Il “progresso” dell’uomo senza Dio
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S. Paolo (in Rm 1, 22-31)
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dico, nichilismo, pacs
A PROPOSITO DEI MALE"DICO"
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Discorso del Card. Caffarra
presso il Centro Polivalente "Pandurera" di Cento (Fe) 16 febbraio 2007 Viviamo dentro una cultura ed una comunicazione sociale nella quale si tende a trasformare ogni desiderio in diritto. Una società nella quale vale il principio: "se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?". Una società cioè nella quale la soggettività individuale, la ricerca del proprio bene-essere diventa il criterio supremo dell'organizzazione sociale, negando che esistano beni umani insiti nella natura della persona umana che tutti devono riconoscere; che esiste un bene umano comune. Potremmo dire che il principio utilitaristico ha così completamente pervaso i nostri rapporti sociali rendendoli "scambio di equivalenti" come nei rapporti economici e nel mercato. Questa premessa mi serve ad esprimere meglio l'idea fondamentale di questa mia riflessione. Che è la seguente: la famiglia intesa come "società naturale fondata sul matrimonio" è la principale nemica di una società che riduca il bene comune all'utilità dell'individuo. Pertanto chi indebolisce l'istituto familiare, obiettivamente promuove un'organizzazione sociale dominata dalla "regola degli equivalenti" Insidia cioè gravemente il bene comune. Ora cercherò di spiegarmi punto per punto, brevemente. Primo punto. La comunità familiare è dominata dal principio di reciprocità perché è costruita sull'affermazione di ogni persona che la compone, in se stessa e per se stessa. Il bambino neonato è amato e ben voluto non per l'utilità che esso offre. L'anziano è custodito e venerato anche se non è più produttivo. Quando un familiare si ammala non viene abbandonato a se stesso. La vita in famiglia costituisce la prima, originaria socializzazione della persona umana perché la inserisce in un tessuto connettivo costituito dall'affermazione di ogni persona in se stessa e per se stessa, e non per la funzione che esercita. Cerchiamo di riflettere molto seriamente su questo punto fondamentale. Quando due si sposano promettono di essere reciprocamente fedeli per sempre "nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia", e di amarsi ed onorarsi per tutti i giorni della vita. È il contenuto di questa promessa che costituisce il bene comune della comunità che il vincolo coniugale crea fra l'uomo e la donna. Sono le parole con cui l'uomo e la donna fondano il loro matrimonio ad indicare il bene comune della società coniugale: l'amore, la fedeltà, l'onore e "per tutti i giorni della vita". La comunità coniugale è intimamente orientata alla generazione- Non si tratta solo di un fatto biologico: è un evento spirituale molto profondo. Il figlio "apre" la comunità coniugale all'ingresso di un altro che non è "estraneo", ma è a pieno diritto membro di una vera comunità umana, la famiglia. Essa è in senso vero e proprio la vera culla della società umana, poiché è in essa che l'umanità continua. L'uomo può smettere di fare qualsiasi cosa, ma non di generare ed educare l'uomo. Senza l'educazione il nostro bene comune fondamentale che è la nostra umanità, è destinata a scomparire. È nella famiglia che si imparano gli stili di vita che promuovono nella società il principio della reciprocità, ed impedisce che diventi dominante il principio dell'equivalenza. Punto secondo. Se ciò che ho detto è vero, la conseguenza è che chi indebolisce, chi non riconosce la famiglia, obiettivamente non promuove il bene comune. Ci sono molti modi per rafforzare/indeboli riconoscere/ Non voglio addentrarmi in un campo che in una certa misura esula dalla mia competenza. Mi limito ad una sola riflessione. Non sto giudicando le intenzioni di nessuno. Quando si creano, attraverso le leggi, istituzioni nuove, esse, una volta entrate a far parte della vita associata possono avere conseguenze che non erano quelle desiderate: conseguenze inattese dell'azione intenzionale. Orbene, da quanto ho detto prima risulta che: il matrimonio e la famiglia sono di importanza fondamentale per il bene comune; la decisione di sposarsi è una decisione ardua; il matrimonio e la famiglia sono oggi particolarmente insidiati nella loro preziosità etica anche da un diffuso utilitarismo. Presupposto tutto questo, facciamo la seguente ipotesi: lo Stato offre una via alternativa per avere quei beni che fino ad ora erano concessi a chi era sposato, un'alternativa che non richiede gli impegni propri del matrimonio. Quale sarà il risultato? Almeno due: un'ulteriore conferma della mentalità utilitarista e quindi un forte indebolimento dell'istituto matrimoniale rispetto alle ideologie ad esso ostili. In una parola: il bene comune è seriamente compromesso. In una società in cui la norma utilitarista sta pervadendo sempre più profondamente la coscienza, offrire un'alternativa alla famiglia, nel senso che i beni propri di essa si possono raggiungere senza gli impegni che essa comporta, obiettivamente significa persuadere le persone a scegliere secondo la norma utilitarista. Se ci va bene una società così configurata, possiamo pure proseguire su questa strada. Il capolinea sarà una persona sempre più sradicata dalla verità e dal bene della sua umanità; una società di estranei gli uni agli altri. La situazione è grave, poiché si sta marciando verso questo capolinea dicendo che si sta percorrendo la direzione opposta. Come cristiani abbiamo una grande responsabilità in questo contesto poiché abbiamo ricevuto mediante la fede un grande dono. Il dono è l'essere nella Chiesa, l'essere Chiesa. E Chiesa È la comunione ecclesiale dove ciascuno è responsabile di ciascuno. Certamente, Ma là dove ci sono vere comunità cristiane, piccoli frammenti cioè in cui vive ed opera tutto il grande Mistero che è anche di società buone e giuste. Non è l'essere minoranza o maggioranza la preoccupazione fondamentale della Chiesa. Questa è una preoccupazione di chi pensa soprattutto al potere. La nostra preoccupazione è di prendersi cura della nostra umanità. La preoccupazione della Chiesa è di aiutare la persona a realizzare in misura alta la sua umanità. + Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna © Avvenire-Bologna7, 18/2/2007 |
Postato da: giacabi a 14:31 |
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pacs
Ragioni laiche
per dire ¨no pacs¨
di Giacomo Samek Lodovici
fonte Il Timone febbraio 2007
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Molti
credono che opporsi al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto
sia dovuto a motivi legati alla fede cattolica. È un errore. Ci sono
ottime ragioni, dettate dal buon senso e dall'esperienza, valide
anche per chi non crede, per giudicare negativamente i Pacs (magari non
li si chiama così, ma la sostanza cambia poco). Vediamone alcune. Un danno enorme per i bambini Perché lo Stato deve privilegiare il matrimonio rispetto ad altri tipi di unione e di convivenza? La risposta è semplice: perché deve incentivare le forme di vita che concorrono al bene comune e che tutelano i deboli e gli indifesi. Ora, il bene comune è in primo luogo la procreazione, la cura el'educazione dei figli, che assicurano la sopravvivenza della società. E la tutela di deboli e indifesi fa pensare innanzitutto ai bambini. Pochi considerano il vero bene di questi ultimi. È chiaro che il contesto più propizio per la loro nascita, cura ed educazione è una forma di relazione caratterizzata dall'amore, dalla stabilità e dalla coesione. Ma ciò è l'esatto contrario delle convivenze, connotate (con rare eccezioni) da provvisorietà e breve durata, perché i conviventi non si impegnano con alcun vincolo a rimanere insieme. I dati parlano chiaro: gli uomini che convivono sono 4 volte più infedeli dei mariti, e le donne conviventi tradiscono 8 volte di più delle mogli (cfr. Gallagher - Waite, 2000). Non solo. Un gruppo di ricercatori della Rutgers University (USA) ha dimostrato che su 4 bambini nati da coppie di fatto, 3 soffrono per la rottura dell'unione dei loro genitori prima dei 16 anni di età, e rimangono a vivere con un solo genitore. S. Brown, della Bowling Green State University (Usa), ha documentato che i figli delle coppie di fatto subiscono disordini psicologici (asocialità, depressione, difficoltà di concentrazione) più frequentemente rispetto a quelli degli sposati. In più, il tasso di violenza domestica è molto più alto tra le coppie di fatto che tra quelle coniugate e la depressione è 3 volte maggiore tra i conviventi che tra gli sposati. Sono dati impressionanti, purtroppo sconosciuti ai più, ma significativi per motivare un giudizio negativo sui Pacs. I bambini e le coppie gay Quanto alle coppie omosessuali, è ovvio che esse non possono contribuire mediante la procreazione alla continuazione della società. Si obbietta che potrebbero farlo adottando dei bambini. Ma dare loro bambini in adozione significa, quanto meno, privarli della figura materna/paterna che non può essere surrogata da chi è uomo/donna. I dati a nostra disposizione mostrano che i bambini affidati a queste coppie hanno alta probabilità di soffrire di gravi disturbi psicologici, di avere bassa autostima, maggiore propensione alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi , per almeno i seguenti 5 motivi. a) L'assenza della figura materna/paterna. È vero che ci sono casi in cui i bambini trovano le figure di riferimento femminile/maschile fuori dalla coppia genitoriale; ma ciò è un rimedio che non si verifica sempre e che non intacca l'inaccettabilità della privazione iniziale. Esistono situazioni speciali (per es. in tempo di guerra) in cui alcuni bambini vengono allevati da due donne; ma una situazione eccezionale richiede soluzioni eccezionali che non possono diventare la norma, né essere considerate un bene. b) La brevità dei legami omosessuali, che si infrangono molto più frequentemente di quelli delle coppie coniugate con o senza figli. Due ricercatori gay, quindi non sospettabili di parzialità, D. McWirther e A. Mattison, hanno esaminato 156 coppie omosessuali e ne hanno ricavato risultati che impressionano. Solo 7 di queste avevano avuto una relazione esclusiva, ma nessuna era durata più di 5 anni. Le relazioni omosessuali durano in media un anno e mezzo e i maschi gay hanno mediamente 8 partner in un anno fuori dal rapporto principale (Xiridou, 2003). E un'indagine su 150 uomini omosessuali di età tra i 30 e i 40 anni ha mostrato che già a quell'età il 65% aveva avuto più di 100 (cento) partner sessuali (cfr. Goode - Troiden, 1980). Ci sono rari coppie omosessuali che coabitano per più anni, ma tra loro non c'è quasi mai esclusività nei rapporti. c) Gli omosessuali hanno alta probabilità di avere salute peggiore e problemi psicologici che si ripercuotono sui bambini. In Olanda, dove il clima culturale è molto tollerante, uno studio su 7.076 soggetti ha mostrato che i disturbi psicologici degli omosessuali sono molto frequenti. Forse è anche per questo motivo che in quell'ambiente la percentuale di suicidi è superiore alla media e il tasso di violenza è assai alto. d) I bambini che vengono adottati hanno alle spalle già una storia di sofferenze e/o di violenza: così, alla differenza tra i genitori naturali e quelli adottivi «che già di per sé costituisce una difficoltà, si viene ad aggiungere il fatto che la coppia dei secondi non è analoga alla coppia dei primi» (Lacroix, p. 56). e) Ancora, «è insito nel bambino un bisogno di divisione dei ruoli, di sapere "chi fa che cosa" e "da chi mi posso aspettare questo atteggiamento e da chi mi posso aspettare quell'altro"» Si sa che anche un matrimonio può naufragare. Però è l'istituto giuridico che dà maggiori garanzie di durata perché, se nel matrimonio la fragilità è una forma di patologia, nelle altre unioni è la norma, visto che non si impegnano a restare unite, come dicono i dati sopra riportati. Se dunque il matrimonio è come una casa costruita per abitarci per tutta la vita e che può crollare, gli altri tipi di unione sono come delle case costruite per stare in piedi solo per un certo periodo, dopo il quale crollano quasi sempre. Quel che è certo è che in generale il matrimonio tra un uomo e una donna è, in forza della sua maggiore stabilità, l'ambito più adatto per l'educazione e la crescita dei bambini e, dunque, chiunque si sposa rappresenta un esempio per le giovani generazioni, perlomeno per la volontà di dare al rapporto una dimensione di durata e stabilità: perciò è giusto che lo Stato incentivi comunque il matrimonio, anche di chi non vuole o non può procreare. I Pacs discriminano I sostenitori dei Pacs dicono che i conviventi sono discriminati. È falso. La vera discriminazione viene dai Pacs e colpisce i coniugi regolarmente sposati, perché questi si sono formalmente assunti degli obblighi (per es., di coabitazione, di aiuto reciproco, di educare i figli, anche adottati, di contribuire ai bisogni della famiglia, di versare gli alimenti in caso di separazione o divorzio). Riconoscendo le unioni di fatto, lo Stato si assume delle obbligazioni verso i conviventi, mentre questi non ne assumono alcuna, riconosce loro facilitazioni ed incentivi (per es. per comprare la casa, o la pensione di reversibilità, o l'accesso all'edilizia popolare, ecc.) senza esigere in cambio quei doveri che invece esige dai coniugi. Alcune proposte di legge menzionano dei doveri dei conviventi, ma finché questi non saranno equivalenti a quelli dei coniugi, non c'è alcun motivo di riconoscere loro i medesimi diritti dei coniugi. Se i membri di queste forme di convivenza si trovano in stato di necessità si possono attuare, dove non esistano già, politiche di aiuto ai singoli in quanto singoli, ma non alle relazioni, senza equiparare giuridicamente i conviventi ai coniugati e purché tali aiuti restino sempre diversi da quelli concessi ai coniugi. Inoltre, se lo Stato vorrà dare incentivi alla coppie di fatto, allora dovrà concederli anche ai membri di altre relazioni affettivo-solidaristiche, di aiuto reciproco, come quelle tra amici, tra un anziano e un parente, tra anziani o religiosi che vivono insieme, altrimenti si creerebbe una discriminazione. Perché mai privilegiare i conviventi? Forse perché le loro relazioni hanno alla base un'unione sessuale? Ma, se conta solo questa, allora bisognerebbe incentivare economicamente anche la poligamia e l'incesto. Davvero, il riconoscimento giuridico dei Pacs susciterebbe molte discriminazioni ingiuste. E se fanno i furbi? Come si può controllare se la relazione sessuale dei conviventi è effettiva o dichiarata soltanto per ottenere il godimento dei diritti che deriverebbero dai Pacs? Equiparando giuridicamente il matrimonio e le altre unioni, lo Stato si espone agli abusi e alle truffe di chi vuole avere benefici e diritti senza alcun dovere. È vero, anche chi si sposa può avere questa intenzione, ma i doveri implicati dal matrimonio rendono meno allettanti tali diritti ed incentivi. Naturalmente, quanto detto fin qui non significa che ai conviventi e agli omosessuali debbano essere negati i diritti fondamentali: essi devono poter usufruire dei diritti di tutti gli altri uomini in quanto singoli, ma non dei diritti che lo Stato riconosce alle coppie sposate per il loro contributo alla continuazione della società. Del resto, come ha dimostrato la rivista «Stalla vita» (novembre 2005), i diritti reclamati per i conviventi dai sostenitori dei Pacs sono già in buona parte garantiti dal diritto privato. Questo spiega perché nei comuni italiani dove sono stati istituiti i registri delle unioni di fatto, e nei paesi europei dove già esistono i Pacs, la richiesta di iscriversi è stata davvero irrisoria e interessa pochissimo ai conviventi. Ma, allora, perché presentare i Pacs come un'urgenza improrogabile? In realtà, uno dei veri obiettivi è consentire agli omosessuali di adottare bambini: se i conviventi vengono parificati ai coniugi bisognerà concedere loro, prima o poi, questa possibilità. Ma si può ipotizzare che un altro obiettivo sia anche svuotare di significato il matrimonio, togliergli ogni attrattiva e farlo scomparire. Un'ultima ragione Infine, i Pacs non devono essere istituiti perché sono una forma di approvazione pubblica di comportamenti (come le convivenze more uxorio e l'omosessualità) che non debbono essere proibiti, ma che sono moralmente biasimabili, come si può dimostrare, ancora una volta, laicamente (, senza far alcun riferimento alla fede cristiana. di Giacomo Samek Lodovici fonte Il Timone febbraio 2007 |
Postato da: giacabi a 16:00 |
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pacs
MEGLIO CREDERE IN DIO
CHE IN “DICO”…
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C’è
un aspetto tutto interno al mondo cattolico nella polemica che si è
scatenata sui “Dico”. Un gruppo di cattolici progressisti hanno lanciato
un appello ai vescovi perché si auto-imbavaglino e non pubblichino
Costoro scrivono: “L’annunciato intervento della presidenza della Cei, che imporrebbe ai parlamentari cattolici di rifiutare il progetto di legge sui ‘diritti delle convivenze’, è di inaudita gravità. Con un atto di questa natura l’Italia ricadrebbe nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino”.
A
parte l’assurdità dell’argomento – il cristiano infatti è e deve essere
sempre“nel mondo, ma non del mondo” – è strana questa richiesta di
autocensura. Chi ama la libertà non può pretendere che qualcuno si
imbavagli. Inoltre
“ Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti le seguenti indicazioni etiche. Nel caso in cui si proponga per la prima volta all'Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto ad un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente immorale.” Quindi, come si vede, il pronunciamento della Chiesa, impegnativo per i politici, c’è già. Allora di cosa discutiamo? Infine un’ultima considerazione: da anni attaccano Pio XII per i suoi presunti silenzi contro le persecuzioni antisemite (silenzi che non ci furono, Pio XII fece salvare migliaia di ebrei), se ne dovrebbe evincere che I CATTOLICI DI DIO E QUELLI DELLE POLTRONE di Antonio Socci Il ministro Rosy Bindi, già vicepresidente dell’Azione Cattolica, oggi chiamata “Rosy nel pugno”, per difendere i suoi Dico ha sparato così contro Benedetto XVI e il cardinale Ruini: “Io amo pensare alla Chiesa che si occupa delle cose di Dio”. Padre Livio Fanzaga, dai microfoni di Radio Maria, ha risposto: “noi ameremmo che i politici non si occupassero solo delle proprie poltrone”. Ormai siamo alla resa dei conti dentro al mondo cattolico. Da una parte i cattolici del popolo come Savino Pezzotta che conosce le difficoltà delle famiglie a tirare avanti e far crescere i figli (anche per colpa delle politiche del governo). Pezzotta ieri ha sparato a zero – da Avvenire – sui Dico e in difesa della libertà di parola della Chiesa. Dall’altra parte ci sono i cattolici del potere, culturalmente subalterni alla Sinistra, come Oscar Luigi Scalfaro che ieri – sulla Repubblica – si è lanciato anche lui all’attacco del Papa e del cardinal Ruini. Il peggior presidente della nostra storia repubblicana vuole insegnare a Benedetto XVI a fare il papa e a Ruini a fare il presidente della Cei. Scalfaro evoca Giovanni XXIII per contrapporlo al pontefice vivente e intima alla Cei di non fare “una imposizione” (si riferisce alla “nota” sui Dico che è stata annunciata da Ruini), ma di comportarsi come papa Roncalli con l’enciclica “Mater et Magistra”. Scalfaro – come al solito superficiale – neanche l’ha letta quella enciclica giovannea. Altrimenti avrebbe trovato lì esattamente le stesse posizioni della Chiesa di oggi. Anzi, sembra quasi il “manifesto” a cui si attengono Benedetto XVI e Ruini. Con buona pace dei professori Alberigo, Melloni e compagni che si dichiarano “roncalliani” e hanno appena lanciato un appello perché Innanzitutto Giovanni XXIII afferma che “ A proposito della quale, il papa afferma: “dobbiamo proclamare solennemente che la vita umana va trasmessa attraverso la famiglia, fondata sul matrimonio uno e indissolubile, elevato, per i cristiani, alla dignità di sacramento”. Non manca un altro “a fondo” di Roncalli che oggi, i sedicenti “roncalliani”, definerebbero integralista: “La vita umana è sacra: fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio. Violando le sue leggi, si offende la sua divina maestà, si degrada se stessi e l’umanità e si svigorisce altresì la stessa comunità di cui si è membri”. E, con toni “ruiniani”, aggiunge: “l’ordine morale non si regge che in Dio: scisso da Dio si disintegra. L’uomo infatti non è solo un organismo materiale, ma è anche spirito dotato di pensiero e di libertà. Esige quindi un ordine etico-religioso, il quale incide più di ogni valore materiale sugli indirizzi e le soluzioni da dare ai problemi della vita individuale ed associata”. Papa Giovanni spiega pure “l’uomo staccato da Dio diventa disumano con se stesso e con i suoi simili, perché l’ordinato rapporto di convivenza presuppone l’ordinato rapporto della coscienza personale con Dio, fonte di verità, di giustizia e di amore”. Sembrano parole di Ratzinger e Ruini, ma è papa Giovanni: “resta sempre che l’aspetto più sinistramente tipico dell’epoca moderna sta nell’assurdo tentativo di voler ricomporre un ordine temporale solido e fecondo prescindendo da Dio, unico fondamento sul quale soltanto può reggere”. Come se non bastasse, sempre nella “Mater et Magistra”, Giovanni XXIII ribadisce che “tra comunismo e cristianesimo l’opposizione è radicale, e non è da ammettersi in alcun modo che i cattolici aderiscano al socialismo moderato”. Diranno - Scalfaro, Ecco i fatti. Con un “Decretum contra communismum”, approvato da Pio XII, il S. Uffizio, nel luglio 1949, dichiarava che non era lecito a un cattolico “iscriversi al partito comunista o sostenerlo”. Con un giudizio particolarmente attuale il S. Uffizio affermava: “i capi comunisti, sebbene a volte sostengano a parole di non essere contrari alla Religione, di fatto sia nella dottrina sia nelle azioni si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo”. Dunque ai cattolici che li sostengono fu negato l’accesso ai sacramenti: “i cristiani che professano la dottrina comunista materialista e anticristiana, e soprattutto coloro che la difendono e la propagano, incorrono ipso facto nella scomunica riservata alla Sede Apostolica, in quanto apostati della fede cattolica”. Dieci anni più tardi – nell’aprile 1959, era papa Giovanni XXIII – lo stesso S.Uffizio aggravò questo pronunciamento: “Non è lecito ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano”. In data 2 aprile Giovanni XXIII approvò tale pronunciamento e ne dispose la pubblicazione. Siccome non risulta che questi pronunciamenti siano stati rinnegati, sarebbe interessante sapere se non rientrino in questa fattispecie anche coloro che hanno votato partiti oggi alleati di partiti comunisti (fra i quali spiccano diversi vescovi). Lo stesso progetto del “Partito democratico” – con cui la sinistra dc si suiciderebbe definitivamente, sciogliendosi nell’ex Pci - uscirebbe a pezzi da un tale giudizio dottrinale. Se si rispettano queste direttive di papa Giovanni i cattolici non possono che contrapporsi ai partiti comunisti e pure ai partiti che vi si alleano. In ogni caso è evidente che l’ “anatema” di papa Giovanni fu ben più forte e solenne della “Nota” annunciata da Ruini. Peraltro oggi |
Postato da: giacabi a 07:54 |
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pacs
Società ipocrita se
indebolisce la famiglia
di Mons. Luciano Monari
*Vescovo Di Piacenza-Bobbio Avvenire 10 febbraio 2007
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Il
motivo per cui non riusciamo ad accettare i pacs, o similia, come nuova
figura giuridica non è etico, ma politico. Non diciamo: le convivenze
sono contro la morale cattolica e quindi siamo contrari a riconoscerle
giuridicamente. Diciamo invece: le convivenze sono rischiose per il bene
della società e per questo siamo contrari a una loro legalizzazione.
Perché riteniamo che un
riconoscimento giuridico delle convivenze sia contrario al bene della
società italiana? Perché un tale riconoscimento diminuisce e deforma la
posizione della famiglia nel sistema sociale. Il ragionamento procede in
questo modo: la famiglia svolge una funzione preziosa e delicata nella
costruzione del benessere della società. Qualsiasi scelta che indebolisca questa funzione è pericolosa e va soppesata con attenzione. Ora, la scelta di legalizzare le unioni di fatto colloca la famiglia in una condizione di oggettiva debolezza. Attenti, quindi; c'è il rischio di tagliare il ramo su cui siamo seduti. Vediamo se il ragionamento fila.
La famiglia risponde, nella nostra società, a una funzione primaria: quella della procreazione, del mantenimento e della fondamentale educazione dei figli. Naturalmente, la famiglia svolge anche altre funzioni a livello affettivo, culturale o economico; ma questa (quella della generazione e dell'educazione dei figli) è una funzione squisitamente sociale che la famiglia svolge; dal modo in cui questa funzione viene svolta dipende in gran parte il benessere della società e il suo stesso futuro. Chi si sposa assume dei doveri e delle responsabilità che non sono affatto leggeri ma che permettono alla famiglia di svolgere il suo compito nella società. Questo è il motivo per cui la legge chiede una certa stabilità della famiglia: riconosce il divorzio, certo, ma lo ratifica solo dopo la verifica di alcune condizioni poste dal legislatore. Lo Stato cerca di rendere stabile la famiglia non per motivi etici ma perché riconosce che il proprio benessere dipende (anche) dal buon funzionamento dell'istituto familiare. Già ora la famiglia è evidentemente in crisi e questa crisi è pagata a caro prezzo dalla società. Se i figli crescono più insicuri e aggressivi è perché non hanno alle spalle la sicurezza affettiva e sociale della loro famiglia. Il disagio è notevole: anzitutto per loro, i figli, ma anche per la società nel suo complesso. Non è mai stato facile, nel mondo moderno, superare la crisi dell'adolescenza, imparare ad accettare se stessi, entrare in rapporto fiducioso e leale, di collaborazione con gli altri. Ma questo passaggio diventa ancora più difficile se un ragazzo non si sente sicuro affettivamente: se teme che i suoi genitori si possano dividere, se immagina di dover fare la spola tra un genitore e l'altro, se non sa quale atteggiamento tenere nei confronti di ciascuno e non è sicuro dell'atteggiamento dei genitori nei suoi confronti. È un prezzo altissimo che i giovani sono costretti a pagare. Non è certamente estraneo a questa situazione il fatto che i giovani - ci dicono - vedono il futuro più con timore che con speranza. E non è solo per la precarietà del lavoro; è per la precarietà affettiva che non dà loro che poche, incerte speranze di essere veramente accettati e amati per sempre. La sofferenza che si paga per questa situazione è anzitutto personale, ma è anche sociale perché questa insicurezza genera paura e sospetto, quindi diffidenza e aggressività; rende i rapporti con gli altri problematici, non sereni; rischia di far percepire la presenza degli altri come un pericolo anziché come una ricchezza. Ora, se si delinea una figura giuridica dei pacs (o similia) inevitabilmente si lede la posizione che la famiglia ha oggi nel sistema giuridico italiano. Famiglia e pacs sono alternativi (o… o…) e questa alternativa viene proposta ai giovani. Più o meno così: «Hai davanti a te la vita: scegli liberamente se vuoi impegnarti nel vincolo familiare o se vuoi unirti senza impegno col tuo partner; per me, società, questa scelta è indifferente; ti tratterò nello stesso modo qualunque strada tu preferisca». Una simile alternativa è socialmente distruttiva perché contiene surrettiziamente un ragionamento del tipo: «Se non sei sciocco, scegli i pacs: avrai le stesse garanzie della famiglia e non dovrai subirne i vincoli». Se la società considera la famiglia un bene per la società (e cioè concretamente un "meglio") deve evidentemente favorirla; se non la favorisce, deve sapere che ne pagherà il prezzo. È un prezzo il cui pagamento sembra lontano nel tempo, e soprattutto è un prezzo che pagheranno gli altri (i figli e i figli dei figli); perciò appare preferibile, dal punto di vista personale, scegliere in questa direzione. Ma non possiamo illuderci che questo possa avvenire senza delle conseguenze sociali, cioè senza delle reali sofferenze. Una delle leggi dell'economia dice che la moneta peggiore caccia la migliore; non so se esista una analoga legge della sociologia per cui l'istituzione più facile (i pacs) caccerebbe quella più difficile (la famiglia). Ma sembra logico e, in ogni modo, non vorrei dover verificare il funzionamento di questa legge. Obiezione: di fatto esistono numerose convivenze e non si può fare a meno di prenderne atto. Queste convivenze non sono famiglie ma svolgono pure alcune funzioni sociali (sostegno reciproco, integrazione affettiva, a volte anche la procreazione). Dobbiamo far finta di niente? O il bene della società suggerisce che anche a queste unioni vengano garantite alcune protezioni sociali? Se il problema è quello di offrire certe garanzie anche a chi non se la sente di costituire una famiglia, la strada esiste ed è quella del diritto della persona. Si possono fare leggi che garantiscano alle persone questo o quel diritto che si ritiene necessario (o utile) per loro. Per esempio: ai genitori non sposati si riconoscono diritti-doveri analoghi a quelli che hanno i genitori sposati; o casi simili. Ma costituire per questo una nuova figura giuridica (unione libera di adulti) non è necessario. E se lo si ritiene necessario non è per garantire certi diritti (che possono essere garantiti altrimenti) ma proprio perché si vuole collocare accanto alla famiglia una figura giuridica alternativa. Certo, è possibile scegliere qualsiasi alternativa. Ma essendo ben consapevoli degli effetti che le nostre scelte hanno. Sarebbe stupido pensare che una scelta, quale che sia, non abbia conseguenze. E a me sembra evidente che una diminuzione del primato della famiglia porterebbe (forse) a un accentuarsi del problema demografico, ma (certo) a un aggravarsi della crisi educativa delle nuove generazioni. Rischiamo di essere una società ipocrita, che si scandalizza per gli effetti delle sue scelte ma non vuole confessare di avere provocato essa stessa questi effetti e non accetta di mettere in discussione le sue scelte. Un proverbio vecchio insegnava che «non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca». Traduzione: non si può volere una vita personale libera da ogni vincolo e nello stesso tempo sperare che la società sia ordinata e solidale; non si può volere la sicurezza che viene dal senso di responsabilità di ciascuno e nello stesso tempo pretendere la licenza che viene dal non volere vincolo alcuno. |
Postato da: giacabi a 15:39 |
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pacs
:Scritto da: Giacomo Samek Lodovici il 11-12-2006
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Dunque,
entro il prossimo 31 gennaio il governo presenterà un disegno di legge
per il riconoscimento dei "diritti anche in materia fiscale" alle coppie
di fatto etero e omosessuali. Vedremo come agirà effettivamente il
governo, ma fin d’ora va rifiutata una qualsiasi equiparazione tra il
matrimonio e queste forme di unione. Non è una questione di fede, basta
essere "laici" per sostenerlo.
Infatti, lo Stato deve incentivare quelle forme di vita che contribuiscono al bene comune ed il maggior contributo consiste nella procreazione e nell’educazione dei figli, che assicurano la sopravvivenza di una società. Ora, il contesto più propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un uomo è una relazione interpersonale stabile. Per contro, le unioni di fatto sono (salvo poche eccezioni) volubili
ed i conviventi non si impegnano con un vincolo a rimanere uniti.
Per esempio, M. Gallagher e L. Waite hanno rilevato che gli uomini che convivono sono 4 volte più infedeli dei mariti e che le conviventi tradiscono 8 volte di più delle mogli. Da indagini sociologiche di ricercatori della Rutgers University, risulta che 3 bambini su 4 nati da coppie di fatto subiscono la divisione dei loro genitori prima dei 16 anni di età. S. Brown ha documentato sia che i figli di coppie conviventi soffrono di asocialità e depressione più frequentemente dei figli degli sposati, sia che la violenza domestica è più frequente tra le coppie di fatto che tra gli sposati. Venendo alle unioni omosessuali, esse non possono contribuire alla continuazione della società mediante la procreazione. Possono farlo adottando dei bambini? Ciò vorrebbe dire quanto meno, privare volutamente dei bambini della figura paterna/materna. I dati finora a disposizione indicano che i bambini affidati a queste coppie hanno una propensione molto più alta a soffrire di disturbi psicologici, ad avere poca autostima, alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi, almeno per i seguenti tre motivi. Primo: l’assenza della figura materna/paterna. Secondo: la fragilità dei rapporti omosessuali, molto più brevi dei matrimoni, con o senza figli. D. McWirther e A. Mattison, due ricercatori gay, hanno esaminato 156 coppie omosessuali: solo 7 di queste avevano avuto una relazione esclusiva, ma nessuna era durata più di 5 anni. Inoltre, un’indagine su 150 omosessuali ha mostrato che il 65% già a 40 anni aveva avuto più di 100 partner. Terzo: da altre ricerche si vede che gli omosessuali hanno una probabilità superiore di soffrire di problemi psicologici. Dal canto suo, il matrimonio – si sa – non è sempre duraturo, però dà maggiori garanzie in tal senso: la sua fragilità è una patologia, mentre per le altre unioni è la norma, come si riscontra dai dati citati. I matrimoni sono come automobili progettate per funzionare per tutta la vita e possono rompersi, ma gli altri tipi di unione sono come automobili progettate per funzionare solo per un certo periodo, dopo il quale si rompono quasi sempre: il vincolo giuridico matrimoniale ed il diverso atteggiamento dei coniugi rafforzano l’impegno. Ancora, l’antropologia culturale mostra che la ritualizzazione (per esempio la cerimonia nuziale) di un impegno accresce la capacità di rispettarlo. Infine, i coniugi assumono i doveri di coabitazione, di curarsi reciprocamente, di contribuire ai bisogni della famiglia, di versare gli alimenti in caso di separazione o divorzio, ecc. Se il governo attribuirà ai conviventi i diritti dei coniugi, ma non gli stessi doveri, i coniugi saranno discriminati. |
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