Questa visione alta della carità, che non rinuncia alla verità, ma proprio per questo è capace di generare progetti di novità di vita nella sfera individuale e in quella sociale, è ciò che è chiesto oggi ai cattolici. Da un siffatto progetto di rinnovamento spirituale, culturale e sociale può scaturire quel dominio sui dèmoni del nostro tempo, la cui sottomissione, secondo le parole della pagina del vangelo di Luca, è legata al nome di Gesù e al nostro affidarci come discepoli a lui. L’attesa della protezione del Santo è viva per noi, come lo fu in occasione della sua morte da parte dei tanti poveri che si rivolsero alla sua intercessione. Ma, come ci ricorda il vangelo, ancor più importante è che il nome di Sant’Ubaldo splenda scritto nel cielo e che a questa meta di santità chiami tutti noi. La meta della santità, costituisce anche nel tempo presente il compito affidato alla testimonianza che i credenti sono chiamati ad offrire al Signore Risorto, così che egli possa risplendere come speranza per l’umanità. Lo abbiamo ribadito nel recente Convegno ecclesiale nazionale di Verona. Vogliamo riascoltarlo con le parole di Giovanni Paolo II, che al termine del grande Giubileo dell’anno 2000 ci ha riproposto la santità come «“misura alta” della vita cristiana ordinaria», che tutti quindi ci interpella a vivere, per usare le parole di Benedetto XVI, rispondendo con il “sì” della fede al «grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza». Così sperimenteremo per noi e saremo capaci di testimoniare agli altri la bellezza della vita cristiana, come essa sia compimento pieno e ulteriore di ogni nostra attesa, gioia perfetta che nulla può oscurare e che non avrà mai fine.

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giovedì, 17 maggio 2007


J’accuse di René girard




Gli intellettuali sono castratori di significato: “Dopo il linguaggio stanno decostruendo l’uomo”. Microeugenetica, un sacrificio umano. “La sessualità è il problema, non la soluzione”. Le idee spietate di un grande pensatore

Roma. Nonostante gli ottantaquattro anni, René Girard non ha perso niente della fibra di pensatore radicale, quasi terminale. Sta lavorando a un nuovo saggio su Karl von Clausewitz. Autore di opere capitali del pensiero contemporaneo come “La violenza e il sacro” e “Il capro espiatorio”, eletto fra i quaranta “immortali” dell’Académie française, René Girard è il più grande antropologo vivente insieme a Claude Lévi-Strauss. In questa intervista al Foglio, Girard torna su quella che ha definito “la grande questione antropologica del nostro tempo”. Apre con una domanda: “Può esserci una antropologia realistica che precede la decostruzione? In altre parole: è lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? L’antropologia contemporanea, strutturalista e postmoderna, nega quest’accesso alla verità. Il pensiero attuale è la castrazione del significato. Sono pericolosi questi tentativi di mettere in discussione l’uomo”. E’ questa l’origine, secondo Girard, dello “skandalon” della religione nell’epoca della neosecolarizzazione. “A partire dall’illuminismo, la religione è stata concepita come puro non sense. August Comte aveva una teoria precisa sull’origine della verità e il suo intellettualismo ottocentesco ricorda molto quello in voga oggi. Comte diceva che ci sono tre fasi: religiosa, che è la più puerile; filosofica e infine scientifica, la più vicina alla verità. Oggi nel discorso pubblico si mira a definire la ‘non verità’ della religione, indispensabile invece per la sopravvivenza della specie umana. Nessuno si domanda quale sia la funzione della religione, si parla solo di fede: ‘Io ho fede’. Ma poi? La teoria rivoluzionaria di Charles Darwin sperava di aver dimostrato l’inutilità di una istituzione antica quindicimila anni come la religione. Oggi ci si prova nella forma del caos genetico enunciato dal neodarwinismo. Si prenda uno scienziato come Richard Dawkins, è un pensatore estremamente violento e vede la religione come qualcosa di delinquenziale”. La religione ha una funzione che va oltre la fede e la veridicità del dono monoteista: “La proibizione dei sacrifici umani. Il mondo moderno ha deciso che è la proibizione il non sense. La religione è tornata a essere concepita come il costume del buon selvaggio, uno stato primitivo di ignoranza sotto le stelle. La religione è invece necessaria a reprimere la violenza. L’uomo è una specie unica al mondo: l’unica che minacci la propria sopravvivenza attraverso la violenza. Gli animali durante la gelosia sessuale non si uccidono a vicenda. Gli esseri umani sì. Gli animali non conoscono la vendetta, la distruzione della vittima sacrificale legata alla natura mimetica delle moltitudini plaudenti”. Oggi si accetta solo una definizione di violenza come pura aggressione: “E’ perché si vuole renderla innocente. La violenza umana è invece desiderio e imitazione. Il postmodernismo non riesce a parlare di violenza: la pone fra parentesi e semplicemente ne ignora l’origine. E con essa la verità più importante: la realtà è da qualche parte accessibile”.
René Girard proviene dal radicalismo francese. “Mi sono riempito la testa con le pagliacciate e il semplicismo mediocre e stupido dell’avanguardia.
So bene quanto la negazione postmoderna della realtà possa condurre al discredito della domanda morale dell’uomo. L’avanguardia un tempo relegata in ambito artistico oggi si estende a quello scientifico che ragiona sull’origine dell’uomo. In un certo senso, la scienza è diventata una nuova mitologia, l’uomo che crea la vita. Così, ho accolto con grande sollievo la definizione di Joseph Ratzinger di ‘riduzionismo biologico’, la nuova forma di decostruzione, il mito biologista. Mi ritrovo anche nella distinzione dell’ex cardinale fra scienza e scientismo”.
L’unica grande differenza fra l’uomo e la specie animale è la dimensione religiosa. E’ questa l’essenza dell’esistenza umana, è l’origine della proibizione dei sacrifici e della violenza. Dove si è dissolta la religione, lì è iniziato un processo di decomposizione. La microeugenetica è la nuova forma di sacrificio umano. Non proteggiamo più la vita dalla violenza, schiacciamo invece la vita con la violenza. Per cercare di appropriarci del mistero della vita a nostro beneficio. Ma falliremo. L’eugenetica è il culmine di un pensiero iniziato due secoli fa e che costituisce il più grande pericolo per la specie umana. L’uomo è la specie che può sempre distruggere se stessa. Per questo ha creato la religione”. Oggi ci sono tre aree in cui l’uomo è in pericolo: nucleare, terrorismo e manipolazione genetica.Il Ventesimo secolo è stato il secolo del classico nichilismo. Il Ventunesimo sarà il secolo del nichilismo affascinante. Aveva ragione C. S. Lewis quando parlava di ‘abolizione dell’uomo’. Michel Foucault aggiunse che l’abolizione dell’uomo sta diventando un concetto filosofico. Non si può più parlare oggi dell’uomo. Quando Friedrich Nietzsche annunciò la morte di Dio, in realtà stava annunciando la morte dell’uomo. L’eugenetica è la negazione della razionalità umana. Se si considera l’uomo come mero e grezzo materiale da laboratorio, un oggetto manipolabile e malleabile, si può arrivare a fargli qualsiasi cosa. Si finisce per distruggere la fondamentale razionalità dell’essere umano. L’uomo non può essere riorganizzato”.
Secondo Girard, oggi stiamo perdendo di vista anche un’altra funzione antropologica, quella del matrimonio. “Una istituzione precristiana e valorizzata dal cristianesimo. Il matrimonio è l’indispensabile organizzazione della vita, legata alla richiesta umana di immortalità. Creando una famiglia, è come se l’uomo perseguisse l’imitazione della vita eterna. Ci sono stati luoghi e civiltà in cui l’omosessualità era tollerata, ma nessuna società l’ha messa sullo stesso piano giuridico della famiglia. Abbiamo un uomo e una donna, cioè sempre un’opposizione. Alle ultime elezioni americane del 2006, la vera vittoria è stata del matrimonio naturale ai referendum”.

La noia metafisica dell’Europa
L’Europa è immersa in quella che l’arabista della Sorbona Rémi Brague chiama noia metafisica. “E’ una bella definizione, anche se mi pare che la superiorità del messaggio cristiano diventi ogni giorno più visibile. Quando è più attaccato,
il cristianesimo brilla di maggiore verità. Essendo la negazione della mitologia, il cristianesimo splende nel momento in cui il nostro mondo si riempie di nuove mitologie sacrificali. Lo skandalon della rivelazione cristiana l’ho sempre inteso in maniera radicale. Nel cristianesimo, anziché assumere il punto di vista della folla, si assume quello della vittima innocente. Si tratta di un capovolgimento dello schema arcaico. E di un esaurimento della violenza”.
Girard parla di ossessione per la sessualità. “Nei Vangeli non c’è nulla di sessuale e questo fatto è stato completamente romanticizzato dalla gnosi contemporanea. La gnosi da sempre esclude categorie di persone e le trasforma in nemici. La cristianità è l’esatto contrario della mitologia e della gnosi. Oggi avanza una forma di neopaganesimo. Il più grande errore della filosofia postmoderna è aver pensato che potesse gratuitamente trasformare l’uomo in una macchina di piacere. Da qui passa la disumanizzazione, a cominciare dal desiderio falso di prolungare la vita sacrificando beni più grandi”. La filosofia postmoderna si basa sull’assunzione che la storia sia finita.Da qui nasce una cultura schiacciata sul presente. Da qui origina anche l’odio per una cultura forte che afferma una verità universale. Oggi si crede che la sessualità sia la soluzione a tutto, invece è il problema, la sua origine. Siamo continuamente persuasi da una suggestiva ideologia del fascino. La decostruzione non contempla la sessualità all’interno della follia umana. La nostra pazzia è dunque nel voler banalizzare la sessualità facendone qualcosa di frivolo. Spero che i cristiani non seguano questa direzione. Violenza e sessualità sono inseparabili. E questo perché si tratta della cosa più bella e turpe che abbiamo”.
E’ in corso un divorzio fra umanità e sintassi, realtà e linguaggio. “Stiamo perdendo ogni contatto fra il linguaggio e le ragioni dell’essere. Oggi crediamo solo al linguaggio. Amiamo le favole più che in qualunque altra epoca. La cristianità è una verità linguistica, logos, Tommaso d’Aquino è stato il grande promulgatore di questo razionalismo linguistico. Il grande successo della cristianità angloamericana e dunque degli Stati Uniti si deve non a caso a straordinarie traduzioni della Bibbia. Nel cattolicesimo oggi c’è fin troppa sociologia. La chiesa è troppo spesso compromessa con le lusinghe del tempo e il modernismo. In un certo senso i problemi sono iniziati con il Concilio Vaticano II, ma risalgono alla precedente perdita dell’escatologia cristiana. La chiesa non ha abbastanza riflettuto su questa trasformazione. Come possiamo giustificare la totale eliminazione dell’escatologia persino nella liturgia?”.

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lunedì, 07 maggio 2007

Ho trovato questo interessantissimo bellissimo articolo che vi propongo
LA CULTURA IN EPOCA DI TRANSIZIONE:
di Luigi Firpo   da:CENTRO DIEA
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Luigi Firpo è nato a Torino nel 1915 da un vecchio ceppo piemontese, anche se il nome rivela chiaramente l'origine ligure. Laureato in giurisprudenza, dal 1946 insegna storia delle dottrine politiche nell'Universita' torinese; Ordinario nella Facolta' di scienze politiche, da molti anni vi tiene anche il corso di metodologia della ricerca storica. I suoi interessi di studioso lo hanno condotto a indagare soprattutto il pensiero dell'umanesimo, del rinascimento e della controriforma, con particolare interesse per i pensatori assillati dal problema del difficile rapporto tra etica e politica. Ha pubblicato centinaia di saggi storici, di contributi eruditi e bibliografici, di edizioni critiche di testi (Agostini, Botero, Pucci, Boccalini, gli «Opera omnia» di Campanella ecc.). Il pensiero politico di Savanarola, la Condanna di Machiavelli, il processo di Giordano Bruno sono alcuni esempi delle sue indagini di storico delle idee. Ha tradotto e commentato numerosi testi, da Erasmo a Tommaso Moro, dai viaggiatori del cinquecento agli anti-machiavellici. Le sue simpatie vanno soprattutto agli urbanisti antichi, agli utopisti e agli eretici. Non ha mancato di interessarsi anche al secolo XVIII (Pagano, Beccaria) e al XIX (Marx giovane ecc.). Dirige per la Casa Utet i «Classici della politica» e una serie dei «Classici delle religioni», per la Casa Sansoni la «Biblioteca bibliografica italica» e il «Corpus reformatorum italicorum», per la Fondazione Einaudi gli «Scrittori italiani di economia, politica e storia»; è fondatore e condirettore della rivista «Il pensiero politico». Collabora regolarmente alla «Stampa». Tra i suoi scritti raccolti in volume: «Bibliografia di T. Campanella» (Torino, 1940); «Ricerche campanelliane» (Firenze, 1947); «Il processo di G. Bruno» (Napoli, 1949); «Lo stato ideale della controriforma» (Bari, 1957); «Il pensiero politico del Rinascimento» (Milano, 1964); «La ragion di stato» (Torino, 1976)
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Il senso della crisi, acuto nel nostro tempo, tende a trasformarsi in angoscia esistenziale. Da un lato, come patrizi romani del basso Impero, vediamo tutte le cose in cui credemmo imputridire d'improvviso e sfaldarsi, i valori negati o derisi, senza aver neppure la consolazione precaria del presagire nei barbari distruttori e rapaci una vergine forza primitiva, un candido vitalismo purificatore, destinato in futuro ad aprirsi alle suggestioni del mondo antico e alle conversioni della nuova fede. Dall'altro, l'ondata che sembra travolgerci rimescola utopismi impotenti, velleità edonistiche viscerali, un generale rifiuto di impegno e di servizio. La sete di giustizia che sembra sommuovere il mondo si traduce in mille piccole bramosie individuali, in risse di corporazioni o di nazioni, in una guerra di tutti contro tutti. Quando si naviga così, senza stelle polari certe, in mari tempestosi, ogni debole mente vacilla. Nelle brevi stagioni di ottimismo creativo - la Grecia dell'età di Pericle, l'umanesimo, l'illuminismo - l'uomo si esalta d'una fiducia illimitata e forse temeraria nella ragione; nei tempi di impotenza e di smarrimento, frustrato dallo scacco impietoso, essa tenta l'evasione nell'irrazionale. Magia e astrologia tornano in auge, spiritismo e macrobiotica, guru e sciamani, estasi e ipnosi. La grande fuga dalla realtà imbocca i sentieri morbidi della perdizione nei paradisi artificiali: hascisc e marijuana, oppio e acido lisergico, ultima, e definitivamente risolutiva, l'eroina: l'abbandonarsi al gorgo della droga non tanto segna il crollo dei freni inibitori, quanto la rinuncia a padroneggiare il mondo, la fine della speranza. Con la loro sensibilità precorritrice, gli artisti, con molti decenni d'anticipo, annunciano disgregazioni e decomposizioni, sognano mostri. Da molti decenni i miti del superuomo hanno rinnegato l'uomo per tentare evasioni verbali nell'impossibile. I miti pagani dell'abbondanza e della giovinezza ci si ripresentano con il loro volto più ottuso: il consumismo sfrenato delle cose stupide e inutili, il pavido servilismo verso i giovani quali portatori di verità spontanee e gratuite. Gli uomini si profumano e ricolorano le chiome, portano vesti sgargianti, si travestono da adolescenti, rincorrono con affanno le mode più capricciose, quasi per dimenticare ciò che li aspetta da vicino, appostato in crocevia forse inevitabili: il cancro, l'atomica, l'inutile stupidità dell'esistere.
Quando l'ondata travolse i mezzi di comunicazione di massa, la musica popolare divenne isteria collettiva, la televisione si ridusse a trasmettere canzonissime e caroselli, nessuno si allarmò: era solo evasione, rilassamento, riposo del guerriero. Col '68 si raggiunse l'ultima diga, l'Università, e le sussiegose statue dei «baroni» furono abbattute. Nessuno si domandò chi fosse prevaricatore e chi no, quali fossero i mercanti da scacciare dal tempio e, se proprio tutti fossero falsi sapienti e falsi profeti. La universale libertà di studiare unita alla universale facoltà di insegnare ha generato l'universalissima rivendicazione dell'ignorare, il rifiuto di ogni sapere. Quando «scemi, scemi» veniva detto agli uomini di scienza, tutto parve normale, allegro, purificatore. Adesso che lo si grida anche ai professori di estrema sinistra e al segretario della Cgil, qualcuno comincia a stizzirsi. È forse tardi?
Quale può essere il significato di cultura, oggi? E quali forme può assumere la cultura in un'età di sommovimenti tellurici e di rifiuti globali?
Dovremmo partire da una definizione generale di cultura, e non è facile mettersi d'accordo. La parola evoca una metafora rurale, amorosa: l'uomo quasi fosse da coltivare come un tenero germoglio, da crescere con ogni cura, sino a farne pianta robusta. Per un certo tipo di cultura altamente specializzata, la Chiesa cattolica adottò anch'essa un termine contadino, impressionante per il suo implicito determinismo: seminario. Cioè semenzaio, vivaio, luogo dove si educano alberelli a crescer diritti ed eguali. Bildung trae invece origine da un'altra metafora concreta, quasi plasmare un'immagine di argilla, foggiare la creta molle dell'immaturo secondo perfetti modelli precostituiti. Ma oggi non si accettano più modelli, si ricusa ogni condizionamento, ignorando che l'uomo non condizionato, ammesso che possa esistere, è una cosa informe, un feto nel barattolo. Scegliere i condizionamenti bisogna, e questo impone responsabilità gravose, opzioni decisive e irreversibili: tutte cose che esigono lucida ragione e informazioni controllate, scelte inquietanti e capacità di durare. Forse non basta la vita intera di un uomo a plasmarne adeguatamente un altro, e il discepolo deve metter di suo rispondenza amorosa e pazienza e curiosità e umiltà e tutto se stesso. Oggi invece si esalta l'autonomia, la libertà, lo spontaneismo, senza percepire che tutti quelli che non forma la famiglia, la scuola, e quell'altra grande e insostituibile scuola che è il lavoro, si formano sui fumetti, i juke-box, gli amici del bar, la strada, e soprattutto sotto l'influsso della più subdola corruttrice dell'uomo, che è la noia.
Pansessualismo, biologismo inerte, rifiuto di oneri e di responsabilità, sono alla radice, nella scuola, del generale rifiuto della disciplina mentale. Si è giustamente condannato il nozionismo, tritume informe di dati e date sconnesse, ciarpame della memoria, ma si è coinvolta nel rifiuto la nozione, cioè un'immagine definita di un momento della realtà. Una definizione ben nota di cultura - la cultura è quanto rimane dopo che l'ultima nozione si è dileguata - può essere accolta come vera solo se si dà risalto al fatto che le nozioni debbono esserci state, prima, e possono essersi sgretolate, ridotte in polvere, lasciando però intatta la casella, il loculo, lo schema. Per chi questo schema possiede, restaurare nozioni obliterate è facilissimo, così come procurarsi informazioni nuove, di impiego immediato. Una grande enciclopedia compendia, di fatto, l'intero sapere dell'umanità. Posso ignorare tutto della Gran Bretagna, la superficie, la popolazione, il tonnellaggio della flotta, il nome del prima ministro, purché sappia che l'Inghilterra sta lassù in alto a sinistra, e nel richiamare ad essa la mente mi si snodi nella memoria una specie di nastro in cui appaiono, sia pure un po' sfocati, Cesare e Bodicea, il Vallo di Adriano e i Pitti, l'invasione sassone e re Arturo, san Tommaso Becket e san Tommaso More, Drake e Leicester, Milton e Cromwell, Hume e Swift, la società Fabiana e Stephenson, Gladstone e Disraeli, e il garrire sui sette mari delle croci sovrapposte dello Union jack, e i canotti da diparto che ricuperano l'armata in rotta a Dunquerque, e Churchill che promette lacrime e sangue, e i minatori in sciopero, e la cappella di Windsor. Possono mancare tutte le date, e innumerevoli fatti, e libri senza fine, ma la continuità concreta, il colorito d'insieme, l'area del pensiero sono inequivocabili e sono tutto quanto occorre per una corretta collocazione culturale. Tutto il resto è nelle biblioteche, negli annuari, nelle statistiche, negli archivi: basta che allunghi la mano per trovarlo, e appena lo trovo so che andrà al posto giusto, stabilirà da sé tutte le connessioni necessarie, sarà una tessera in più nel diorama smisurato del sapere, così sconfinato che il più erudito degli uomini può sperare di capirne solo qualche minima chiazza. In realtà, la cultura si regge su due grandi arcate portanti, solo apparentemente dissociate: i metodi e i valori. Nell'Università declassata il bisogno di informazione generica di base spinge a richiedere corsi propedeutici, compendi istituzionali, cataloghi generalissimi di concetti facili, di nomi in sequela. Il corso monografico, più tecnico, più approfondito, viene respinto come insegnamento elitario, residuo di una Università narcisistica per pochi. Non sanno, gli ignari, che solo un corso monografico, cioè sufficientemente circoscritto e approfondito, consente di toccare le falde sotterranee della ricerca di prima mano, di enunciare non solo i dati acquisiti, ma i tentativi e gli scacchi, gli inciampi e le felici intuizioni, il metodo critico - in una parola - che ha consentito di accertare i veri proposti e momentaneamente consolidati.
Più delicato è invece il discorso sui valori. Se non ha senso parlare di una cultura senza valori, non è affatto vero che qualsiasi valore si legittimi sul piano della cultura. Tra i fondamentali diritti di libertà è stato giustamente riconosciuto quello di pensiero e di espressione, ed è un diritto che legittima, in quanto non coercibile, anche l'errore. Giuridicamente parlando, ogni opinione è lecita, anche se è ingenua o falsa o nociva. Ma sul piano del sapere la libertà si arresta al confine stesso dell'opinabile, perché al di là, cioè nel campo delle verità non ancora falsificate, nel campo del certo, l'assenso è strettamente vincolante e irrecusabile. Alla verità non si può opporre il diritto di resistenza, perché essa è per sua natura irresistibile, e gli ostacoli che essa può incontrare nel farsi luce sono tutti di segno negativo: si chiamano pregiudizio, ostinazione, passionalità, rifiuto della ragione.
Perciò nel dominio della cultura i valori giovano a ispirare le scelte dei campi di ricerca, animano la nostra capacità di dedizione, rendono lievi i sacrifici e le rinunce, sono il continuo stimolo contro la rilassatezza, l'approssimazione, il tirar via. Ma nel momento stesso in cui i valori pretendono di condizionare l'indagine, di tingerla dei loro colori, allora finisce il territorio lucido e freddo della ricerca del vero e inizia la palude ribollente e nebbiosa dell'ideologia. Appassionata fino al fanatismo, illusoriamente semplificatrice, connotata dalla presunzione di rendere elementare fino alla banalità ogni problema complesso e polivalente, l'ideologia è una tentazione perpetua dell'atteggiarsi mentale dell'uomo. Alla radice essa risponde alla nostra capacità limitata di attenzione e di computo, al nostro bisogno di schematizzare per comprendere; ma se la realtà si configura con gradi elevatissimi di interferenze e articolazioni, una riduzione eccessiva diventa snaturante, la vita infinitamente molteplice si riduce a secchi ideogrammi, la ragione e il torto si radicalizzano, presto lo schema non serve più a fornire un'immagine elementare della realtà, bensì a giudicarla. L'ideologo infatti è mosso da un impulso etico, non cerca conoscenze ma linee di condotta, non gl'interessa comprendere il mondo poiché è solo impaziente di mutarlo. In questa temperie bruciante di passioni ogni sapere oggettivo, disincantato, perpetuamente disponibile alle verifiche e al riconoscimento del proprio errore, ogni atteggiamento critico, diventano scomodi e vengono giudicati retrivi; i teoremi lasciano il posto agli slogans e alle invettive; le culture pacate, assestate, lentamente progressive, vengono contestate in blocco; la storia assume accelerazioni improvvise, impennate emotive, turbolenze vorticose. Si parla allora di cultura in crisi, di età di transizione.
Un discorso che voglia mettere in guardia contro gli eccessi del trasporto emotivo deve anzitutto racquietare almeno in parte questa impressione drammatica di sommovimento. Appartiene alla nostra condizione esistenziale, calata in un «continuo» spazio-temporale, la tendenza ad amplificare l'attimo, il presente, e tutto ciò che ci coinvolge traumaticamente da vicino. In realtà, e a stretto rigore, il presente non esiste, perché la separazione fra passato e futuro è più sottile del filo di ragno che partisce l'oculare di un telemetro: nell'atto del pensare l'istante prossimo che sta per scoccare, il piccolo gesto che sto per compiere, esso già si è materializzato, appartiene ormai al passato, fugge irreparabilmente dietro le mie spalle. Così le crisi, le catastrofi, le nostre sventure si attenuano nel tempo, perdono di crudezza, e il bene e il male - nostro e del mondo - sfumano i loro contorni, si aggregano come aspetti contingenti e variegati della storia.
Sta di fatto però che, dopo l'ultima grande ondata di ottimismo ingenuo e di fede nel progresso che accompagnò la breve stagione del positivismo, le luci del balletto Excelsior si sono spente. Due folli guerre mondiali, l'insurrezione del terzo mondo, i grandi blocchi che contrappongono concezioni della società divergenti e testate nucleari multiple, la crisi dell'economia e quella anche più grave della convivenza civile, nel nostro secolo hanno scosso tutti i pilastri della sicurezza materiale e della tranquilla coscienza. Tutto sembra diventato argomento di dissenso radicale e di odio senza quartiere.
La cultura non è che lo specchio di questa caduta di certezze, di questo smarrimento: e poiché la cultura è anche prodotto di un ceto di intellettuali affamati di rinomanza e di successo, essi ne esasperano le crepe e gli scompensi, calpestando i valori, frantumando il territorio del pensiero e dell'arte in isolotti per iniziati capricciosi, escogitando mode ed esperimenti, narcisismi ed estremismi, virulenze da efebi e turpiloqui aristocratici. Un effluvio di simulazione interessata, tenue ma sgradevole, esala da innumerevoli manifestazioni e tradisce l'antica consuetudine cortigiana del letterato adulatore di ogni vecchio e nuovo potere. Così sterminato era il patrimonio millenario di capolavori, che sembra non basti la saliva per sputare su tutti così alla svelta. Sta di fatto che, mentre il compito dell'intellettuale sarebbe quello di rasserenare dalle angosce e di infondere coraggio operoso e speranza, molti operatori culturali accentuano l'ansia e l'insicurezza con modi giullareschi ed esibizionistici: anche sotto il cappuccio fosco dei profeti dell'Apocalisse sembra far capolino talvolta, più che un berretto frigio, un berretto a sonagli.
Eppure, se dovessi indicare il fattore primario della crisi, l'innesco delle reazioni a catena, non potrei che individuarlo in un fatto in sé positivo e benefico: la crescita straripante della massa di informazioni e l'accelerazione fulminea della loro diffusione. Nessuno vorrà sostenere che sapere di più e sapere più in fretta sia un male, ma certo le conseguenze di questo progresso sono sconvolgenti. Sul piano della quantità, il numero di dati e di elaborazioni disponibili è cresciuto in modo vertiginoso, ma la nostra attitudine a smistarli, classificarli, utilizzarli, è rimasta arcaica e artigianale. Chiunque si occupi con continuità di un pur ristretto settore di studi, vive in una crescente angoscia da impotenza: si enunciano troppe cose, in troppe lingue, in troppe sedi (riviste, atti, giornali, trasmissioni radio-televisive) per poter seguire e assimilare almeno l'essenziale, anche se ci fosse modo di sapere a priori che cosa è essenziale e che cosa non lo è. Una migliore organizzazione, il computer, l'abstract, la memorizzazione selettiva potrebbero ovviare agli scompensi materiali, ma nulla potrà ovviare, almeno in tempi storici, agli scompensi psichici, alle limitate capacità di ritenzione della nostra mente e all'altrettanto limitata durata biologica della nostra vita. Conseguenza inevitabile, una progressiva parcellizzazione del sapere, un aggregarsi di sciami di scienziati unius libri, che solo nell'unità dell'alveare di cui fanno parte potranno ricomporre un sapere comunitario globale. Già ora, anche senza rendercene conto, non andiamo più «dal medico», bensì «dai medici» specialisti e di laboratorio, nei confronti dei quali il vecchio medico curante s'è ridotto a funzioni di mero smistamento.
Ma una cultura frantumata in schegge si declassa a tecnica, che è per l'appunto il contrario della cultura generalizzante, tradizionalmente concepita come attitudine a sistemare le nozioni (un tempo più rade e più lentamente assimilate) entro un quadro globale ed organico.
Seconda conseguenza della crescente massa d'informazioni disponibili è la rapida senescenza di ogni assetto o bagaglio conoscitivo, l'invecchiamento precoce del sapere individuale. Per secoli s'è ritenuto, con riferimento a un curricolo di studi superiori, che una quindicina d'anni di tirocinio aggiornato fossero più che sufficienti per assicurare un complesso di conoscenze valido per il residuo corso dell'esistenza. Grosso modo, tenuto conto della più breve durata media della vita umana ma della relativa longevità degli intellettuali, si può ritenere che un quarto dell'esistenza (dopo l'infanzia) fosse dedicato a formare gli esperti, e tre quarti a utilizzarli. Oggi, per contro, un uomo di scienza diventa obsoleto in dieci o dodici anni, e il margine tende ulteriormente a diminuire. L'alta produttività della società industriale, con la crescente disponibilità di tempo libero, rende possibile non solo una riqualificazione periodica, ma addirittura l'istruzione permanente. Non avremo più la laurea una tantum e conclusiva, ma schiere di studenti vitalizi, benché già occupati in mansioni di grande responsabilità. Si potrà lasciare la scuola solo andando in pensione. Anche questo fenomeno incide fortemente sull'instabilità della cultura, perché l'afflusso irruento di nuovi dati e di nuove teorie non risparmia gli schemi generali e spesso li investe tumultuariamente, accentuando il senso di precarietà e il disorientamento.
Infine la celerità dell'informazione, ormai percepibile per gli avvenimenti d'attualità in tempi quasi reali (la televisione via satellite, che consente al mondo intero di assistere agli eventi nell'atto in cui si producono), accentua quel fenomeno di simultaneità che attraverso il telegrafo prima, il telefono poi, aveva cominciato a delinearsi. Strada, diligenza, ferrovia avevano di secolo in secolo avviato questo ravvicinamento dei luoghi remoti, ma l'informazione continuava a giungere differita, spesso decantata e selezionata, formulata in testi necessariamente interpretativi e riflessi. La ricezione a sua volta avveniva in modi meno emotivi, senza la suggestione immediata delle immagini e dei suoni, che inducono l'illusione di una presenza reale. Informazione istantanea e sensoria: ecco un altro fattore di passionalità coinvolgente, che di continuo insidia gli equilibri del conoscere meditato e selettivo. Questa accelerazione travolgente si manifesta ai nostri occhi con un altro aspetto che sconcerta e deprime: l'accentuarsi fino alla totale rottura del salto generazionale, l'incomunicabilità sorda tra i padri e i figli. Sottoposti a questo getto da idrante di informazioni suggestive e mal controllabili, i giovani presentano incastellature sistematiche più rudimentali e fragili, minor bagaglio di esperienze equilibranti, maggiore sensibilità emotiva connessa con gli ancora intensissimi processi biologici in atto nel loro organismo; sono, in sostanza, molto più ricettivi e molto meno assestati in fatto di equilibrio psicologico e di spirito critico. Di qui il loro tendenziale estremismo quale impasto di immaturità, vitalismo e sradicamento da tradizioni consolidate. Non solo i maggiori agi consentono loro autonomie e capricci un tempo non immaginabili, ma il lavoro non casalingo dei genitori, la loro ricerca di maggiori svaghi ed evasioni, il grigio consumismo quotidiano che spegne il dialogo familiare, sono altrettanti fattori di isterilimento della comunicazione tra le generazioni, cioè di quella inconscia e pur quotidiana trasmissione di sentimenti, esperienze e valori, che fu nei secoli l'essenziale plasmatrice dei giovani, infinitamente più efficace, in concreto, dei moduli sovente posticci e retorici della scuola.
Si aggiunga poi che l'urbanesimo, con i suoi minuscoli alveari domestici, e la previdenza sociale, con le sue modeste pensioni agli anziani, già avevano cooperato all'espulsione dei vecchi dai nuovi nuclei familiari, togliendo ad essi quella funzione non appariscente, ma radicata e costante, di ammaestratori e confidenti dei piccoli nipoti, spesso affidati alla loro sorveglianza per consentire ai genitori di attendere ai loro pesanti impegni di lavoro. La fisica eliminazione dei nonni ha soppresso questo fattore di tradizione diretta attraverso generazioni alterne, che costituiva un efficacissimo correttivo frenante, saldando la trasmissione dei valori su archi lunghissimi, dell'ordine di un mezzo secolo.
Se la produttività industriale ha generato l'aberrazione del consumismo, il vuoto di educazione dei giovani e la messa al bando dell'esperienza hanno dato il via all'edonismo. Diciamo meglio, per non passare per vieti moralisti, all'eudemonismo. A stento uscite dall'antica pena del vivere, da secoli e secoli di stenti, privazioni e rinunce, le nuove generazioni pretendono la felicità subito e qui, con aggressiva impazienza. E non occorre neppure chiedersi, ammesso che la felicità si possa misurare e comprare, quali sarebbero i costi sociali di ciò che pretendono, perché l'essere felice è un'aspirazione lecita e stimolante, purché non si bruci tutta la legna per il falò di questa sera e si pensi ad un appagamento durevole o globale, non solo oggi e in questa stanza, ma domani e dovunque. Molti finiscono così, per incauta furia, bruciati verdi.
E non si tratta solo di un atteggiamento dei giovani, perché anche i loro padri, in modi più convenzionali e filistei, vivono la crisi del tempo libero, il salto brusco dalle snervanti giornate di lavoro dei vecchi tempi all'evasione totale che sembra voler trasformare l'homo faber in homo ludens. L'efficacia della macchina ha messo in crisi il concetto di lavoro: è tramontata, se non per una minoranza sempre più sparuta di superstiti che ancora si identificano nella fatica creativa o nella dedizione altruistica, l'ideologia protestante del lavoro come assoluto dovere e come realizzazione di sé nell'opera ben fatta, seria, duratura. Non certo per un ricuperato senso religioso, si è tornati all'originaria concezione biblica del lavoro come maledizione e castigo, dopo la cacciata dall'ozioso Paradiso terrestre, in cui si compendia forse l'esperienza di gruppi umani passati dalla libertà - pur faticosissima - dei cacciatori-raccoglitori alle dure incombenze e ai ritmi stagionali inderogabili dell'agricoltura.
Anche qui un fattore positivo, recepito in modo tumultuario e acritico, si rivela traumatizzante. Nessuno vorrà negare che la servitù oppressiva del lavoro eccessivo o malsano debba essere spezzata, né che il tempo libero possa colmarsi di pratiche sportive corroboranti e di larghi arricchimenti culturali: ma il rischio sta nell'illusione di poter mutare d'un subito il lavoro in ozio, di credere che si possa sortire tutto d'un tratto, quasi per magia, da millenni di povertà parsimoniosa, gravati dall'assidua fatica necessaria per assicurare una misera sopravvivenza, insidiati di continuo da carestie, guerre e pestilenze. Anche qui, la rivoluzione industriale è stata - in termini storici - troppo rapida, quasi un salto dalla servitù della gleba al paese di Bengodi: a mezza via tra l'abbiezione e la favola, bisognerà riequilibrare l'uomo. Ma uno dei tarli del nostro tempo si rivela questo rifiuto del lavoro, questo confondere la liberazione legittima dalla fatica come servitù col disconoscimento del lavoro come realizzazione di sé e contributo al bene comune, grande equilibratore e grande educatore delle coscienze, arco di volta di ogni cultura che non sia accademica o evasiva.
Ultima ho lasciato, non a caso, la crisi religiosa, non perché in tempi di irrazionalismo come quello che viviamo non si assista ad un ripullulare di vecchie fedi o alla moda di nuovi spiritualismi e di nuovi paganesimi. L'esperienza religiosa individuale resta un fatto geloso e privato, socialmente persino benefico. La crisi religiosa che tutti ci tocca da vicino è invece quella della morale che ogni religione predica e consacra, quella che raggiunge l'intimo delle coscienze, ben al di là della sfera dei comportamenti esteriori sanzionati da codici imperfetti e da inadeguate polizie giudiziarie. In realtà, è accaduto che la visione «scientifica» del mondo ha profondamente corroso i supporti basilari dell'etica positiva rivelata, la sua trascendenza, la sua autorità indiscutibile nella sfera umana; ma per contro non ha saputo surrogarla con un'etica della scienza, un codice di doveri che si fondi sopra una visione profana e laica del mondo. Non parlo, sia ben chiaro, dell'etica della ricerca scientifica, quella che si domandò ad esempio se fosse lecito fabbricare la bomba atomica e oggi si domanda se sia lecito sviluppare «copie» fedeli di esseri umani partendo da un'unica cellula non fecondata: questi quesiti hanno senso solo all'interno di un sistema morale, ed è appunto questa generale eticità che è venuta a mancare.
Un primo tentativo, precoce e rozzo, si delineò nell'etica positivista, ma l'idealismo e lo spiritualismo nelle sue diverse forme si sono affrettati a metterlo in ridicolo. Il risultato è che viviamo oggi in un mondo prevalentemente materialista, senza quei valori che pure un materialismo rigoroso dovrebbe essere in grado di elaborare. Viviamo semplicemente in un mondo amorale e permissivo, dove è lecito tutto ciò che è possibile e dove nulla è dovuto (salvo l'ipocrita solidarietà sociale, che viene conclamata nei comizi, dove costa poco, ma disattesa nella realtà del comportamento individuale). Generalizzando l'assistenza, abbiamo ucciso la solidarietà; credendo di essere protetti e garantiti da uno Stato remoto e impersonale, abbiamo soppresso la famiglia patriarcale, il vicinato, il quartiere, la comunità concreta fatta di uomini veri e di bisogni reali. Ne nasce la tendenza al parassitismo reciproco, la caccia generalizzata a privilegi che finiscono per elidersi a vicenda. L'esito tendenziale è il rifiuto crescente della responsabilità e il dilagare della inefficienza. L'ideologia dei «figli dei fiori» o degli «indiani metropolitani», la pretesa di godersi la vita con assoluta spontaneità e senza remore o complessi, presuppone un mondo mite e gratuito come quello idoleggiato dai poveri nel Paese di Cuccagna, cioè conduce allo sfruttamento del mondo serio e disciplinato del lavoro: la liberazione totale vagheggiata è quella propria dei branchi di scimmie urlatrici. Non è saggio restringere l'unica alternativa a un medioevo prossimo venturo o all'istituzione di giardini zoologici e di riserve per i Piedi Neri e gli Sioux. Se esistono veramente, frammezzo alle età portatrici di certezze, delle fasce di transizione corse dall'insicurezza e dal disorientamento, la nostra è una di queste. Il pensare lucido, le costruzioni sistematiche fiduciose, fioriscono in stagioni di benessere economico e di ordinato progresso civile; il senso di avanzare verso il meglio gratifica la maggioranza degli uomini e la rende governabile: non a caso, nei periodi di recessione non soltanto l'economia diventa asfittica, anche la democrazia agonizza. Un calo inatteso del benessere, in società non organiche, egoiste e diseducate alla responsabilità, suscita sempre le spinte della demagogia eversiva. Là dove nessuno è disposto a rinunciare con ragionevolezza a qualcosa, la violenza alligna spontanea come il loglio: latente e repressa in tutte le società ben ordinate, in quelle ammalate si scatena; la prima reazione istintiva in colui che vede decrescere i propri beni è di arraffare con la forza quelli altrui.
Qualunque ne sia l'occasione e l'avvio, una crisi culturale affonda sempre le radici in una crisi morale. Credo del tutto illusorio ogni tentativo di restaurazione dei valori etici affidata alla predicazione degli antichi canoni decaduti, così come sono certo che molte delle sedicenti liberazioni non sono in realtà che scatenamenti di istinti primordiali, cioè pure e semplici autodistruzioni. Qualunque discorso che oggi si pretenda di elaborare sull'uomo e sulla società non può prescindere dalla definizione di una nuova etica, né nuova etica si può instaurare senza accordo su una nuova antropologia. Non si può dire all'uomo che cosa deve fare, né indurlo a farlo (specie se è scomodo), senza dirgli chi è e quale è il suo destino. Senza la speranza della salvezza e la persuasione di essere portatore di un'anima divina, nessuno avrebbe praticato mai la morale ardua del cristianesimo. Solo ricuperando un senso globale dell'umanità sarà possibile uscire dalla crisi, ridare un senso alla nostra storia .

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nichilismo

mercoledì, 02 maggio 2007

Eliot:
 profezia di un cristiano
Luigi Giussani
***
Tracce N. 6 > giugno 1996
Proponiamo alcuni brani del capitolo su «Coscienza della Chiesa nel mondo moderno nei Cori da "La Rocca" di T. S. Eliot», dall'ultimo libro di Luigi Giussani, Le mie letture, edizioni Bur-Rizzoli. L'Incarnazione: un fatto nel tempo e nella storia. L'avvenimento di Cristo si compie in un popolo
Il mondo non solo non vuole la Chiesa, ma la perseguita.
E che volete - dice, infatti, Eliot -, volete forse che il mondo accetti la Chiesa? Perché deve accettarla?
«Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue leggi? / Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare./ È gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi vorrebbero essere teneri./ Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli./ Essi cercano sempre d'evadere/ dal buio esterno e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono».
Gli uomini che perseguitano la Chiesa, sognano l'eliminazione della libertà, perché l'estremo ideale di questo mondo è creare un mondo di automi:
«Sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono».
L'ultima, la più profonda accusa di Eliot:
dove sta la radice vera di tutta questa ostilità e di questo disegno? La rinuncia a Cristo. La ribellione a Cristo e, quindi, la eliminazione di Dio
perché, come aveva già detto Nietzsche, se aboliamo Cristo, aboliamo Dio. (...)
Dunque la Straniera sembra dimenticata e avversata in un'epoca di uomini «impegnati a ideare il frigorifero perfetto», «a risolvere una morale razionale», «a far progetti di felicità e a buttar via bottiglie vuote,/ passando dalla vacuità di un febbrile entusiasmo/ per la nazione o la razza o ciò che voi chiamate umanità».
«O anima mia - dice il poeta - che tu sia pronta per la venuta della Straniera,/ che tu sia pronta per colei che sa come fare domande». Del resto, il Coro ricorda agli uomini, che non vogliono sentire quelle domande, che possono «eludere la Vita ma non la Morte». Anch'essa indica la strada verso il tempio.
«Non rinnegherete la Straniera», conclude il III Coro. È una grande responsabilità ed è un'affascinante missione per la nostra meschinità. (...)
È a questo punto l'a fondo di Eliot, già citato, sulla considerazione degli uomini moderni sulla Chiesa: «
Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa?».
«Essi
[gli uomini che non vogliono la Chiesa] cercano sempre d'evadere/ dal buio esterno e interiore [perché se non ci sono criteri oggettivi di bene e di male c'è buio e confusione]/
sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono».
Tutti sognano strutture sociali che abbiano un esito buono a prescindere dalla libertà. Nessuno più avrebbe bisogno d'essere buono. «Ma l'uomo che è adombrerà/ l'uomo che pretende di essere». L'uomo così come è sfaterà sempre le visioni delle ideologie che pretendono di essere. «
E il Figlio dell'Uomo non fu crocefisso una volta per tutte/ il sangue dei martiri non fu versato una volta per tutte,/ le vite dei Santi non vennero donate una volta per tutte (...). E se il Tempio dev'essere abbattuto /dobbiamo prima costruire il Tempio».
È la pagina più chiara sull'antitrionfalismo. Tante volte, noi siamo accusati di trionfalismo per la nostra volontà di affermazione del fatto cristiano nel tempo e nello spazio, nella storia. Invece, è profondamente antitrionfalista la nostra volontà di costruire.
Perché l'idea della storia che ha il cristianesimo è questo possibile continuo ripetersi di cicli e di abbattimenti. Perciò
«se il sangue dei Martiri deve fluire sui gradini/ dobbiamo prima costruire i gradini».
Il nostro costruire i gradini non è trionfalismo, anzi. E se il Tempio deve essere distrutto, bisogna prima costruirlo. La nostra volontà di costruire il Tempio non è trionfalismo.
Forse non sarà inutile, a questo punto, rileggere (...) il Coro VII, ove il poeta traccia in sintesi splendida la storia delle religioni.

In principio Dio creò il mondo. Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre erano sopra la faccia dell'abisso.
[deserto perché non c'è uomo, vuoto perché non c'è senso, perché il senso viene percepito nella coscienza dell'uomo].
E quando vi furono uomini, nei loro vari modi lottarono in tormento alla ricerca di Dio
Ciecamente e vanamente, perché l'uomo è cosa vana, e l'uomo senza Dio è un seme nel vento, trascinato qua e là e non trova luogo dove posarsi e dove germinare.
Essi seguirono la luce e l'ombra [l'apparente], e la luce li condusse verso la luce e l'ombra li condusse verso la tenebra,
Ad adorare serpenti ed alberi, ad adorare demoni piuttosto che nulla: a piangere per la vita oltre la vita, per un'estasi non della carne.
Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell'abisso.

E lo Spirito si muoveva sopra la faccia delle acque.
E gli uomini che si volsero verso la luce ed ebbero conoscenza della luce
Inventarono le Religioni Maggiori; e le Religioni Maggiori erano buone
E condussero gli uomini dalla luce alla luce, alla conoscenza del Bene e del Male.
Ma la loro luce era sempre circondata e colpita dalle tenebre (...)
E giunsero a un limite, a un limite estremo mosso da un guizzo di vita,
E giunsero allo sguardo rinsecchito e antico di un bimbo morto di fame.
[riti che non avevano nessuna capacità di ravvivare l'umano]
Preghiere scritte in cilindri girevoli, adorazione dei morti, negazione di questo mondo, affermazione di riti il cui senso è dimenticato
[il contrario di ciò per cui sono sorti: alla ricerca del senso]
Nella sabbia irrequieta sferzata dal vento, o sopra le colline dove il vento non farà mai posare la neve.
Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell'abisso.
[è ritornato il deserto e il vuoto, si è confermato il deserto e il vuoto: sopra, dentro, sotto, intorno a tutti i tentativi di interpretazione umana, le religioni maggiori].

Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo,
Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo,
Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c'è tempo, e quel momento di tempo diede il significato.
Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo.

Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo;
Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima,
Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce;
Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un'altra via .
[la lotta ascetica è stata introdotta nel mondo dal cristianesimo]

Ma sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai accaduto prima: sebbene non si sappia quando, o perché, o come, o dove.
Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dei, dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima
Che gli uomini negassero gli dei e adorassero gli dei, professando innanzitutto la Ragione,
E poi il Denaro, il Potere, e ciò che chiamano Vita, o Razza, o Dialettica
.
La Chiesa ripudiata, la torre abbattuta, le campane capovolte, cosa possiamo fare
Se non restare con le mani vuote e le palme aperte rivolte verso l'alto
In una età che avanza all'indietro, progressivamente?
(...)
Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell'abisso
[è ritornato come al principio]
È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità, o è l'umanità che ha abbandonato la Chiesa?
Quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato
tutti gli dei, salvo l'Usura, la Lussuria e il Potere
.


L'avventura cristiana è un dramma storico, della storia, nella storia.()

Gesù non era venuto per dominare il mondo. Era venuto per salvare il mondo. Il proprio del cristianesimo è questo incastro delle due parti tanto inverosimile: il temporale nell'eterno e l'eterno nel temporale.


(L. Giussani, Le mie letture, Bur-Rizzoli, pp.109-131


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chiesa, nichilismo, cristianesimo, eliot

domenica, 29 aprile 2007

La cultura laico-illuministica
è morta
***
Dalla prefazione di “Un caffè in compagnia” di Renato Farina ed. Rizzoli
di : Pierluigi Battista*
“Al mondo che in don Giussani vede e riconosce il suo ispiratore vorrei rivolgere da ultimo una sommessa supplica: insistete, ma non infierite. La cultura laico-illuministica, così come l'abbiamo conosciuta sinora, è morta. O meglio, sopravvive a se stessa, ma non esiste più, non comunica più niente di vitale e di significativo, altro non sa trasmettere se non il balbettio di noiose litanie, principi che hanno oramai definitivamente smarrito la loro carica propulsiva. Anni fa abbiamo assistito al tracollo delle religioni secolari, delle utopie rivoluzionarie (e contro- rivoluzionarie), che hanno fondato le loro pretese su un surrogato di religione basato sulla promessa di un paradiso in terra così poco paradisiaco da disseminare il suo terreno di milioni di vittime innocenti, ostacolo "oggettivo" alla marcia trionfale del perfettismo. Oggi è sotto gli occhi di tutti il desolante senso di vuoto di una cultura che trasecola, sbanda e dà segni di ombrosa reattività solo in presenza di un crocifisso sulle pareti di un'aula scolastica e che avendo il terrore di ogni simbolo forte, di ogni parola impegnativa, finisce per stabilire la possibilità soltanto di un mondo spoglio, prosciugato, immiserito, depauperato di ogni valore vitale e perciò incapace di comprendere l'irrompere minaccioso di nuove sfide totalitarie, terroristicamente condotte e motivate dall'appello blasfemo a una divinità priva di misericordia. Un mondo che non deve dire più niente, semmai mantenersi nel limbo di una neutralità muta e incolore. Insistete, dunque, ma non infierite su un avversario che non sa accettare più nessuna sfida e vive incapsulato nelle sue anguste certezze e nelle sue formule sbiadite che sanno di imparaticcio. "Laico", del resto, è espressione che andrebbe bandita dalle classificazioni abituali, non foss' altro perché ci sono molti più punti di contatto e di intesa tra un liberale non credente e un cattolico-liberale di quanti ce ne possono essere tra un liberale non credente e un laico-giacobino fideisticamente aggrappato alle sue perentorie e intolleranti certezze. Don Giussani dimostra in queste interviste di aver saputo attraversare il deserto dell'amarezza e dell'altrui incomprensione con fie rezza e rigore. Con altrettanta misura saprà giudicare il penoso collasso dei suoi storici avversari.
Pierluigi Battista*(Roma, 3 luglio 1955) è vicedirettore del Corriere della Sera, conduttore televisivo ed anche scrittore

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comunismo, nichilismo

giovedì, 19 aprile 2007

Il “progresso” dell’uomo senza Dio
***
"Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono d'ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia"

S. Paolo (in Rm 1, 22-31)

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dico, nichilismo, pacs

giovedì, 22 marzo 2007

Quando l’uomo rifiuta l’infinito
non resta che il  nulla
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"Ho chiuso lo Spirito Santo nella cripta e l'ho scacciato. L'ateismo è un'impresa crudele e di lungo respiro ...io vedo chiaro, sono disincantato ...sono un uomo che si sveglia, .,. e che non sa più che farsene della vita ...Scrivo ...Che altro fare? ...A lungo ho preso la penna per una spada: oggi riconosco la mia impotenza ...la cultura non salva niente né nessuno, non giustifica ...il mio solo problema è di salvarmi ...col lavoro e la fede ...Se ripongo l'impossibile salvezza nel magazzino degli attrezzi, che cosa rimane? Solo un uomo".
Sartre  “Le parole”

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nichilismo, sartre

lunedì, 05 febbraio 2007

IL NICHILISMO GAIO
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Quanto mi dici sul nichilismo presente, mi trova perfettamente consenziente. Non è più il nichilismo tragico di cui forse si potevano trovare le ultime tracce nel terrorismo. Questo nichilismo doveva portare a una soluzione rivoluzionaria più o meno confusamente intravista o meglio confusamente ricordata; un qualche elemento di rabbia c'era ancora e questo gli conferiva una sembianza lontanamente umana. Ma il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nei due sensi che è senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell' inquietum cor meum agostiniano) e che ha il suo simbolo nell'omosessualità (si può infatti dire che intende sempre l'amore omosessualmente, anche quando mantiene il rapporto uomo- donna). Non per nulla trova i suoi rappresentanti in ex- cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo. Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a "valore di scambio"; l'esito borghese massimo, nel peggiore dei sensi, del processo che comincia con la Prima Guerra mondiale. Il peggior annebbiamento che il nichilismo genera è la perdita del senso dell 'interdipendenza dei fattori nella storia presente; infatti, a ben guardare, non è che l'altra faccia dello scientismo e della sua necessaria autodissoluzione da ogni traccia di valori che non siano strumentali.
Augusto Del Noce Lettera a Rodolfo Quadrelli

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nichilismo, del noce

lunedì, 22 gennaio 2007

La società dissociata
Da : del Mercoledi 08 giugno 2005
«Abbiamo meno fiducia nelle istituzioni, cerchiamo ricchezza e potere, ci curiamo poco dell’altro e il nostro tasso di spiritualità si è molto impoverito. Bisogna ritrovare questi valori»
Di Edoardo Castagna
Se l'Europa è in crisi, è nel laboratorio britannico che si sta mettendo a punto la sua decadenza. Gli ultimi quarant'anni hanno visto la crescita impetuosa dei fenomeni di "desocializzazione": il senso comunitario declina, crescono gli individui che vivono isolati, è in calo la fiducia sia negli altri sia nelle istituzioni. Il rischio è che anche noi occidentali facciamo la fine dei pellerossa, sradicati ed estraniati all'interno della società che li circonda. «I figli della post-modernità non sono felici», scrive Matthew Fforde nel suo Desocializzazione. La crisi della post-modernità (Cantagalli, pagine 388, euro 15,50), e la Gran Bretagna è la capofila di questa infelicità. Negli ultimi secoli Londra ha spesso anticipato gli sviluppi che poi si sarebbero estesi a tutto il nostro continente: «È stata pioniera nell'industrializzazione, nello sviluppo della democrazia, nello stato sociale. E le tendenze della Gran Bretagna di oggi - afferma Fforde - sono già in atto in tutta Europa. La desocializzazione caratterizza l'epoca in cui viviamo: anche in Italia se ne vedono già molti sintomi, come l'aumento dei divorzi o dei single. In Inghilterra e Galles tra dieci anni il 36% delle case sarà abitato da una sola persona, e sempre di più sono le famiglie composte da un unico genitore». Professor Fforde, lei parla di "collasso culturale" della Gran Bretagna. Eppure Londra spicca in Europa per la sua vivacità economica e culturale… «Ma non c'è contrasto, anzi: è proprio di una società atomizzata porre l'enfasi sulla componente economica. Questo porta certo benefici a breve termine, ma sul lungo periodo si rivelerà controproducente. Allo stesso modo, la vivacità culturale inglese assume spesso la forma di una descrizione della solitudine. Storicamente, a volte i periodi di decadenza sono culturalmente fertili». Quali sono i caratteri di una nazione desocializzata? «Ci sono elementi tangibili, facili da verificare: come la debolezza della famiglia, messa in crisi dai divorzi e dai single. In campo politico cresce la disaffezione verso le istituzioni, mentre allo stesso tempo l'espansione delle competenze dello Stato in ambiti prima riservati alla collaborazione famigliare e comunitaria ha portato, nonostante molti aspetti positivi, anche al rischio di una rimozione della responsabilità individuale. Società civile e associazioni, tradizionali elementi di inclusione nella comunità, registrano forti flessioni che testimoniano come, in questo discorso, la Gran Bretagna sia più europea che anglosassone: negli Stati Uniti, nonostante il calo degli ultimi decenni, l'associazionismo rimane elevatissimo. Oltremanica, il suo venir meno è legato alla decristianizzazione che progredisce da decenni, opposta alla diffusa religiosità statunitense». E dal punto di vista degli atteggiamenti delle persone? «Ci sono diversi elementi intangibili, rilevabili solo dai sondaggi ma attivamente all'opera: come la sfiducia negli altri e l'individualismo egoistico, che prende il posto del senso di comunità. Questi processi hanno visto una drammatica accelerazione negli ultimi quarant'anni, quelli della post-modernità». Qual è la causa del fenomeno? «Il venir meno del tradizionale, stretto rapporto tra spiritualità e comunità. Hanno preso piede varie antropologie materialistiche contro la visione, cristiana e cattolica, dell'anima, la cui tutela porta all'autentica salute dello spirito e alla vera comunità. Le visioni del mondo materialiste negano il versante spirituale dell'uomo e generano vizi desocializzanti, come l'ansia per la ricchezza o per il potere. E tutto questo asseconda la "dittatura del relativismo" denunciata da Benedetto XVI, al giorno d'oggi dominante in Gran Bretagna, ovvero l'aggressione all'amore per la verità oggettiva». Che cosa fare, allora? «Dobbiamo ritornare all'anima, alla cura dell'anima, alla rigenerazione dello spirito. La nuova evangelizzazione, in Occidente, potrebbe allora assumere la forma di una ri-evangelizzazione, intesa anche come opera di guarigione. Anche sociale: basti ricordare che oggi, in Gran Bretagna, ogni anno vengono fatte venti milioni di prescrizioni mediche per malattie depressive. La visione cristiana del mondo può combattere questa tendenza». Un compito che grava solo sulle spalle dei credenti? «Non necessariamente, anche perché i processi di decristianizzazione li hanno diradati. Al contrario, qui i cristiani si possono aprire all'alleanza con "tutte le persone di buona volontà" che avvertono con preoccupazione la deriva desocializzante. È lo spazio dell'invito al dialogo e all'azione comune».


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nichilismo

domenica, 23 luglio 2006

Il nemico” della Chiesa

"Esso si trova dappertutto e in mezzo a tutti; sa essere violento e subdolo. In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza la autorità; talvolta l’autorità senza la libertà. È un “nemico” divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti: Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio”. Pio XII, Discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12-10-1952, in Discorsi e Radiomessaggi, vol. XIV, p. 359.

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nichilismo

venerdì, 21 luglio 2006

Ancora sul libro: “La cacciata di Cristo”
di Rosa Alberoni
Parti di  un intervista rilasciata a www.radiomaria.it
…..Sorbi – Perché forse lei professoressa individua l’Occidente come terra del declino. Perché forse c’è un omicida che lei probabiilmente individua in Cartesio e Russeau. Perché questi due “omicidi”?
Alberoni – Questi sono gli antenati degli Anticristo, perché Cartesio ha rovesciato tutto: prima l’essere umano era al centro, cioè, “io esisto”… Ma è così, lo si capisce anche con il buon senso, chiunque di noi lo capisce. Noi prima esistiamo, siamo concepiti, veniamo al mondo, nasciamo, poi, quando arriviamo davvero a pensare, a saper ragionare?
A vent’anni? Mentre Cartesio, cosa ha fatto? Ha rovesciato. Ha messo prima c’è il pensiero. Al centro c’è il pensiero, perché dici: “Io penso, dunque esisto”… no, in realtà io esisto prima e quindi vengo da… sono stato creato da Dio, e solo dopo penso. Capisce la conseguenza? È uno spostamento. È una sorta di rivoluzione copernicana veramente!Quindi, mettendo al centro il pensiero, Cartesio ha fatto questa equazione. Rousseau nelle sue opere non parla di nessuna divinità. Non c’è Dio, non ci sono neanche gli dei pagani del passato. Non c’è nessun dio. L’uomo è sulla terra, appartiene alla terra. È una sorte di animale. Il selvaggio è un animale che non ha coscienza morale di nessun tipo.
Gironzola nel bosco, si accoppia a caso… cioè, segue le pulsioni, segue l’istinto. Capisce? È stata una cosa… non so perché non se ne sono accorti. Io me ne sono accorta di Rousseau, però e stato Giovanni Paolo II che mi ha illuminato,
con Cartesio, con due righe. E io li ho trovato la chiave, mi si è aperta una via luminosa… e dico: “Ecco perché è accaduto tutto ciò!”. Nel senso che poi Rousseau è stato applicato alla lettera da Robespierre. Quindi senza Dio… non a caso il tempio della dea Ragione, quindi al pensiero. Ecco perché torna Cartesio. Cristo non c’era. Ecco perché c’è stata la ghigliottina, c’è stato un grande mattatoio. Quindi là dove si caccia Cristo si possono distruggere gli esseri umani. Ma questo poi si è ripetuto anche col comunismo. La stessa cosa, perché il totalitarismo comunista, basato su Rousseau, ha scartato Cristo, ha scartato Dio. Non c’è Dio, non c’era nessun dio, c’era solo la materia! Si era figli della terra. E quando non c’è la fede, quando non c’è Cristo, al centro dell’esistenza ci sono gli stati totalitari. E il comunismo ha potuto fare quei cento milioni di morti e passa, per questo motivo. La stessa cosa ha fatto Hitler. Cristo non c’era, anche se non l’ha detto apertamente. Ma noi sappiamo qual’era il suo progetto… parlava di razza. Quindi ancora – come vede la terra. Radicati alla terra. La razza, il sangue e la terra… e noi sappiamo cosa ha fatto Hitler, gli abominevoli campi di sterminio coi quali tentò di sterminare il popolo ebraico. Capisce? Cristo, Dio, diventa una zanzara… si può uccidere l’uomo senza nessuno scrupolo…
…….Sorbi - Ecco, mi scusi, professoressa, è proprio per questo suo ragionamento, sia filosofico che sociologico che ritengo che questo libro sia molto utile per gli insegnanti che vogliono smascherare questi due soggetti dell’ “omicidio”dell’identità cristiana in Europa.
Alberoni – In realtà i personaggi sono quattro, perché bisogna aggiungere anche Carlo Marx e Hitler
Sorbi-   Ecco, ecco. Senta, proprio su questa attualità della coscienza morale lei ha approfondisce – specialmente nelle ultime parti del libro – questa enorme realtà dello scientismo. Ecco, ci faccia capire bene perché lei ne vede – oltre all’aspetto di grande utilità – anche una minaccia?
Alberoni – Bisogna spiegare agli ascoltatori che la scienza è un prodotto dell’uomo, e dev’essere al servizio dell’uomo. Lo e sempre stato. La scienza è un valore! Quando parliamo di scientismo diciamo questo, che ci sono alcuni scienziati – non tutti – alcuni, che rinnegano Dio, e che si vogliono mettere al posto di Dio. Vogliono tentare di creare loro l’uomo. Questa è la cosa aberrante, se ci pensiamo, perché vogliono andare a toccare la matrice umana.
Tant’è vero che alcuni politici, movimenti, gente comune, che difendono gli animali, c’è chi non vuole che si usino i topi per gli esperimenti… e io ho sempre detto, ma cosa vuole, che usino i bambini? Ma certo che si deve usare il topo, e non i bambini! E invece questi signori non hanno nessuno scrupolo di usare l’embrione – e tutti siamo stati embrione– per mettere in atto i loro esperimenti, magari capaci un domani di produrre mostri, mentre difendono gli animali.
Questa per me è una cosa che mi fa tremare il cuore. Mi trema il cuore alla sola idea. Tant’è vero che se poi andiamo a vedere cosa è capitato negli stati totalitari dove l’aborto è stato ammesso subito, possiamo osservare come nell’Unione Sovietica la legge sull’aborto è entrate in vigore nel 1920. Quindi, tra gli scientisti e gli abortisti, noi vediamo che su lpianeta abbiamo sterminato più noi, in modo subdolo, tanti esseri umani, con l’aborto, quanto ne abbia fatto la guerra.
Capisce? Le due guerre mondiali. E anche i morti a causa del comunismo, anche in Cina. È una cosa subdola. Noi, e qui aveva ragione Giovanni Paolo II, come ha ragione Papa Ratzinger adesso, che è una minaccia così subdola… e  chi pretende, chi vuole la libertà di cercare, di poter usare gli embrioni, pretende dallo Stato una cosa assurda. C’è la licenza di uccidere… Ma non si può dare questo! Non si può fare! Qui ci dobbiamo ribellare, perché in modo nascosto si uccide così, tranquillamente, e non si paga presso. Poi si parla dell’orrore della prima o della seconda guerra mondiale… Certo che sono degli orrori! Sono dei mostri che abbiamo prodotto. Pero non ci facciamo belli. Nell’epoca di guerra, quanti bambini abbiamo sterminato?
 uomo dio=distruzione uomo

Postato da: giacabi a 22:11 | link | commenti (1)
nichilismo, illuminismo, ideologia, alberoni


Senza Cristo niente libertà

TOCQUEVILLE <<Quando presso un popolo la religione è distrutta, il dubbio si impadronisce delle parti più elevate dell’intelligenza. Ognuno si abitua ad avere nozioni confuse e mutevoli, difende male le proprie opinioni e le abbandona e, poiché dispera di poter risolvere da solo i più grandi problemi del destino umano, si riduce a non pensarci affatto. Un simile stato di cose indebolisce le anime, attenta il vigore della volontà e prepara i cittadini alla servitù. Allora avviene non solo che questi si lasciano portare via la libertà, ma spesso che l’abbandonano>>
libertà

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