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domenica 19 febbraio 2012

padre busa internet


Discorso di Steve Jobs
all’università di Stanford
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Questo è il testo del celeberrimo discorso di Steve Jobs all’università di Stanford, l’università che fu costretto a lasciare perché non aveva soldi a sufficienza per permettersi i corsi che frequentava. Sono parole che passeranno allo storia, che danno prova della sua straordinaria determinazione.
Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato ad un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.
La prima storia parla di “unire i puntini”.
Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università.

Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.
Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio:
il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.
Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo.
Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia parla di amore e di perdita.
Fui molto fortunato – ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta da noi due soli in un garage sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione – il Macintosh – un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni… quando venni licenziato. Come può una persona essere licenziata da una Società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona – che pensavamo fosse di grande talento – per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro Consiglio di Amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.
Non avevo la benché  minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare.
Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, Toy Story, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che ‘il paziente’ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il/la vostro/a findanzato/a che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.
La mia terza storia parla della morte.
Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatrè anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa.
Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.
Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa ‘a sistemare i miei affari’, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi ‘addio’.
Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.
Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale:
Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la Morte è la migliore invenzione della Vita. E’ l’agente di cambio della Vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora ‘il nuovo’ siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete ‘il vecchio’e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità.
Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava The whole Earth catalog, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali.
Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di The whole Earth catalog, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.

Leggi tutto:
http://www.cronacalive.it/steve-jobs-il-discorso-alluniversita-di-stanford-testo-e-video.html#ixzz1ZzHAqAMX 

Postato da: giacabi a 14:30 | link | commenti (1)
testimonianza, padre busa internet

martedì, 16 agosto 2011

 

Padre Busa con i Gigabyte alla radice
del "mistero uomo"

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padre Busa
 
Mario Gargantini

 

giovedì 11 agosto 2011

 
Padre Roberto Busa ci ha lasciati a pochi giorni dal Meeting di Rimini, quel Meeting che l’aveva visto presente per diversi anni a partire dal 1998: dapprima come poliedrico relatore (il suo primo intervento aveva il significativo titolo: “Tecnologie, ruscelli di sapienza. Ossia, il coraggio della certezza”); poi come visitatore attento e curioso, con lo sguardo aperto di chi non smette di imparare e con la semplicità stupita tipica del bambino e insieme del sapiente.
Ogni incontro, ogni mostra, era un’occasione per quell’esperienza che non aveva remore a definire di “meditazione”: e dopo qualche minuto di osservazione, di ascolto e di riflessione ecco arrivare la domanda arguta, la notazione penetrate, la puntualizzazione profonda.
Forse quella della profondità, tra le tante caratteristiche con cui lo possiamo ricordare, è quella che più colpiva in lui: una profondità che pescava in uno sconfinato patrimonio di conoscenze linguistiche, scientifiche, filosofiche, teologiche; ma che, soprattutto, attingeva alla fonte di una fede limpida e robusta, vissuta come esperienza gioiosa e libera, che spalanca alla realtà in tutte le sue dimensioni e abilita a un’esplorazione senza confini.
Di territori (conoscitivi, ma anche geografici, nei numerosi viaggi) ne ha esplorati parecchi, ma a partire dal continente al quale ha dedicato la maggior parte del suo instancabile lavoro e che gli era più caro: quello della parola. E perciò quello dell’uomo che, solo tra i viventi, l’ha ricevuta in dono e che condensa nelle espressioni verbali la drammaticità della sua esistenza e il suo inesauribile bisogno di felicità.
Padre Busa vedeva nel linguaggio il manifestarsi di alcune certezze primigenie che stanno alla radice di ogni espressione umana e che vengono prima di qualsiasi parola e gesto. Ogni conoscenza, ogni autentico progresso, non può germogliare e fiorire se non sotto la spinta di quelle forze interiori costitutive dello spirito umano che egli chiamava “ontologia generativa”; è da qui che prende alimento ogni attività umana, compresa la scrittura del software, la programmazione dei robot, la gestione delle grandi reti di telecomunicazione.
Linguistica sarebbe la disciplina nella quale collocare la sua opera, ma è evidente che la definizione accademica è troppo stretta per identificare il gigantesco studio che l’ha portato a fondare l’informatica linguistica. Uno studio iniziato in sordina nel 1941, presso la Pontificia Università Gregoriana, con la paziente analisi del termine “in”, preposizione e prefisso, in alcuni testi di san Tommaso per i quali compila a mano (non esistevano ancora i PC) un totale di 10.000 schede.
L’informatica, però, è prossima al debutto e padre Busa vi entra da una delle porte principali, trovandosi proiettato, nel 1949, in uno dei templi della nascente tecnologia: è a New York, dove riesce a convincere l’IBM a sostenere il suo progetto di analisi computerizzata integrale del lessico di san Tommaso.
Una proposta originale, dato che lo sviluppo del computer sembrava indirizzato esclusivamente al calcolo numerico ed erano impensabili applicazioni ad altri campi del sapere. Parte così la monumentale opera che porterà all’Index Thomisticus e che farà di padre Busa il pioniere del Digital Humanities (impiego di macchine per studi umanistici). Tra 1949 e il 1980, alla guida di equipe di ricercatori entusiasti dislocati tra l’Aloisianum di Gallarate (centro dell’operazione), Milano, Pisa, Venezia e Boulder (Colorado), padre Busa esamina puntualmente undici milioni di parole latine e altrettante in 22 altre lingue e 8 alfabeti, per arrivare alla fotocomposizione computerizzata e alla pubblicazione dei 56 volumi dell’Index: 39 volumi di concordanze, 10 di indici con 86 tavole di diverse classificazioni lessicali.
Nel frattempo, il panorama dell’informatica si sta trasformando: cresce la potenza di elaborazione dei computer, il dialogo uomo-macchina diventa più familiare e si aprono gli insospettati scenari applicativi della multimedialità. Padre Busa è sempre in prima fila e porta con sé nei nuovi spazi dell’informatica “il suo san Tommaso”: l’Index va su CD Rom e diventa un archivio elettronico da 1,6 Gigabyte sul quale ogni frase dell’opera dell’Aquinate può essere analizzata a livello grafico, morfologico, sintattico e lessicale.
Intanto altre imprese si preparano al decollo. Come il Lessico Tomistico Biculturale (LTB), progettato fin dal 1973 e sempre sostenuto dall’associazione CAEL, appositamente costituita “per la computerizzazione delle analisi ermeneutiche e lessicologiche”. Col progetto LTB intendeva tradurre le voci di san Tommaso, quale espressione e sintesi dei primi 40 secoli della cultura mediterranea, nelle voci corrispondenti di varie lingue del nostro tempo. Un’impresa ardua, ma non impossibile, che si colloca nel più generale filone della cosiddetta traduzione automatica: un obiettivo che ha mobilitato, finora con esiti deludenti, università, grandi imprese e governi e che diventa di stringente attualità con la diffusione capillare di Internet.
Non è stato difficile per padre Busa sintonizzarsi su queste frequenze; al punto da raccogliere e rilanciare un’altra e più impegnativa sfida, denominata delle “Lingue Disciplinate” (LD), basata sulla microanalisi linguistica sperimentata nell’Index e progettata per LTB. L’idea è di andare alle radici di ogni lingua per realizzarne la fusione in un unico sistema lessicologico di lingue intercambiabili: una sorta di rovesciamento della torre di Babele, nella convinzione che “la babele linguistica sta nei segni dell’espressione, non nei pensieri o concetti” i quali poggiano su un’unica “logica di fondo, luce di ogni uomo”.
Per chi, ci auguriamo, potrà continuare la sua opera, il riferimento a questo cuore unitario dell’uomo resterà la stella polare della ricerca. Per chi come noi ha avuto la gioia della sua amicizia, resta il ricordo di chi ha saputo non solo superare il presunto contrasto tra scienza tecnica e cristianesimo, ma di trasfigurarlo in una positiva interazione a partire dalla propria esperienza quotidiana: padre Busa amava affermare che gli capitò di essere il pioniere dell’informatica testuale non benché ma perché sacerdote gesuita, interessato a tutto l’uomo e perennemente pronto a lanciarsi nella ricerca più esaltante e vertiginosa: quella dei “disegni nascosti nel Mistero”.


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Postato da: giacabi a 18:03 | link | commenti
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Il gesuita che ha inventato la linguistica informatica e realizzato il monumentale «Index Thomisticus»

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Lettore fermati!
È morto padre Busa

Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi a lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo a lui

A un giornalista capita di rado, anzi mai, di sentirsi dare appuntamento in paradiso al termine di un’intervista. A chi scrive accadde il 28 settembre dello scorso anno. «Come s’immagina il paradiso?», era stata l’ultima domanda che avevo posto a padre Roberto Busa, il gesuita che ha inventato la linguistica informatica. «Come il cuore di Dio: immenso», rispose. Poi soggiunse: «Guardi che aspetto anche lei in paradiso, mi raccomando». Si girò verso il fotografo Maurizio Don: «Anche lei. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così». Incrociò le mani e cominciò a girarsi i pollici: «Non arrivano mai, quei macachi...».
Dalle ore 22 di martedì 9 agosto padre Busa è sull’uscio ad aspettarci. «Senza fretta», ribadirebbe adesso con la sua bonomia di veneto nato a Vicenza da genitori originari di Lusiana, sull’altopiano di Asiago, e più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Il grande studioso, il compilatore dell’Index Thomisticus, è morto di vecchiaia all’Aloisianum, l’istituto di Gallarate (Varese), dove s’era ritirato a vivere dagli anni Sessanta insieme con i grandi decani della Compagnia di Gesù, fra cui il cardinale Carlo Maria Martini, del quale è stato amico e interlocutore. In precedenza fu per lungo tempo docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica, nonché, dal 1995 al 2000, al Politecnico di Milano, dove teneva corsi di intelligenza artificiale e robotica. La sua ricerca gli è valsa l’istituzione del Roberto Busa Award, massima onorificenza del settore. Avrebbe compiuto 98 anni il prossimo 28 novembre.
Quando nel 1955 morì Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina, un quotidiano milanese del pomeriggio titolò: «Lettore fermati! È morto Fleming, forse anche tu gli devi la vita». Un invito analogo potrebbe essere rivolto oggi a tutti coloro che in questo preciso istante sono davanti a un computer. Se esiste una santità tecnologica, credo d’aver avuto il privilegio d’incontrarla: essa aveva il volto di padre Busa. Perciò inginocchiati anche tu, lettore, davanti alle spoglie mortali di questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all’altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.
Era nato solo per far di conto, il computer, dall’inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s’era messo in testa di analizzare l’opera omnia di san Tommaso: un milione e mezzo di righe, nove milioni di parole (contro le appena centomila della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano diecimila schede solo per inventariare la preposizione «in», che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell’Aquinate e per confrontarli con altre fonti.
In viaggio negli Stati Uniti, padre Busa chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell’ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noi». Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss — Think, pensa — e la frase «Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un po’ più di tempo». Il 14 luglio 1976 padre Busa presenta l’«Index Thomisticus» a Paolo VIA sinistra si riconoscono monsignor Pasquale Macchi e il cardinale Albino Luciani che in seminario era stato compagno di camerata di Roberto BusaLo restituì a Watson con un moto di delusione.
Il presidente dell’Ibm, punto sul vivo, ribatté: «E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines».
È da questa sfida fra due geni che nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse.
Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Ma, come ammise lo stesso autore di Literary Machines, l’idea risaliva a prima dell’invenzione del computer. E, come ha ben documentato Antonio Zoppetti, esperto di linguistica e informatica, chi davvero operò sull’ipertesto, con almeno quindici anni d’anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa.
Fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, il gesuita diede vita a un’impresa titanica durata quasi mezzo secolo, investendovi un milione e ottocentomila ore, grosso modo il lavoro di un uomo per mille anni a orario sindacale; oggi è disponibile su cd-rom e su carta: occupa cinquantasei volumi, per un totale di settantamila pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei centodiciotto libri di san Tommaso e di altri sessantuno autori.
Roberto Busa era il secondo dei cinque figli di un capostazione. «Ci trasferivamo da una città all’altra: Genova, Bolzano, Verona», mi raccontò. «Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l’ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c’era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l’acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, Signore, l’acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz’ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni».
Nel 1933 il giovane Busa entrò nella Compagnia di Gesù. Dopo gli studi in filosofia e teologia, il 30 maggio 1940 fu ordinato sacerdote. Nella sua lunga vita ha conosciuto sette pontefici. Frequenti e molto cordiali furono soprattutto i contatti con Paolo VI e, ovviamente, con l’amico Giovanni Paolo I, «che m’invidiava», mi confidò, «perché io ero diventato gesuita e lui no. Albino avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di sant’Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch’io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l’India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: Le piacerebbe fare il professore?”. No, risposi. E lui: “Ottimo. Lo farà lo stesso”. Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su san Tommaso d’Aquino».
Sui temi di sua competenza, padre Busa era in grado di dibattere, oltre che in italiano, anche in latino, greco, ebraico, francese, inglese, spagnolo, tedesco.
«Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l’albanese», mi spiegò. «A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un’aula d’esame. E Lui mi risponde: “Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male”».
A New York nel 1956A ogni domanda, lo studioso gesuita si portava le mani giunte davanti alla bocca, guardava verso l’infinito, meditava a lungo.
La sua mente sembrava obbedire al linguaggio binario, perché articolava ogni risposta per punti, dicendo «primo», poi «secondo», mai «terzo», e intanto contava sulle dita partendo dal mignolo per arrivare al pollice, come fanno gli americani. Non c’era una parola, fra quelle che gli uscivano dalle labbra, che fosse superflua o pronunciata a casaccio.
Padre Busa aveva le idee ben chiare sulle origini della scienza informatica: «Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l’autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell’affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo».
È andato a incontrarlo.
  Stefano Lorenzetto
sa:Osservatore Romano 11 agosto 2011

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lunedì, 15 agosto 2011

Inventò l'ipertesto attivo di Internet

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«Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi a lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo a lui». Così, parafrasando un titolo ispirato all’inventore della penicillina Fleming, l’Osservatore romano rende omaggio a padre Roberto Busa, gesuita e scienziato, linguista e pioniere informatico, morto ieri a quasi 98 anni nella residenza della Compagnia di Gesù a Gallarate.

Il giornale vaticano ricostruisce l’invenzione dell’ipertesto per Internet, anticipata dal gesuita una quindicina di anni prima degli studiosi statunitensi, e il rapporto di Busa con il fondatore dell’Ibm Thomas Watson, che finanziò il suo «Index Tomisticus», al quale il religioso ha lavorato per 40 anni. Nel 1949 «il gesuita s’era messo in testa di analizzare l’opera omnia di san Tommaso: un milione e mezzo di righe, nove milioni di parole (contro le appena centomila della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano diecimila schede solo per inventariare la preposizione ’in’, che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell’Aquinate e per confrontarli con altre fonti. In viaggio negli Stati Uniti, padre Busa chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell’ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: ’Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noì. Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss - Think, pensa - e la frase ’Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un pò più di tempò. Lo restituì a Watson con un moto di delusione. Il presidente dell’Ibm, punto sul vivo, ribattè: ’E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines». «È da questa sfida fra due geni - ricorda l’Osservatore romano - che nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse», che l’americano Ted Nelson definì soltanto nel 1965.

Secondo di cinque figli di un capostazione padre Busa era nato a Vicenza il 28 novembre 1913, a 16 anni era entrato nel seminario di Belluno dove aveva fatto amicizia con Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I. È stato tra i pionieri dell’uso dell’informatica per l’analisi del testo, la lessicografia e la ricerca bibliografica. Grazie all’opera da lui iniziata, la lessicografia e l’ermeneutica testuale ricevono un contributo decisivo dall’informatica linguistica. Padre Busa ha fondato nel 1992 la Scuola di Lessicografia ed Ermeneutica, costituita all’interno della facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana. Lo scienziato gesuita risiedeva dagli anni Sessanta all’ Aloisianum di Gallarate, assieme ai grandi decani gesuiti, tra cui il cardinale Carlo Maria Martini di cui era amico e interlocutore. Molti i legami con Varese e Gallarate, città di adozione che ha visto, con Rosa Piantanida Bassetti, la nascita dei primi atti di mecenatismo industriale e di cui l’Aloisianum stesso è un’espressione. Tra i libri più recenti, tutti pubblicati, negli scorsi anni, dalla casa editrice Spirali, «Rovesciando Babele ossia tornare alle radici d’ogni lingua» e «Quodlibet, briciole del Mio Mulino» forse l’opera più aperta e pubblica dello scienziato.
PER SAPERNE DI PIù :
PADRE BUSA banterla

Postato da: giacabi a 07:55 | link | commenti
padre busa internet

sabato, 13 agosto 2011

Padre Roberto Busa: l'informatico con la tonaca
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"Il computer può essere usato bene per il bene, può essere usato male per il bene e può essere usato bene anche per il male". Così diceva padre Brusa in un'intervista quando aveva 80 anni.

Nato a Vicenza il 28 novembre 1913 è morto a Gallarate il 9 agosto 2011. Attivissimo fino all'ultimo e impegnato in diversi progetti, la sua è stata una vita lunga e feconda, gesuita, riconosciuto come il pioniere della linguistica computazionale, ma anche informatico. Grazie a lui è nato l'ipertesto e ha creato i link che ti permettono di navigare in internet, ha anche realizzato nell'arco di trent'anni l'Index Thomisticus, che è una monumentale lemmatizzazione dell'opera omnia di Tommaso d'Aquino e di tutti i testi a lui più strettamente collegati.
Usando il computer come nessuno aveva mai fatto prima, con pazienza, coraggio e ostinazione, ha approfondito il suo rapporto con l’infinito riscoprendo sul fondo «la luce di Dio che illumina ogni uomo e lo chiama». Stefano Lorenzetto in un'articolo pubblicato su il Giornale del 30 ottobre 2010 scrive: "Se esiste una santità tecnologica, credo d’averla incontrata: ha il volto di padre Roberto Busa, gesuita".



Eccovi l'articolo di Francesco Ognibene, "L'informatico con la tonaca" pubblicato su
Avvenire.it dopo la sua morte.
   
Da qualche tempo, a ogni nuovo compleanno, rinnovava il piccolo vezzo di spingersi subito sopra il gradino successivo, aumentandosi l’età di un anno, come a voler dire che potevano bastare.

Per padre Roberto Busa, spentosi a 97 anni nella serata di martedì all’Aloisianum di Gallarate, il secolo di vita era ormai a un passo, sebbene la sua presenza si andasse appannando. E a chi lo incoraggiava a non aver fretta di passare all’altra sponda replicava con un sorriso paziente di aver già vissuto a sufficienza, e di aver provveduto a lasciare consegne, beni e biblioteca a chi di dovere.

«Sono nullatenente», scherzava: e non c’era da stupirsene, considerato lo stile di vita essenziale dell’infaticabile giramondo. L’uomo che ha cambiato la storia dell’informatica “convertendo” il computer da ferraglia buona giusto per far calcoli velocemente a protesi della vita quotidiana con la quale dialogare viveva già immerso nello splendore abbagliante del Logos che l’aveva affascinato sin dall’ingresso in seminario nel 1928, trascinandolo in un’impareggiabile avventura cristiana e scientifica. Di lui le biografie ufficiali ricorderanno – giustamente – anzitutto i grandi meriti intellettuali e l’opera anticipatrice nel campo delle nuove tecnologie applicate al linguaggio e alle scienze umane, che ha fatto di lui il vero pioniere degli ipertesti. Senza la sua ardita intuizione (parliamo del 1946) la storia del computer avrebbe preso un’altra piega. Padre Busa, vicentino, compagno di formazione sacerdotale di Albino Luciani, gesuita dal 1933 e sacerdote dal 1940, ha non solo aperto una strada, ma l’ha anche spianata, messa in sicurezza, codificata e attrezzata con metodicità: non gli interessava essere il primo, ma tracciare minuziosamente una mappa e metterla a disposizione di tutti.

Ecco perché pochi storici dell’informatica ne conoscono davvero i meriti, che invece tra i nomi che hanno fatto la storia dell’industria tecnologica sono ben noti. Bill Gates e Steve Jobs, Google e Facebook hanno schiuso altre soglie decisive, ma arrampicandosi senza saperlo sulle spalle di questo gesuita imponente e pacato che nulla lasciava all’improvvisazione crescendo generazioni di studiosi con la sua inconfondibile pedagogia della pazienza e un’intelligenza umanistica rimasta viva e contagiosa ben oltre i 90 anni. È impossibile però cogliere il segreto più profondo di padre Busa senza partire dal suo sentirsi nel vivo di un mondo che è tutto nelle mani buone di Dio. A ben vedere, e ripensando al suo modo di spiegare gli infiniti garbugli dell’esistenza umana, ha sempre vissuto nell’ansia di vedere il Padre faccia a faccia, di colmare l’attesa di entrare in quel mistero che aveva iniziato a esplorare diventando il massimo conoscitore del pensiero di Tommaso d’Aquino. Per Busa la scienza e la preghiera, la vita religiosa (con l’obbedienza ai superiori anche nelle minuzie) e quella culturale, l’intelletto analitico e la contemplazione, la Messa quotidiana e gli impegni continui in sempre nuovi progetti accademici sono sempre stati un corpo vivo e inseparabile. Il desiderio di conoscere e la certezza che la risposta a ogni domanda umana sta nell’amicizia con Cristo, e in un mistero al quale affidarsi serenamente nell’attesa che si sveli, in lui hanno convissuto in un’armonia evidente a chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo.

È certo che nell’anticamera newyorkese del big boss di Ibm Thomas Watson, nel 1949, l’allampanato e sconosciuto gesuita vicentino si sia presentato non solo per tentare di convincere il mito vivente dell’industria elettronica a seguirne le stravaganti visioni umanistiche (e ci riuscì) ma anche per il desiderio sempre vibrante di portare Dio là dove lo si stava mettendo alla porta, proprio a opera di chi mostrava con i successi della tecnologia di cosa è capace l’inaudito dono dell’intelligenza creata. Fino all’ultima fibra della sua anima, padre Busa è stato anzitutto un prete autentico, un modello di gesuita di cui sant’Ignazio può andare fiero. Frequentando i leader dell’industria informatica e i luminari delle università di tutto il mondo ha sempre mostrato anzitutto il desiderio e la curiosità di vedere le persone così come sono. Ha percorso il mondo seminando amicizia e spirito cristiano anche là dove trovava un’apparente indifferenza religiosa: un seme sparso a piene mani dalla sua base operativa di Gallarate a Roma, Milano, Pisa e Venezia, dai laboratori di calcolo negli Stati Uniti alle università dell’Europa orientale (frequentate ancora in piena guerra fredda) e, più di recente, del Maghreb e dell’Asia. Ma la sua vera casa accademica, insieme alla Gregoriana, è stata l’Università Cattolica, che lo annovera tra le proprie glorie, e dove ha fondato il Gircse, avamposto mondiale della linguistica computazionale. Cattolica e Gregoriana raccolgono ora la sua imponente eredità, insieme alla nidiata di ricercatori che ha avviato a una disciplina esigente e difficile, nel rispetto assoluto della regola di creare strumenti per l’analisi testuale da mettere a disposizione di altri, senza cercare la ribalta.

Solo con questo rigore, sempre stemperato da un’acuta bonarietà, si spiega l’impressionante opera che resta legata al suo nome: quell’Index Thomisticus che in 56 volumi composti in trent’anni di lavoro grazie a schede perforate e nastri magnetici, e poi approdato ai bit delle tecnologie digitali, analizza parola per parola l’opera omnia dell’Aquinate alla ricerca della ratio che ne governò le scelte concettuali e terminologiche. È qui il nocciolo del “metodo Busa”: scandagliare la lingua di letterati e teologi per giungere al nucleo del loro pensiero, superando l’ostacolo di secoli, idiomi, culture e religioni. Una ricerca dell’uomo vero, del suo segreto, dell’impronta del Creatore.

 

Postato da: graciete


Postato da: giacabi a 22:54 | link | commenti

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