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giovedì 2 febbraio 2012

Agnoli

Ospedali monastici: la cura nasce dalla fede


di: Francesco Agnoli
01-11-2011

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Presentiamo un capitolo tratto dal libro "Case di Dio e ospedali degli uomini"(Fede e Cultura, pagine 120, Euro 13.50).

L’ospitalità monastica, per secoli la più organizzata ed influente, fu promossa soprattutto da Basilio, in Oriente, da Cassiodoro (ca. 485-580) e da san Benedetto da Norcia (480-547), in Occidente.
Di San Basilio (329-379) si è già ricordato che fu il fondatore del primo e più grande ospedale in Oriente. In esso trovavano rifugio poveri, lebbrosi, bambini abbandonati…

Basilio non era solo un uomo di religione, né solo di carità. Seguace di un Dio Logos, cioè Ragione, e Caritas, cioè Amore, univa alla pratica dell’assistenza un forte interesse “laico”, speculativo, per la medicina. “Non è certo che nelle istituzioni monastiche basiliane fosse compresa in modo sistematico anche la Medicina, però ci sono chiare testimonianze di quanto questa attività fosse presa in considerazione”. Basilio, i cui monasteri si diffondono anche in Italia meridionale,  si avvaleva dell’aiuto dei monaci, ma anche di infermieri laici, detti “parabolani”, regolarmente pagati, che “assolvevano l’incarico di raccogliere malati per le strade della città o nelle contrade di campagna e di portarli negli ospedali a dorso di mulo o, più spesso, sulle proprie spalle” .

Se ci spostiamo in Occidente, troviamo la figura gigantesca di Cassiodoro, che nel suo monastero di Squillace, in Calabria, “non solo raccomandava lo studio della Medicina, ma si era assunto l’incarico di insegnare in prima persona”, e soprattutto si dedicò a raccogliere 235 volumi di medicina scritti in greco e tradotti in latino dai suoi monaci.

In un’epoca in cui quasi nessun laico, né alcuna autorità politica pensava minimamente alla medicina, Cassiodoro contribuì a salvare un patrimonio di secoli che altrimenti sarebbe andato perduto.

Egli invitava i suoi monaci a leggere Ippocrate e Galeno, e nello stesso tempo raccomandava di mettere le loro conoscenze al servizio dei fratelli: “Ma a voi mi rivolgo, egregi fratelli, che trattate con diligente curiosità la sanità del corpo umano e rifugiandovi nei luoghi sacri eseguite una beata pietà: tristi per l’altrui sofferenze, mesti per gli altrui pericoli, trafitti dal dolore di quelli che intraprendete a curare e sempre, nelle sventure altrui, oppressi dal proprio affanno, servite con cuore sincero coloro che languiscono, come conviene alla perizia dell’arte vostra…” .

Quanto a San Benedetto, patrono d’Europa, al capitolo XXXVI della sua regola invitava i suoi monaci a “prendersi cura prima di tutto e sopra tutto dei malati. Bisogna servirli come fossero Cristo stesso, che veramente è in essi e che in essi viene veramente servito. Perché Egli ha detto: ‘ ciò che avrete fatto al più piccolo di costoro, lo avrete fatto a me’ ”.  Questa cura fu praticata, inizialmente, all’interno del monastero, ma successivamente il “monaco infirmario uscì dalle mura conventuali per recarsi a curare malati nel loro domicilio…” . Ovviamente, la cura benedettina e monastica in generale, univa la somministrazione di farmaci, di salassi, di clisteri, di decotti, di massaggi, di elisir, di pomate, di cataplasmi, empiastri, e toccasana di vario tipo, con preghiere, benedizioni, imposizione delle mani… Non perché vi fosse una strana confusione, come è tipico del mondo antico, tra religione e medicina, ma al contrario, per una chiara conoscenza, per quanto l’epoca lo permettesse, dell’uomo, che è anima e corpo. Infatti si può dire tranquillamente che i monaci aromatari e i frati speziali dei conventi, che nelle loro spezierie preparavano infusi e medicamenta vari, raccoglievano, lavoravano e descrivevano le erbe, sono stati i “primi protagonisti di una attività farmaceutica posta istituzionalmente al servizio del malato e della comunità” .

Nei monasteri, come si è detto, la spinta verso l’aiuto ai fratelli nasceva dalla fede, dall’identificazione del povero e del malato (pauper infirmus) - non vi era una chiara differenza tra i due, anche perché la povertà era spesso, a quei tempi, causa di debilitazione e di malattia-  con Cristo sofferente; ma questa spinta conviveva con una grande apertura verso la scienza e le sue regole in quanto tale, come è dimostrato dal fatto che tutti i testi medici dell’antichità sono stati conservati proprio dagli archivi monacali.

Cassiodoro, Basilio, Benedetto, non condannavano la medicina antica, in quanto pagana, ma la valutavano, al contrario, per i suoi meriti oggettivi, che nulla avevano a che vedere con la religione di chi li aveva scritti.

Scrive Giuseppe Penso: “Questi centri medici monastici non furono soltanto ricoveri ospedalieri, ma centri di insegnamento dove accorrevano i giovani desiderosi di apprendere le nozioni mediche dei manoscritti greci e latini, gelosamente conservati in quelle abbazie, e dove accorrevano, da tutta Europa, malati per farsi curare” .

A Chartres, a Cluny, a san Gallo, a Montecassino, Roma, Farfa e a Fossanova, dove i monaci curavano i malarici, a causa delle paludi, si studiava la medicina antica e si gettavano le basi per una medicina futura, non legata alle superstizioni popolari.

“Così, dal VI secolo al X secolo, i monaci italiani e molti chierici insegnavano la Medicina ed esercitavano tanto la medicina insegnata quanto quella praticata, appresa dai libri greci e latini, distinguendola però dalla Medicina soprannaturale e dalle pratiche religiose. Essi studiavano la Medicina come scienza. Il rispetto che avevano per le esigenze proprie di questa scienza li portava a concepire le due attività come ben distinte: l’esercizio clinico della Medicina andava conseguito con mezzi naturali e in base a cognizioni scientifiche, le pratiche religiose andavano sostenute dalla fede nel potere divino e dalla speranza nella grazia della provvidenza” .
Era dunque riconosciuta allo studio della Medicina, una sua “autonomia”, senza però che l’attività caritatevole si limitasse alla cura del corpo.

Per questo il già citato Cassiodoro raccomandava ai suoi monaci: “Imparate quindi la natura delle erbe… ma non riponete l’unica speranza nelle erbe, non ricercate salvezza soltanto negli umani consigli”, mentre Gerberto, successore di Benedetto, dimostrando una notevole comprensione della distinzione tra medicina e religione, affermava: “Nell’esercizio delle cose mediche non vale far uso della mia autorità di abate”.

Si produsse così “tra vita religiosa e attività medica un innesto quasi naturale, come se la medicina avesse finalmente trovato nella chiesa il sostegno che andava cercando”. Anche perché l’istituzione religiosa metteva “a disposizione i suoi mezzi (gli scriptoria, i monasteri, gli ospedali, ndr) per il sostegno di iniziative scientifiche”, destinate quindi ad una espansione che l’Antichità non avrebbe mai potuto raggiungere .

“Nel IX secolo, scrive Giorgio Cosmacini, l’organizzazione sanitaria di ogni grande monastero non era molto diversa da quella vigente intorno all’anno 820 nel convento di san Gallo: un infirmarium, o ‘infermeria’, con un cubiculum valde infirmorum, o ‘sala di degenza per malati gravi’, e con un giardino di piante medicinali, un locale per clisteri e salassi e un altro locale dotato di armarium”, cioè di un armadio di libri e spesso anche un armarium pigmentorum, cioè un armadio di medicinali” . In più, spesso, la presenza di una balnearum domus, per i bagni, e di una domus medicorum, riservata ai medici.

Non estranea a questa storia monastica fu la prima Schola medica medievale, la celeberrima Schola di Salerno (che a volte viene presentata, un po’ impropriamente, come la prima università). Scrive  G. B. Scarano: “non è da escludere che alla nascita di questa scuola abbia influito l’indirizzo di studi e di pratica della vicina abbazia di Montecassino; è accertato che già nel VI secolo esisteva a Salerno un chiostro benedettino con annesso ospizio-ospedale e che a Salerno comparvero, nei secoli seguenti, numerosi monasteri forniti di locali per il ricovero e l’assistenza di malati e pellegrini, fenomeno questo presente, del resto, in tutte le regioni d’Italia” .
Nei monasteri benedettini, inoltre, si praticava in generale un’ ospitalità a 360 gradi. Infatti il monaco, divenuto volontariamente “povero di Cristo”, doveva avere un occhio di riguardo verso i poveri involontari (pauperes inviti, ma anch’essi pauperes Christi) e solitamente si dedicava loro la decima parte dei redditi del monastero, delle elemosine e dei donativi, oltre a ciò che rimaneva dai frequenti digiuni, imposti dalla regola per insegnare ai monaci l’autocontrollo, la partecipazione alla Passione di Cristo, l’attenzione verso i bisognosi. Per secoli i poveri giungevano alla porta dei monasteri per cercarvi un “asilo di pace”, aiuto e cibo.

La liturgia dell’ospitalità”, scrive il grande storico della povertà Michel Mollat, cominciava “alla porta del monastero”: qui il cellario o il padre portinaio, spesso scelto per le sue virtù, doveva distinguere tra le varie categorie di mendicanti, e dar vita al cerimoniale di accoglienza. All’ospite si lavavano e si baciavano i piedi (mandatum), come aveva fatto Cristo con i discepoli insegnando loro a “servire” e non ad “essere serviti”, e poi si offriva da mangiare, in foresteria, se malato, o nell’hospitale pauperum. Venivano forniti viveri anche a coloro che si rimettevano in viaggio,  e soprattutto a coloro che si presentavano di giorno in giorno alla porta (pauperes supervenientibus). “Sono ben note le razioni date a Corbie: pane, birra, qualche volta vino, legumi, formaggio, lardo e talvolta anche carne. Si distribuiscono anche scarpe e vestiti usati dai monaci, coperte, legna per scaldarsi e per cuocere i cibi, utensili di uso comune. Qualche volta, a partire dal secolo IX, si dona anche denaro”. Inoltre i monasteri organizzavano periodiche distribuzioni, in occasione di festività come Natale, Pasqua, Ognissanti, e la visita settimanale ai poveri ammalati nelle loro case.

L’abate Smaragdo di Verdun, nel suo “Commento alla regola di san Benedetto”, invitava i suoi monaci alle opere di misericordia, esortandoli a visitare gli infermi, a ricercare i poveri nel timore che dormissero all’aperto, ad accogliere quelli di essi che bussavano alla porta del convento, confortandoli (recreare pauperes) con gioia (libente animo) e allegria (cum hilaritate): tra i poveri in particolare raccomandava i fanciulli (infantes) e i vecchi, tra i quali annoverava anche i deboli di mente .
da:La Bussola Quotidiana quotidiano cattolico di opinione online

Postato da: giacabi a 14:21 | link | commenti
medioevo, agnoli

domenica, 31 luglio 2011
La fatica e la bellezza dell'educazione.
Di Francesco Agnoli - 07/05/2009 
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Nella società dei media può nascere un’illusione: che i mezzi di comunicazione siano i più importanti per educare un popolo.
Certamente, questo è in parte vero: la rivoluzione francese, come tutte le altre, sino alla rivoluzione sessuale, sono state favorite da un mare di carte e giornali, prima, e dalla televisione, poi. Ma è anche vero che prima della rivoluzione francese, alba sanguinosa della contemporaneità, c’è un grande fatto, spesso dimenticato: la chiusura, in Francia e non solo, delle scuole dei gesuiti.
E’ contro di esse che si accaniscono anzitutto gli illuministi anticristiani, perché sanno che un ragazzo ben educato può anche essere temporaneamente traviato dalle illusioni politiche, ideologiche, mondane, ma possiede dentro di sé un seme che prima o poi darà i suoi frutti. Oggi occorrerebbe che almeno i cattolici si rendessero conto di questo: che vi è un’emergenza educativa, cui far fronte, in parrocchia, nelle scuole, in ogni ambito possibile. Invece sappiamo quanto, ad esempio il catechismo, che è la prima forma di istruzione per un fanciullo, sia trascurato e negletto. Eppure i cuori e le menti dei giovani sono ancora, come sempre, aperti alla Verità e al Bene: basta solo che incontrino persone credibili, pronte a rendere conto della Speranza che è in loro e a smascherare gli errori e gli inganni del mondo.
Oggi, dicevo, l’educazione è in crisi, per il semplice fatto che non si sa più cosa sia. Educare, per la mia esperienza, significa condurre da qualcosa, verso qualcos’altro. Condurre da una storia, da un passato, da una Tradizione, verso un futuro: e invece tutta la cultura dominante è basata sulla volgarizzazione del passato e sulla derisione della Tradizione. Si crede e si vuol far credere che non vi sia nulla di buono nella storia che ci precede, soprattutto in quella cristiana. Così l’origine della nostra cultura, quel Medioevo in cui sono nate le università, gli ospedali, la tecnica, le banche e le cattedrali, Giotto e Cimabue, viene liquidata con espressioni superbe e volgari: “secoli bui”, “tenebre del Medioevo”.
Non è solo una questione di falsificazioni storiche: in queste espressioni lapidarie è condensata la cultura anticristana e nichilista che desidera tagliare le nostre radici, isolarci dalla Tradizione, fare intorno ad ognuno di noi terra bruciata. Solo così si può far vivere un popolo nel mito sciocco e banale del Progresso, come se non avessimo nulla da imparare da chi ci ha preceduto, e fossimo per ciò completamente auto-sufficienti. Così, in verità, si coltiva solo l’individualismo. Lo sciocco pregiudizio verso il passato ci rende arroganti e presuntuosi: il contrario di ciò che una buona educazione dovrebbe fare. Questo tentativo, come dicevo, di tagliare le radici, è evidente nella scuola odierna: dal modo con cui viene liquidato il medioevo, in storia, alla volontà sempre maggiore di trascurare anche il nostro passato latino e greco, sino alla graduale eliminazione, persino dalle università di filosofia, degli autori cristiani, da Agostino a Tommaso.
Sempre più diventa dunque difficile sapere da dove veniamo. Ma ancor più, dove andiamo. Infatti, perché vi sia educazione, occorre avere una certa idea dell’uomo: occorre che l’insegnante faccia comprendere ai suoi ragazzi che la Verità e il Bene esistono! Che lo studio serve appunto per ricercarli: ricercare la verità storica, la verità matematica, la verità filosofica, e teologica. Andiamo verso ciò che la nostra mente e il nostro cuore desiderano, nonostante il nostro limite: la Verità. Invece il relativismo dominante uccide ogni germoglio di vita: se non c’è nulla di vero, di bello, di buono; se un comportamento vale l’altro; se tutte le filosofie si equivalgono; se la verità e la menzogna si confondono, allora anche la curiosità di sapere, di capire, di pervenire alla verità, viene soffocata sin dal principio nel giovane, che diventa precocemente cinico e indifferente.
Faccio un esempio per quanto riguarda una delle materie che ritengo più formative: la storia. Quando si analizza la storia del Novecento, i testi scolastici omettono di farci capire anzitutto da dove gli abomini del nazismo e del comunismo derivino, per evitare di sottolineare la radice atea delle guerre mondiali, dei lager e dei gulag; dall’altra omettono clamorosamente di indagare cosa ancor oggi rimanga di quelle ideologie (divorzio, aborto, eutanasia ecc), per rispettare il dogma progressista (se ciò è successo, è successo nel passato, ma oggi…); infine, trascurano di raccontarci tutte quelle storie eroiche di persone che hanno dato la vita per aiutare i loro simili, per lottare contro la menzogna, per mantenere viva la carità cristiana, insegnandoci così che la lotta per la Verità è sempre possibile. In questo modo i giovani studiano, senza comprendere nulla, e senza che la storia passata dica loro più alcunché, né sulla miseria degli uomini, nè sulla loro intramontabile passione per il Bene. L’educazione insomma è centrale, e va perseguita con immensa attenzione. In ogni tempo i genitori hanno educato i loro figli, a determinati valori e ad una loro Tradizione.
Si sa ad esempio che l’Iliade e l’Odissea venivano imparate a memoria dai ragazzi greci e costituivano una sorta di “enciclopedia tribale”: tramite quelle storie, si tramandavano valori, culti, ideale del bene, incarnato dall’eroe, e del male…Così ogni giovane greco si sentiva parte di una storia che condivideva con i suoi concittadini, e da quella storia traeva insegnamenti con cui confrontarsi. Se poi leggiamo la storia dei filosofi antichi, vediamo che solitamente cercavano di educare se stessi e i giovani al seguito: Socrate educava i suoi discepoli cercando di farli ragionare sulle verità più importanti. Lo stoico romano Seneca educava se stesso facendo l’esame di coscienza ogni sera. Dovunque vi erano uomini che cercavano maestri di vita e un senso che fondasse la loro esistenza: “Si tratta di sapere, scriveva Cicerone nel ‘De Natura deorum’, se esiste un Dio, se questo Dio si interessa agli uomini e se esiste un legame tra noi e lui. Si tratta di sapere cosa è l’anima umana, se essa ha rapporto con Dio, se viene da lui e ritorna a lui. In breve si tratta della nostra felicità, del nostro tutto”!
Il grande educatore della storia è stato senza dubbio Gesù Cristo. Scelti i suoi discepoli, solamente dodici, che avrebbero trasformato il mondo, li ha condotti passo passo, sgridandoli, talvolta, confortandoli, spesso, e vivendo con loro. Dal suo esempio, innegabilmente, si è generata la tradizione scolastica europea, unica e irripetibile, quella che ci ha dato la Schola Palatina di frate Alcuino e Carlo Magno, prima, e le università poi. Ma il periodo d’oro dell’educazione è stato forse quello del Concilio di Trento.
Messo all’angolo dal protestantesimo e dal suo pessimismo antropologico, secondo cui l’uomo è capace solo di male, e dal predestinazionismo calvinista, il mondo cattolico ha generato scuole su scuole, un ordine educativo dietro l’altro, dimostrando chiaramente che l’uomo non è solamente cattivo, ma anzi, che la sua natura, pur macchiata dal peccato originale, è capace di grandi opere di bene. Tutte le scuole di quest’epoca, da quelle del Calasanzio a quelle di Giovan Battista de la Salle, a quelle dei gesuiti, fondavano il proprio metodo educativo proprio sul realismo cristiano. Per i protestanti, come dicevo, l’uomo è naturalmente cattivo: facile capire che educare, partendo da questa idea di fondo, è piuttosto difficile, un’impresa disperata e poco affascinante. Per i cattolici, invece, l’innegabile tendenza al male, giustificata dal peccato originale, non elimina l’altrettanto evidente volontà di ogni uomo di cercare la Verità e la Giustizia.
Educare significa allora coltivare il desiderio di vero, che c’è in ognuno, cercando di rendere questa verità non solo evidente, ma anche amabile. Questo sarà compreso soprattutto dal più grande educatore dell’Ottocento, Giovanni Bosco. Il suo metodo preventivo si basa infatti su un grande realismo antropologico: ha dinnanzi a sé giovani sbandati, senza famiglia, spesso delinquenti. Potrebbe lasciarsi andare allo sconforto, o alla durezza, invece vede in ognuno di loro un’anima preziosa e potenzialmente capace di grandi cose. Decide di trattarli con la mansuetudine, in modo da metterli, preventivamente, “nell’impossibilità di commettere mancanze”.
Per don Bosco i luoghi dell'educazione sono la cappella, il cortile e la scuola: quest'ultima, appositamente, all'ultimo posto. Occorre anzitutto che i giovani siano amati: "questo avviene nella fusione fraterna del cortile, dove i giovani, sentendosi amati in quelle cose che loro piacciono, cioè nei divertimenti, imparano a vedere l'amore degli educatori in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco, quali la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparano a fare con amore".
All’opposto di don Bosco, oggi così dimenticato anche nelle scuole cattoliche, piene di sociologismi e di psicologismi lontani dalla fede, vi è l’idea illuminista che potremmo definire dell’ “ottimismo antropologico”, propagata da Rousseau, pedagogo tanto abile da aver abbandonato tutti e cinque i suoi figli, e dai sui seguaci. Per costoro l’uomo è naturalmente buono, senza peccato originale. Talmente buono da non aver bisogno non solo delle regole, della lotta interiore, e, talvolta, dei castighi, ma neppure dell’amore, delle attenzioni, della premura dell’educatore. I seguaci di Rousseau, propongono il primato della spontaneità più estrema, l’idea che l’uomo sia solo un animale, che quindi non sia chiamato a far crescere e maturare, passo passo, la propria umanità.
Quanto è più affascinante la visione educativa cristiana, così descritta da Benedetto XVI nella sua lettera sull’educazione alla diocesi di Roma del 2008: “Già in un piccolo bambino c'è un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa: trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano…L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione. Il Timone, marzo 2009.

Postato da: giacabi a 07:30 | link | commenti
benedettoxvi, don bosco, agnoli

mercoledì, 15 dicembre 2010
Cuba, Oscar Biscet non si arrende
Cuba,
Oscar Biscet non si arrende

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di Francesco Agnoli
09-12-2010

C’è un personaggio, che cubano non era, ma che della rivoluzione cubana fu uno dei protagonisti, famoso in tutto il mondo: un medico, bianco, comunista, di nome Ernesto Che Guevara. Il “Che” è ormai da decenni una celebrità ed un mito. Lo hanno reso tale i miliardi di Giangiacomo Feltrinelli, il suo volto bello, virile e duro, fotografato durante un funerale, e la sua morte romantica di guerrigliero. Proprio quest’ultima ha contribuito più di tutto alla trasfigurazione del personaggio: ha fatto dimenticare quante persone contribuì a far fucilare ed uccidere, e lo ha trasformato in una sorta di Cristo laico, “morto per i suoi ideali”.

Oggi sappiamo sempre meglio che razza di medico fosse il Che: voleva “curare” l’isola di Cuba importando il modello sovietico, e additava come “esempi da seguire” i feroci dittatori Lenin, Stalin e Mao. Eppure il mito del Che permane. Mentre, al contrario, quasi nessuno in Europa conosce un altro medico, lui sì veramente tale, nero e non bianco, credente in Dio e non nell’ateismo marxista.

Il suo nome è Oscar Elias Biscet. Ne ha promosso la conoscenza, recentemente, in Italia, il Movimento Europeo Difesa Vita (Medv), con il sostegno di personalità come Giuliano Ferrara, Antonio Socci, Andrea Morigi, gli onorevoli Mario Mauro e Renato Farina, il ministro Giorgia Meloni e molti altri. L’editore "Fede & Cultura" ha lanciato una maglietta con il suo volto, non meno bello di quello del Che. L’onorevole Lorenzo Fontana ha portato la sua storia all’Europarlamento… Perché? Chi è Oscar Elias Biscet?

E’ un uomo coraggioso, determinato, che sorretto dalla sua fede e dal suo amore per la propria professione, si batte come un leone per la causa della Vita: contro l’aborto, l’eutanasia e l’eliminazione dei dissidenti anti-comunisti. Biscet sa bene cosa accade nel suo paese. Castro, consapevole di aver condotto Cuba alla miseria, ha provato a procurarsi denaro attraverso la droga. Oggi, ormai da anni, punta sul turismo sessuale e sul turismo medico. Il primo ha ridotto il paese ad un grande bordello, e questo ha determinato un tasso altissimo di aborti, anche sulle piccole minorenni. Il secondo consiste nella vendita a ricchi stranieri, di cure, o pseudo cure, che altrove sono vietate, basate sull’uccisione di embrioni e feti.


Nella Cuba comunista e materialista, che si batte per la legalizzazione della clonazione, l’uomo, non più “figlio di Dio”, ha perso ogni dignità. Ma c’è chi non si rassegna, come Biscet. Anche se questo gli è costato la persecuzione, la prigionia, la perdita della salute. Biscet vive in una piccolissima cella, senza luce, senza spazio, senza bagno. Ha perso i denti, è sempre più minato nella salute. Proprio in questi giorni sua figlia Winnie ha lanciato un altro appello al presidente Obama chiedendogli di intercedere per suo padre che dal 1999 ad oggi ha potuto godere di soli 36 giorni di libertà.

Winnie ha anche scritto: “Recentemente, 39 prigionieri politici che erano stati incarcerati durante la stessa repressione, sono stati liberati e portati in esilio in Spagna o in Cile, sotto i termini di un accordo tra il governo spagnolo, la Chiesa cattolica e il regime di Castro. Mio padre rispetta la decisione di abbandonare il Paese in cambio del rilascio, ma ha coraggiosamente deciso di rimanere in prigione poiché si rifiuta di accettare i termini di tale accordo. Nel "Gulag" di Castro, mio padre ha sofferto orrori e torture indescrivibili. La sua consolazione, resistenza e sopravvivenza nascono dalla sua fede in Dio e dal costante impegno per i suoi principi. Anche in carcere, è uno degli uomini più liberi in tutta Cuba. Questa è la ragione per la quale nessuna condizione potrebbe essere accettata. Rifiuta la libertà condizionale o limitata, che consente al regime di rimandarlo in carcere e non accetterà mai l'esilio forzato in Spagna o altrove. Egli non abbandonerà mai il Paese che ama”.

Anche in Italia si può fare qualcosa per Biscet, collaborando a far conoscere la sua figura e a creare un movimento di opinione. Ricordando che anche Armando Valladares, celebre dissidente cubano autore di “Contro ogni speranza. 22 anni nel gulag cubano” (Spirali), fu liberato grazie ad un forte campagna di stampa e all’intervento del presidente francese Mitterand.
Per maggiori info: http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?id=2051

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comunismo, agnoli

domenica, 12 dicembre 2010

A 150 anni dalla malaunità

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di Francesco Agnoli - il Foglio del 26/09/2009

A 150 dall’Unità si preparano le celebrazioni. Solo che stavolta, causa la crisi economica, i fondi sono pochi e quindi il fiume di retorica a pagamento forse non ci sommergerà. Chi scrive non sogna un’Italia pre-unitaria, né la divisione del paese, che oggi non interessa a nessuno. Anche la Lega ha utilizzato quest’idea più che altro come slogan, per farsi strada nel dibattito sul federalismo. E con indubbi risultati. Epperò, senza pensare affatto a improbabili nostalgie, è giusto piantarla con i miti fondatori. Altrimenti non si capisce nulla della nostra storia recente: dell’emigrazione di massa post unitaria; dell’aggravarsi del fenomeno del brigantaggio in meridione, dopo il 1960; della politica di Giolitti verso il sud del paese; della partecipazione dell’Italia a quell’ “inutile strage” che fu la I guerra mondiale; dello strapotere torinese e agnelliano nella storia italiana; dell’adesione delle plebi meridionali al fascismo, nel quale spesso videro una maggior attenzione alle loro esigenze; della nascita della Lega in Sicilia, all’indomani della seconda guerra mondiale, prima, e della Lega veneta e lombarda al nord, poi; infine, del partito del sud di cui si parla oggi. Ammettiamolo: Garibaldi, Cavour, Mazzini non hanno fatto risorgere nulla. Da cosa doveva risorgere la patria delle università, della scienza, della medicina, dell’arte, di Dante, Giotto, Cimabue, Petrarca….? La storia degli stati pre-unitari è storia sovente gloriosa, di repubbliche come Genova e Venezia, che hanno dominato i mari, di ducati come quelli di Mantova e Parma, delle decine di capitali che costellavano la nostra penisola… Insomma, il “bel paese” dove i romantici venivano a godere l’arte, la poesia, la musica, la buona cucina… Da cosa dovevamo risorgere, se non, come voleva Cavour, dalle tenebre della storia cristiana? L’unità politica ed economica era forse un’esigenza, benché i popoli della penisola non ne sapessero nulla. Anche Pio IX e buona parte del clero italiano la avrebbero appoggiata. Nei primi anni del Risorgimento non mancavano i sacerdoti e i seminaristi che partivano volontari, che agitavano la coccarda tricolore nelle strade, che si arruolarono nella I guerra di indipendenza. Ma ad un certo punto non fu più possibile farlo, perché si capì che chi si stava appropriando del movimento di unificazione voleva un’Italia elitaria, “illuminata”, che tagliasse le sue radici col passato. L’unità avrebbe potuto nascere per consenso, con la dovuta calma e cautela, federando stati, culture, economie diverse, e mantenendo uguali diritti per tutti. Coniugando la storia e i costumi del nord con quelli del centro e del sud. Invece Garibaldi, Mazzini, Cavour, le sette segrete, con l’appoggio di parte della borghesia capitalista, puntarono a fare dell’Italia un’appendice del Piemonte, con l’ausilio non degli italiani, ma dell’esercito di Napoleone e dei soldi dell’Inghilterra. Ha scritto Antonio Gramsci: I liberali concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia”. Si volle dunque fare dell’Italia un paese “liberale”, nel senso di borghese, dove contadini e operai non erano neppure considerati, mentre i diritti dei più ricchi erano garantiti dall’apertura delle frontiere, da leggi speciali a vantaggio di determinate industrie e di certe categorie di persone, e dal diritto di voto al 2% della popolazione (i benestanti). Anche da queste miopìe derivarono non solo i problemi del sud, ma anche i fatti di Milano del 1898, l’uccisione di Umberto I e un socialismo massimalista che avrebbe poi formato spiriti violenti e totalitari come quelli di Mussolini e di tanti uomini del PcI. Non è un caso che Torino, per una sorta di vendetta della storia, dopo essere stata la prima capitale dell’Italia borghese, liberale, industriale, sia divenuta poi una delle patrie del comunismo italiano, ed infine la meta di migliaia e migliaia di meridionali e di extracomunitari. La politica di Cavour fu quella, furbesca, ma non certo patriottica, del carciofo: annettere gli stati italiani uno alla volta, come si sfoglia un carciofo, cercando di volta in volta alleati ingenui, da scaricare al momento opportuno. Persino Napoleone III fu concepito come un uomo da addomesticare con una bella donna e promesse irrealizzabili. Il tutto in vista di un centralismo alla francese, giacobino, che rinnegava le storie molteplici, e persino la varia geografia, del nostro paese. Riguardo alla Chiesa si volle servirsi di Pio IX, contro l’Austria, con cui si cercò a tutti i costi un ‘casus belli’: e così facendo prima trascinarono il papa, controvoglia, nella guerra del 1848, poi lo dipinsero come un mostro reazionario, nemico della modernità. A tirare le fila di tutto, quei politici piemontesi, che si definivano liberali, ma che per raggranellare i soldi per le loro imprese espansionistiche confiscavano i beni della Chiesa e indebitavano l’erario statale, in attesa poi di riempirlo nuovamente, ai danni degli stati conquistati; che mandavano a morire i soldati sabaudi in Crimea, a migliaia di chilometri da casa, e avrebbero poi imposto una leva militare obbligatoria lunghissima, negli stati italiani ove essa non esisteva. In effetti la I guerra di Indipendenza costò 295 milioni di lire, cioè quanto lo stato spendeva in due anni e mezzo di vita pacifica; costò tanti uomini, troppi per un paese così piccolo. Mentre i Savoia concepivano i loro sogni espansionistici, pronti a servirsi di chiunque, e creavano uno stato a misura di borghesia rampante, a costruire scuole, tipografie, falegnamerie per i poveri piemontesi, per gli orfani e le vittime dell’industrializzazione accelerata di Cavour, ci pensava Giovanni Bosco; mentre i malati incurabili li raccoglieva, nella sua splendida opera della Provvidenza, il canonico Cottolengo. I diritti dei più forti erano garantiti, quelli dei deboli ignorati. In questo il regno dei Savoia era all’avanguardia: “Fino al 1844 i rapporti tra apprendisti, garzoni di bottega e lavoratori erano regolati, in Piemonte, da norme precise che difendevano il giovane e obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo. Un editto reale del 1844 (strappato dai liberali in nome del progresso) ha abolito queste norme. Da quel momento i garzoni e i giovani operai sono rimasti soli e indifesi nelle mani del padrone. A otto, nove anni vengono gettati in un lavoro estenuante di 12-15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti, negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine”. Nello stesso 1844 i ragazzini al di sotto dei 10 anni impiegati nelle fabbriche piemontesi sono quasi ottomila. Lo stesso Cavour, favorevole al liberismo, mentre Giovanni Bosco raccoglie questi ragazzi per le strade, gli insegna un mestiere e cerca di strappare per loro la domenica libera e contratti migliori, afferma: “forse troppo poco ci curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifici, le donne e i fanciulli lavorano quasi un terzo di più, se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra” (Teresio Bosco, “Don Bosco”, 1988, p. 201) Dopo la vittoria, grazie ai francesi, nella II guerra d’indipendenza, i sabaudi si sarebbero spinti al sud, tramite gli avventurieri di quel Garibaldi che nelle sue memorie scriveva: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX…. Un’altra volta, dal balcone del palazzo della Foresteria io dicevo a codesto popolo: Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa!” (Giuseppe Garibaldi, “Memorie”, Rizzoli). Cosa fece Garibaldi in meridione? Basterebbe leggere gli autori siciliani che credettero in lui, da Giovanni Verga a Luigi Pirandello. Oppure quelli che non gli credettero mai: tutti quelli di cui è stata cancellata in buona parte la memoria, come i sessanta vescovi meridionali allontanati dalle loro sedi “per trame politiche contro il regno d’Italia”. Bisognerebbe ricordare coloro che divennero “briganti”, non di rado per lottare contro l’occupazione; coloro che nei plebisciti avrebbero votato contro l’unità, ma poi si trovarono ingannati, perché quella che doveva essere la loro prima esperienza di voto libero, fu invece una beffa vera e propria. Tomasi di Lampedusa ce la descrive ne “Il gattopardo”, attraverso la figura di Ciccio Tumeo: “Io, eccellenza, avevo votato no… e quei porci in municipio si inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco”. Dopo Garibaldi, Vittorio Emanuele II e le leggi marziali applicate nel meridione. Dovunque esercito, coprifuoco, pena di morte eseguita con estrema facilità; deportazione sulle montagne del nord; prefetti e sindaci piemontesi, di nomina governativa, in quelle terre che si proclamavano “liberate”, e, infine, l’acquisizione della complicità di parte della nobiltà e della borghesia meridionale con la cessione di terre del demanio, di proprietà ecclesiastiche confiscate, e di posti a sedere nel Senato di nomina regia, e cioè, ancora una volta, piemontese. Ne “Il gattopardo” questo tentativo di comperare le elite meridionali, allo scopo di completare la piemontesizzazione di tutto, è descritto nell’incontro tra il messo del re, Chevallay, dal cognome poco italico, e il principe di Salina, che alla proposta di far parte del nuovo Senato, risponde: “Stia a sentire, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare…”; ma “in questi sei ultimi mesi da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e di portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male”. E’ proprio per la rilettura della storia del recente passato che in meridione pullulano, ultimamente, le riviste e i libri revisionisti che ribaltano la storia degli ultimi 150 anni, e presentano Garibaldi per quello che fu veramente. Per questo le infinite vie dedicate all’ “eroe dei due mondi” vengono ormai sempre più spesso eliminate e sostituite, con una certa enfasi, da sindaci e consigli comunali iconoclasti e stufi della retorica. Certo non basterà a risollevare un sud in perenne difficoltà, ma personalmente penso che questa revisione, se condotta senza inutili vittimismi e con un certo patriottismo “leghista”, possa fare più bene al nostro sud, risvegliando in esso un sano orgoglio, delle ennesime celebrazioni che vogliono trasformare i fatti storici in mitologia patria. Dietro il fenomeno Raffaele Lombardo, in ogni modo, c’è anche questo desiderio di rivincita, questa revisione del Risorgimento, che non deve però divenire volontà di rifugiarsi nel pozzo oscuro dei soldi “romani”. Sarebbe un paradossale ricadere nel centralismo risorgimentale.


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gramsci, risorgimento, agnoli

giovedì, 30 settembre 2010
Infiltrazioni massoniche nella Chiesa
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Di Francesco Agnoli (del 26/06/2010 @ 17:02:25, in Storia del Cristianesimo,
Si è parlato in questo sito di massoneria. Pennetta ci ha ricordato le ragioni storiche della contrapposizione tra massoneria e Chiesa. Caius ha sottolineato che moltissimi massoni sono nel Pd, come dichiarava anche un amico della massoneria come Francesco Cossiga ai tempi dell’Ulivo (Repubblica, 4/3/1998).
Il Corriere intervistava qualche giorno fa l’ex leader del PLI Valerio Zenone, che ricordava di essere stato cooptato nella setta perché avvocato, consigliere regionale, e per le sue conferenze a favore del divorzio.
In generale si può ritenere che massoni vi siano al centro, a destra e a sinistra, ma sembra appurato quali siano le loro posizioni morali: pro aborto, divorzio, eutanasia, scuola laica (su questo, evidentemente, una preferenza a sinistra è comprensibile)…
Sembra inoltre appurato, guardando alla storia, o alle recenti dichiarazioni del mazziniano Raffi o di Luigi Berlinguer, l’ex comunista Pd che ha fatto capire di preferire i massoni ai membri dell’Opus Dei, che tra massoneria e Chiesa vi sia, come vi è sempre stato, uno scontro forte.
Di qui l’articolo che segue, in cui si illustra un fatto: l’infiltrazione massonica nella gerarchia ecclesiastica.
Ci sono scandali che, guarda caso, nessuno vuol montare. Anche se potrebbero andare nella direzione voluta: l’attacco sistematico alla Chiesa. Si è scoperto, in questi giorni, che nel nuovo scandalo Ior è coinvolto nientemeno che un cerimoniere del papa, mons. Camaldo! Recitava la Stampa del 17 maggio: “Che Balducci abbia un conto corrente presso lo Ior, fu lui stesso a dirlo a un magistrato. Era qualche anno fa e lo interrogava il pm di Potenza, il giovane Henry John Woodcock, il quale, intercettando le telefonate del cerimoniere pontificio, monsignor Franco Camaldo (coinvolto nell’inchiesta sugli affari di Vittorio Emanuele di Savoia), fu incuriosito da un misterioso bonifico di Balducci al monsignore. Questa fu la spiegazione di Balducci: siccome monsignor Camaldo, suo fraterno amico, era stato truffato nel corso di una spericolata operazione immobiliare, ed era giù di morale, lui aveva deciso di aiutarlo con un prestito di 280 mila euro a fondo perduto. Camaldo diede una risposta ancora più sorprendente: aveva partecipato a una operazione per comprare a Marino, nei Castelli romani, la villa principesca che era appartenuta a Carlo Ponti e Sofia Loren per farne la sede di una associazione massonica, ma il tutto si era rivelato una truffa e perciò era ricorso a Balducci”.
Uno scandalo, dicevo, di questo tenore: “il potere del Vaticano”, per usare una espressione maligna assai diffusa, “si salda con quello, segreto, delle logge”! Invece niente: delle logge, ma guarda un po’, non interessa nulla a nessuno.
Tutti a dar botte alla Chiesa, allo Ior, e la notizia che l’omino Ior è in verità un massone (cioè, per dirla con Agostino, “nella Chiesa ma non della Chiesa”), passa inosservata. Perché ci sono poteri che è meglio non toccare? Eppure la news è assai interessante: perché ci riporta alle infiltrazioni della massoneria, pluri-scomunicata dalla Chiesa, nella Chiesa.
 Infiltrazioni che datano da parecchi anni, se dobbiamo da credito ad una lista di prelati massoni comparsa su Panorama nel 1976 e poi ad un’altra, analoga ma più completa, pubblicata dal giornalista laico Mino Pecorelli, su Op del 12 settembre 1978.
 Pecorelli, membro della P2, sarebbe morto poco dopo la pubblicazione della lista, presa molto sul serio in Vaticano, se è vero come è vero che Paolo VI e poi il cardinal Siri chiesero al generale dei Carabinieri Enrico Mino di indagare sulla veridicità dei suoi contenuti. Ma anche Mino morì, precipitando con il suo elicottero, in circostanze non limpidisssime, prima di poter raccontare i risultati delle sue indagini.
La suddetta lista finirà poi nelle mani di papa Luciani, che “aveva manifestato l’intenzione di mettere mano alla questione dello Ior e di fare chiarezza in merito alla lista dei presunti prelati iscritti alla massoneria” ( 30Giorni, 9.9.1993).
Ma anche Luciani sarebbe morto troppo presto… Quali i nomi della lista? Troppo, per elencarli tutti.
Ne bastino 3: Marcinkus, presidente dello Ior, De Bonis, anch’egli uomo Ior, già indagato da Di Pietro nel 1994, le cui prodezze sono state rivelate l’anno scorso dal giornalista Nuzzi, in “Vaticano spa”, e Annibale Bugnini, autore della riforma liturgica. nella foto
I primi due furono sempre coperti, nonostante i loro nomi e la lista fosse sulla bocca di tutti. Nonostante dopo Marcinkus, almeno, si sarebbe potuto stare attenti al suo uomo, De Bonis, sapendo poi le voci su di lui… Il terzo invece, a quanto racconta lui stesso nella sua autobiografia, fu alla fine allontanato, proprio per il sospetto di essersi affiliato alla massoneria, e spedito a fare il nunzio in Iran nel 1975!
Riassume così messainlatino.it: “Mons. Bugnini, nel suo libro La riforma liturgica, riferisce (pagg. 100-101) di avere bussato a molte porte per sapere quale fosse la ragione della sua disgrazia. Dice di aver saputo che un cardinale importante cui le riforme liturgiche erano invise (Gagnon, si presume) aveva fornito un dossier su di lui, e sulla sua massonicità al Papa. Sempre Bugnini riferisce di avere scritto al Papa, nell'ottobre 1975, per contestare le accuse nei suoi confronti di iscrizione alla massoneria ma - informa sempre l'interessato - il Papa nemmeno si peritò di rispondere. Dato lo stretto rapporto, anche di fiducia e confidenza, che vi era stato fino allora tra i due, questo è un ulteriore segno evidente, aggiungiamo, che il Papa si era convinto della veridicità delle accuse, al punto da non voler nemmeno ascoltare gli argomenti a discolpa”.
Viene poi riportato un articolo comparso su Italia Oggi del 24.7.2009 di Andrea Bevilacqua: “Sembra una cosa troppo lontana nel tempo per fare notizia. Ma non è così. Secondo quanto riporta l'ultimo numero della principale rivista cattolica in lingua inglese Inside the Vatican, Annibale Bugnini, il principale promotore all'interno della curia romana di quella riforma liturgica che nel post Concilio Vaticano II ha rivoluzionato in modo decisivo l'intero impianto liturgico della Chiesa, ovvero colui che anche a motivo delle sue idee in campo liturgico (ma non solo) venne mandato da Papa Paolo VI a terminare i propri giorni in Iran, era un massone. Una rivelazione, quella di Inside the Vatican che, se confermata, darebbe notevole spago a tutti coloro che, all'interno del Vaticano, ritengono i cambiamenti liturgici avvenuti nel pontificato montiniano come un'opera perversa.Un'opera, insomma, voluta contro la Tradizione della Chiesa. È il giornalista Robert Moynihan a raccontare la cosa su Inside the Vatican, spiegando di averla saputa da un monsignore anonimo indicatogli dal cardinale canadese, Edouard Gagnon, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia dal 1985 al 1990.
Che il monsignore sia anonimo è senz'altro un punto negativo per le tesi di Moynihan, ma quanto il monsignore dice getta comunque ombre, più che luci, su un momento della vita della Chiesa difficile. «Il monsignore è il depositario del mistero relativo all'affiliazione massonica di Bugnini», disse a Moynihan il cardinale Gagnon. E il giornalista si affrettò a incontrare l'anonimo presule per farsi raccontare ogni cosa. Non solo, Bugnini avrebbe avuto anche un codice di riferimento col quale veniva identificato: lo chiamavano «Buan». Perché, si chiede Inside the Vatican, Bugnini venne mandato in Iran da Paolo VI? La tesi è una. Pare che Montini, è anche quanto riferisce il monsignore anonimo, si fosse convinto del fatto che Bugnini appartenesse alla massoneria. Una valigetta di proprietà di Bugnini contenente alcune lettere indirizzategli dal Gran Maestro della Massoneria Italiana, infatti, convinse il Papa della cosa. Quando Bugnini era ancora a Roma, inoltre, fu il cardinale Gagnon a stendere una relazione molto dettagliata sulla massoneria. Gagnon stette per tre mesi impegnato a stendere la voluminosa relazione. Un dossier giudicato dalla stessa massoneria esplosivo: si facevano i nomi e le attività occulte di certi personaggi di curia. Tuttavia il dossier venne rubato fra il 31 maggio ed il primo giugno del 1974 dalla scrivania di monsignor Mester, un collaboratore di Gagnon. Il cardinale dovette riscriverlo interamente ma non riuscì mai a divulgare la cosa come avrebbe voluto. Pare che fu anche per questo motivo, per l'impossibilità di far arrivare il dossier sul tavolo del Papa, che decise di ritornare in Canada e lì finire i suoi giorni”.
Per comprendere ancora meglio la questione, si può citare un libro del giornalista Pinotti, “Fratelli d’Italia”. Pinotti è un assemblatore confuso di notizie: di Chiesa sa pochissimo, di massoneria pure, confonde però a chi conosce la materia, certe informazioni risultano preziose, specie se confermano molte altre fonti: "Il 12 settembre 1978 il settimanale OP diretto da Mino Pecorelli, giornalista iscritto alla P2 e poi assassinato, pubblicò in un articolo dal titolo La grande loggia vaticana un elenco di ben 121 nominativi di esponenti vaticani e di alti prelati indicati quali affiliati alla massoneria. Ha scritto Alfio Caruso (in la Stampa, 22 agosto 2006): «Una mano anonima aveva inserito l'articolo nella rassegna stampa sfogliata ogni mattina dal papa. Questi aveva subito chiesto al cardinale Felici se la lista potesse essere veritiera. Verosimile, era stata la risposta.
L'elenco faceva impressione: comprendeva Villot, monsignor Agostino Casaroli, ministro degli Esteri della Santa Sede, il cardinale Ugo Poletti, vicario di Roma, il cardinale Sebastiano Baggio, Marcinkus, monsignor Donato De Bonis, dello Ior, don Virginio Levi, vicedirettore dell'Osservatore Romano, padre Roberto Tucci, direttore della Radio Vaticana, monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI. Con il disincanto tipico del vecchio habitué di Curia, Felici osservò che liste simili circolavano da sempre e che la prassi era di non prenderle in considerazione. D'altronde, aggiunse con un pizzico di malizia, Paolo VI aveva varato un comitato per cancellare la scomunica che da secoli veniva comminata ai massoni e il cardinale Villot ne era apparso entusiasta. Sentimento non condiviso da Luciani: per lui la massoneria incarnava il nemico di Roma. Pur intuendo che il suo amato Montini avesse aperto le porte delle mura leonine a una schiera di piduisti - Gelli, Ortolani, Sindona, Calvi - era contrarissimo a quell'insana commistione rivolta soltanto al profitto». (F. Pinotti, Fratelli d'Italia, cit., pp. 647-653)
Ebbene le notizie dateci da Pinotti sono in buona parte innegabili: si pensi al nome di Ortolani, membro eminente della P2: a Bologna, in cattedrale, vi è una statua dedicata a mons. Lercaro, tra i più assidui fautori della riforma liturgica di Bugnini, e della svolta post conciliare. La statua è stata donata da Ortolani!
Prendiamo Sindona e Calvi, i due oscuri trafficanti morti in circostanze misteriose. Giancarlo Galli, autorevole giornalista esperto in economia, già editorialista di Avvenire, nel suo “Finanza bianca” (2004) mette in luce gli stretti rapporti tra Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, e Marcinkus-De Bonis. Ebbene Galli non lo dice, ma i lettori lo sanno già: Macchi compare anch’egli, insieme ai due, nella lista di Pecorelli!
 Il cerchio si chiude… Eppure, il lettore attento, il cattolico che conosce come va il mondo, non deve essere spinto da quanto raccontato, a disperare: che la Chiesa sia infiltrata dalla massoneria è un triste dato di fatto, legato alla peccaminosità umana, e al potere delle tenebre. Non erano riusciti anche i comunisti a infiltrare in Vaticano, piazzandolo accanto a Giovanni Paolo II, un agente dei servizi segreti con la tonaca?
E’ successo più volte: da una parte i nemici che entrano, per scardinare la porta, dall’altra qualcuno che cede alla tentazione del potere, come Giuda, e pur essendo uomo di Chiesa, tradisce. Nihil sub sole novi. Speriamo dunque in un po’ di pulizia, ormai necessaria, senza dimenticare che se solo entrassimo negli affari di qualsiasi grande banca laica, cioè laddove girano i soldi di Mammona, troveremmo molto di peggio di quello che è avvenuto allo Ior. Oggi sotto la guida di un uomo integerrimo e intelligente.
Quello che dunque è molto più grave è altro: che la massoneria possa aver influenzato la riforma liturgica, tramite Bugnini. Di seguito riporto buona parte di un articolo dell’ottimo vaticanista Sandro Magister:
"Tra il papa e il massone non c'è comunione Ieri guardinghe aperture e vescovi simpatizzanti... Ma ora con Giovanni Paolo II e col cardinale Ratzinger è un'altra musica … Perché non sempre è stata questa l'impressione. Nel 1978, l'ufficiale "Rivista massonica" salutò Paolo VI, morto quell'anno, come il primo papa «non nemico». Negli anni Sessanta e Settanta, sullo slancio del disgelo del Concilio Vaticano II, tra la Chiesa e la massoneria era stato un gran dialogare. E anche un gran sussurrare.
Si vociferava di cardinali e illustri prelati di curia segretamente affiliati alle logge. Circolavano copie delle loro presunte tessere. Ancor oggi, nel chiacchieratissimo pamphlet "Via col vento in Vaticano" uscito lo scorso febbraio per la penna di anonimi monsignori, un intero capitolo è dedicato al «fumo di Satana» delle infiltrazioni massoniche tra i magnati di curia. E di due il pamphlet fa nome e cognome. Il primo è Annibale Bugnini, il regista della riforma liturgica postconcicliare, finito nunzio in Iran una volta ultimata la sua opera di «distruzione del rito antico della messa» e ivi morto, secondo il libello, «di morte naturale procurata» dai suoi stessi caporioni di loggia. Il secondo è Sebastiano Baggio, influentissimo cardinale dell'era di papa Giovanni Battista Montini. Aveva il potere di nominare i vescovi in tutto il mondo «e quindi di promuovere le carriere dei suoi confratelli occulti».
E nei due conclavi del 1978 corse come papabile. Di certo, in quel ventennio d'oro del dialogo tra Chiesa e massoneria, erano massoni e cattolici conclamati i fratelli d'affari dello Ior, la banca vaticana, Michele Sindona e Roberto Calvi. Era massone e cattolico Umberto Ortolani, intimo factotum del cardinale progressista Giacomo Lercaro. Oggi il Grande Oriente li rinnega tutti: facevano parte, sostiene, d'un ramo degenere della massoneria, quello della loggia Propaganda 2 di Licio Gelli. Nella sua recente intervista, il gran maestro Raffi si fa vanto d'aver espulso dall'ordine, «per contiguità con Gelli», lo stesso gran maestro legittimo dell'epoca, Giordano Gamberini. Ma proprio Gamberini era l'uomo con cui la Chiesa s'era messa in quegli anni a dialogare in segreto. Lo stile degli incontri era un po' carbonaro. Al primo di quelli semiufficiali, l'11 aprile 1969, ad Ariccia nel convento del Divin Maestro, sedevano da una parte il gran maestro Gamberini, il suo aggiunto Roberto Ascarelli e lo storico Augusto Comba. E dall'altra il salesiano Vincenzo Miano, vicecapo del segretariato vaticano per i non credenti, il paolino Rosario Esposito e il gesuita della "Civiltà Cattolica" Giovanni Caprile.
Racconta oggi padre Esposito, l'unico di questi tre ancora in vita: «Per la cena a capotavola c'era il Gamberini, che intonò il Padre nostro, poi, stando tutti ancora in piedi, prese un pane, lo spezzò e lo offrì al padre Caprile dicendo: "Il massone spezza il pane col gesuita". Tutti ci scambiammo il medesimo rito, condividendo una gioiosa fraternità». Gli alfieri del dialogo si ammantavano dell'autorità di papa Giovanni XXIII, che da nunzio a Parigi aveva benedetto in segreto la doppia appartenenza alla massoneria e al cattolicissimo ordine di Malta di un barone suo amico, Yves Marsaudon. Poi c'era stato il Concilio Vaticano II, con la richiesta esplicita, sostenuta in aula dall'ultraprogressista vescovo di Cuernavaca, Sergio Mendez Arceo, di revocare la scomunica ai massoni. E poi erano cominciate le strette di mano pubbliche tra capi della massoneria e cardinaloni di peso: gli americani Richard Cushing, Terence Cooke, John Cody e John Joseph Krol, l'austriaco Franz König, l'olandese Bernard Alfrink, i francesi Maurice Feltin, Francois Marty e Roger Etchegaray, il cileno Raúl Silva Henriquez, i brasiliani Aloisio Lorscheider e Paulo Evaristo Arns, insomma quasi tutti i capifila dell'ala progressista conciliare. In Italia, agli incontri successivi a quello di Ariccia parteciparono i vescovi Dante Bernini, di Albano, e Alberto Ablondi, di Livorno. In Vaticano, a tirare le fila era il cardinale prefetto dell'ex Sant'Uffizio, il croato Franjo Seper. Dall'alto, Paolo VI tutto sapeva e benediceva.
Revocare la scomunica non era impresa facile. A partire dal primo documento di condanna della massoneria, quello di Clemente XII nel 1738, era stato tutto uno scoccare di fulmini. Padre Esposito ne ha inventariati più di tremila, con il culmine toccato dal codice di diritto canonico del 1917, che comminava la scomunica ipso facto a coloro che semplicemente «danno il nome alla setta massonica». Ma batti e ribatti, l'ora della riconciliazione sembrava vicina. Nel 1968, i vescovi della Scandinavia decisero di non chiedere più l'abiura ai massoni che si facevano cattolici. E nel 1974 il cardinale Seper, in una lettera al cardinale Krol resa pubblica da quest'ultimo, spiegò che la scomunica doveva essere intesa operante solo per quei cattolici iscritti alle massonerie «che veramente cospirano contro la Chiesa». Come dire mai, dissero in coro compunti i capi delle logge di tutti i paesi, compresi quelli di più accanita tradizione antiecclesiastica. Mancava solo che il nuovo codice di diritto canonico, in preparazione, sancisse la svolta pacificatrice. La Congregazione per la dottrina della fede aveva chiesto due volte un parere riservato ai vescovi.
E il gesuita Caprile, che ebbe accesso alle segretissime risposte, constatò che quasi tutti chiedevano la cancellazione della scomunica, qua e là con elogi persino entusiastici dello spirito massonico. Senonché nel 1978 divenne papa Karol Wojtyla. E di colpo calò il gelo. Il primo effetto lo si vide in Germania. Anche lì i dialoganti s'erano dati da fare, con fior di teologi come Herbert Vorgrimler e Stephanus Pfurtner. E la conferenza episcopale aveva messo all'opera nel 1974 una commissione per accertare la compatibilità tra la fede cristiana e l'appartenenza massonica. Ma a Monaco di Baviera era intanto diventato arcivescovo uno spirito rigido e risoluto, Joseph Ratzinger, che il nuovo papa avrebbe presto chiamato a Roma al posto di Seper, come suo prefetto di dottrina. E di punto in bianco i dialoganti si trovarono congedati, la questione la prese in mano il vescovo di Augsburg, Joseph Stimpfle, un vero mastino, e nel 1980 l'episcopato tedesco scrisse la parola fine ribadendo «l'opposizione fondamentale e insuperabile» tra la massoneria e la Chiesa. Ma la gelata più tremenda fu il nuovo codice di diritto canonico, promulgato il 25 gennaio 1983. Il nuovo canone 1374 così predica: «Chi dà il nome a una associazione che complotta contro la Chiesa sia punito con una giusta pena; chi poi tale associazione promuove o dirige sia punito con l'interdetto».
Sparita la parola massoneria, sparita la parola scomunica... Alt. Provvide il cardinale Ratzinger, con la controfirma del papa, a fugare le illusioni e a dare l'unica interpretazione autorizzata del canone. Il giorno stesso dell'entrata in vigore del nuovo codice, sentenziò inappellabilmente che: primo, la condanna della massoneria resta immutata; secondo, i cattolici che appartengono a una loggia sono in stato di peccato grave e non possono fare la comunione; terzo, non sono ammesse deroghe. Per i filomassoni di parte cattolica, i tempi si sono quindi fatti duri, sotto l'impero del binomio Wojtyla-Ratzinger, inflessibili nell'avversare ogni relativismo. Tenace ma sempre più solo, padre Esposito continua a sfornare i suoi libri e articoli e a tenere conferenze di loggia in loggia.
Ma l'editore deve andare a cercarselo sulla sponda laica: come Nardini, con cui ha pubblicato proprio quest'anno "Chiesa e massoneria. Un Dna comune", primo di una coppia di volumi sulle concordanze tra l'una e l'altra. Altri hanno ripiegato. Come il vescovo ieri di Crotone e oggi di Cosenza, Giuseppe Agostino, pezzo grosso della Cei, che negli anni del dialogo frequentava gli uomini di loggia ma nel 1996 mandò su tutte le furie l'allora gran maestro Gaito vietando ai massoni di far da padrini ai battesimi e alle cresime, al pari di mafiosi, criminali e usurai. Gaito se ne lamentò col quotidiano della Cei, "Avvenire". E questo lo ripagò rincarando la dose. Dipingendo la massoneria come «struttura iniziatica, gerarchica e segreta», con a capo «superiori invisibili», tesa a irretire e a macchinare, predicante all'esterno una vaga «religione dell'uomo», ma professante in segreto, ai gradi alti, «un umanesimo nichilista, in pratica un antiumanesimo dai cieli chiusi».
Anche "La Civiltà Cattolica" ha richiuso gli spiragli aperti anni fa da padre Caprile. Nel suo editoriale di metà giugno ha ammesso che «negli scorsi decenni la Chiesa ha permesso una non breve esperienza di dialogo tra studiosi cattolici e dignitari massonici». Ma per concludere che quel dialogo s'era rivelato un inganno. Perché il criterio con cui si muovono i capi massoni quando si rivolgono alla Chiesa è: «quello che è mio è mio, quello che è tuo è negoziabile». Criterio inaccettabile. La Chiesa ha verità assolute, che discendono da Dio e quindi non possono essere in alcun modo discusse. Raffi, il gran maestro in carica del Grande Oriente d'Italia, forte di 554 logge e di 13 mila iscritti molti dei quali, dice, cattolici, non si arrende: «Se la Chiesa ritiene di perseverare in questa posizione cercheremo di farle cambiare idea. Mi piacerebbe molto coinvolgere un cardinal Ersilio Tonini». Ma anche vescovi presunti candidati al dialogo gli danno delusioni. Da Ivrea, Luigi Bettazzi ha invitato la massoneria a tenere piuttosto un suo Concilio e a farsi trasparente. «Dovrei constatare che un suggerimento del genere arriva da un'istituzione piramidale e non certo democratica come la Chiesa», ha replicato gelido Raffi. Giubileo o no, davvero impensabile che facciano presto pace" (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/7167

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massoneria, agnoli

giovedì, 05 agosto 2010

GLI ESERCITI DI DIO

Post n°3974 pubblicato il 22 Luglio 2010 da diglilaverita
Foto di diglilaverita
Lindau ha pubblicato l’ultimo libro di Rodney Stark “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate” il cui merito è quello di far piazza pulita di una vecchia menzogna: la strumentalizzazione delle crociate. Spesso, infatti, si vuole far credere che questi episodi della nostra storia simboleggino un modus operandi della Cristianità: aggressiva, pronta a fare proseliti con la violenza. La storia non è andata così, benché questa versione piaccia ormai, in primis, proprio a molti cattolici progressisti…

Nello sconfortante panorama del cattolicesimo italiano attuale, non mancano però i segnali di speranza e di cambiamento. Citavo, alcune settimane fa, la casa editrice Fede & Cultura, come segnale evidente di una voglia nuova di alcuni ambienti cattolici di fare cultura e di proporsi al mondo senza paure e complessi di inferiorità. Questa volta vorrei invece ricordare un’altra casa editrice che, come cattolico, sento il dovere di ringraziare. Sto parlando dell’editore Lindau, a cui si devono, negli ultimi anni, testi bellissimi e preziosi, come “La vita in vendita” di Jacques Testart, “Iota unum” di Romano Amerio, magistralmente curata da Enrico Radaelli, e gli ottimi lavori di Rodney Stark, grande sociologo delle religioni americano. Si tratta di opere che sino a pochi anni fa difficilmente sarebbero stati stampate e diffuse in Italia, e che dicono appunto di un graduale, ma deciso, risveglio culturale. Vorrei oggi riferirmi in particolare all’ultimo libro di Stark pubblicato da Lindau: “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate”.  Anche perché in tempi di martirio, come quello di mons. Luigi Padovese, è forse necessario incominciare a spazzar via menzogne ormai secolari che non aiutano a capire. Padovese è stato vittima innocente, disarmata e coraggiosa, che ci ricorda ancora una volta, a chi voglia vedere, che la religione di Cristo si è diffusa nel mondo non col potere del denaro o delle armi, ma, soprattutto, col sangue dei martiri. Il merito di Stark è quello di far piazza pulita di una vecchia menzogna: la strumentalizzazione delle crociate. Spesso si vuole far credere che questi episodi della nostra storia, così intessuti di grandezza e di miserie, come è inevitabile che sia quando il protagonista è l’uomo, simboleggino un modus operandi della Cristianità: aggressiva, pronta a fare proseliti con la violenza. La storia non è andata così, benché questa versione piaccia ormai, in primis, proprio a molti cattolici progressisti. Le crociate infatti non sono state il tentativo di sottomettere un’altra religione, né di convertire con la forza altri popoli. Per spiegare questa ovvietà storica, Stark ribalta la narrazione più canonica dell’ordine dei fatti.
Nella nostra cultura, influenzata dalle menzogne di Voltaire, Diderot e dei loro nipotini, le crociate compaiono all’improvviso, come Minerva dalla testa di Giove. Ebbene Stark svela l’inganno in modo semplicissimo: raccontando gli antefatti, cioè i quasi 5 secoli di continue aggressioni del mondo islamico contro quello cristiano! Inoltre pone all’inizio del libro due cartine storiche che sarebbero da sole sufficienti a fare chiarezza: la prima mostra la diffusione del cristianesimo sino alla nascita dell’islam; la seconda le terre cristiane, dall’Africa del nord, alla Spagna, dalla Sardegna, alla Sicilia, ecc., nelle mani dei maomettani. Non per pacifica concessione. Non per libera conversione, ma grazie alla forza delle armi! Stark ricorda che le crociate non nacquero dalla avidità dei nobili europei, molti dei quali, anzi, sostennero “di persona spese enormi, alcuni affrontando coscientemente persino la bancarotta pur di recarsi in Terra Santa”, né furono il primo tentativo di colonialismo europeo, dal momento che i regni cristiani in Oriente furono indipendenti da qualunque stato europeo e, lungi dall’essere sfruttati economicamente, godettero e vissero invece delle ricchezze che provenivano dall’Europa.
Le crociate, col loro inevitabile carico di crudeltà e di morte, nacquero invece come risposta ai continui e terribili attacchi islamici; in difesa degli ortodossi di Bisanzio, sempre a rischio di cadere sotto la spada islamica; per la difesa dei cristiani che si recavano in Terra Santa. Al riguardo Stark rievoca i periodici massacri di pellegrini che giungevano a Gerusalemme: le centinaia di cristiani crocifissi e lapidati, i monaci del monastero di Mar Saba messi al rogo, la devastazione di circa 30 mila chiese, tra cui la stessa chiesa del Santo Sepolcro, all’epoca del sovrano Hakim… I membri dell’aristocrazia europea, nota sempre Stark, non avevano bisogno delle narrazioni di Urbano II, né delle invocazioni di Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio, per conoscere il trattamento riservato in Terra Santa ai pellegrini e ai non islamici: molti di loro vennero a conoscenza diretta, oppure grazie ai familiari e amici “che erano riusciti a sopravvivere e a fare ritorno in Europa, esausti, impoveriti e con spaventosi racconti da riferire”. Infine Stark dimostra che le crociate non possono essere indicate come “una delle cause dirette dell’attuale conflitto mediorientale”, anche per il fatto che gli islamici, fino alla fine del XIX secolo, non dimostrarono interesse per questi fatti. Anzi, “per molti arabi le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi, e pertanto di scarso interesse”.
 La verità storica è dunque chiara: l’avversione dell’Islam per l’Europa, come terra di conquista, è sempre esistita, ora più, ora meno; i papi hanno spesso salvato la libertà dell’Europa; le colpe europee verso i paesi islamici, ben meno di quelle che si vuole far credere, risalgono semmai alla colonizzazione ottocentesca e successiva, portata avanti non dalla Chiesa, ma da Stati in cui il cristianesimo era già stato sostituito, almeno a livello di elite, da ideali ben diversi, quando non esplicitamente anti-cristiani.
- di Francesco Agnoli - fattisentire -

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crociate, agnoli

sabato, 03 luglio 2010
Orfanotrofio russo di Francesco Agnoli
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Il Foglio del 4 marzo 2010 La cultura e le leggi bolsceviche che avrebbero dovuto portare alla “liberazione della donna”, magari contro la “sessuofobia cristiana”, causarono, come si è visto, la disgregazione della società, il boom degli infanticidi e degli aborti.
Tanto che i paesi comunisti, dal Vietnam alla Cina, da Cuba alla Federazione russa, mantengono ancor oggi il triste primato degli aborti nel mondo. Ma non è tutto: anche i bambini già nati furono vittime, in massa, dell’ideologia. Riguardo alla famiglia, infatti, all’inizio della rivoluzione comunista si sostenne che la lotta tenace al matrimonio religioso, il lavoro obbligatorio per le donne e l’intervento dello stato per sollevare i genitori dal “fardello dell’educazione dei figli”, avrebbero portato a una società armoniosa e felice. Alexandra Kollontai, in due discorsi del 1921, aveva infatti dichiarato: “Nella Società Comunista la donna non dovrà passare le sue scarse ore di riposo in cucina, perché esisteranno ristoranti pubblici e cucine centrali in cui si darà da mangiare a tutti…”; neppure sarà più necessario che le donne facciano le pulizie in casa, visto che ci penseranno persone stipendiate ad hoc dallo Stato. Inoltre il “focolare domestico” verrà sostituito dal “focolare comunitario”, il matrimonio indissolubile, “una mera frode”, dal “diritto alla felicità” per gli amanti; le case comuni prenderanno il posto degli alloggi privati, e la famiglia sarà sostituita, nell’educazione dei figli, dallo stato. Così “l’uomo nuovo, della nostra nuova società, sarà modellato dalle organizzazioni socialiste, dai giardini d’infanzia, residenze, asili per bambini e altre istituzioni di questo tipo, in cui il bambino passerà la maggior parte della giornata e in cui educatori intelligenti lo trasformeranno in un comunista cosciente”. “Non temete – continuava – per il futuro di vostro figlio. Non conoscerà il freddo e la fame. Non sarà disgraziato, non verrà abbandonato alla sua sorte come accadeva nella società capitalista. Non appena il neonato viene al mondo, lo Stato della classe lavoratrice, la Società Comunista, assicurerà al figlio e alla madre una razione per la sua sussistenza e una sollecita cura. La Patria Comunista crescerà, alimenterà ed educherà il bambino” e la famiglia non sarà più necessaria, ma al contrario “dannosa e inutile”, visto che “la donna che ha nutrito il suo bambino al seno ha assolto il suo dovere sociale”. Proprio in uno di questi discorsi, dopo aver ricordato che finalmente nel 1920 dodici milioni di cittadini, “bambini compresi”, hanno mangiato nelle mense pubbliche, e dopo aver stigmatizzato come “lavoro improduttivo” “la cura della casa e la cura dei bambini”, la Kollontai notava che “in Unione Sovietica, ahimè! il numero dei bambini abbandonati dai genitori non smette di crescere”.
Che cosa succedeva? La mentalità imposta dai bolscevichi, il matrimonio minimale, senza “formalità”, senza sacralità e quasi senza cerimonia, il cosiddetto divorzio veloce, “nel giro di una o due settimane al massimo” (sfruttato da molti mariti), l’insistenza sulla morte della famiglia, il “doppio fardello” per le donne, si sommarono alla povertà determinata dalla guerra civile, dall’economia statalizzata e dalle carestie provocate, e portarono milioni di russi a smarrire il senso della genitorialità, all’aborto reiterato, all’infanticidio e ad abbandonare i figli o allo stato o sulla strada. Gli storici sono concordi: fu un fenomeno di proporzioni inaudite. In breve la Russia fu strapiena di “besprizorniki”, gli abbandonati, i figli di nessuno: si parla di 7 milioni di bambini nel 1922. A quelli abbandonati per i motivi suddetti infatti, bisogna aggiungere tutti i figli dei perseguitati politici: nella Russia comunista le mogli dei “traditori della patria”, ma spesso anche le mamme e le sorelle, venivano internate in appositi gulag, mentre i bambini, rimasti soli, venivano rinchiusi in quelle che dovevano essere le “splendide” scuole pubbliche, sostitutive dei genitori, e che divennero invece gli immensi orfanotrofi-lager che disseminano ancora oggi l’Est postcomunista. A prendersi “cura” dell’emergenza fu incaricato il terribile Dzerzinskij, il capo della Ceka, determinando tra il resto il fatto che questi istituti sovraffollati di bambini disperati divennero talora veri e propri vivai per la polizia segreta di Stalin, capace, sovente, di ferocia senza pari. Nel 2007 in Russia vi erano ancora circa 5 milioni di bambini abbandonati.
Qualcosa di simile alla situazione di altri paesi comunisti, in cui la disgregazione familiare era stata considerata propedeutica a una maggior libertà dell’individuo e alla creazione di veri cittadini, fedeli solo allo stato e alla collettività. Nella Cina di Mao e nella Cambogia di Pol Pot, voler dormire a casa, dimostrare attaccamento per la moglie o i figli, tributare culto ai familiari defunti, costituirono motivi di sospetto. Si veniva incolpati di “mettere la famiglia al primo posto”, di porre in dubbio la capacità del partito di provvedere ai cittadini, di avere ancora “inclinazioni individualiste”, di essere troppo legati a “sentimentalismi” ed egoismi piccolo borghesi. Con esiti simili a quelli russi: una massa immensa di aborti, infanticidi e orfani nelle strade.
(Continua - 3)

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comunismo, famiglia, aborto, agnoli

Qui si spiega perché i comunisti (nuovi e vecchi) sono i veri nemici della libertà delle signore
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Guerra di modelli di Francesco Agnoli
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Il Foglio del 4 marzo 2010
All’inizio della rivoluzione bolscevica l’introduzione del divorzio libero e senza formalità fu presentato come ciò che avrebbe permesso la “liberazione della donna”.
Provocò invece una quantità enorme di abbandoni e di divorzi che ebbero proprio le donne, e i bambini, come vittime principali. Al punto che il Partito comunista impose una drastica retromarcia, ostacolando le separazioni e lanciando una campagna di propaganda a favore dell’unità familiare. Lo si è visto la volta scorsa.
Sempre agli inizi della rivoluzione, il 18 novembre 1920, l’Urss fu il primo paese a legalizzare l’aborto e Lenin presentò tale iniziativa con la solita, utopica, dogmaticità. L’aborto legale sarebbe stato solo una misura transitoria, in quanto sarebbe scomparso con l’incentivo all’uso di anticoncezionali, con la diffusione capillare di asili, scuole, mense di stato, e con l’accesso delle masse a un livello superiore di moralità comunista. A. Kollontaj, amica del dittatore, in una conferenza tenuta nel 1921 all’Università di Sverdlov, esultando proprio per la legalizzazione dell’aborto, ebbe a dire: “Lasciamo da parte le donne borghesi che hanno generalmente altre ragioni per abortire: per evitare di dividere l’eredità, per timore delle sofferenze della maternità, per non rovinare il proprio profilo, per incapacità a rinunciare a una vita di piacere breve, per comodità e per egoismo”. In Urss, continuava, le donne abortiranno solo per motivi cogenti, e solo per pochi anni ancora, dal momento che il governo comunista, “rendendo la maternità compatibile col lavoro”, eliminerà automaticamente “la necessità dell’aborto”. Ma le cose non andarono così, neppure questa volta. Il ricorso all’aborto fu massiccio: la persecuzione della fede, la povertà, la disgregazione familiare, le idee sul libero amore, la deresponsabilizzazione dei genitori determinarono un’ecatombe e un vuoto demografico. L’aborto divenne un metodo anticoncezionale cui ricorrere con assoluta facilità. Il feto perse a tal punto la sua dignità che nacquero ricerche occisive, non solo su quelli abortiti spontaneamente, ma anche “inducendo gravidanze al solo scopo di interromperle in una certa fase per ottenere il tessuto embrionale”. Sappiamo che le sportive sarebbero state talora spinte a rimanere incinte e poi ad abortire, per beneficiare della forza fisica seguente appunto al concepimento.
Quanto ai gulag, scrive F. D. Liechtenhan, nel “laboratorio del gulag” (Lindau), quando le prigioniere “rimangono incinte, vengono obbligate ad abortire”. Il disprezzo della vita nascente si diffonde ovunque. Ne “Gli uomini di Stalin” Sebag Montefiore, racconta alcuni episodi tipici dell’epoca. Il terribile e onnipotente Berija, per esempio, vive in un turbine di violenze sessuali e di stupri consumati ai danni di attrici, sportive e di altre malcapitate convocate nella sua dacia, e minacciate di finire in un campo di concentramento se si rifiutano di sottostargli. Fatto sta che dinnanzi a un paese trasformato in mattatoio, per evitare il collasso, Stalin impone la retromarcia, già col codice del 1936, e poi con quello del 1944. Il dittatore arriva così a dichiarare, nell’aprile del 1936: “L’aborto che distrugge la vita è inammissibile nel nostro paese. La donna sovietica ha gli stessi diritti dell’uomo, ciò però non la esime dal grande e nobile dovere datole dalla natura: la donna è madre, dà la vita” (“Storia delle donne”, vol. V, Laterza). Si istituiscono così una “Medaglia della Maternità”, l’ordine “Gloria della Maternità” e il titolo d’onore “Madre eroina”. Alla faccia della vecchia retorica bolscevica contro la donna ridotta solo a madre dal cristianesimo! L’aborto verrà reintrodotto nel 1955, ma con esiti disastrosi. Tra il 1966 e il 1970 a fronte di 4 milioni di nascite l’anno, gli aborti legali nel paradiso dell’ateismo sono tra i 7 e gli 8 milioni. Un primato mondiale che verrà mantenuto dalla Russia anche dopo la caduta del regime. Sino all’ottobre 2007, quando Putin ha imposto una vigorosissima sterzata antiabortista, per salvare il paese dall’inverno demografico e ideologico.
(Continua - 2)

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famiglia, agnoli

Perché l'idea di vera famiglia spaventa così tanto i nostalgici dei vecchi principi comunisti
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Guerra di modelli di Francesco Agnoli
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Il Foglio del 25 febbraio 2010
Uno dei concetti ribaditi dai padri del comunismo è che la liberazione generale che sarà garantita dalla nuova struttura economica riguarderà anche la famiglia, le donne e i bambini.
Il cristianesimo, accusano i marxistileninisti, disprezza la donna e la considera un essere inferiore destinato a procreare figli nel silenzio della casa. Ma divorzio libero, aborto, anticoncezionali, nuova visione dei rapporti prematrimoniali ecc., genereranno una società nuova, armoniosa, in cui la famiglia, finalmente "felice", non sarà più il luogo dell'oppressione dell'uomo sulla donna. Quest'ultima, lo affermava Engels, non sarà più schiava nella "camera da letto"o "nella camera dei figli, nella cucina". Sarà libera, felice, realizzata. Scomparirà del tutto anche la prostituzione, perché verranno eliminate "le condizioni che la generano e l'alimentano". Ciò avverrà, nella società comunista futura, tramite la fine, oltre che dello stato, anche di qualsiasi normativa atta a regolare il matrimonio, ridotto, come auspicava Engels, a "rapporti puramente privati, concernenti solo le persone che vi partecipano". Che siano per il "libero amore", magari anche di gruppo come nel film "Tre in uno scantinato", per il sesso come mero bisogno fisiologico, secondo la teoria del "bicchier d'acqua", o per una visione più moderata, per tutti i teorici del nuovo mondo comunista il divorzio libero farà miracoli. Fatto sta che nel 1917 il governo dell'Urss introduce nel codice il divorzio sia per mutuo consenso, sia su richiesta di anche uno solo dei due congiunti. Per celebrare l'evento Lenin afferma: "La repubblica dei soviet ha prima di tutto il compito di abolire ogni restrizione dei diritti della donna. Il procedimento giudiziario per il divorzio, questa vergogna borghese, fonte di avvilimento e di umiliazione, è stato completamente abolito dal potere sovietico. Da un anno esiste ormai una legislazione assolutamente libera sul divorzio".
Il codice del 1926 inoltre, accanto al matrimonio registrato, contempla anche il matrimonio di fatto, entrambi con lo stesso valore giuridico. Il divorzio è ancora più facilitato, può avvenire senza alcuna "formalità"ed essere unilaterale. Si assiste così alla morte della cosiddetta famiglia "borghese". Con quali conseguenze? La felicità promessa? H. Chambre, nel suo "Il marxismo nell'Unione Sovietica", ricorda che gli effetti di questa legislazione, e della cultura che vi è sottesa, sono l'instabilità della coppia coniugale, l'insicurezza dei fanciulli, l'aumento del numero dei figli per i quali la donna non percepisce pensione alimentare, l'incremento del disagio minorile… A sua volta F. Navailh, in "Storia delle donne"(Laterza), nota che tale "libertà degenera dando luogo a effetti perversi. L'instabilità maritale e il rifiuto massiccio di figli sono due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. L'aggravarsi delle condizioni delle donne (soprattutto in città) è evidente. I padri abbandonano o se ne vanno di casa, lasciando spesso una moglie priva di risorse. La procedura di divorzio mediante una semplice richiesta unilaterale incoraggia gli atteggiamenti più cinici...Gli assegni familiari sono anch'essi aleatori…". Si arriva così a una esplosione della disgregazione familiare, 44,3 per cento dei divorzi in città nel 1935, che spinge il governo a imporre una retromarcia per impedire il crollo del paese. Insomma, il "sol dell'avvenire" tarda a spuntare, così in economia come nella vita affettiva. Nel 1936, pur restando libero, il divorzio viene reso molto più difficile per le spese prescritte.
Nel 1944 si arriva a un'ulteriore virata: viene abolito il matrimonio de facto e solo quello registrato è ritenuto valido. La procedura è affidata ad un tribunale, che deve anche intraprendere un tentativo di conciliazione. Inoltre occorre pagare una cifra molto alta per presentare la domanda di divorzio e un'altra cifra notevole alla compilazione del certificato finale. Il divorzio diventa così, per molti, praticamente impossibile! I giudici sono chiamati a ostacolarlo in tutti i modi, a tentare l'impossibile per la conciliazione e a tenere conto del grado di colpevolezza dei due coniugi. In svariati casi rifiutano il permesso anche a chi abbia seguito tutte le procedure. Insomma, dal matrimonio senza alcuna formalità, puro affare di privati, si passa a una quasi totale inversione di rotta:ancora una volta l'utopia è sconfitta dalla realtà, e diventa necessario correre ai ripari.
Nascono così le crociate per limitare i divorzi. Già nel maggio del 1936 la Prava aveva spiegato che "la famiglia è la cosa più seria che esiste nella vita". "Senza una famiglia salda e felice -si legge su "Autoistruzione politica", organo del PCUS, nel 1962 -non vi può essere una felicità personale, né una retta educazione della nuova generazione.
Ecco perché il programma del nostro partito dà una grande importanza a un ulteriore rafforzamento della famiglia sovietica…". L'idea del "libero amore", in tutte le sue forme, è ormai lontana, l'ideologia è sostituita con la realpolitik: non è tanto la famiglia in sé che interessa, quanto la disgregazione dello stato che segue alla disgregazione della famiglia, che spaventa.
(Continua - 1)

Postato da: giacabi a 07:35 | link | commenti
comunismo, famiglia, agnoli


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