La dignità della donna
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".... quando una donna non sa distinguere la chiesa da una spiaggia e si presenta a un matrimonio mettendo in mostra tutto ciò che ha da offrire, è evidente che è disorientata. Se per di più è grassa e vecchia, la faccenda diventa ancora più complicata. Queste sono cose che devo sopportare quotidianamente. Ma al di là del fatto che la persona sia vecchia o giovane, vi è una concezione nel modo di guardarsi che è inumana. Non vengano a dirmi che mostrare la propria anatomia sia un segno di intelligenza, ed è ancora peggio vestirsi con uno stile che permetta allo sguardo di intravedere le forme anatomiche di una donna. Esiste un genere di indumenti che non fa altro che favorire la morbosità. Nessuno mette in dubbio che l'ombelico sia importante, ma che all'improvviso sia diventato il centro dell'universo è un'autentica stupidaggine.
J
Nessuno discute che un bel seno, per usare il linguaggio del grande poeta Leopardi, sia affascinante e susciti l'attenzione di qualunque essere umano, tuttavia esporlo come le vacche, alla vista di tutti, non solo è una volgarità, ma è una provocazione che invita a guardare una donna come un oggetto. Anche nelle gambe di una bella donna è possibile riconoscere la bellezza divina, che nella perfezione anatomica manifesta la sua perfezione assoluta, ma l'uso di una minigonna esagerata (pochi centimetri di stoffa), invece di favorire tale perfezione, costringe lo sguardo a desideri inumami di possesso.
..……… Una donna con un minimo di buon senso, con un minimo di intelligenza si veste, si comporta, si relaziona in maniera consapevole della propria dignità. Ma quando al posto del cervello vi è segatura, è evidente che ella cerca unicamente di provocare, di vendere... per poi lamentarsi perché le mancano di rispetto. Una donna che vive con la chiara consapevolezza di chi è difficilmente viene guardata come un oggetto. Potrebbe vivere in un quartiere pieno di militari , ma nessuno si permetterebbe neppure una battuta. Per questo ciò che si indossa, prima ancora che il frutto di una vita di fede, è questione di intelligenza, di una concezione umana e non animale del corpo. La moda è moda quando il corpo non è per il vestito ma esattamente il contrario. Il vestito è bello, è autentica moda, quando favorisce uno sguardo della persona nel suo complesso e non uno sguardo parziale.
Certe «prostitute» (mi riferisco a certe donne che vengono in chiesa come se fosse un postribolo), invece di favorire uno sguardo leopardiano o dantesco, complessivo, invece di riportarci alla bellezza divina, suscitano soltanto il desiderio di usarle. Questo è il formalismo sociale che domina nelle nostre città, un formalismo ripugnante, che a noi appassionati al reale intelligenti suscita ribrezzo. Il ribrezzo di chi teme di essere condannato a vivere in un porcile. Cara donna, riscopri la tua dignità. Perché quando compri un vestito non pensi a che cosa sceglierebbe la Vergine Maria? Questa domanda ti obbliga a capire dove comincia la tua razionalità e dove inizia l'inumanità nel modo in cui guardi te stessa.
Concludo con un esempio. Un giorno una ragazza mi ha domandato: «È peccato portare la minigonna?». L'ho guardata e le ho chiesto: «Perché ti piace la minigonna?». Lei mi ha risposto: «Perché so che i ragazzi mi guardano». «Hai perfettamente ragione, ragazza mia, come è perfettamente ragionevole il tuo desiderio di essere guardata, perché essere guardata significa essere valutata, suscitare un interesse. C'è soltanto un problema: il ragazzo ti guarda non per quello che sei ma per il corpo o le gambe che hai. Non gli importa niente della tua persona, della totalità del tuo essere, quello che gli interessa è la tua carrozzeria. Di conseguenza, se riuscisse a conquistarti facendoti credere che ti ama, ti userà e poi ti getterà via. E la cosa peggiore è che tu stessa, in questo modo, incarni una visione della persona ridotta a oggetto, una visione parziale, una mancanza totale di autostima, un’assenza completa di dignità. Il peccato non è questione di centimetri o metri di gonna, è il modo inumano con cui ti guardi, ti tratti e, di conseguenza, ti vendi allo sguardo altrui che vede in te non un soggetto ma un oggetto.»
Dio o voglia che le donne, cominciando da quelle che vengono a Messa, fino a tutte quelle che hanno ancora segatura segatura nella testa, acquisiscano la consapevolezza che o sono segno della bellezza divina o sono oggetto della concupiscenza, oggetto che si usa e poi si getta via."
Padre Aldo Trento da: Cristo e il lavandino ed. Lindau
Postato da: giacabi a 17:39 |
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padre trento
La Bellezza rimanda ad Altro
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Ricordo sempre con commozione il racconto di san Luigi IX,***
re di Francia che invitò san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino
a cenare nella sua dimora reale. Intorno al tavolo vi erano
lì loro tre, oltre alla moglie del sovrano. La cena era iniziata e
mangiavano tutti con gusto. L'unico che non toccava cibo era
san Tommaso d'Aquino,che era come estasiato dalla bellezza
della moglie del re.
I suoi occhi continuavano a guardare in direzione della donna.
Il re se ne accorse e, un po' nervoso, chiese spiegazioni
al santo per quell'atteggiamento. Tommaso d'Aquino
rispose: «Maestà, sono commosso dalla bellezza
di sua moglie, che mi obbliga a pensare: se ella
è tanto bella, come sarà il suo Artefice,
il Creatore di tutto?
Padre Aldo Trento
Postato da: giacabi a 21:10 |
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bellezza, stommaso, padre trento
Cristo e il fazzoletto
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AUTORE: Trento A. Cristo e il lavandino. Educare è partire dalla realtà
COLLANA: I libri di Tempi PAGINE: pp. 168 PREZZO: euro 12,50
Qualcuno mi chiederà: ma che cosa ha a che vedere Cristo con il fazzoletto e il tovagliolo? L'uso
del tovagliolo e del fazzoletto è nato all'interno dell'esperienza
cristiana, vale a dire all'interno della bellezza dell'umano, nella fede
vissuta come criterio creativo dell'umanità in tutti i suoi aspetti.
Quando una persona incontra Cristo come il significato di tutto,
capisce che pulirsi il naso con le mani soffiando il muco per terra è
una mancanza di dignità e di rispetto verso l'altra persona che si
trova accanto. È un gesto disgustoso. Lo stesso vale per il tovagliolo:
è più umano asciugarsi la bocca con il tovagliolo, rispettando la
dignità di coloro che mangiano con noi, o pulirsi usando la tovaglia? La
risposta è implicita. Ma se la fede non arriva fino a questi dettagli, di certo non è fede, perché, come afferma san Paolo, «Cristo è tutto in tutti».
COLLANA: I libri di Tempi PAGINE: pp. 168 PREZZO: euro 12,50
Postato da: giacabi a 14:33 |
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padre trento
Il mangiare cattolico
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Il fatto che nei paesi latini europei esista ancora la cultura***
del cibo, sconosciuta nei paesi protestanti del Nord Europa,
è evidente. Per esempio, in un ristorante italiano o in
una casa italiana vi sono diversi piatti: uno per l’antipasto,
uno per la pasta o la minestra, un terzo per la carne e la ver dura.
Non si mescola mai il cibo, e a ogni alimento si associa
un tipo di vino. Al contrario, nel paesi di cultura non cattolica
vi è un'insalata russa di tutto, si mescola tutto. Non
esiste la cultura del gusto, del sapore, di degustare un vino.
Mescolare il cibo è tipico dell'uomo che non ha incontrato Cristo
e quindi l’unica cosa che gli interessa è riempirsi la pancia.
Padre Aldo Trento da: Cristo e il lavandino ed. Lindau
Postato da: giacabi a 21:06 |
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moulin, padre trento
Il corpo è segno dell'eterno
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Se il culto del corpo nella cultura greco-romana e rina-***
scimentale possedeva ancora una dignità, non importa se
parziale, oggigiorno esso è ridotto a merce, a mercato. Non
conta più la persona, ma la forma, l'aspetto fenomenico.
Peri concorsi di bellezza, che cos'è che vale? La ragione,
l'intelligenza, la persona, la donna nella sua totalità?
Assolutamente no. Quello che vale è lo stesso criterio
che si usa almercato del bestiame.
Le proporzioni fisiche... e, perché no,
la capacità di sapersi vendere. Anche uno sciocco si rende
conto che se si ha la gobba o un qualunque difetto fisico, se
non si corrisponde alla legge del mercato, non importa se si
[o, non si vale nulla. Ciò che conta è la «cartozzeria>>.
Un corpo non è più la forma suprema del linguaggio umano
Non è più comunicazione, creatività, segno dell'eterno; è
oggetto fonte di violenza, incomunicabilità, solitudine,
disperazione, perché quando le caratteristiche fisiche
inevitabilmente si deteriorano, che cosa resta in una donna
o in un uomo? Il nulla... e, ovviamente, la disperazione.
Si può andare mille volte dal parrucchiere, ma alla
vecchiaia nessuno può sfuggire………
… Solo l‘ incontro con Cristo, solo all’ interno
di un'esperienza umana autentica che scaturisce dalla cer-
tezza che l'uomo ha una destinazione finale della propria
esistenza, è possibile uno sguardo che valorizzi ciò che si è
per natura. La mania delle diete, l'anoressia, il sensualismo,
l'ossessione per le forme anatomiche, la frequentazione
assidua, quasi maniacale della palestra, la donna come
oggetto da esporre indicano chiaramente l'assenza di
identità, di dignità.
«Amare se stessi" è l’impresa più difficile, ma è la cosa
più umana e grande che esiste. È ciò che dà sapore alla vita
e permette di goderla. Amare il corpo significa guardarlo
nel suo complesso come segno del Divino.
Padre Aldo Trento da:Cristo e il lavandino ed.Lindau
Postato da: giacabi a 09:42 |
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padre trento
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L'uomo non ha bisogno di strumenti, per belli che siano, come
certi libri e certe musiche, ma ha solo bisogno di uno sguardo.
certi libri e certe musiche, ma ha solo bisogno di uno sguardo.
Padre Aldo Trento
Postato da: giacabi a 21:53 |
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padre trento
Verso il Meeting - Cristo e il lavandino
Pubblichiamo due estratti del libro di Padre Aldo, Cristo e il lavandino. I brani sono presenti nello Speciale Meeting, allegato del numero 30/31 di Tempi in edicola sino al 10 agosto
Tratto da Tempi del 3 agosto 2011
Cristo e la camera da letto
Intendiamo mettere in evidenza il nesso che esiste fra Cristo e la camera da letto. Prima di tutto, la stanza da letto non è la cuccia del cane, né un deposito di cianfrusaglie, né una sala di ricreazione o, ancor meno, la sala da pranzo. La camera da letto serve per dormire, per riposare. Il riposo notturno è essenziale per la vita dell’uomo, affinché egli possa lavorre con energia e allegria. Alzarsi la mattina, aprire gli occhi e mettersi subito in ginocchio di fronte al Mistero che penetra nella camera da letto all’alba è affermare la consistenza del proprio Io, la consapevolezza del proprio destino. Anche andare a coricarsi dopo una giornata di lavoro e, prima di spegnere la luce, mettersi in ginocchio e riconoscere con gratitudine quello che è successo durante il giorno, ringraziando il Mistero di Dio e chiedendogli perdono per le proprie miserie, è il modo più gradevole per riposare: il letto si trasforma nelle braccia del Creatore che accoglie la sua creatura per il meritato riposo dopo la grande liturgia quotidiana che è il lavoro. Perciò, la bellezza del letto che coincide con quest’atteggiamento si esprime sia nella pulizia delle lenzuola, che devono essere sempre ben sistemate, sia nell’ordine che deve regnare nell’armadio e nel resto della stanza, dove l’essenzialità va di pari passo con le necessità della persona. La sistemazione mattutina del letto e la pulizia quotidiana della camera ove è necessario è un’educazione a vivere della memoria di Cristo, che è il significato anche di questa parte della casa.
Inoltre nel letto, per chi è minimamente consapevole del sacramento del Matrimonio e non vive come gli animali, si consuma l’atto amoroso che consente il fiorire di una vita. Un atto per il quale vive il sacramento che fa parte della liturgia domestica. È come un altare sul quale gli sposi cristiani offrono il frutto dell’amore attraverso il linguaggio della sessualità, del proprio intimo e totale abbandono. Un abbandono che è parte integrante dell’orizzonte, del destino ultimo della vita. Il letto per le persone sposate è come l’altare per il sacerdote. Il sacramento del Matrimonio si consuma e diventa più profondo nella totalità della vita familiare, della quale il «letto», in tutta la sua espressività, è parte concreta ed essenziale. Vivere con questa consapevolezza la propria vocazione di marito e moglie significa trasformare il letto, la camera da letto, in un luogo sacro. Per questo, ricordo con commozione che sopra il letto dei miei genitori era appeso il quadro della Sacra Famiglia e, ai due lati, vi era un’acquasantiera con l’acqua benedetta che serviva per fare il segno della croce prima di dormire o prima di esprimersi fisicamente il grande amore che essi vivevano, frutto della consapevolezza che il Matrimonio è la presenza di Cristo oggi.
Cristo e il bagno
Quante volte vado a controllare i bagni pubblici della parrocchia e mi rendo conto che, a poco a poco, in molte persone che passano di qui la fede sta crescendo. Allo stesso modo quante volte, andando a far visita a fattorie o a case, mi rendo conto del contrario. «Ma non si può misurare la fede guardando i bagni» mi ha replicato un giorno una signora, «perché la fede è qualcosa di intimo, è qualcosa che ha a che vedere con l’anima dell’essere umano». L’ho guardata e le ho risposto: «Signora, quello che per lei è la fede in realtà è superstizione, è qualcosa che non ha niente a che vedere con il riconoscimento di un Avvenimento, che, una volta incontrato, cambia la vita», come afferma il papa nella sua prima enciclica. Se la fede non entra nella vita, non è fede, è magia. E la vita è tutto, comprende tutti gli aspetti, tutti i movimenti, pensieri e azioni dell’essere umano. Anche il bagno è un aspetto, per di più importante, della vita quotidiana, perché consente all’essere umano di soddisfare le proprie necessità fisiologiche. Tra un’infima latrina e un bagno c’è una differenza abissale, persino psicologica, per chi usa l’una oppure l’altro. Allora non è possibile che la fede non abbia nulla a che vedere con questo aspetto della vita. Concretamente significa che, se «per me il vivere è Cristo», come afferma l’apostolo san Paolo, l’uso del bagno sarà conforme alle norme igieniche. Per questo si usa la carta igienica, che si getta nel water e non nel cestino (cosa disgustosa per chi si reca in bagno subito dopo), si aziona lo sciacquone, se necessario si usa lo spazzolone affinché la ceramica rimanga bianca o del suo colore naturale, ci si lava le mani e si usa l’asciugamano o la carta apposita per asciugarsele. Non ha importanza il tipo di bagno, se è di prima, di seconda o di terza categoria. Lo stesso vale per la doccia e gli altri servizi.
La fede è riconoscere che Cristo è presente in tutti i particolari, e Cristo è bellezza, armonia, è gusto e rispetto per le cose, per tutte le cose. Educare alla fede significa mostrare tutte le implicazioni di essa. Implicazioni che esprimono una cultura, una coscienza critica e sistematica della realtà. La cultura cristiana, attraverso la consapevolezza che Cristo ha a che vedere con tutto, ha creato la civiltà, vale a dire la bellezza, quella bellezza di cui le Reducciones gesuitiche sono state testimoni. In questi paesi la cura dei bagni era una preoccupazione quotidiana da parte dei padri. Per tale ragione costruirono all’angolo di ogni isolato i bagni maschili e femminili, con acqua corrente e fogne sotterranee che portavano le acque reflue lontano dai paesi. Una rete fognaria che neppure Asunción oggi possiede. In verità il problema della sporcizia e del disordine, che rendono la capitale del Paraguay fra le peggiori dell’America Latina, è frutto del clima di paganesimo in cui viviamo. Paganesimo che a sua volta è frutto della divisione tra la fede e la vita, e di conseguenza di un’educazione spiritualista che aliena la mente della gente impedendole l’uso corretto della ragione come possibilità di conoscere e amare la realtà. Su un muro del capannone dove sono ubicati i bagni è scritto: «I bagni sono il passaporto di un paese». Credo che siano anche la testimonianza che nel mio paese, nella mia dimora o nella mia casa è arrivata la fede.
Il libro di Padre Aldo sarà in vendita al Meeting di Rimini al costo di 12,50 euro (168 pp)
Postato da: giacabi a 14:39 |
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padre trento
.. senza la carne non esiste né Cristo né l'uomo...
***
Cari amici,
appena terminati gli incontri con miglia di giovani, Marcos e Cleuza hanno preso l'aereo e a mezzanotte di domenica scorsa sono arrivati ad Asuncion. Due giorni assieme per ridire il nostro SI' a Cristo. Ci incontriamo solo per riconfermarci in questo sì.
Altrimenti che senso avrebbe qualunque relazione o tanta fatica in un mondo che per lo più vive di relazioni virtuali o formali?
Il nostro sì a Cristo non può passare attraverso il “mondo virtuale” perchè Dio si è fatto compagnia all'uomo, si è fatto carne. E senza la carne non esiste né Cristo né l'uomo.
Il giorno dopo ci siamo incontrati nella nostra fattoria con la nostra Fraternità. Dopo aver ripreso quanto ci si era detto un mese fa e che Cleuza aveva riassunto con una bellissima espressione in forma di domanda: siamo cristiani “coca-cola” o uomini innamorati di Cristo?
Il Movimento per noi è una coca-cola o un dinamismo in cui la ragione e il sentimento camminano insieme? Perchè questa immagine della coca-cola? Perchè quando si toglie il tappo fa PSSS e poi tutto termina.
Potremmo anche usare l'immagine dei fuochi d'artificio.
Quindi sono incominciati gli interventi. Uno in particolare sottolineava il proprio dramma personale, un dramma che aveva portato la persona ad un esaurimento. “Tutto funzionava bene nella mia vita, vivevo la mia responsabilità, mettendoci tutta me stesa fino ad essere definita dal mio lavoro. E facendo così pensavo di servire bene Dio. Ma nel tempo ho ceduto perchè questo modo di lavorare per Dio mi ha messo KO”.
Cleuza prende la palla al balzo e dopo aver descritto come anche lei prima di incontrare Carron e il Movimento ha passato anni determinati dalla depressione, frutto del suo costante impegno per Dio e per i poveri. Ha detto “Vedi, anch'io ho vissuto una vita piena di tormenti e di amarezza convinta di servire Cristo. Ho preso per anni antidepressivi, fino al giorno in cui ho incontrato il Movimento. Incontrando il Movimento ho incontrato il valore della mia vita. Valore che ho percepito chiaramente nel fatto che Dio non mi ha creato per fare la sua colf, la sua impiegata, ma per un atto di amore, mi ha fatta per Lui. Dentro il Movimento ho capito che io non sono la serva di Dio, ma l'oggetto del suo amore e in questa prospettiva gli altri diventano la mia allegria. Perchè solo se io vibro dell'amore di Cristo posso aiutare gli altri. Gli altri così diventano un regalo per me. Molti mi chiedono: ma perchè andate ancora in Paraguay? Perchè ho bisogno di scrivere il mio sì a Cristo con voi e mi siete stati donati. Le cose sono guidate da Lui e Lui conosce il numero dei miei capelli.” “Bisogna che ci togliamo la maschera (e qui racconta la storia di una donna disfatta umanamente che aveva raccolto dalla strada e portato a casa dove ebbe luogo un dialogo con lei) perchè Cristo si sveli alla nostra umanità così com'è. E questo è ciò che accade nella clinica per gli ammalati, che messi a nudo dalla malattia chiedono urgentemente Cristo. Solo togliendoci la maschera Cristo si rivela a ciascuno.”
Il dialogo è continuato per due giorni condividendo tutto. Ma credo che già questo sia sufficiente per adesso, cari amici. Comunque o una amicizia ha questo orizzonte lì dove siamo o è complicità anche se usiamo continuamente la parola “Cristo”.
“Ci incontriamo per scrivere il nostro sì a Cristo”. Bellissimo!
Buone vacanze
Padre Aldo
appena terminati gli incontri con miglia di giovani, Marcos e Cleuza hanno preso l'aereo e a mezzanotte di domenica scorsa sono arrivati ad Asuncion. Due giorni assieme per ridire il nostro SI' a Cristo. Ci incontriamo solo per riconfermarci in questo sì.
Altrimenti che senso avrebbe qualunque relazione o tanta fatica in un mondo che per lo più vive di relazioni virtuali o formali?
Il nostro sì a Cristo non può passare attraverso il “mondo virtuale” perchè Dio si è fatto compagnia all'uomo, si è fatto carne. E senza la carne non esiste né Cristo né l'uomo.
Il giorno dopo ci siamo incontrati nella nostra fattoria con la nostra Fraternità. Dopo aver ripreso quanto ci si era detto un mese fa e che Cleuza aveva riassunto con una bellissima espressione in forma di domanda: siamo cristiani “coca-cola” o uomini innamorati di Cristo?
Il Movimento per noi è una coca-cola o un dinamismo in cui la ragione e il sentimento camminano insieme? Perchè questa immagine della coca-cola? Perchè quando si toglie il tappo fa PSSS e poi tutto termina.
Potremmo anche usare l'immagine dei fuochi d'artificio.
Quindi sono incominciati gli interventi. Uno in particolare sottolineava il proprio dramma personale, un dramma che aveva portato la persona ad un esaurimento. “Tutto funzionava bene nella mia vita, vivevo la mia responsabilità, mettendoci tutta me stesa fino ad essere definita dal mio lavoro. E facendo così pensavo di servire bene Dio. Ma nel tempo ho ceduto perchè questo modo di lavorare per Dio mi ha messo KO”.
Cleuza prende la palla al balzo e dopo aver descritto come anche lei prima di incontrare Carron e il Movimento ha passato anni determinati dalla depressione, frutto del suo costante impegno per Dio e per i poveri. Ha detto “Vedi, anch'io ho vissuto una vita piena di tormenti e di amarezza convinta di servire Cristo. Ho preso per anni antidepressivi, fino al giorno in cui ho incontrato il Movimento. Incontrando il Movimento ho incontrato il valore della mia vita. Valore che ho percepito chiaramente nel fatto che Dio non mi ha creato per fare la sua colf, la sua impiegata, ma per un atto di amore, mi ha fatta per Lui. Dentro il Movimento ho capito che io non sono la serva di Dio, ma l'oggetto del suo amore e in questa prospettiva gli altri diventano la mia allegria. Perchè solo se io vibro dell'amore di Cristo posso aiutare gli altri. Gli altri così diventano un regalo per me. Molti mi chiedono: ma perchè andate ancora in Paraguay? Perchè ho bisogno di scrivere il mio sì a Cristo con voi e mi siete stati donati. Le cose sono guidate da Lui e Lui conosce il numero dei miei capelli.” “Bisogna che ci togliamo la maschera (e qui racconta la storia di una donna disfatta umanamente che aveva raccolto dalla strada e portato a casa dove ebbe luogo un dialogo con lei) perchè Cristo si sveli alla nostra umanità così com'è. E questo è ciò che accade nella clinica per gli ammalati, che messi a nudo dalla malattia chiedono urgentemente Cristo. Solo togliendoci la maschera Cristo si rivela a ciascuno.”
Il dialogo è continuato per due giorni condividendo tutto. Ma credo che già questo sia sufficiente per adesso, cari amici. Comunque o una amicizia ha questo orizzonte lì dove siamo o è complicità anche se usiamo continuamente la parola “Cristo”.
“Ci incontriamo per scrivere il nostro sì a Cristo”. Bellissimo!
Buone vacanze
Padre Aldo
Postato da: giacabi a 09:56 |
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padre trento
Siate realisti (quindi certi)
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Davide Perillo
PRIMO PIANO
Ci avviciniamo alla kermesse di Rimini. E alla sua sfida: è possibile che la vita sia «un’immensa certezza»? Abbiamo chiesto ad alcuni ospiti di confrontarsi con il titolo della XXXII edizione (21-27 agosto). A partire da padre Aldo Trento e da ciò che ha «di più caro»: una sola sicurezza. In una lotta continua
Il libro lo sta rileggendo in questi giorni. Piano, scavando ogni parola, per andare al fondo della sua esperienza mentre entra in ciò che scrive don Giussani. «È una sfida. A noi, e alla nostra urgenza umana». A padre Aldo Trento, 64 anni, da 22 missionario in Paraguay, dove la sua parrocchia di Asunción è diventata un cuore che pulsa di fede e di opere (la clinica per i malati terminali, la casa di accoglienza per i bambini abbandonati, quella per i senzatetto e tanto altro), toccherà chiudere il Meeting 2011. Con un incontro su Ciò che abbiamo di più caro, volume dedicato ai dialoghi di don Giussani con gli universitari a metà anni Ottanta. «Per dire che ciò che hai di più caro è Cristo, come fa lui, hai bisogno di una ragione potente, forte». Di una certezza. Che, non a caso, è il tema della manifestazione, al via il 21 agosto. Titolo: E l’esistenza diventa una immensa certezza.
Cosa hai pensato quando lo hai letto?
La prima reazione è stata un ringraziamento. Al Signore, e a chi ha sentito l’urgenza di proporre questo tema. Perché è il vero problema di oggi, su questo ci giochiamo tutto. Anche il Papa sottolinea di continuo che, in una realtà dominata dal relativismo, sfidare l’uomo sulla certezza vuol dire tornare all’ontologia più pura e profonda. Come potremmo muoverci senza qualcuno che ci ricorda che le nostre radici sono nel pensiero di Dio?
Ma per te cosa vuol dire essere certo?
Avere chiaro quello che dice il profeta Isaia: «Prima di formarti nel ventre di tua madre ho pronunziato il tuo nome». Questa certezza è Dio che me la dà: non me la invento io, non è frutto di un ragionamento. È una grazia. Per me è iniziata a sette anni, quando davanti a un missionario che raccontava di sé mi sono commosso per la prima volta nell’accorgermi che sono stato pensato da Dio per l’eternità. Come il cosmo. Ed era una cosa che corrispondeva pienamente al mio cuore, era ragionevole. Rendermi conto di questo, sperimentarlo in tutti gli istanti, mi dà una certezza granitica, capace di farmi andare avanti. Come faccio ad avere il dubbio di restare fregato dalle circostanze, se sono frutto dell’amore di Dio che mi ha pensato da sempre? È una questione di realismo.
In che senso “realismo”?
Se sei realista devi riconoscere che c’è un punto chiaro che ti rimanda a tutto, ti rimette all’infinito. E questo infinito è ciò che sostiene tutto. Il cosmo, e l’autocoscienza del cosmo, che sono io. È la realtà che è un’immensa certezza. Bisogna essere ottusi per negarlo. Come diceva Althusser: puoi dire che il sole non esiste, ma sei matto.
Ma allora perché è così difficile essere certi? Perché dubitiamo di tutto?
Anzitutto, per il peccato originale. Abbiamo la tentazione di sostituirci all’infinito. Invece di avvertire la sproporzione strutturale che diceva Caterina da Siena: «Io sono niente, Tu sei tutto». È la difficoltà del mondo di oggi: pensare che siamo l’ombelico del mondo. Ma nasce da un uso sfasato della ragione. Se la concepisci come una stanza chiusa, non vedi. Se apri gli occhi e guardi, come stamattina vedevo la bellezza del cielo tropicale, non posso non riconoscere che c’è Qualcuno che sta sotto, che è contenuto e fondamento di tutto ciò. La prima difficoltà è questo limite ontologico. Poi c’è il respiro dell’ambiente in cui viviamo. Che è totalmente dominato dall’insicurezza.
Vuol dire che il peccato originale non è anzitutto un problema morale, ma di conoscenza: indebolisce il rapporto con la realtà.
Vero. Non è un problema etico, ma ontologico. L’uomo che pretende di essere creatore. Tutti abbiamo il desiderio di perfezione: siamo fatti da Dio per tendere al bello assoluto, alla gioia assoluta. Ma Lucifero ha preteso di poter raggiungere con le sue mani quello che non poteva raggiungere, perché è creatura. Anche Adamo ed Eva sono stati bruciati da quello. Un uso della ragione debole, che ha ceduto. Senza riconoscere questo, non possiamo neanche accorgerci di come Cristo sia una risposta suprema a un diritto della ragione.
È la prima domanda del serpente: «Ma è vero che Dio ha detto...?». La tentazione è sulla certezza.
Mette in dubbio. E accade la disgrazia più grande della storia. Che, però, è anche una «felice colpa», come canta la Chiesa nel Preconio pasquale. Perché grazie a questo abbiamo potuto sperimentare la presenza del Mistero che ci ha riportato nell’alveo giusto della ragione. E la bellezza di cosa vuol dire essere rigenerati come creature nuove, dove la sproporzione mi fa gridare di gioia. Più percepisco di essere fatto, più mi accorgo della grandezza che sta nella mia piccolezza. Questo fa rabbrividire.
Perché restituisce una certezza.
Appunto. Più andiamo a fondo alla realtà intensamente, più prendiamo coscienza di una certezza unica: che siamo strutturalmente relazione con il Mistero. Tutto di noi lo grida. Questa è la lotta che dobbiamo fare con noi stessi. Non dando per scontato neanche un istante. Se nell’istante mi trascuro, o faccio a meno del lavoro personale, il diabolico dubbio del «se, ma, però», ti frega. C’è bisogno di una vigilanza continua.
E che cosa permette o aiuta questa vigilanza?
Prima di tutto una lealtà con se stessi. Io lo vedo per me. Avrei mille ragioni per dubitare: il dolore innocente, il bambino che muore. Ma tutto questo fa parte di un disegno immenso. E uno, se è leale, vede che questa sofferenza, umanamente incomprensibile, nel tempo genera. Io non posso dubitare che Dio mi ama. Dovrei essere cieco. Non solo per quello che è accaduto in me, per quello che sono e vivo, ma anche per quello che questa certezza fa nascere intorno: un popolo, delle opere...
Ecco, il tempo: come ha inciso sulla tua certezza? Che valore ha nell’approfondirla, nel darle spessore?
La certezza è un avvenimento. Accade come una bella giornata che non ti aspettavi. Ma deve assumere una dimensione storica. Come per gli apostoli: stando con Cristo vedevano accadere tanti fatti che approfondivano la loro certezza. La rendevano ancora più ragionevole. E rendevano loro via via più consapevoli. Poi, però, ci sono due fattori decisivi di lavoro personale.
Quali?
Il primo è la compagnia. Senza una compagnia che ti dice “guarda”, che ti ricorda la tua creaturalità, cerchi un’altra compagnia, che è quella del diavolo. Adamo ed Eva avevano la compagnia di Dio, che tutte le sere scendeva nel Paradiso terrestre. Ma ne è entrata un’altra: quella del demonio. La compagnia è essenziale. Ma è una compagnia in cui il centro è la coscienza di essere fatti. Che si sostiene solo per uno sguardo fisso verso l’orizzonte, verso il Mistero. Non posso percepire nessun tipo di rapporto che non nasca da uno sguardo così. Lo vedo con i miei malati, con i bambini. Senza una compagnia del genere non avrei la possibilità di tenere vivo quello che mi è accaduto a sette anni.
Ed è una cosa diversa dal cercare la certezza nell’altro, come se per riconoscere il vero avessi bisogno di un supplemento...
Certo. La certezza è già accaduta. Il problema è trovare persone che ti aiutano a non dimenticare quello che è accaduto e che ti accade in quel momento. Io sono fatto ora. Tu sei mio amico perché vivi la stessa percezione che vivo io, e mi aiuti a sostenermi in questo. Se no, l’amicizia è un qualcosa di macabro, perche non resiste all’usura del tempo trasformandosi in un insieme di ossa aride.
E l’altro fattore?
Il dolore. Che significa la pazienza. Quella certezza che mi ha segnato da piccolo è passata attraverso tutti i problemi della vita: scappavo di qua e la incontravo lì, scappavo di nuovo e la rivedevo. Tutto questo ha innescato un dramma terribile tra la mia immaginazione, la misura che volevo dare alla realtà, e la realtà. In cosa consisteva il dolore? In una lotta furibonda nella mia carne tra la mia misura, la mia concezione dell’affetto, del rapporto, e quello che il mio cuore invece desiderava. Tutto questo è una battaglia continua. Una sofferenza continua. Ma piena di letizia. Perché permette di gustare ciò che abbiamo di più caro.
Perché?
Come posso capire che è Cristo ciò che ho di più caro se la ragione non sperimenta in una battaglia quotidiana che conviene vivere in questa posizione, che così la vita è più bella? Questo è il dolore. È lottare contro quelle riduzioni a cui rischio continuamente di riportare l’Avvenimento che mi ha cambiato la vita.
Non ci sono momenti della tua vita che mettono in crisi questa certezza?
Come tentazione, spesso. Vedi un dolore innocente, un amico che muore... Ma una cosa è la tentazione, altro che mi lasci definire da quella. Il dramma è sempre tra il mio limite e il Mistero che chiama. Io questa tentazione la vivo di continuo. Ma è necessaria, perché se no la libertà in che consiste? Se non avessi la possibilità di dire «no» all’Essere, non potrei avere la gioia di dire: «Tu, o Cristo mio».
E invece qual è stato il momento più pieno di certezza?
A parte l’abbraccio di don Giussani, tanti anni fa, l’incontro con Julián Carrón. E gli amici di qui, in Sud America. La cosa più grande è vedere persone per cui la certezza dell’Avvenimento di Cristo è la ragione della vita.
Cosa ti ha colpito di più del libro di don Giussani?
Lui non parla di Cristo: parla con Cristo. Per esempio, ha una percezione viva, drammatica, sofferta del potere che ci circonda; ma vedi che lo soffre perché è una cosa sola con Cristo. È come vedere quello che diceva San Paolo: «Per me vivere è Cristo. Non conosco altra cosa che Cristo crocefisso». In don Giussani è evidente. Leggendolo, vedi un desiderio immenso che tutto il mondo possa vibrare con quella coscienza che lui ha di Cristo. Soffriva. Ma come conseguenza di vederci sordi e ciechi a questo Avvenimento, che diamo per scontato.
Basta una Certezza per vivere, una sola.
Sì. E questo ti permette di essere un punto chiaro di presenza nel mondo. Qualcuno con cui il mondo deve fare i conti. Può contestarti, ma non può non fare i conti con questa diversità. È così che puoi incontrare l’altro. Come succede ogni volta al Meeting.
Cosa ti aspetti dal Meeting di quest’anno?
Di uscirne più consapevoli che veramente la realtà è il corpo di Cristo. Non esiste nulla che non sia relazione con il Mistero. La realtà è il Suo corpo. Ed è positiva. Sempre.
Ci avviciniamo alla kermesse di Rimini. E alla sua sfida: è possibile che la vita sia «un’immensa certezza»? Abbiamo chiesto ad alcuni ospiti di confrontarsi con il titolo della XXXII edizione (21-27 agosto). A partire da padre Aldo Trento e da ciò che ha «di più caro»: una sola sicurezza. In una lotta continua
Il libro lo sta rileggendo in questi giorni. Piano, scavando ogni parola, per andare al fondo della sua esperienza mentre entra in ciò che scrive don Giussani. «È una sfida. A noi, e alla nostra urgenza umana». A padre Aldo Trento, 64 anni, da 22 missionario in Paraguay, dove la sua parrocchia di Asunción è diventata un cuore che pulsa di fede e di opere (la clinica per i malati terminali, la casa di accoglienza per i bambini abbandonati, quella per i senzatetto e tanto altro), toccherà chiudere il Meeting 2011. Con un incontro su Ciò che abbiamo di più caro, volume dedicato ai dialoghi di don Giussani con gli universitari a metà anni Ottanta. «Per dire che ciò che hai di più caro è Cristo, come fa lui, hai bisogno di una ragione potente, forte». Di una certezza. Che, non a caso, è il tema della manifestazione, al via il 21 agosto. Titolo: E l’esistenza diventa una immensa certezza.
Cosa hai pensato quando lo hai letto?
La prima reazione è stata un ringraziamento. Al Signore, e a chi ha sentito l’urgenza di proporre questo tema. Perché è il vero problema di oggi, su questo ci giochiamo tutto. Anche il Papa sottolinea di continuo che, in una realtà dominata dal relativismo, sfidare l’uomo sulla certezza vuol dire tornare all’ontologia più pura e profonda. Come potremmo muoverci senza qualcuno che ci ricorda che le nostre radici sono nel pensiero di Dio?
Ma per te cosa vuol dire essere certo?
Avere chiaro quello che dice il profeta Isaia: «Prima di formarti nel ventre di tua madre ho pronunziato il tuo nome». Questa certezza è Dio che me la dà: non me la invento io, non è frutto di un ragionamento. È una grazia. Per me è iniziata a sette anni, quando davanti a un missionario che raccontava di sé mi sono commosso per la prima volta nell’accorgermi che sono stato pensato da Dio per l’eternità. Come il cosmo. Ed era una cosa che corrispondeva pienamente al mio cuore, era ragionevole. Rendermi conto di questo, sperimentarlo in tutti gli istanti, mi dà una certezza granitica, capace di farmi andare avanti. Come faccio ad avere il dubbio di restare fregato dalle circostanze, se sono frutto dell’amore di Dio che mi ha pensato da sempre? È una questione di realismo.
In che senso “realismo”?
Se sei realista devi riconoscere che c’è un punto chiaro che ti rimanda a tutto, ti rimette all’infinito. E questo infinito è ciò che sostiene tutto. Il cosmo, e l’autocoscienza del cosmo, che sono io. È la realtà che è un’immensa certezza. Bisogna essere ottusi per negarlo. Come diceva Althusser: puoi dire che il sole non esiste, ma sei matto.
Ma allora perché è così difficile essere certi? Perché dubitiamo di tutto?
Anzitutto, per il peccato originale. Abbiamo la tentazione di sostituirci all’infinito. Invece di avvertire la sproporzione strutturale che diceva Caterina da Siena: «Io sono niente, Tu sei tutto». È la difficoltà del mondo di oggi: pensare che siamo l’ombelico del mondo. Ma nasce da un uso sfasato della ragione. Se la concepisci come una stanza chiusa, non vedi. Se apri gli occhi e guardi, come stamattina vedevo la bellezza del cielo tropicale, non posso non riconoscere che c’è Qualcuno che sta sotto, che è contenuto e fondamento di tutto ciò. La prima difficoltà è questo limite ontologico. Poi c’è il respiro dell’ambiente in cui viviamo. Che è totalmente dominato dall’insicurezza.
Vuol dire che il peccato originale non è anzitutto un problema morale, ma di conoscenza: indebolisce il rapporto con la realtà.
Vero. Non è un problema etico, ma ontologico. L’uomo che pretende di essere creatore. Tutti abbiamo il desiderio di perfezione: siamo fatti da Dio per tendere al bello assoluto, alla gioia assoluta. Ma Lucifero ha preteso di poter raggiungere con le sue mani quello che non poteva raggiungere, perché è creatura. Anche Adamo ed Eva sono stati bruciati da quello. Un uso della ragione debole, che ha ceduto. Senza riconoscere questo, non possiamo neanche accorgerci di come Cristo sia una risposta suprema a un diritto della ragione.
È la prima domanda del serpente: «Ma è vero che Dio ha detto...?». La tentazione è sulla certezza.
Mette in dubbio. E accade la disgrazia più grande della storia. Che, però, è anche una «felice colpa», come canta la Chiesa nel Preconio pasquale. Perché grazie a questo abbiamo potuto sperimentare la presenza del Mistero che ci ha riportato nell’alveo giusto della ragione. E la bellezza di cosa vuol dire essere rigenerati come creature nuove, dove la sproporzione mi fa gridare di gioia. Più percepisco di essere fatto, più mi accorgo della grandezza che sta nella mia piccolezza. Questo fa rabbrividire.
Perché restituisce una certezza.
Appunto. Più andiamo a fondo alla realtà intensamente, più prendiamo coscienza di una certezza unica: che siamo strutturalmente relazione con il Mistero. Tutto di noi lo grida. Questa è la lotta che dobbiamo fare con noi stessi. Non dando per scontato neanche un istante. Se nell’istante mi trascuro, o faccio a meno del lavoro personale, il diabolico dubbio del «se, ma, però», ti frega. C’è bisogno di una vigilanza continua.
E che cosa permette o aiuta questa vigilanza?
Prima di tutto una lealtà con se stessi. Io lo vedo per me. Avrei mille ragioni per dubitare: il dolore innocente, il bambino che muore. Ma tutto questo fa parte di un disegno immenso. E uno, se è leale, vede che questa sofferenza, umanamente incomprensibile, nel tempo genera. Io non posso dubitare che Dio mi ama. Dovrei essere cieco. Non solo per quello che è accaduto in me, per quello che sono e vivo, ma anche per quello che questa certezza fa nascere intorno: un popolo, delle opere...
Ecco, il tempo: come ha inciso sulla tua certezza? Che valore ha nell’approfondirla, nel darle spessore?
La certezza è un avvenimento. Accade come una bella giornata che non ti aspettavi. Ma deve assumere una dimensione storica. Come per gli apostoli: stando con Cristo vedevano accadere tanti fatti che approfondivano la loro certezza. La rendevano ancora più ragionevole. E rendevano loro via via più consapevoli. Poi, però, ci sono due fattori decisivi di lavoro personale.
Quali?
Il primo è la compagnia. Senza una compagnia che ti dice “guarda”, che ti ricorda la tua creaturalità, cerchi un’altra compagnia, che è quella del diavolo. Adamo ed Eva avevano la compagnia di Dio, che tutte le sere scendeva nel Paradiso terrestre. Ma ne è entrata un’altra: quella del demonio. La compagnia è essenziale. Ma è una compagnia in cui il centro è la coscienza di essere fatti. Che si sostiene solo per uno sguardo fisso verso l’orizzonte, verso il Mistero. Non posso percepire nessun tipo di rapporto che non nasca da uno sguardo così. Lo vedo con i miei malati, con i bambini. Senza una compagnia del genere non avrei la possibilità di tenere vivo quello che mi è accaduto a sette anni.
Ed è una cosa diversa dal cercare la certezza nell’altro, come se per riconoscere il vero avessi bisogno di un supplemento...
Certo. La certezza è già accaduta. Il problema è trovare persone che ti aiutano a non dimenticare quello che è accaduto e che ti accade in quel momento. Io sono fatto ora. Tu sei mio amico perché vivi la stessa percezione che vivo io, e mi aiuti a sostenermi in questo. Se no, l’amicizia è un qualcosa di macabro, perche non resiste all’usura del tempo trasformandosi in un insieme di ossa aride.
E l’altro fattore?
Il dolore. Che significa la pazienza. Quella certezza che mi ha segnato da piccolo è passata attraverso tutti i problemi della vita: scappavo di qua e la incontravo lì, scappavo di nuovo e la rivedevo. Tutto questo ha innescato un dramma terribile tra la mia immaginazione, la misura che volevo dare alla realtà, e la realtà. In cosa consisteva il dolore? In una lotta furibonda nella mia carne tra la mia misura, la mia concezione dell’affetto, del rapporto, e quello che il mio cuore invece desiderava. Tutto questo è una battaglia continua. Una sofferenza continua. Ma piena di letizia. Perché permette di gustare ciò che abbiamo di più caro.
Perché?
Come posso capire che è Cristo ciò che ho di più caro se la ragione non sperimenta in una battaglia quotidiana che conviene vivere in questa posizione, che così la vita è più bella? Questo è il dolore. È lottare contro quelle riduzioni a cui rischio continuamente di riportare l’Avvenimento che mi ha cambiato la vita.
Non ci sono momenti della tua vita che mettono in crisi questa certezza?
Come tentazione, spesso. Vedi un dolore innocente, un amico che muore... Ma una cosa è la tentazione, altro che mi lasci definire da quella. Il dramma è sempre tra il mio limite e il Mistero che chiama. Io questa tentazione la vivo di continuo. Ma è necessaria, perché se no la libertà in che consiste? Se non avessi la possibilità di dire «no» all’Essere, non potrei avere la gioia di dire: «Tu, o Cristo mio».
E invece qual è stato il momento più pieno di certezza?
A parte l’abbraccio di don Giussani, tanti anni fa, l’incontro con Julián Carrón. E gli amici di qui, in Sud America. La cosa più grande è vedere persone per cui la certezza dell’Avvenimento di Cristo è la ragione della vita.
Cosa ti ha colpito di più del libro di don Giussani?
Lui non parla di Cristo: parla con Cristo. Per esempio, ha una percezione viva, drammatica, sofferta del potere che ci circonda; ma vedi che lo soffre perché è una cosa sola con Cristo. È come vedere quello che diceva San Paolo: «Per me vivere è Cristo. Non conosco altra cosa che Cristo crocefisso». In don Giussani è evidente. Leggendolo, vedi un desiderio immenso che tutto il mondo possa vibrare con quella coscienza che lui ha di Cristo. Soffriva. Ma come conseguenza di vederci sordi e ciechi a questo Avvenimento, che diamo per scontato.
Basta una Certezza per vivere, una sola.
Sì. E questo ti permette di essere un punto chiaro di presenza nel mondo. Qualcuno con cui il mondo deve fare i conti. Può contestarti, ma non può non fare i conti con questa diversità. È così che puoi incontrare l’altro. Come succede ogni volta al Meeting.
Cosa ti aspetti dal Meeting di quest’anno?
Di uscirne più consapevoli che veramente la realtà è il corpo di Cristo. Non esiste nulla che non sia relazione con il Mistero. La realtà è il Suo corpo. Ed è positiva. Sempre.
Postato da: giacabi a 05:22 |
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padre trento
L'avventura quotidiana nelle reduciones in Paraguay
***
“Ad majorem Dei gloria” questo era ed è il motto dei Gesuiti.
Viaggio in America Latina.
Un magnifico reportage appena trasmesso in due puntate su Rai1: la
prima "Le scuole di vita" e la seconda "Le città della carità" . Il
reportage ha raccontato la vita di oggi in America Latina e i suoi
protagonisti: tra questi anche amici di AVSI e delle opere che anche con
il tuo impegno stanno creando ambiti di vita più umana in situazioni
apparentemente impossibili.
Nella
puntata del 3 agosto ho sentito padre Aldo Trento parlare della
missione dei Gesuiti in Paraguay, delle riduzioni e della sua attuale
missione in quelle terre. Affascinante, ora come allora il progresso a
misura d'uomo e che bellezza in quella povertà.
La
Fraternità San Carlo di cui fa parte padre Aldo Trento in missione in
Paraguay, ci propone l’intervista che padre Aldo ha concesso a
Erika Elleri del Meeting di Rimini; E' la presentazione della mostra che
p. Aldo ha curato assieme a un gruppo di amici di Paraguay, sulle
riduzioni gesuitiche del Paraguay.
Alla scoperta delle riduzioni
Una
moderna riduzione, così si può considerare l’opera di Padre Aldo
Trento, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo ad Asunción, in
Paraguay dal 1989. Di questa avventura ne abbiamo parlato con lui. di Erika Elleri
Padre Aldo, come sono nate le riduzioni? E qual’era il loro scopo?
Il fine delle riduzioni è riassunto in questa frase di Ignazio de Loyola: non erano altro che “piccole Compagnie di Gesù nate nella selva, forme di vita nuova che hanno permesso ai guaranì di passare dalla situazione culturale, economica sociale, primitiva alla civiltà.” In sintesi, la provincia di Paraguaya, che andava dalla Bolivia del sud alla Terra del fuoco, era una regione dove erano penetrati dapprima i francescani nel 1537 ad Asunción, poi gli agostiniani. Ma il punto determinante era stato raggiunto con i gesuiti quando il cugino di Sant’Ignacio de Loyola (un francescano), aveva chiesto ai gesuiti di aprire una forma di vita gesuitica nella grande provincia delle Indie, dando inizio a quella che sarebbe stata l’esperienza delle riduzioni. Nel Natale del 1609 era sorta la prima riduzione della Compagnia di Gesù ad opera di San Ignacio Guazú, a sud dell’attuale Asunción. Per comprendere l’inserimento degli indios guaranì nelle riduzioni, prima di tutto bisogna capire la concezione guaranitica della vita. Per loro Dio, Tupa, era colui che aveva creato l’uomo immortale. All’arrivo della vipera la terra era stata contaminata e il guaranì era diventato mortale. Da quel momento essi avevano incominciato a peregrinare alla ricerca della terra senza il peccato. All’annuncio dei missionari che la terra senza il male era la Vergine Maria dalla quale era nato il fiore della passione simbolo di Cristo, i guaranì avevano aderito spontaneamente al cristianesimo perché era il compiersi della attesa del cuore. Il punto di evangelizzazione dei gesuiti era che gli indios incontrassero l’avvenimento di Cristo e non la morale cristiana, perché la morale cristiana cozzava contro una concezione cannibalistica e poligamica della vita.
Il fine delle riduzioni è riassunto in questa frase di Ignazio de Loyola: non erano altro che “piccole Compagnie di Gesù nate nella selva, forme di vita nuova che hanno permesso ai guaranì di passare dalla situazione culturale, economica sociale, primitiva alla civiltà.” In sintesi, la provincia di Paraguaya, che andava dalla Bolivia del sud alla Terra del fuoco, era una regione dove erano penetrati dapprima i francescani nel 1537 ad Asunción, poi gli agostiniani. Ma il punto determinante era stato raggiunto con i gesuiti quando il cugino di Sant’Ignacio de Loyola (un francescano), aveva chiesto ai gesuiti di aprire una forma di vita gesuitica nella grande provincia delle Indie, dando inizio a quella che sarebbe stata l’esperienza delle riduzioni. Nel Natale del 1609 era sorta la prima riduzione della Compagnia di Gesù ad opera di San Ignacio Guazú, a sud dell’attuale Asunción. Per comprendere l’inserimento degli indios guaranì nelle riduzioni, prima di tutto bisogna capire la concezione guaranitica della vita. Per loro Dio, Tupa, era colui che aveva creato l’uomo immortale. All’arrivo della vipera la terra era stata contaminata e il guaranì era diventato mortale. Da quel momento essi avevano incominciato a peregrinare alla ricerca della terra senza il peccato. All’annuncio dei missionari che la terra senza il male era la Vergine Maria dalla quale era nato il fiore della passione simbolo di Cristo, i guaranì avevano aderito spontaneamente al cristianesimo perché era il compiersi della attesa del cuore. Il punto di evangelizzazione dei gesuiti era che gli indios incontrassero l’avvenimento di Cristo e non la morale cristiana, perché la morale cristiana cozzava contro una concezione cannibalistica e poligamica della vita.
“Una
vita felice per Dio e per il Re. L’avventura quotidiana nelle riduzioni
del Paraguay” è il titolo della mostra. Potrebbe spiegarci meglio
l’entità di questa avventura e come verrà sviluppata nella mostra?
L’avventura quotidiana fa riferimento a come ogni istante era vissuto all’interno delle riduzioni. Vogliamo mostrare come la circostanza vissuta secondo la coscienza che la realtà è fatta da Dio, ha generato nel 1600 un’economia, una politica, un sistema giudiziario, economico, industriale, educativo, sanitario e tutto quello che avete voi oggi in Europa. L’idea che abbiamo è quella di ricostruire una riduzione e che si possa vedere, attraverso un percorso, come si viveva la quotidianità nelle riduzioni e mostrare come vivere così si possibile ancora oggi. Questa è l’avventura che vogliamo proporre.
L’avventura quotidiana fa riferimento a come ogni istante era vissuto all’interno delle riduzioni. Vogliamo mostrare come la circostanza vissuta secondo la coscienza che la realtà è fatta da Dio, ha generato nel 1600 un’economia, una politica, un sistema giudiziario, economico, industriale, educativo, sanitario e tutto quello che avete voi oggi in Europa. L’idea che abbiamo è quella di ricostruire una riduzione e che si possa vedere, attraverso un percorso, come si viveva la quotidianità nelle riduzioni e mostrare come vivere così si possibile ancora oggi. Questa è l’avventura che vogliamo proporre.
Perché è interessante parlare di riduzioni oggi?
Perché le riduzioni sono l’esempio di come il cristianesimo vissuto crei una forma nuova di civiltà, di economia. Tuttavia, se don Giussani che fu colui che mi propose di andare in Paraguay, non ci avesse detto “andate e rivivete quei contenuti”, io non mi sarei mai messo sicuramente sulle orme dei gesuiti. Come dice papa Giovanni Paolo II: “Se la fede non diventa cultura, la fede è destinata a terminare”. All’interno delle riduzioni c’era un nuovo sistema di proprietà, di economia, di architettura, di urbanistica, avevano portato gli ospedali in America Latina e persino la scuola elementare obbligatoria, la donna incinta era tutelata e anche i lavoratori. Qual è stata la ragione della distruzione delle riduzioni? Prima di tutto siamo nell’epoca dei regimi autoritari, della monarchia assoluta che non poteva accettare quello che si contrapponeva al progetto politico dei Borbone. Non dimentichiamo che la crisi è iniziata con il regno dei Borbone che trattavano l’America Latina come una sorta di loro giardino. Mentre tutti gli altri dovevano importare dall’Europa, l’opera gesuitica aveva raggiunto il suo massimo splendore. Producevano dieci volte più di quello che mangiavano, quindi esportavano e avevano flotte mercantili. Per cui alcuni gruppi organizzati, non potendo sopportare quello che si era generato dalla fede, avevano atteso l’occasione giusta e cercato la motivazione per eliminarli, e l’accusa più grande era stata quella di aver cercato di creare una monarchia. Quindi è stato proprio questo a portare alla distruzione delle riduzioni: il non accettare che la fede diventasse la forma di civiltà.
Perché le riduzioni sono l’esempio di come il cristianesimo vissuto crei una forma nuova di civiltà, di economia. Tuttavia, se don Giussani che fu colui che mi propose di andare in Paraguay, non ci avesse detto “andate e rivivete quei contenuti”, io non mi sarei mai messo sicuramente sulle orme dei gesuiti. Come dice papa Giovanni Paolo II: “Se la fede non diventa cultura, la fede è destinata a terminare”. All’interno delle riduzioni c’era un nuovo sistema di proprietà, di economia, di architettura, di urbanistica, avevano portato gli ospedali in America Latina e persino la scuola elementare obbligatoria, la donna incinta era tutelata e anche i lavoratori. Qual è stata la ragione della distruzione delle riduzioni? Prima di tutto siamo nell’epoca dei regimi autoritari, della monarchia assoluta che non poteva accettare quello che si contrapponeva al progetto politico dei Borbone. Non dimentichiamo che la crisi è iniziata con il regno dei Borbone che trattavano l’America Latina come una sorta di loro giardino. Mentre tutti gli altri dovevano importare dall’Europa, l’opera gesuitica aveva raggiunto il suo massimo splendore. Producevano dieci volte più di quello che mangiavano, quindi esportavano e avevano flotte mercantili. Per cui alcuni gruppi organizzati, non potendo sopportare quello che si era generato dalla fede, avevano atteso l’occasione giusta e cercato la motivazione per eliminarli, e l’accusa più grande era stata quella di aver cercato di creare una monarchia. Quindi è stato proprio questo a portare alla distruzione delle riduzioni: il non accettare che la fede diventasse la forma di civiltà.
Anche la leggenda nera delle conversioni forzate degli indios si colloca in questo contesto?
Mi domando come avrebbero potuto dei missionari, un sacerdote e dei fratelli laici tenere in piedi un territorio più grande della Francia se quegli indios fossero stati obbligati? Come avrebbero potuto degli indios convertiti forzatamente esprimere quell’arte, quell’architettura, quella pittura, quelle sculture cui perfino Voltaire, Chateaubriand, Montesquieu hanno dovuto inginocchiarvisi davanti? A volte l’ideologia impedisce di vedere la realtà. All’interno delle riduzioni non tutti erano battezzati: i gesuiti facevano una battaglia contro gli altri evangelizzatori, non si dovevano battezzare gli indios se non ne erano coscienti. Quindi si pretendeva una coscienza di quello che era l’avvenimento cristiano, almeno nelle linee essenziali.
Mi domando come avrebbero potuto dei missionari, un sacerdote e dei fratelli laici tenere in piedi un territorio più grande della Francia se quegli indios fossero stati obbligati? Come avrebbero potuto degli indios convertiti forzatamente esprimere quell’arte, quell’architettura, quella pittura, quelle sculture cui perfino Voltaire, Chateaubriand, Montesquieu hanno dovuto inginocchiarvisi davanti? A volte l’ideologia impedisce di vedere la realtà. All’interno delle riduzioni non tutti erano battezzati: i gesuiti facevano una battaglia contro gli altri evangelizzatori, non si dovevano battezzare gli indios se non ne erano coscienti. Quindi si pretendeva una coscienza di quello che era l’avvenimento cristiano, almeno nelle linee essenziali.
Che
differenza c’è tra come tu accogli i malati nella tua clinica e come i
padri gesuiti accoglievano gli indios nelle riduzioni?
I gesuiti accoglievano gli ammalati come accoglievano Cristo. Io faccio lo stesso. È impressionante leggere i diari dei gesuiti del tempo da cui trapela la passione per la gloria di Cristo. Era gente innamorata di Cristo e a loro non importava fare strutture, esse crescevano perché cresceva la coscienza di Dio come colui che fa la realtà. Per me e la mia opera è la stessa cosa, nasce dalla stessa coscienza. D’altra parte come avrebbe potuto un indio, che è fatalista e a cui non importa niente del lavoro, fare quelle opere d’arte se non ci fosse stata una passione grande, immensa per Cristo? Sarebbe stato impossibile. A parte il progetto della riduzione di Sant’Ignacio Guazú, tutti gli altri progetti li aveva fatti San Rocco González nel momento in cui era tormentato da una profonda depressione. E lui diceva: “in questo tormento in cui sono vissuto psicologicamente, la certezza di patire ancora per la compagnia di Gesù e Cristo sono le uniche forze che mi permettono di andare avanti”. Io sono stato nelle stesse sue condizioni, ma con dei supporti umani enormi. Rocco Gonzalez era solo e affidato nella realtà con questa coscienza e ha dato inizio a tutte le riduzioni. Per questo dobbiamo tornare a quel punto lì.
I gesuiti accoglievano gli ammalati come accoglievano Cristo. Io faccio lo stesso. È impressionante leggere i diari dei gesuiti del tempo da cui trapela la passione per la gloria di Cristo. Era gente innamorata di Cristo e a loro non importava fare strutture, esse crescevano perché cresceva la coscienza di Dio come colui che fa la realtà. Per me e la mia opera è la stessa cosa, nasce dalla stessa coscienza. D’altra parte come avrebbe potuto un indio, che è fatalista e a cui non importa niente del lavoro, fare quelle opere d’arte se non ci fosse stata una passione grande, immensa per Cristo? Sarebbe stato impossibile. A parte il progetto della riduzione di Sant’Ignacio Guazú, tutti gli altri progetti li aveva fatti San Rocco González nel momento in cui era tormentato da una profonda depressione. E lui diceva: “in questo tormento in cui sono vissuto psicologicamente, la certezza di patire ancora per la compagnia di Gesù e Cristo sono le uniche forze che mi permettono di andare avanti”. Io sono stato nelle stesse sue condizioni, ma con dei supporti umani enormi. Rocco Gonzalez era solo e affidato nella realtà con questa coscienza e ha dato inizio a tutte le riduzioni. Per questo dobbiamo tornare a quel punto lì.
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tratto da Fraternità San Carlo
Postato da: giacabi a 21:15 |
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padre trento, reduciones
L'opera di Padre Aldo
L'opera di Padre Aldo
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Postato da: giacabi a 15:49 |
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padre trento
Te Deum da padre Aldo
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“Canterò eternamente la Tua misericordia, oh Signore”.
Guardando quest’anno che mi è stato donato, come tutti i 64 anni che appartengono già alla mia storia, una storia piena di miserie, di fragilità e di grazia, queste parole del salmista escono, quasi come un singhiozzo di allegria, dal mio cuore.
Quando mi ordinarono sacerdote, guardando la mia debolezza, la mia disubbidienza, la mia incapacità intellettuale, misi nel santino, ricordo, la frase di San Francesco di Assisi: "Accettami come sono e fammi come vuoi."
Quando compii i 25 anni di sacerdozio quasi 15 anni fa, lasciai agli amici come ricordo: "Canterò eternamente la Tua misericordia, Signore"
Che cosa c’è di più commovente, di più umano, alla fine di ogni anno, come di ogni giorno, riconoscere che la misericordia del Signore non solo è eterna, ma forma la ragione stessa del mio essere, del mio esistere! Che cosa ci può essere di più bello alla fine di questo anno, pieno di fragilità, di miserie, che il poter riconoscere come San Paolo "Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia!" Che grazia, Dio mio, riconoscere che sono peccatore, riconoscere che ti facesti, Dio mio, uomo grazie ai miei peccati; riconoscere che se io fossi stato un essere coerente, perfetto, onesto, buono, carico di valori, Tu, oh Dio mio, non ti saresti fatto carne per me e per i miei fratelli peccatori!
Che stupore, Signore, vederti scendere dal cielo e prendere la mia carne, il mio sangue, i miei peccati, per mostrarmi quanto io sia peccatore ai tuoi occhi, quanto grande è la Tua stima per me, perché io sono Tuo, come ci ricorda il profeta Isaia! Che dolore Oh Gesù, mi provocano quegli uomini che per eliminarti della propria storia, si affannano a costruire sistemi perfetti per annullare la Tua presenza nel mondo dei peccatori!
Che angoscia, oh Gesù, provo giorno dopo giorno, quando i miei fratelli, perfino sacerdoti come me, preoccupati di proporre una morale, un'etica, un compromesso sociale, convinti che questo è il cristianesimo, dimenticano che il cristianesimo sei Tu, oh Gesù, presente oggi tra e con noi!
Perché, oh Gesù, abbiamo vergogna di Te, la Chiesa ha vergogna di Te? Perché, oh Gesù, non prendiamo sul serio le reiterate parole del Santo Padre che invitano alla conversione, conversione che significa dire “Tu oh Cristo mio”?
Perché, come abbiamo ascoltato in questi giorni dalla bocca di chi "governa" questo paese, non riconosciamo che non stiamo ormai nell'Antico Testamento aspettando il Messia, il mondo nuovo, ma che il mondo nuovo è un fatto, un Presente? Perché non riconoscere la Tua Presenza che agisce oggi nella Chiesa, casta meretrice, nei tratti di migliaia e migliaia di persone che sono il segno vivo della Tua Presenza?
La cristianità non è qualcosa che comincia ora, come ideologicamente afferma una certa teologia della liberazione nel nostro paese perché finalmente ha raggiunto il potere, ma da 2000 anni è un Fatto Presente.
Il bambino non deve nascere, è nato, nasce ogni momento nella santità di chi ti riconosce, oh Cristo, come la ragione ultima della vita, il fine ultimo dell'esistenza.
Per questo motivo in questo fine d’anno il mio cuore e quello di molti amici, gli amici di Gesù, come definisce il Papa i cristiani, vogliamo ringraziarti perché a causa dei nostri peccati ti sei fatto carne per me e per ogni uomo.
Oh Gesù, ti prego affinché finisca in me ed in tutti lo scandalo per le nostre miserie, finisca in noi la mania dei valori, l'orgoglio di essere i primi della classe e di essere i protagonisti, senza Te, dell'utopia di un mondo migliore.
Oh Gesù, ti prego affinché la Tua grazia mi illumini, ci illumini per prendere coscienza che l'ideale per il quale vivere non è la coerenza ma l'appartenenza a Te, come un bambino appartiene ai suoi genitori e in questo modo cresce felice.
Questo anno è stato grande perché grande è stata l'esperienza della Tua infinita misericordia che nella confessione settimanale o più volte nella settimana, diventò palpabile, visibile, riempiendomi di gioia.
Signore "Io non sono degno che Tu entri nella mia casa, ma basta una tua parola e la mia anima sarà guarita."
Per questo motivo le parole che più mi hanno commosso durante quest’anno sono state quelle del sacerdote che spesso tracciando su me il segno della croce mi diceva: "Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Amen." “Te Deum laudámus: te Dóminum confitémur… In te, Dómine, sperávi: non confúndar in ætérnum”.
Guardando quest’anno che mi è stato donato, come tutti i 64 anni che appartengono già alla mia storia, una storia piena di miserie, di fragilità e di grazia, queste parole del salmista escono, quasi come un singhiozzo di allegria, dal mio cuore.
Quando mi ordinarono sacerdote, guardando la mia debolezza, la mia disubbidienza, la mia incapacità intellettuale, misi nel santino, ricordo, la frase di San Francesco di Assisi: "Accettami come sono e fammi come vuoi."
Quando compii i 25 anni di sacerdozio quasi 15 anni fa, lasciai agli amici come ricordo: "Canterò eternamente la Tua misericordia, Signore"
Che cosa c’è di più commovente, di più umano, alla fine di ogni anno, come di ogni giorno, riconoscere che la misericordia del Signore non solo è eterna, ma forma la ragione stessa del mio essere, del mio esistere! Che cosa ci può essere di più bello alla fine di questo anno, pieno di fragilità, di miserie, che il poter riconoscere come San Paolo "Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia!" Che grazia, Dio mio, riconoscere che sono peccatore, riconoscere che ti facesti, Dio mio, uomo grazie ai miei peccati; riconoscere che se io fossi stato un essere coerente, perfetto, onesto, buono, carico di valori, Tu, oh Dio mio, non ti saresti fatto carne per me e per i miei fratelli peccatori!
Che stupore, Signore, vederti scendere dal cielo e prendere la mia carne, il mio sangue, i miei peccati, per mostrarmi quanto io sia peccatore ai tuoi occhi, quanto grande è la Tua stima per me, perché io sono Tuo, come ci ricorda il profeta Isaia! Che dolore Oh Gesù, mi provocano quegli uomini che per eliminarti della propria storia, si affannano a costruire sistemi perfetti per annullare la Tua presenza nel mondo dei peccatori!
Che angoscia, oh Gesù, provo giorno dopo giorno, quando i miei fratelli, perfino sacerdoti come me, preoccupati di proporre una morale, un'etica, un compromesso sociale, convinti che questo è il cristianesimo, dimenticano che il cristianesimo sei Tu, oh Gesù, presente oggi tra e con noi!
Perché, oh Gesù, abbiamo vergogna di Te, la Chiesa ha vergogna di Te? Perché, oh Gesù, non prendiamo sul serio le reiterate parole del Santo Padre che invitano alla conversione, conversione che significa dire “Tu oh Cristo mio”?
Perché, come abbiamo ascoltato in questi giorni dalla bocca di chi "governa" questo paese, non riconosciamo che non stiamo ormai nell'Antico Testamento aspettando il Messia, il mondo nuovo, ma che il mondo nuovo è un fatto, un Presente? Perché non riconoscere la Tua Presenza che agisce oggi nella Chiesa, casta meretrice, nei tratti di migliaia e migliaia di persone che sono il segno vivo della Tua Presenza?
La cristianità non è qualcosa che comincia ora, come ideologicamente afferma una certa teologia della liberazione nel nostro paese perché finalmente ha raggiunto il potere, ma da 2000 anni è un Fatto Presente.
Il bambino non deve nascere, è nato, nasce ogni momento nella santità di chi ti riconosce, oh Cristo, come la ragione ultima della vita, il fine ultimo dell'esistenza.
Per questo motivo in questo fine d’anno il mio cuore e quello di molti amici, gli amici di Gesù, come definisce il Papa i cristiani, vogliamo ringraziarti perché a causa dei nostri peccati ti sei fatto carne per me e per ogni uomo.
Oh Gesù, ti prego affinché finisca in me ed in tutti lo scandalo per le nostre miserie, finisca in noi la mania dei valori, l'orgoglio di essere i primi della classe e di essere i protagonisti, senza Te, dell'utopia di un mondo migliore.
Oh Gesù, ti prego affinché la Tua grazia mi illumini, ci illumini per prendere coscienza che l'ideale per il quale vivere non è la coerenza ma l'appartenenza a Te, come un bambino appartiene ai suoi genitori e in questo modo cresce felice.
Questo anno è stato grande perché grande è stata l'esperienza della Tua infinita misericordia che nella confessione settimanale o più volte nella settimana, diventò palpabile, visibile, riempiendomi di gioia.
Signore "Io non sono degno che Tu entri nella mia casa, ma basta una tua parola e la mia anima sarà guarita."
Per questo motivo le parole che più mi hanno commosso durante quest’anno sono state quelle del sacerdote che spesso tracciando su me il segno della croce mi diceva: "Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Amen." “Te Deum laudámus: te Dóminum confitémur… In te, Dómine, sperávi: non confúndar in ætérnum”.
Postato da: graciete
Postato da: giacabi a 09:10 |
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padre trento
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Solo se siamo amati
di Aldo Trento
Possiamo non scappare dalla realtà
Il problema della droga colpisce non solo l’Europa, ma anche il Paraguay. Per questo, dopo aver letto un editoriale del quotidiano Ultima Hora del mio paese, dal titolo “Senza la promozione umana, le droghe continueranno a causare gravi danni ai giovani”, sento la necessità di prendere sul serio questa provocazione.
In questo articolo si afferma che, secondo Senad (Segreteria Nazionale antidroga), quest’anno il consumo di droga tra i giovani è tre volte superiore rispetto allo scorso anno. I destinatari in genere sono giovani poveri materialmente, ma soprattutto spiritualmente. Non hanno né speranza né opportunità e, attraverso la droga, cercano l’evasione dal mondo. Il giornalista conclude che, per combattere questo fenomeno, non bisogna solo perseguire gli spacciatori, ma piuttosto, il governo dovrebbe cercare di istituire, nelle aree più povere del paese, programmi sociali guidati da genitori, educatori, Chiesa, Club o partiti politici, al fine di aiutare i ragazzi a sentirsi utili e accettati dai loro coetanei, in modo che possano uscire dal tunnel della droga.
A mio parere, questo piano sociale convince molto teoricamente, ma è del tutto ideologico. Cos’è l’ideologia? Cercare di applicare il tuo pensiero alla realtà, ma lasciando da parte un piccolo dettaglio: che per quanto sia moralmente giusto, non la rispecchia, non parte dalla realtà stessa, né dai fattori racchiusi in essa, ma da una pura astrazione.
Il vero punto di partenza, la vera domanda da cui partire è: perché i giovani si drogano? È un fenomeno che non ha a che vedere soltanto con il Paraguay, ma col mondo intero. In Europa, più che i poveri (che non possono permettersi la droga a causa dei costi ancora troppo elevati) sono per la maggior parte i figli dei ricchi quelli che cadono in questa dipendenza. Allora il problema non è solo l’emarginazione o la povertà materiale, ma (come un po’ l’autore di questo articolo ha intuito) il problema è anche e soprattutto spirituale.
Allora ripongo la mia domanda: perché i giovani si drogano? Parto dalla testimonianza di un ragazzo che vive nella nostra comunità, nel tentativo di guarire da una grave depressione che lo ha colpito.
padretrento@rieder.net.py
Non ho mai preso droghe, ma la chiesi più di una volta (in un periodo difficile della mia vita, quando avevo appena 15 anni) a un mio compagno spacciatore, fortunatamente senza riuscirci. Cosa mi portava a chiederla? Volevo sopprimere questa insoddisfazione, questo desiderio di felicità che ognuno si trova dentro. Perché non trovavo una possibilità che mi corrispondesse tra ciò che avevo nel cuore e le proposte degli adulti. Cresceva in me sempre di più la noia, la ribellione e ripetevo a me stesso: «Non basta, non basta. Quello che dici non basta, non mi interessa». Tutti predicavano un cammino fatto di regole, moralmente giustissimo per raggiungere una posizione di benessere sociale e spirituale, ma mancava qualcosa. Come dice Julián Carrón, successore di don Giussani: «Manca l’umano». Manca una proposta umana, mancano educatori, genitori che guidino i giovani a non censurare il grido di infinito del proprio cuore, e la propria umanità. Una mia amica, Giorgia, è proprio un esempio drammatico di quello che voglio dire. Figlia di un imprenditore e un direttore di banca. Una ragazza delle capacità economiche davvero infinite. Si drogava dall’età di 14 anni, solo per un periodo di circa tre mesi è riuscita a non drogarsi. L’anno scorso, aveva iniziato a studiare con me e un’altra ragazza della sua classe. In quel periodo aveva incontrato alcuni dei miei insegnanti, che negli ultimi anni di scuola superiore sono stati “i miei salvatori”. Lei, come me, era rimasta affascinata. La ricerca di felicità continua non era vista come un capriccio infantile (“hai tutto, di cosa ti lamenti?”) e la tristezza che sentiva non era vissuta come una preoccupazione. I suoi genitori si erano rivolti a uno psicologo ignari che il carattere di Giorgia non si poteva correggere con un manuale di comportamento. Tutto era visto con una positività che solo l’incontro con Cristo poteva dare. Si sentiva amata fino all’ultimo dei suoi capelli. Continuava a cercarci, ci chiedeva costantemente di vederci, di studiare insieme, di parlare con la mia professoressa e di partecipare alla scuola di comunità con tutti noi. A un certo punto, con molta soddisfazione, ci ha informati che era arrivata a fumare solo sigarette. Cosa era successo? Si sentiva abbracciata e sentiva la sua domanda presa sul serio. In seguito ricadde nel tunnel della droga a causa dei pregiudizi di alcuni suoi compagni di scuola che la giudicavano per i comportamenti che intratteneva con il proprio ragazzo. Allora, qual è il modo migliore per sconfiggere il problema dell’uso delle droghe e della fuga dalla realtà? Come diceva questa mattina padre Aldo camminando per la clinica: «Il nostro compito di cristiani è vivere intensamente tutta la realtà, perché gli altri attraverso di noi possano incontrare Cristo, e non basare la propria vita su regole moralistiche».
María Matínez
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Possiamo non scappare dalla realtà
Il problema della droga colpisce non solo l’Europa, ma anche il Paraguay. Per questo, dopo aver letto un editoriale del quotidiano Ultima Hora del mio paese, dal titolo “Senza la promozione umana, le droghe continueranno a causare gravi danni ai giovani”, sento la necessità di prendere sul serio questa provocazione.
In questo articolo si afferma che, secondo Senad (Segreteria Nazionale antidroga), quest’anno il consumo di droga tra i giovani è tre volte superiore rispetto allo scorso anno. I destinatari in genere sono giovani poveri materialmente, ma soprattutto spiritualmente. Non hanno né speranza né opportunità e, attraverso la droga, cercano l’evasione dal mondo. Il giornalista conclude che, per combattere questo fenomeno, non bisogna solo perseguire gli spacciatori, ma piuttosto, il governo dovrebbe cercare di istituire, nelle aree più povere del paese, programmi sociali guidati da genitori, educatori, Chiesa, Club o partiti politici, al fine di aiutare i ragazzi a sentirsi utili e accettati dai loro coetanei, in modo che possano uscire dal tunnel della droga.
A mio parere, questo piano sociale convince molto teoricamente, ma è del tutto ideologico. Cos’è l’ideologia? Cercare di applicare il tuo pensiero alla realtà, ma lasciando da parte un piccolo dettaglio: che per quanto sia moralmente giusto, non la rispecchia, non parte dalla realtà stessa, né dai fattori racchiusi in essa, ma da una pura astrazione.
Il vero punto di partenza, la vera domanda da cui partire è: perché i giovani si drogano? È un fenomeno che non ha a che vedere soltanto con il Paraguay, ma col mondo intero. In Europa, più che i poveri (che non possono permettersi la droga a causa dei costi ancora troppo elevati) sono per la maggior parte i figli dei ricchi quelli che cadono in questa dipendenza. Allora il problema non è solo l’emarginazione o la povertà materiale, ma (come un po’ l’autore di questo articolo ha intuito) il problema è anche e soprattutto spirituale.
Allora ripongo la mia domanda: perché i giovani si drogano? Parto dalla testimonianza di un ragazzo che vive nella nostra comunità, nel tentativo di guarire da una grave depressione che lo ha colpito.
padretrento@rieder.net.py
Non ho mai preso droghe, ma la chiesi più di una volta (in un periodo difficile della mia vita, quando avevo appena 15 anni) a un mio compagno spacciatore, fortunatamente senza riuscirci. Cosa mi portava a chiederla? Volevo sopprimere questa insoddisfazione, questo desiderio di felicità che ognuno si trova dentro. Perché non trovavo una possibilità che mi corrispondesse tra ciò che avevo nel cuore e le proposte degli adulti. Cresceva in me sempre di più la noia, la ribellione e ripetevo a me stesso: «Non basta, non basta. Quello che dici non basta, non mi interessa». Tutti predicavano un cammino fatto di regole, moralmente giustissimo per raggiungere una posizione di benessere sociale e spirituale, ma mancava qualcosa. Come dice Julián Carrón, successore di don Giussani: «Manca l’umano». Manca una proposta umana, mancano educatori, genitori che guidino i giovani a non censurare il grido di infinito del proprio cuore, e la propria umanità. Una mia amica, Giorgia, è proprio un esempio drammatico di quello che voglio dire. Figlia di un imprenditore e un direttore di banca. Una ragazza delle capacità economiche davvero infinite. Si drogava dall’età di 14 anni, solo per un periodo di circa tre mesi è riuscita a non drogarsi. L’anno scorso, aveva iniziato a studiare con me e un’altra ragazza della sua classe. In quel periodo aveva incontrato alcuni dei miei insegnanti, che negli ultimi anni di scuola superiore sono stati “i miei salvatori”. Lei, come me, era rimasta affascinata. La ricerca di felicità continua non era vista come un capriccio infantile (“hai tutto, di cosa ti lamenti?”) e la tristezza che sentiva non era vissuta come una preoccupazione. I suoi genitori si erano rivolti a uno psicologo ignari che il carattere di Giorgia non si poteva correggere con un manuale di comportamento. Tutto era visto con una positività che solo l’incontro con Cristo poteva dare. Si sentiva amata fino all’ultimo dei suoi capelli. Continuava a cercarci, ci chiedeva costantemente di vederci, di studiare insieme, di parlare con la mia professoressa e di partecipare alla scuola di comunità con tutti noi. A un certo punto, con molta soddisfazione, ci ha informati che era arrivata a fumare solo sigarette. Cosa era successo? Si sentiva abbracciata e sentiva la sua domanda presa sul serio. In seguito ricadde nel tunnel della droga a causa dei pregiudizi di alcuni suoi compagni di scuola che la giudicavano per i comportamenti che intratteneva con il proprio ragazzo. Allora, qual è il modo migliore per sconfiggere il problema dell’uso delle droghe e della fuga dalla realtà? Come diceva questa mattina padre Aldo camminando per la clinica: «Il nostro compito di cristiani è vivere intensamente tutta la realtà, perché gli altri attraverso di noi possano incontrare Cristo, e non basare la propria vita su regole moralistiche».
María Matínez
Postato da: giacabi a 06:01 |
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senso religioso, padre trento, amore
Amico,
per amare non ti basta un bel sentimento
per amare non ti basta un bel sentimento
di Aldo Trento
Carissimo Padre Aldo, mi sono deciso a scriverti queste povere righe incasinate perché sono certo che tu potrai aiutarmi a guardare bene in viso questo pezzo di tempo che ora sto vivendo e a decifrare i segni che il Mistero pone sul mio cammino e che da solo non riesco a fare. Alcuni anni fa, far parte del movimento ecclesiale a cui appartengo, per me, era solo una routine da tenere in un angolo, perché la mia vita vera era altrove, io ero un uomo diviso, vivevo due vite parallele. Accadde, però, che ad un certo punto la mia responsabile, una donna (anche lei sposata) iniziò a guardarmi e a trattarmi come nessuno mai mi aveva guardato prima. Mi sono innamorato di lei e lei di me. La mia vita da quel momento è riesplosa, tutto è rinato, tutto, persino il rapporto con mia moglie, il rapporto con il lavoro, con i soldi, il significato di essere nel movimento; in una parola l’amore e la stima verso me stesso. Iniziai drammaticamente e lentamente ad essere un uomo unito. Questo amore è stato sempre trasparente, anche se con fatica e lavoro, si è mantenuto bello, puro e semplice. Ora accade da un po’ di tempo, da circa un anno e mezzo, che improvvisamente è come se non ci si comprendesse più. I giudizi che davamo sulla realtà e che ci univano, è come se ora ci allontanassero. Ho come vissuto all’improvviso un essere abbandonato senza comprendere il perché. La forma dei rapporti cambia, ne sono consapevole, ma il contenuto e la “paternità” di questo rapporto come può cessare così? Com’è possibile che accada questo? Ti assicuro che non sono attaccato a un ricordo, a un’immagine, né faccio del vittimismo, anzi io desidero vivere questo rapporto e seguire adesso, seguire lei nella sua esperienza. E non è neppure una questione di pretesa nei suoi confronti. È come se nel suo sguardo non ci fosse più quello stupore di cogliere il fatto che io ci sia. Questo mi crea dolore e disagio, là dove prima era condivisione. Tutto ciò non è un ostacolo al lavoro su di me che questo movimento mi invita a fare, non significa dire: “Allora non è vero niente”. Perché io l’ho visto il Mistero in azione, ne ho fatto esperienza e ne faccio esperienza tutti i giorni nella mia debolezza e nel mio tradimento reale. Scusami se sono stato magari confuso, ti chiedo un aiuto in questo lavoro.
Lettera firmata
Caro amico, è la “classica” storia di due persone di fede, ambedue già impegnate in una vocazione precisa, che improvvisamente si innamorano. All’inizio tutto è affascinante e direi quasi una gara per amare sempre di più Cristo. Per cui quanto dici è verissimo.
E chissà quanti fra noi hanno sperimentato questa bellezza. In realtà succede anche a noi grandi quanto succede agli adolescenti il giorno in cui perdono la testa per una ragazza. È come se una novità carica di bellezza entrasse nell’io, spalancandolo a 360 gradi. Tutto cambia, le cose acquistano un colore e un sapore diversi, perfino l’impegno con lo studio o il lavoro diventa gioioso. Ma si tratta sempre di un innamoramento e quindi di un inizio che, mediante un lungo cammino educativo, deve lasciare nel tempo lo spazio all’amore. L’innamoramento è come un gancio a cui uno si afferra, è come la pupilla dell’occhio che avvicina un oggetto e questo oggetto pieno di fascino risveglia in ognuno un’attrazione. È il colpo fatale da cui parte tutto. Ti immagini se non avessimo questa risorsa umana in noi? Nessuno si relazionerebbe con nessuno. Non ci si può sposare per “fede”, perché Dio lo vuole. Ricordo un ragazzo che ricattava una ragazza dicendole, anche se lei non era innamorata: «Niente succede per caso, per cui se Dio ci ha fatto incontrare, vuole dire che il Suo disegno su di noi è che ci sposiamo». Capisci perché sempre insisto sul fattore umano, come la condizione per scoprire il disegno di Dio? Viceversa quante stupidaggini o quante violenze abbiamo fatto e facciamo in nome della fede?
Era inevitabile che finisse così
Allora, tornando alla tua questione, la cosa è semplice. Quanto accaduto ha spalancato la tua vita e quella della tua innamorata a una novità molto bella, fino al punto che, come tu descrivi, è tornata la primavera nella vostra esistenza. Ambedue compagni appassionati nel vivere il destino della vita, ognuno nella rispettiva vocazione. A un certo punto, però, le cose non quadrano più. Lei ti lascia, segue il suo cammino, perfino ti guarda male, con indifferenza (è un gioco che piace molto a certe donne) e tu ti trovi col sedere per terra, demoralizzato, depresso e con un sacco di domande. E come un adolescente “non sai che pesci prendere”.
Amico, era inevitabile che terminasse così, perché il vostro “io” era determinato non dalla vostra vocazione, cioè da un rapporto totale con Cristo, andavate anche a Messa assieme, facevate un sacco di opere buone, tutto quello che volete, e in nome di Cristo. Ma Cristo non ha penetrato la crosta dell’io. Per cui nel tempo, come la realtà, grande amica, ci insegna, tutto è crollato. La vostra vocazione, essendo entrambi definitivamente impegnati, ha ricevuto uno scossone positivo, risvegliando la domanda di Cristo, però in realtà ciò che ha dominato la vostra vita è stato quel sentimento, che come ogni sentimento prima o poi cambia, stanca, termina. Il sentimento è il punto di partenza, però se non diventa un giudizio, mai si trasformerà in amore, in una passione per il destino ultimo della vita. È l’amore che muove la vita, dandole consistenza, ma l’amore è frutto di un giudizio e il giudizio è sempre l’esito del riconoscimento del valore che una persona ha, cioè della coscienza del suo destino ultimo.
Come mi ha insegnato don Luigi Giussani, tanto il sentimento come la ragione sono i fattori costitutivi dell’io. Non esiste l’io umano censurando l’uno o esaltando l’altro. Il sentimento è come il cristallino dell’occhio, necessario per afferrare un oggetto e avvicinarlo alla persona, però è la ragione che permette all’io di dire: questa è una ragazza. È solo la ragione che permette di scoprire il valore nell’oggetto, attirato per il sentimento. E da questa scoperta, o giudizio, nasce l’amore.
Però, purtroppo, questo passa attraverso una battaglia, perché nell’io umano, per la questione del peccato originale, esiste una frattura fra i due fattori dell’io stesso. Una frattura che già il poeta romano Ovidio riconosceva quando scriveva: «Video meliora proboque,/ deteriora sequor». Vedo ciò che è migliore, lo approvo, ma seguo ciò che è peggiore. Per questo san Paolo, anche lui testimone di questa divisione, scrive: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?». La risposta è solo una: quell’Uomo che duemila anni fa ha detto: «Io sono il Cammino, la Verità e la Vita». Il Mistero si è fatto carne per ridonare la possibilità all’io di tornare a quella unità ontologica per cui, pieni del peccato, Adamo ed Eva, come scrive la Genesi «erano nudi» e non avevano vergogna.
La madre di tutte le divisioni
L’unità dell’io, cioè l’armonia fra istinto e ragione, era garantita dal rapporto costitutivo con il Mistero. Quando con il peccato originale l’uomo rompe con Dio, mettendosi in proprio, rendendosi indipendente, il primo contraccolpo nel suo essere umano è l’esperienza della divisione fra istinto e ragione. Motivo per cui i nostri primogenitori, pieni di vergogna, rendendosi conto di essere nudi, andarono a nascondersi agli occhi di Dio, coprendosi con alcune foglie. Una divisione che ebbe subito altre conseguenze: le divisioni delle coppie, Adamo che colpevolizza Eva, la divisione della famiglia, Caino che uccide Abele e infine la confusione di Babele.
Dio è la risposta a questa “schizofrenia” dell’io, motivo per cui non solo tu, ma ognuno “tocca con mano” la propria miseria, sperimenta che anche i sogni e gli ideali più belli prima o poi decadono: grandi amori, grandi dolori, grandi simpatie, grandi antipatie. Perciò, amico mio, c’è un solo cammino che permette al tuo cuore di non essere fregato, che permette a un innamoramento non solo di non morire, ma di trasformarsi in amore, e che permette a un amore come quello che c’è con i rispettivi compagni di matrimonio di non cedere ai “sogni”. C’è solo un cammino che permette di passare dalla possessione dell’innamoramento alla libertà dell’amore che è gratuita: che accada l’incontro reale con Cristo.
Come il Miguel Mañara
Se il vostro “io” non è invertito alla radice dalla potente presenza di Cristo, quanto avete vissuto sarà ridotto a uno dei tanti scheletri che riempiranno il vostro armadio. E la cosa ancora peggiore è che censurerete la vostra umanità, il vostro grido, ritornando nel borghesismo di prima. Come dire: chiodo schiaccia chiodo. È il modo più cinico per chiudere la ferita che quanto accaduto fra voi ha aperto. Una ferita che, sì o sì, vi permetterebbe, se foste davvero mendicanti di Cristo, di andare al fondo a scoprire la bellezza del vostro matrimonio, come la modalità che Dio ha scelto per entrambi per dire potentemente “Tu” a Cristo. Ciò che manca, ciò che è venuto a mancare, è quello sguardo “inchiodato” sul volto di Cristo grazie al quale il vostro innamoramento sarebbe stato un’occasione grande per andare al cuore della vostra sete di felicità. Tu scrivi: «E non è neppure una questione di pretesa nei suoi confronti. È come se nel suo sguardo non ci fosse più quello stupore di cogliere il fatto che io ci sia». Amico, ogni favola, ogni sguardo, ogni atteggiamento che non vede l’io dominato dal “Tu” di Cristo è pretesa e la pretesa distrugge lo stupore. Dio voglia che tu capisca quanto accaduto a te, come già al Miguel Mañara, perché ti permetterà di capire che ciò che pensi di aver perduto, in realtà, lo hai ritrovato.
Se posso, aggiungo una cosa: chiedi allo Spirito Santo che diventi come quanto Giussani dice nel suo libro Si può vivere così?, laddove commenta l’affermazione di san Paolo: «Quando sono debole, sono forte per Cristo».
padretrento@rieder.net.py
Carissimo Padre Aldo, mi sono deciso a scriverti queste povere righe incasinate perché sono certo che tu potrai aiutarmi a guardare bene in viso questo pezzo di tempo che ora sto vivendo e a decifrare i segni che il Mistero pone sul mio cammino e che da solo non riesco a fare. Alcuni anni fa, far parte del movimento ecclesiale a cui appartengo, per me, era solo una routine da tenere in un angolo, perché la mia vita vera era altrove, io ero un uomo diviso, vivevo due vite parallele. Accadde, però, che ad un certo punto la mia responsabile, una donna (anche lei sposata) iniziò a guardarmi e a trattarmi come nessuno mai mi aveva guardato prima. Mi sono innamorato di lei e lei di me. La mia vita da quel momento è riesplosa, tutto è rinato, tutto, persino il rapporto con mia moglie, il rapporto con il lavoro, con i soldi, il significato di essere nel movimento; in una parola l’amore e la stima verso me stesso. Iniziai drammaticamente e lentamente ad essere un uomo unito. Questo amore è stato sempre trasparente, anche se con fatica e lavoro, si è mantenuto bello, puro e semplice. Ora accade da un po’ di tempo, da circa un anno e mezzo, che improvvisamente è come se non ci si comprendesse più. I giudizi che davamo sulla realtà e che ci univano, è come se ora ci allontanassero. Ho come vissuto all’improvviso un essere abbandonato senza comprendere il perché. La forma dei rapporti cambia, ne sono consapevole, ma il contenuto e la “paternità” di questo rapporto come può cessare così? Com’è possibile che accada questo? Ti assicuro che non sono attaccato a un ricordo, a un’immagine, né faccio del vittimismo, anzi io desidero vivere questo rapporto e seguire adesso, seguire lei nella sua esperienza. E non è neppure una questione di pretesa nei suoi confronti. È come se nel suo sguardo non ci fosse più quello stupore di cogliere il fatto che io ci sia. Questo mi crea dolore e disagio, là dove prima era condivisione. Tutto ciò non è un ostacolo al lavoro su di me che questo movimento mi invita a fare, non significa dire: “Allora non è vero niente”. Perché io l’ho visto il Mistero in azione, ne ho fatto esperienza e ne faccio esperienza tutti i giorni nella mia debolezza e nel mio tradimento reale. Scusami se sono stato magari confuso, ti chiedo un aiuto in questo lavoro.
Lettera firmata
Caro amico, è la “classica” storia di due persone di fede, ambedue già impegnate in una vocazione precisa, che improvvisamente si innamorano. All’inizio tutto è affascinante e direi quasi una gara per amare sempre di più Cristo. Per cui quanto dici è verissimo.
E chissà quanti fra noi hanno sperimentato questa bellezza. In realtà succede anche a noi grandi quanto succede agli adolescenti il giorno in cui perdono la testa per una ragazza. È come se una novità carica di bellezza entrasse nell’io, spalancandolo a 360 gradi. Tutto cambia, le cose acquistano un colore e un sapore diversi, perfino l’impegno con lo studio o il lavoro diventa gioioso. Ma si tratta sempre di un innamoramento e quindi di un inizio che, mediante un lungo cammino educativo, deve lasciare nel tempo lo spazio all’amore. L’innamoramento è come un gancio a cui uno si afferra, è come la pupilla dell’occhio che avvicina un oggetto e questo oggetto pieno di fascino risveglia in ognuno un’attrazione. È il colpo fatale da cui parte tutto. Ti immagini se non avessimo questa risorsa umana in noi? Nessuno si relazionerebbe con nessuno. Non ci si può sposare per “fede”, perché Dio lo vuole. Ricordo un ragazzo che ricattava una ragazza dicendole, anche se lei non era innamorata: «Niente succede per caso, per cui se Dio ci ha fatto incontrare, vuole dire che il Suo disegno su di noi è che ci sposiamo». Capisci perché sempre insisto sul fattore umano, come la condizione per scoprire il disegno di Dio? Viceversa quante stupidaggini o quante violenze abbiamo fatto e facciamo in nome della fede?
Era inevitabile che finisse così
Allora, tornando alla tua questione, la cosa è semplice. Quanto accaduto ha spalancato la tua vita e quella della tua innamorata a una novità molto bella, fino al punto che, come tu descrivi, è tornata la primavera nella vostra esistenza. Ambedue compagni appassionati nel vivere il destino della vita, ognuno nella rispettiva vocazione. A un certo punto, però, le cose non quadrano più. Lei ti lascia, segue il suo cammino, perfino ti guarda male, con indifferenza (è un gioco che piace molto a certe donne) e tu ti trovi col sedere per terra, demoralizzato, depresso e con un sacco di domande. E come un adolescente “non sai che pesci prendere”.
Amico, era inevitabile che terminasse così, perché il vostro “io” era determinato non dalla vostra vocazione, cioè da un rapporto totale con Cristo, andavate anche a Messa assieme, facevate un sacco di opere buone, tutto quello che volete, e in nome di Cristo. Ma Cristo non ha penetrato la crosta dell’io. Per cui nel tempo, come la realtà, grande amica, ci insegna, tutto è crollato. La vostra vocazione, essendo entrambi definitivamente impegnati, ha ricevuto uno scossone positivo, risvegliando la domanda di Cristo, però in realtà ciò che ha dominato la vostra vita è stato quel sentimento, che come ogni sentimento prima o poi cambia, stanca, termina. Il sentimento è il punto di partenza, però se non diventa un giudizio, mai si trasformerà in amore, in una passione per il destino ultimo della vita. È l’amore che muove la vita, dandole consistenza, ma l’amore è frutto di un giudizio e il giudizio è sempre l’esito del riconoscimento del valore che una persona ha, cioè della coscienza del suo destino ultimo.
Come mi ha insegnato don Luigi Giussani, tanto il sentimento come la ragione sono i fattori costitutivi dell’io. Non esiste l’io umano censurando l’uno o esaltando l’altro. Il sentimento è come il cristallino dell’occhio, necessario per afferrare un oggetto e avvicinarlo alla persona, però è la ragione che permette all’io di dire: questa è una ragazza. È solo la ragione che permette di scoprire il valore nell’oggetto, attirato per il sentimento. E da questa scoperta, o giudizio, nasce l’amore.
Però, purtroppo, questo passa attraverso una battaglia, perché nell’io umano, per la questione del peccato originale, esiste una frattura fra i due fattori dell’io stesso. Una frattura che già il poeta romano Ovidio riconosceva quando scriveva: «Video meliora proboque,/ deteriora sequor». Vedo ciò che è migliore, lo approvo, ma seguo ciò che è peggiore. Per questo san Paolo, anche lui testimone di questa divisione, scrive: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?». La risposta è solo una: quell’Uomo che duemila anni fa ha detto: «Io sono il Cammino, la Verità e la Vita». Il Mistero si è fatto carne per ridonare la possibilità all’io di tornare a quella unità ontologica per cui, pieni del peccato, Adamo ed Eva, come scrive la Genesi «erano nudi» e non avevano vergogna.
La madre di tutte le divisioni
L’unità dell’io, cioè l’armonia fra istinto e ragione, era garantita dal rapporto costitutivo con il Mistero. Quando con il peccato originale l’uomo rompe con Dio, mettendosi in proprio, rendendosi indipendente, il primo contraccolpo nel suo essere umano è l’esperienza della divisione fra istinto e ragione. Motivo per cui i nostri primogenitori, pieni di vergogna, rendendosi conto di essere nudi, andarono a nascondersi agli occhi di Dio, coprendosi con alcune foglie. Una divisione che ebbe subito altre conseguenze: le divisioni delle coppie, Adamo che colpevolizza Eva, la divisione della famiglia, Caino che uccide Abele e infine la confusione di Babele.
Dio è la risposta a questa “schizofrenia” dell’io, motivo per cui non solo tu, ma ognuno “tocca con mano” la propria miseria, sperimenta che anche i sogni e gli ideali più belli prima o poi decadono: grandi amori, grandi dolori, grandi simpatie, grandi antipatie. Perciò, amico mio, c’è un solo cammino che permette al tuo cuore di non essere fregato, che permette a un innamoramento non solo di non morire, ma di trasformarsi in amore, e che permette a un amore come quello che c’è con i rispettivi compagni di matrimonio di non cedere ai “sogni”. C’è solo un cammino che permette di passare dalla possessione dell’innamoramento alla libertà dell’amore che è gratuita: che accada l’incontro reale con Cristo.
Come il Miguel Mañara
Se il vostro “io” non è invertito alla radice dalla potente presenza di Cristo, quanto avete vissuto sarà ridotto a uno dei tanti scheletri che riempiranno il vostro armadio. E la cosa ancora peggiore è che censurerete la vostra umanità, il vostro grido, ritornando nel borghesismo di prima. Come dire: chiodo schiaccia chiodo. È il modo più cinico per chiudere la ferita che quanto accaduto fra voi ha aperto. Una ferita che, sì o sì, vi permetterebbe, se foste davvero mendicanti di Cristo, di andare al fondo a scoprire la bellezza del vostro matrimonio, come la modalità che Dio ha scelto per entrambi per dire potentemente “Tu” a Cristo. Ciò che manca, ciò che è venuto a mancare, è quello sguardo “inchiodato” sul volto di Cristo grazie al quale il vostro innamoramento sarebbe stato un’occasione grande per andare al cuore della vostra sete di felicità. Tu scrivi: «E non è neppure una questione di pretesa nei suoi confronti. È come se nel suo sguardo non ci fosse più quello stupore di cogliere il fatto che io ci sia». Amico, ogni favola, ogni sguardo, ogni atteggiamento che non vede l’io dominato dal “Tu” di Cristo è pretesa e la pretesa distrugge lo stupore. Dio voglia che tu capisca quanto accaduto a te, come già al Miguel Mañara, perché ti permetterà di capire che ciò che pensi di aver perduto, in realtà, lo hai ritrovato.
Se posso, aggiungo una cosa: chiedi allo Spirito Santo che diventi come quanto Giussani dice nel suo libro Si può vivere così?, laddove commenta l’affermazione di san Paolo: «Quando sono debole, sono forte per Cristo».
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Postato da: giacabi a 07:58 |
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amicizia, padre trento
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Prima di pensare all’apologia,
dite un Salve Regina
di Aldo Trentodite un Salve Regina
In questo clima culturale definito da Benedetto XVI dittatura del conformismo, che scuote l’uomo fin nelle fibre più intime del suo essere, mi piacerebbe ripetere con voi, cari lettori, il Salve Regina
In questo clima culturale definito da Benedetto XVI dittatura del conformismo, che scuote l’uomo fin nelle fibre più intime del suo essere, mi piacerebbe ripetere con voi, cari lettori, il Salve Regina: «Madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, salve. A te ricorriamo, esuli figli di Eva; a te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime. Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi. E mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo Seno. O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!». Da secoli questo grido ha accompagnato il popolo cristiano, queste parole hanno costituito la sintesi della coscienza cristiana, per quanti riconoscono la propria natura ontologica debilitata, frustrata dal peccato, e che solo l’incontro con Cristo può riscattarci, e donarci una vita nuova.
Juliàn Carrón, durante la tempesta scatenata dai mass media contro la Chiesa, ha avuto la carità di inviare a tutti gli italiani, dalle pagine di Repubblica, una sfida che riflette in modo chiaro e contundente le parole del Santo Padre riguardo agli scandali che hanno colpito la Chiesa: «Feriti, torniamo a Cristo». Quando ho letto queste parole, si è risvegliata in me la coscienza della bellezza del Salve Regina. Credo che nessuna preghiera in questo momento sia tanto chiara, a livello di giudizio carico di speranza, di realismo umano e di misericordia, quanto le parole in onore della Vergine con cui le madri di tutto il mondo insegnano ai figli a pregare. Di certo quando eravamo bambini era difficile capire «esuli figli di Eva» e «in questa valle di lacrime», perché la vita di un ragazzo dei miei tempi era come una primavera, un luogo pieno di punti fermi e di certezze. È stata la vita a incaricarsi di mostrarmi poi la verità e il realismo di queste espressioni. Oggi mi ritrovo a piangere, mentre ripeto ciò che da piccolo mi era impossibile capire.
Come i discepoli di Emmaus
In questi giorni ho incontrato molti giovani, cattolici e non, persone che sostengono che la Chiesa, e noi che ne facciamo parte, fummo tutti concepiti senza peccato. Non solo, arrivano a dubitare della permanenza della Chiesa nel tempo e nello spazio, parlando di declino, come se si trattasse di un’istituzione qualsiasi, o portano avanti una forma isterica di apologia, nell’illusione di difendere e salvare la Chiesa usando mezzi umani. Persone che hanno la pretesa di “consolare” e “solidarizzare” con il Santo Padre, dimenticandosi che egli è il vicario di Cristo, che in lui opera potentemente la presenza dello Spirito Santo, che a lui Cristo ha conferito il potere, unico, di confermare i fratelli, vale a dire quanti credono in Cristo. In questo senso, è stato uno spettacolo ciò che è accaduto in Piazza San Pietro il giorno dell’Ascensione, quando circa 200 mila persone si sono strette attorno alla figura di Pietro, per sentirsi riconfermati nella loro fede, sostenuti nella fede, e per esprimere al tempo stesso la loro ferma speranza e fiducia e amore alla sua persona, con la granitica sicurezza della verità del cammino. Potremmo dire, senza ridurre l’Avvenimento, che più che il Santo Padre siamo stati noi a essere confortati, siamo stati noi a toccare con mano la vittoria di Cristo su qualsiasi perversione e malvagità. Per questo siamo tornati a casa come i discepoli di Emmaus, dicendo l’uno all’altro: non ci ardeva forse il cuore, mentre stavamo gomito a gomito a guardare e ascoltare per alcuni minuti la ferma, dolce voce del vicario di Cristo che ci ricorda quanto ci ha detto Carrón: «Feriti, torniamo a Cristo».
Il realismo dei santi
Siamo in una valle di lacrime, pieni di miserie e di dolore. Siamo tutti, in un modo o nell’altro, carnefici e vittime, ci alterniamo continuamente tra le due posizioni perché siamo «esuli figli di Eva». Però nessuno può negare che l’ultima parola sull’uomo non è il peccato, bensì la misericordia. «Orsù dunque, avvocata nostra, salvaci». Questo è il vero grido del peccatore, pedofilo, omosessuale, travestito, ladro, protagonista di qualsiasi immoralità, o di chi ha il cuore di pietra e non si commuove più, finché non gli cade un sasso sulla testa e si ri-capacita. Tutti siamo vittime potenziali di questi mali. Ricordiamo le parole di Gesù ai vecchiacci: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». E a cominciare dagli anziani (ai quali oggi potremmo aggiungere certi morbosi giornalisti) tutti se ne andarono, pieni di vergogna. Diceva Sant’Antonio del deserto che ciò che non gli era accaduto in molti anni di lunga e dura penitenza avrebbe potuto accadere in un secondo, se la misericordia divina non lo avesse, in ogni istante, sostenuto e confortato. Bellissima l’ironia di san Filippo Neri, quando prima di uscire di casa, ogni mattina, diceva: Signore proteggimi, perché se non mi proteggi stasera torno a casa in compagnia di una donna. Il realismo, lo spessore umano dei santi, non cessa mai di sorprenderci. Se io non sono un pedofilo è solo per pura grazia. Se vivo con gioia il mio celibato è solo per pura grazia. Se io morirò, come spero, con il cuore puro, è solo per pura grazia. Però una grazia che esige la mia piena libertà nel prendere sul serio il mio cuore con il suo desiderio di felicità, con il vivere intensamente la realtà come segno, come qualcosa che rimanda all’Infinito. Chi è il peccatore, pedofilo o meno? Colui che nella sua vita ha censurato o censura la realtà come segno, come un’eco che lo chiama, l’eco dell’Infinito, e si ferma alla superficie delle cose e riempie il suo cuore con l’apparenza, con l’illusione a cui riduciamo la realtà quando non è vissuta intensamente.
La Chiesa non ha bisogno di paladini
La Chiesa non ha bisogno di essere difesa, ma vissuta così com’è per natura, “casta meretrix”. Quando vogliamo difenderla, dimenticando la sua ontologia, meritiamo il rimprovero di Gesù a Pietro quando nel Getsemani sguainò la spada e tagliò l’orecchio di un impiegato del sommo sacerdote: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (Mt 26,52-53). Queste parole valgono per ciascuno di noi, perché la Chiesa non può allontanarsi dal cammino di morte e resurrezione del suo fondatore. Per questo noi, per quanto addolorati, feriti, carichi di sofferenze, coscienti dei nostri peccati, ma anche pieni di allegria, torniamo continuamente a Cristo, perché Lui ci ha detto: «Non abbiate paura, io ho vinto il mondo».
In questo clima di “terrore”, ciò che più mi addolora è la testimonianza negativa di molti cristiani, preti, religiosi, che alla domanda: “Quante volte ti sei confessato in un anno?” mi rispondono: “Molto poche”. E quindi a cosa servono tanti proclami se nemmeno noi preti viviamo più ciò che mia madre mi ha insegnato fin dalla prima confessione? «Figlio mio, che non passino otto giorni senza che tu ti sia confessato!». E in questo sempre le sono stato obbediente e per questo a sessantatré anni il mio cuore è allegro e segue nella dolce compagnia di Gesù, vibrando della sua Presenza, che mi permette in ogni momento di dire: “Tu, oh Cristo mio”. In questi tempi difficili, mi è venuta in mente spesso la canzone di un grande amico scomparso, Claudio Chieffo, La nuova Auschwitz. In una strofa canta queste parole: «Non è possibile essere come loro». Cioè non è possibile che nella nostra vita ci siano quelle depravazioni che caratterizzarono la vita di Hitler e dei suoi seguaci. È quello che tutti noi, borghesi vittime del nostro idealismo, abbiamo detto o pensato durante questi mesi davanti agli scandali avvenuti in seno alla Chiesa. Però Chieffo, prima di terminare la sua canzone, sostituisce la frase «non è possibile essere come loro» con un’altra, piena di realismo: «Non è difficile essere come loro». Un realismo commovente, che provoca in me la libertà di gridare: «Signore, abbi pietà di me che sono un peccatore». Senza Cristo non esiste niente che ci permetta di guardare noi stessi, di guardare al presente e al futuro con questa sicurezza e ironia.
«Senza di me non potete fare niente», dice Gesù. Niente è niente, non è qualcosa. Per questo non esiste posizione più umana di colui che alzandosi ogni giorno si mette in ginocchio e grida: “Io sono Tu che mi fai, Tu, oh Cristo mio”.
«Signore fai presto a soccorrermi»
Quando guardo alla mia vita con il suo carico di miserie, alle migliaia di stupidaggini che mi girano per la testa, quando vedo la “pazza della casa”, come santa Teresa chiamava la fantasia, portarmi di qua e di là, o quando solo tocco con mano il nulla che sono e ciò che potrebbe accadere nella mia vita se la mia libertà si distraesse un istante dal dire “Tu, oh Cristo mio”, percepisco con intensità che tutta la consistenza del mio io è frutto di questo Tu che sempre più è diventato un modo di guardare me stesso, di guardare tutto e tutti. Siamo un niente che solo riconoscendo Cristo diventa cosciente di essere un niente divino. Un niente che trova la sua consistenza nel grido: «Signore, fai presto a soccorrermi».
Se il Salve Regina trovasse un po’ più di attenzione nella nostra vita quotidiana, l’esistenza sarebbe più umana, più bella. E il nostro cuore si trasformerebbe in un dono di sé commosso nei confronti di coloro che incontriamo lungo il nostro quotidiano cammino.
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Postato da: giacabi a 08:31 |
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padre trento
Cara amica, anch’io,come te, cerco la luna
Caro padre Aldo, ho 18 anni e vivo in Italia
di Aldo Trento
tratto da: Tempi.it
Caro
padre Aldo, ho 18 anni e vivo in Italia. Soffro di depressione, o
meglio, come dicono “gli esperti” della mente umana, di “disordine
bipolare”. Quest’anno sto andando da uno psicologo e spero che mi aiuti a
uscire da questo dramma. È da un anno che mi sento lontana da Dio e ho
iniziato a bere. Sto sperimentando una profonda solitudine e vivo con
forte dolore questa sproporzione tra la mia necessità di amare e di
condividere e la risposta umana che possono offrirmi. Avverto in me
tutto il richiamo dell’amore di Dio, però mi fermo prima: e così bevo, e
mi ubriaco. Bevo per dimenticare, nell’illusione che la vita sia più
dolce: bevo per non essere vittima dell’ansia, per non precipitarmi in
quel terribile sentimento del niente, per salvarmi, anche se so che il
giorno dopo starò peggio. Vorrei sapere: è un peccato contro il Signore
questo? Mi allontana dalla felicità? E come rompere questa resistenza
insuperabile a Qualcosa che mi chiama, questa resistenza che ho scelto
perché non riesco a credere di essere oggetto di un dialogo concreto,
personale, amoroso, unico, esclusivo, che da dieci anni desidero e che
mi sembra impossibile? In fondo, questa paura duplice, di non amarlo
sufficientemente e di restare delusa, di desiderare cose troppo grandi… è
forse un segnale che mi indica la mediocrità a cui sono destinata o è
un muro che devo abbattere? Io
non voglio vivere a metà, però sono sola, o almeno mi sento sola, e
vorrei entrare dalla porta che conduce alla Sua casa. Percepisco che
sono molto vicina a questa porta (e qui sta il dramma), però mi tengo a
distanza, perché mi sembra impossibile passare il fossato, o perché mi
dico che non amo Dio a sufficienza. Questo fossato esige un salto, e
nonostante questo io sto qui davanti al mio bicchiere di birra, chiusa
nella mia solitudine e nella mia pigrizia, con la mia cronica disistima
verso me stessa. Non so se il desiderio di Dio coincide col mio e se la
mia volontà è all’altezza di dire “sì” nel caso in cui sia così. Ti
chiedo aiuto.I
Lettera firmata
Lettera firmata
L’uomo,
cara amica, è un grido: lo stesso grido che è arrivato sulla mia
scrivania quando ho ricevuto questa e-mail, che mi ha commosso perché le
tue domande, piene di tristezza, e il tuo grido di aiuto fanno parte
dell’essenza, dell’ontologia dell’uomo.
Se leggo le tue parole e quelle delle migliaia di persone che mi hanno scritto in questi due ultimi anni, è come se leggessi quella che è stata la mia vita da quando ho iniziato ad avere l’uso della ragione a oggi. Ciò che stai vivendo è ciò che ho passato anch’io. E la risposta a questo grido non è una ricetta, non esistono formule preconfezionate per queste suppliche.
Se leggo le tue parole e quelle delle migliaia di persone che mi hanno scritto in questi due ultimi anni, è come se leggessi quella che è stata la mia vita da quando ho iniziato ad avere l’uso della ragione a oggi. Ciò che stai vivendo è ciò che ho passato anch’io. E la risposta a questo grido non è una ricetta, non esistono formule preconfezionate per queste suppliche.
Quando salta la calma borghese
Non esistono risposte pronte, a queste domande. Esiste l’uomo. E l’uomo è ciò che tu descrivi quando parli della tua vita. Per questo ti ringrazio per avermi provocato, per avermi svegliato una volta ancora, perché non è affatto scontato convivere col tuo dramma. Noi tutti viviamo anestetizzati, in una società che non favorisce né tanto meno offre un luogo in cui prendere sul serio il proprio “io”, che ci sostenga in questa disperazione. E rischiamo di essere inghiottiti in un borghesismo spaventoso che svuota la vita, impedendo l’esperienza di poter dire “Tu” a Cristo, la possibilità nel tempo di concepirci come “Io sono Tu che mi fai”.
Uno dei problemi più gravi dell’uomo moderno è il borghesismo, vale a dire l’assenza di drammaticità, la mancanza di un impegno serio con la propria umanità. Viviamo, direbbe Camus, in una società che assomiglia molto a quei fiumi del Brasile (e anche del Paraguay) pieni di piraña: se qualcuno cade in acqua, sparisce e lascia di sé solo uno scheletro bianco. Allo stesso modo questa società è organizzata in modo tale da eliminare tutto ciò che è umano, distruggendo la libertà di prendere coscienza del proprio “io”. Come la società compie questa operazione suicida?, si chiede Camus. «Ecco qui una fidanzata, una possibile carriera, un successo insperato, la famiglia, i figli…».
Quando ero giovane, davanti alle inquietudini che avevamo nel cuore noi ragazzi, quelle inquietudini esistenziali che avrebbero portato da lì a pochi anni al Sessantotto, i nostri padri, gli adulti dicevano: «Arriverà il momento in cui dovrai fare il servizio militare, e lì finalmente ti darai un calmata, ti metteranno in riga». E di fatto, per molti anni, è stato così. Però poi è arrivato un momento in cui, come in un lampo, questa calma borghese è saltata. Con tutto il terremoto che ne è conseguito, perché il cuore dell’uomo non si può imprigionare. Il cuore, come tutte le cellule umane, «cerca la luna», come dice Camus mettendo questa affermazione in bocca a Caligola, il famoso imperatore romano. In altre parole, cerca l’impossibile, cerca l’Infinito.
Non esistono risposte pronte, a queste domande. Esiste l’uomo. E l’uomo è ciò che tu descrivi quando parli della tua vita. Per questo ti ringrazio per avermi provocato, per avermi svegliato una volta ancora, perché non è affatto scontato convivere col tuo dramma. Noi tutti viviamo anestetizzati, in una società che non favorisce né tanto meno offre un luogo in cui prendere sul serio il proprio “io”, che ci sostenga in questa disperazione. E rischiamo di essere inghiottiti in un borghesismo spaventoso che svuota la vita, impedendo l’esperienza di poter dire “Tu” a Cristo, la possibilità nel tempo di concepirci come “Io sono Tu che mi fai”.
Uno dei problemi più gravi dell’uomo moderno è il borghesismo, vale a dire l’assenza di drammaticità, la mancanza di un impegno serio con la propria umanità. Viviamo, direbbe Camus, in una società che assomiglia molto a quei fiumi del Brasile (e anche del Paraguay) pieni di piraña: se qualcuno cade in acqua, sparisce e lascia di sé solo uno scheletro bianco. Allo stesso modo questa società è organizzata in modo tale da eliminare tutto ciò che è umano, distruggendo la libertà di prendere coscienza del proprio “io”. Come la società compie questa operazione suicida?, si chiede Camus. «Ecco qui una fidanzata, una possibile carriera, un successo insperato, la famiglia, i figli…».
Quando ero giovane, davanti alle inquietudini che avevamo nel cuore noi ragazzi, quelle inquietudini esistenziali che avrebbero portato da lì a pochi anni al Sessantotto, i nostri padri, gli adulti dicevano: «Arriverà il momento in cui dovrai fare il servizio militare, e lì finalmente ti darai un calmata, ti metteranno in riga». E di fatto, per molti anni, è stato così. Però poi è arrivato un momento in cui, come in un lampo, questa calma borghese è saltata. Con tutto il terremoto che ne è conseguito, perché il cuore dell’uomo non si può imprigionare. Il cuore, come tutte le cellule umane, «cerca la luna», come dice Camus mettendo questa affermazione in bocca a Caligola, il famoso imperatore romano. In altre parole, cerca l’impossibile, cerca l’Infinito.
La depressione è una grazia
Cara amica, tu e io, tutti noi che prendiamo sul serio il nostro io, anche grazie al bipolarismo (mi fa ridere questa parola, perché mi sembra che agli esperti della mente piaccia che la nostra vita sia sempre piatta: non ammettono che la nostra vita sia come un elettrocardiogramma, o un encefalogramma, o meglio, vorrebbero che fosse come un encefalogramma piatto), inevitabilmente viviamo gridando, perché il dolore ci impedisce di cadere addormentati. Ma questa è la grazia più grande che un uomo possa sperimentare.
Recentemente è venuto a trovarmi un candidato al premio Nobel americano per la medicina. È venuto per parlare con me e conoscermi, perché anche lui ha sofferto per 15 anni di una grave forma di depressione che lo aveva spinto a tentare il suicidio, dalla quale si è salvato grazie a un sacerdote. Nelle due ore di dialogo ha continuato a dire che senza la grazia della depressione non avrebbe mai ricevuto il dono della fede, e nemmeno il “nobel” più bello della sua carriera: la capacità di mettere la sua intelligenza al servizio dei malati anziani di cancro.
Cara amica, tu e io, tutti noi che prendiamo sul serio il nostro io, anche grazie al bipolarismo (mi fa ridere questa parola, perché mi sembra che agli esperti della mente piaccia che la nostra vita sia sempre piatta: non ammettono che la nostra vita sia come un elettrocardiogramma, o un encefalogramma, o meglio, vorrebbero che fosse come un encefalogramma piatto), inevitabilmente viviamo gridando, perché il dolore ci impedisce di cadere addormentati. Ma questa è la grazia più grande che un uomo possa sperimentare.
Recentemente è venuto a trovarmi un candidato al premio Nobel americano per la medicina. È venuto per parlare con me e conoscermi, perché anche lui ha sofferto per 15 anni di una grave forma di depressione che lo aveva spinto a tentare il suicidio, dalla quale si è salvato grazie a un sacerdote. Nelle due ore di dialogo ha continuato a dire che senza la grazia della depressione non avrebbe mai ricevuto il dono della fede, e nemmeno il “nobel” più bello della sua carriera: la capacità di mettere la sua intelligenza al servizio dei malati anziani di cancro.
La
depressione, il bipolarismo, sono una cosa positiva: rappresentano la
possibilità di saltare quel fossato, di aprire quella porta ed entrare
nella casa in cui un “Tu” ti sta aspettando dall’eternità. La lucidità
che mostri nel descrivere la tua situazione è impressionante, ma è la
situazione che vivo anch’io, che viviamo tutti. In questo momento per te
è la birra, per me è stato un imprevisto innamoramento molti anni fa,
per altri può essere qualsiasi altra cosa. L’importante è che dietro a
una birra, a un innamoramento, alla droga, l’uomo incontri uno che lo
aiuti ad andare al di là della bottiglia di birra, della donna, della
droga, di qualsiasi altra cosa, qualcuno che lo aiuti a percepire tutta
la realtà come segno, come eco di una Presenza viva che costruisce il
tessuto dell’“io” dell’uomo. Diceva il premio Nobel per la letteratura
Czeslaw Milosz: «Sono solo un uomo, ho bisogno di segni sensibili,
costruire scale di astrazioni mi stanca presto. Desta, dunque, o Dio, un
uomo in un posto qualsiasi della terra e permetti che guardandolo io
possa ammirare Te».
Apri gli occhi e chiedi aiuto
Se esiste il grido è perché, come scrivi nella tua e-mail, esiste anche la risposta. Che in te coincide con questo desiderio di vederLo, di toccarLo, di amarLo. La mediocrità non esiste quando tu stai davanti alla bottiglia di birra gridando: «Dio, se esisti, rivelati a me!». La mediocrità esiste solo quando guardi la bottiglia di birra come se fosse una superbottiglia di birra. Mentre se vai al fondo di questo sguardo, troverai quel “Tu” che in ogni istante ti definisce. Quel “Tu” che sta alla stessa origine del tuo dramma e che si serve perfino dell’alcol perché tu possa aprire gli occhi e gridare: «Aiuto».
E a questo grido ti sta già rispondendo. Non è stato un caso se ci siamo incontrati, non si è trattato di una circostanza fortuita se siamo diventati amici, non è stato un obbligo quello che ti ha spinto a mandarmi questa preghiera: «Padre, aiutami». La Casa che cerchi, la porta che sei chiamata ad aprire, la mano che ti aiuterà a saltare il fosso, è la piccola compagnia che viviamo. È il dono per il quale ci siamo conosciuti. Un dono che non coincide solamente con il nostro incontro, ma anche con tutte quelle persone che ti vogliono bene e che ho conosciuto quel giorno nella tua città, nella tua scuola. Persone che vivono il tuo stesso dramma e che stanno al tuo fianco, consapevoli che tutta la vita chiede l’eternità.
Apri gli occhi e chiedi aiuto
Se esiste il grido è perché, come scrivi nella tua e-mail, esiste anche la risposta. Che in te coincide con questo desiderio di vederLo, di toccarLo, di amarLo. La mediocrità non esiste quando tu stai davanti alla bottiglia di birra gridando: «Dio, se esisti, rivelati a me!». La mediocrità esiste solo quando guardi la bottiglia di birra come se fosse una superbottiglia di birra. Mentre se vai al fondo di questo sguardo, troverai quel “Tu” che in ogni istante ti definisce. Quel “Tu” che sta alla stessa origine del tuo dramma e che si serve perfino dell’alcol perché tu possa aprire gli occhi e gridare: «Aiuto».
E a questo grido ti sta già rispondendo. Non è stato un caso se ci siamo incontrati, non si è trattato di una circostanza fortuita se siamo diventati amici, non è stato un obbligo quello che ti ha spinto a mandarmi questa preghiera: «Padre, aiutami». La Casa che cerchi, la porta che sei chiamata ad aprire, la mano che ti aiuterà a saltare il fosso, è la piccola compagnia che viviamo. È il dono per il quale ci siamo conosciuti. Un dono che non coincide solamente con il nostro incontro, ma anche con tutte quelle persone che ti vogliono bene e che ho conosciuto quel giorno nella tua città, nella tua scuola. Persone che vivono il tuo stesso dramma e che stanno al tuo fianco, consapevoli che tutta la vita chiede l’eternità.
padretrento@rieder.net.py
Postato da: giacabi a 18:18 |
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padre trento
La nostra fragilità è una grazia. Parola di depresso
"Quel giorno, il 25 marzo 1989, don Luigi Giussani mi prese con sé, come duemila anni prima Gesù aveva preso con sé Giovanni e Andrea. Lo ricordo con la freschezza delle acque dei torrenti che sgorgano dalle pietre delle mie Dolomiti.Nessuno mi voleva, avevo vergogna di me, il mio sguardo era come quello di un derelitto umano distrutto da una terribile depressione. Ma quell’uomo, dopo avermi ascoltato per una mezz’ora, mi fissò negli occhi e mi disse: «Che bello quanto ti sta accadendo, è l’occasione perché tu possa dire “Tu” a Cristo, però ci vuole qualcuno che ti faccia compagnia». Piangevo, e con la voce rotta dal pianto gli dissi: «Ma… chi prenderebbe con sé un uomo in queste condizioni sia fra i preti che tra i laici?». E don Giussani, come Cristo con Giovanni e Andrea: «Vieni con me».
Passarono alcuni mesi, arrivò l’estate e per me il caos si era fatto ancora più grande. Vedendomi disperato, insonne, senza più voglia di vivere, mi prese fisicamente con sé, fino al giorno, il 7 settembre dello stesso anno, quando, accompagnandomi come un bambino, mi imbarcò su un aereo della Iberia e mi mandò in Paraguay.
Da quel giorno, il 25 di marzo ventuno anni fa, non ho più staccato lo sguardo da quegli occhi, non mi sono mai allontanato da quell’abbraccio. Non importa l’oceano di dolore attraversato… perché oggi è più chiaro che mai che solo uno sguardo, un abbraccio in cui è chiarissimo quanto don Julián Carrón ci ripete, “Io sono Tu che mi fai”, salva anche il più disperato fra noi".
Leggi tutta la vicenda drammatica, incredibile e bella di P. Aldo e le testimonianze altrettanto drammatiche, belle e incredibili su Tempi.
grazie ad: http://www.annavercors.splinder.com/
Postato da: giacabi a 17:34 |
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padre trento, amore
Contro chi sputa sui preti***Ci scrive un missionario indignato per la campagna dei media sulla pedofiliaSono in Italia da alcuni giornie sono davvero amareggiato, addolorato per questi continui attacchi al Santo Padre, ai sacerdoti, alla Chiesa cattolica, usando la diabolica arma della pedofilia. E’ vero, questo argomento sembra interessare più a certi giornali e alle loro fantasie e allucinazioni che al pubblico: perché ho incontrato migliaia di persone e per lo più giovani, ma nessuno mi ha posto una domanda su questa questione. Il che significa che, sebbene esista questo flagello nel mondo e abbia intaccato anche la chiesa, con la dura, chiara e forte condanna del Santo Padre, siamo lontani anni luce da quel fenomeno di massa, come se tutti i preti fossero pedofili, come vogliono farci credere.Sono quarant’anni che sono sacerdote, sono stato in diverse parti del mondo, ho vissuto in brefotrofi, scuole, internati per bambini, ma non ho mai trovato un collega colpevole di questo delitto. Non solo, ma ho vissuto con sacerdoti, religiosi che hanno dato la vita perché questi bimbi avessero la vita.Attualmente vivo in Paraguay, la mia missione abbraccia tutto l’umano nella sua povertà, quell’umano gettato nell’immondizia dal sensazionalismo dei media. Da 20 anni condivido la mia vita con prostitute, omosessuali, travestiti, ammalati di Aids, raccolti per le strade, negli immondezzai, nelle favelas e me li porto a casa dove la Provvidenza divina ha creato un ospedale di primo mondo come struttura architettonica, ma paradisiaco come clima umano.E in questa “anticamera del Paradiso”, come lo chiamano loro, li accompagno al Paradiso. Hanno vissuto come “cani” e muoiono come principi. Vicino alla clinica, sempre la Provvidenza ha creato due “case di Betlemme” per ricordare il luogo dove è nato Gesù, che raccolgono 32 bambini, molti di essi violentati dai patrigni o dal compagno occasionale della “madre”. Tutti i giorni ho a che fare con situazioni terribili e indescrivibili. Spesso non ho neanche la capacità di leggere i referti delle assistenti sociali, tanto sono orrende le violenze sessuali subite dai miei bambini. Eppure, dopo alcuni mesi che sono con noi, respirano un’altra aria, quell’aria che solo il fatto cristiano e l’amore di noi sacerdoti contro cui i mostri del giornalismo si scagliano, facendo di ogni erba un fascio. Aveva ragione Pablo Neruda quando definiva certi giornalisti “coloro che vivono mangiando gli escrementi del potere”. La certezza che “io sono Tu che mi fai” che sono frutto del Mistero e non l’esito dei miei antecedenti, per quanto pessimi possano essere stati, si trasmette come per osmosi nel cuore dei miei bambini che ritrovano il sorriso. Come si trasmette anche sui “mostri” (se così vi piace chiamarli voi giornalisti… a cui tanto assomigliate per la vostra ipocrisia, parlo di quelli che sembrano divertirsi a sputare contro la chiesa) che in fondo a loro volta, spesso, sono vittime e carnefici, vittime da piccoli e carnefici da grandi, avendo vissuto come bestie. Il mio cuore di prete mentre do la mia vita per questi innocenti non può non dare la vita, come Gesù, anche per coloro di cui Gesù ha detto con parole fortissime “prima di scandalizzare uno di questi piccoli è meglio mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel profondo del mare”. Sono solo alcuni esempi, di milioni, della carità della chiesa. Mi fa soffrire questo sputare nel piatto nel quale, Dio lo voglia, anche certi morbosi giornalisti, un domani si troveranno a mangiare, perché se uno sbaglia non significa che la chiesa sia così. Questa chiesa che è il respiro del mondo. Non vi chiedete cosa sarebbe di questo mondo senza questo porto di sicura speranza per ogni uomo, compresi voi che in questi giorni come corvi inferociti vi divertite sadicamente a sputare sopra il Suo Casto Volto?Venite nel terzo mondo per capire cosa vuol dire migliaia di preti e suore che muoiono dando la vita per i bambini. Venite a vedere i miei bambini violentati che alcuni giorni fa prima di partire per l’Italia piangevano chiedendomi: “Papà quando torni?”. Non voglio strappare le lacrime a voi che siete come le pietre ma solo ricordarvi che anche per voi un giorno quando la vita vi chiederà il “redde rationem vilicationis tuae” questa chiesa, questa madre contro cui avete imparato bene il gioco dello sputo, vi accoglierà, vi abbraccerà, vi perdonerà. Questa madre, che da 2000 anni è sputacchiata, derisa, accusata e che da 2000 anni continua a dire a tutti coloro che lo chiedono: “Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo”. Questa madre, che sebbene giudichi e condanni duramente il peccato e richiami duramente il peccatore reo di certi orrendi delitti, come la pedofilia, non chiude e non chiuderà mai le porte della sua misericordia a nessuno. Mi confortano le parole di Gesù “le porte dell’inferno non prevarranno mai”. Come mi conforta l’immensa santità che trabocca dal suo corpo di “casta meretrix”. Allora non perdiamo tempo dietro i deliri di alcuni giornalisti che usano certi esecrabili casi di pedofilia per attaccare l’Avvenimento cristiano, per mettere in discussione la perla del celibato, ma guardiamo le migliaia di persone, giovani in particolare, incontrati personalmente in una settimana di permanenza in Italia che credono, cercano e domandano alla chiesa il perché, il senso ultimo della vita e che vedono in lei l’unica possibile risposta. Personalmente mi preoccupa di più l’assenza di santità in molti di noi sacerdoti che altre cose per quanto gravi e dolorose siano. Mi preoccupa di più una chiesa che si vergogna di Cristo, invece che predicarlo dai tetti. Mi preoccupa di più non incontrare i sacerdoti nel confessionale per cui il peccatore spesso vive quel tormento del suo peccato perché non trova un confessore che lo assolva. Alle accuse infamanti di questi giorni urge rispondere con la santità della nostra vita e con una consegna totale a Cristo e agli uomini bisognosi, come non mai, di certezza e di speranza. Alla pedofilia si deve rispondere come il Papa ci insegna. Però solo annunciando Cristo si esce da questo orribile letamaio perché solo Cristo salva totalmente l’uomo. Ma se Cristo non è più il cuore della vita, allora qualunque perversione è possibile. L’unica difesa che abbiamo sono i nostri occhi innamorati di Cristo. Il dolore è grandissimo, ma la sicurezza granitica: “Io ho vinto il mondo” è infinitamente superiore. Padre Aldo Trento, missionario in Paraguay da:
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Postato da: giacabi a 12:10 |
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padre trento
È il nostro peccato che ci ha permesso di incontrare Cristo Il moralismo e la misericordia Caro Padre Aldo, ho letto attentamente il suo articolo sulla confessione. Ci sono un paio di punti che mi hanno colpito. Il primo è che lei parla sempre della misericordia di Dio e di perdono. Io sono cresciuta con l’idea di un Dio giusto, che premia e castiga. È un’idea difficile da cancellare. Lentamente ci sto riuscendo, anche se rimane in me il timore del Purgatorio. Temo le macchie che hanno lasciato i molti peccati da me commessi, mi rendono difficile credere in un perdono assoluto. Devo ricevere il mio castigo, sarebbe la cosa giusta. Alcuni mi dicono: «Tu salirai al cielo», ma io credo che tutto ciò che facciamo per amore non ha valore, perché fatto senza spirito di sacrificio. Non mi costa. Invece, quello che mi costa fatica, non lo faccio. Il secondo punto riguarda il suo modo di confessarsi. Mi hanno sempre insegnato a elencare uno a uno i peccati commessi: quante volte, quando, con tutti i dettagli. Ma alla mia età i peccati sono più di omissione che di azione. E sono sempre gli stessi. È difficile confessarsi a un sacerdote che aspetta che tu gli reciti una lista. E la memoria non aiuta. Infatti io mi preparo a casa: prendo il mio libro La confessione e individuo i miei errori, poi quando sono nel confessionale leggo. Una cosa molto routinaria, così come i consigli che mi dà il sacerdote. Ciononostante, ho sempre nel cuore un desiderio di perdono, di purificazione: parlo con Dio in qualsiasi momento e gli chiedo forza, temperanza, chiedo perdono per tutto ciò che non faccio, o che faccio male. Una confessione senza elenco, solo per chiedere l’assoluzione, illustrando errori generici, in fondo sempre gli stessi? È una prospettiva nuova per me. Anni fa qualcuno mi disse, per confortarmi, che la legge è fatta per l’uomo, e non l’uomo per la legge. Ma quanti modi ci sono di intendere il cattolicesimo? Lettera firmata Carissima, ti ringrazio perché mi consenti di chiarire un tema che è essenziale nel cammino della fede cattolica. 1. Dio è amore. Il nostro Papa ha dedicato la sua prima enciclica proprio a questo concetto. Il Dio “castigatore” forma parte di quell’eredità educativa portata in America Latina dai missionari provenienti dalla Spagna e da altri paesi, vittime dell’ideologia calvinista, giansenista, e anche di una corrente teologica che interpreta la riforma tridentina come affermazione giuridico-morale della fede più che la fede come riconoscimento di un Avvenimento, di Cristo, incontrando il quale la tua vita cambia. Anche da un punto di vista storico, a partire dal termine del Medio Evo, con la sua visione unitaria dell’uomo frutto della coscienza che l’ontologia umana è relazione con il Mistero, si impose una divisione tra la fede e la vita e di conseguenza prese piede un cristianesimo moralista, ridotto a un’etica e a un sistema di valori ad essa connesso. Un’eredità che avrebbe preso ancora più forza nel XX secolo e in questi anni. Grazie a Dio gli ultimi Pontefici hanno ripreso e proposto con forza quello che è sempre stato presente nella santità della Chiesa, cioè che il cristianesimo è un fatto, una Presenza che cambia la vita. Il rapporto Dio-uomo è un rapporto d’amore, carico unicamente di misericordia. Non solo, ma quello umano è l’unico cammino possibile per arrivare a Cristo. Il peccato della Maddalena, quello dell’adultera, è ciò che ha permesso a quelle due donne di incontrare Cristo. Purtroppo noi siamo stati educati a vedere la nostra umanità, i nostri limiti come obiezione a Cristo, come scandalo. Da qui la posizione moralista e volontarista: il famoso proposito che ha sostituito la grazia. Pensiamo all’Atto di dolore quando finiva con il compromesso della volontà di non peccare più. Intanto il “perdono” ambrosiano recitava così: «O Gesù d’amore acceso non ti avessi mai offeso, ma con la Tua Santa Grazia non ti voglio offendere più». Per grazia di Dio dopo il Concilio è cambiato anche l’Atto di dolore aggiungendo «con il tuo santo aiuto». Il complesso del volontarismo di certe correnti protestanti è ancora radicato nella nostra mentalità, con le conseguenze del timore, dell’ira e dell’allontanamento dalla Chiesa da parte di molte persone. Il timore di Dio è la coscienza semplice, come quella di un bambino con sua madre, che Dio mi ama e si è fatto carne in Cristo, proprio grazie ai nostri peccati. Nel Preconio pasquale si recita: «Felice colpa di Adamo, che meritò un così grande Salvatore!». Dal VI al VII comandamento 2. Il modo di confessarsi. Come ho scritto chiaramente in questa rubrica, gli scrupoli morali non sono compatibili con la confessione e la confessione non è il cestino dove gettare la spazzatura della nostra vita. Personalmente sono stato educato nel moralismo più fastidioso, quello per il quale tutto era peccato e l’inferno era lì pronto ad aprirsi sotto ai nostri piedi da un momento all’altro. Inoltre quando si trattava del sesto e del nono comandamento (non commettere atti impuri e non desiderare la donna d’altri, ndr) uno diventava matto, perché qualsiasi cosa era peccato grave, a prescindere dalle tre condizioni per cui un peccato è da ritenersi tale. Non perché non ci dicessero le tre condizioni che rendono mortale un peccato, ma perché per certi educatori era più importante la materia della libertà. È un po’ quello che capita oggi col settimo comandamento (non rubare, ndr). La confessione è l’abbraccio misericordioso del Padre. Uno si confessa solo perché ha bisogno di questo abbraccio. Se io mi confesso ogni settimana o anche più spesso non è certo per sgravarmi di un peso, ma perché ho bisogno di essere abbracciato, ho bisogno di udire le parole: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». È chiaro che poi documento quelle debolezze che evidenziano il mio allontanarmi da Cristo, quelle fragilità che testimoniano che Cristo non è l’Unicum per il quale vivo.Al confessore dico l’essenziale, e se lui mi chiede di più per aiutarmi a riconoscere la misericordia di Dio gli rispondo con umiltà, come il sacramento della confessione esige. Però non mi passa neanche per la testa di fare una lista lunga quanto un lenzuolo con tutti i dettagli negativi della mia vita, se fosse così avrei bisogno di una calcolatrice e di un personal computer. La confessione è allegria, grazia, festa, perché uno riconosce di essere peccatore e i suoi peccati, mortali o veniali che siano… Ma non è confessione il tormento che molti vivono, o gli scrupoli che uno sopporta come una malattia, a causa di un’educazione che l’ha portato ad avere timore dell’umano. Quindi, signora, si cerchi un confessore intelligente, che non sia curioso, ma che sappia essere essenziale, che le permetta di sperimentare l’abbraccio del figliol prodigo. Io vado a confessarmi cantando e torno col cuore che trabocca di allegria. Lei dovrebbe vivere la confessione nella stessa maniera. padretrento@rieder.net.py |
Postato da: giacabi a 10:11 |
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padre trento
«Chi sei Tu, o Cristo?»***
Prima
di tutto grazie. Sono commosso perché il miracolo ogni giorno più
grande della mia vita coincide con la grazia che avete voi di prendere
seriamente, parola per parola, quanto Carrón ci dice.
. |
Postato da: giacabi a 11:04 |
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padre trento
VIDEO/
Don Aldo e Rose, l'amore che sconfigge la morte (Sulla via di Damasco, Raidue 9/01/10)
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DON ALDO IN PARAGUAY - Don Aldo racconta la sua esperienza alle telecamere di Sulla via di Damasco,
andato in onda su Raidue sabato 9 gennaio. Un esperienza costituita
dalla dedizione ai più poveri tra i poveri del Paraguay: i malati
terminali, le bambine che hanno subito violenza, i bambini più
emarginati della società. Sono coloro di cui Don Aldo si occupa nella
clinica che ha messo in piedi la “Cittadella dell’Amore Asucncion”. In
che modo? «Una ragazza di 27 anni, ormai alla fine» - racconta Don Aldo
nel filmato - «viene in clinica dicendo “io voglio suicidarmi”. Gli ho
risposto» - continua - «Gloria, abbi pazienza, portiamo insieme questo
dolore. La ragazza, due giorni dopo, mi dice: “padre, io sto molto
bene”». Non ha fatto miracoli Don Aldo. Ha solamente avuto nei confronti
della ragazza, come di tutti gli emarginati che assiste «uno
sguardo di tenerezza, uno sguardo di amore. Che è ciò che fa capire
all’altro che la morte è un passaggio necessario, ma non è la sconfitta,
è l’inizio della primavera»
ROSE IN UGANDA - In onda durante la stessa puntata, di Sulla via di Damasco
Rose Busingye racconta un’altra esperienza, in cui un’altra volta
la morte è sconfitta dall’amore. Rose, che ha dato vita
all’International Meeting Point per curare i malati di Aids in Uganda,
afferma: «Sono entrata nel mondo dei malati per digli che Dio gli vuole
bene così come sono. Ciò che viene prima è l’io. Rispondendo ai
loro bisogni, non solo il cibo, le medicine, o le adozioni, dico che la
loro vita ha un senso. Camminiamo insieme per scoprire quale sia questo
senso».
Il
suo progetto? «Far comprendere ad ogni uomo» - dice Rose «grande o
piccolo che sia, che se capisse che è molto più grande di quello che può
immaginare, la vita sarebbe più leggera». Come si fa? Semplice. «Puoi
spiegare loro un metodo. Ci vuole un anno. Possono accorgersi di uno
sguardo. Ci vuole un secondo».
Da: http://www.ilsussidiario.net/ |
Postato da: giacabi a 16:31 |
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rose busingye, padre trento
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Non c’è vita disgraziata che non si possa salvare in un abbraccio carico di verità.
L’uomo
non è, non sarà mai il frutto dei suoi antecedenti biologici,
psicologici o delle circostanze, fossero anche le peggiori. Se fosse
così non esisterebbe la libertà. L’uomo è relazione con l’infinito. “Io sono tu che mi fai”: questo è l’essere umano.
La testimonianza di Ruben, un tempo Jessica, ci racconta come non ci
sia perversione che incontrando questa certezza, grazie ad un abbraccio
umano carico di questa verità, non possa trasformarsi in una umanità
nuova piena di gusto per la vita.
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Postato da: giacabi a 20:45 |
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padre trento
Per accettare i propri limiti ci vuole la coscienza dei miei malati
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Come faccio ad accettare i miei limiti? È la domanda Come faccio ad accettare i miei limiti?
È
la domanda che per anni mi ha tormentato, e che mi capita di ascoltare
spesso da coloro che incontro quotidianamente: giovani, adulti, anziani,
sposati, consacrati, scapoli. Insomma, è una domanda che riguarda
tutti, e che purtroppo genera una tristezza enorme sui volti di tanti. Una
domanda che esige una risposta chiara e precisa, perché dalla risposta
che incontriamo dipende un fattore decisivo che tutti desideriamo: la
nostra autostima, la possibilità di dire “io”. Viviamo in un
mondo di depressi, in cui l’accettazione di sé, così come si è, spesso
sembra impossibile. La depressione si manifesta secondo modalità molto
diverse: dall’angoscia del vivere alla bulimia, all’anoressia, alle
crisi esistenziali che possono spingere perfino a odiare la vita. Sarei
tentato di dare ragione a Cesare Pavese, che soffriva la durezza del
“mestiere di vivere”.
Un mestiere difficile, che spesso tentiamo di rendere più facile
fuggendo i dolori, le responsabilità, le angosce, magari affidandoci a
qualche sedicente esperto che promette di rivelarci la soluzione
svuotandoci il portafoglio. Ma la depressione non si risolve con le
scorciatoie e i metodi antistress. Per poter affrontare un male così
oscuro, un limite così difficile da superare, bisogna innanzitutto
chiarire bene i termini della questione, e poi cercare le ragioni della
grande fatica che si deve fare per affrontarla. Perché ciò che
non si affronta non si può riconoscere né capire, e quindi non può mai
essere redento, non diventa mai una grazia.
«Padre, non mi sopporto con tutti questi miei limiti, per favore aiutami perché non so come affrontarli», mi supplicava una ragazza giorni fa. Non si tratta di porre la questione a livello morale, perché il limite umano è ontologico, e perciò non eliminabile con uno sforzo di volontà. Si tratta, invece, di riconoscere e abbracciare questo limite. L’uomo, in quanto creatura (anche se “divina”) è ontologicamente limitato. Solo Dio non ha limiti. Ogni creatura ne ha, perfino gli angeli che sono creature divine. L’uomo, come gli angeli, è stato creato per mezzo di un atto d’amore divino: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza». Quel “facciamo” sottolinea due cose: la prima è che prima l’uomo non c’era mentre adesso c’è, la seconda è che l’uomo è continuamente “fatto” da Dio, altrimenti cadrebbe nell’abisso del nulla. La pietà di Dio Per questo l’affermazione più bella che esiste, e che solo l’uomo in tutto l’universo può dire, è: “Io sono Tu che mi fai”. L’io umano, essendo “creatura” per sua stessa natura, dentro questo riconoscimento è come innalzato e trasformato dal Tu di Dio. In questa esperienza di abbandono al Mistero, si impara a guardarsi con gli occhi stessi del Mistero, con ironia. Dio gode per ognuno di noi, ci sorride, e mentre noi ci affanniamo per uscire dal nostro limite lui ci ripete in ogni momento : «Di un amore eterno ti ho amato, ti ho tratto a me perché ho avuto pietà del tuo niente». La letizia di fronte al proprio limite è la caratteristica esclusiva di chi si riconosce figlio, si riconosce fatto in ogni istante. E che cosa c’è di più bello e affascinante che il vivere con un cuore traboccante di questa certezza: “Io sono Tu che mi fai”? Sono convinto che l’offesa più terribile che possiamo rivolgere al Mistero coincida con l’incapacità di svegliarsi al mattino e scoprirsi amati. La bestemmia più grande la diciamo quando ci guardiamo allo specchio con il muso duro, incapaci di sorridere, incapaci di ironia, incapaci di sorprenderci “fatti in quel momento”. Uno che apre gli occhi al mattino dicendo “Io sono Tu che mi fai” non può che sorridere e mettersi in ginocchio davanti al Mistero. È ciò che mi commuove ogni mattina quando incontro gli ammalati terminali: inginocchiandomi davanti a ognuno do loro la comunione e li bacio. I loro occhi stanchi, spesso insonni e tormentati dal dolore, mi sorridono e alla mia domanda: «Come stai?», rispondono: «Molto bene, padre». L’autostima, che è il motore della vita, comincia a livello di coscienza già al canto del gallo, come si diceva nel mio piccolo paese ai piedi delle Alpi. Lo svegliarsi al mattino ci pone sempre a un bivio: o partire guardando in faccia il Mistero, come il nostro cuore desidera, o partire dallo stato d’animo del momento, in balìa del nostro mutevole umore. Sono due modi opposti di stare davanti alla realtà, e mentre il primo riempie la vita di certezza e speranza, il secondo la soffoca dentro l’angoscia degli stati d’animo, cangianti a ogni «discorde accento», come direbbe Giacomo Leopardi. La rottura di Adamo ed Eva Infine c’è un ultimo aspetto dei limiti umani, che ha la sua origine nel peccato. Quel peccato che la tradizione della Chiesa chiama “originale” e che ogni uomo riceve in eredità da Adamo ed Eva, i quali, nel loro affanno di essere come Dio, un giorno decisero di rompere il rapporto con il Mistero. Quella rottura, voluta dalla libertà umana, ha lasciato terribili conseguenze, terribili al punto che «nella pienezza dei tempi», come ci ricorda san Paolo, Dio si è fatto carne per restituire all’uomo quell’unità dell’io distrutta dal peccato. Da quella rottura in poi l’io ha sperimentato una specie di schizofrenia. Non più l’armonia fra sentimento e ragione, ma una frattura insanabile, che la Genesi rappresenta con l’immagine di Adamo ed Eva che si nascondono allo sguardo di Dio coprendosi con foglie di fico. «Eravamo nudi e abbiamo avuto paura di te», risponde Adamo a Dio che inutilmente li aspettava al solito appuntamento serale. Questo io frantumato è l’origine di ogni altra forma di divisione. Adamo colpevolizza Eva della disobbedienza al Mistero: è la divisione della coppia umana. Caino uccide Abele: è la distruzione della famiglia. La torre di Babele, la confusione delle lingue: è la fine della comunicazione umana e l’inizio della confusione totale. Un “io” di nuovo unito Ovidio descrive magistralmente questa frantumazione dell’io : «Video meliora proboque, deteriora sequor», di cui lo stesso apostolo Paolo prende atto affermando però: «Non faccio ciò che il mio cuore desidera e faccio ciò che il mio cuore non desidera. (…) Chi mi libererà da questo corpo di morte?». Dio si è fatto uomo solo per questo: ridare all’io umano quell’unità originale persa con il peccato di Adamo ed Eva. Dio, in Cristo Gesù, si è fatto peccato per ridonare la gioia di dire “io”. L’incarnazione è la fine della divisione, è l’inizio di un “io” finalmente unito. Ragione e sentimento non più nemici ma alleati, il cuore non più disperato ma pieno di certezza e speranza. Con l’incarnazione il cuore diventa amico del Mistero e la libertà umana può finalmente gridare: “Io sono Tu che mi fai”. L’uomo non è più il frutto del suo passato, non dipende più dai suoi antecedenti, non importa quali, non è più vittima delle sue miserie, non è più determinato dalle mille cadute quotidiane, bensì creato, voluto, amato in ogni istante. I battiti del cuore non sono più affannosi, ma pieni di pace, come quelli di un bambino capriccioso quando è tra le braccia di sua madre. padretrento@rieder.net.py Grazie a Tempi |
Postato da: giacabi a 20:36 |
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padre trento
La luminosa gratuità di Marciana Elizabeth
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Postato da: giacabi a 21:47 |
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padre trento
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Cari amici,
Come
vorrei che ci lasciassimo provocare da quanto Carrón ci dice parlando
dell’urgenza di percorrere il cammino, senza lasciare buchi per la
strada, della conoscenza, per arrivare direttamente davanti al Mistero
per poter dirgli TU. Mai come in questo sabato sento vere queste parole:
dire TU al Mistero. Senza questa esperienza oggi non avrei retto
alla dolorosissima agonia e morte della mia figlia piú grande
della “casita de Belén”: Rosita, ve la ricordate quando vi ho mandato la
foto il giorno della sua cresima? Adesso sono qui al suo fianco mentre,
guardando quel TU in cui lei vive, vi scrivo per raccontarvi la sua
bellezza. Le sue guance che tanto e tanto ho baciato e accarezzato
sono ancora tiepide mentre il freddo della morte avanza
inesorabilmente. Le sue unghie con lo smalto bianco, lunghe ed
affusolati danno alle sue bianche e tenerissime mani un tocco di quella
femminilitá che ti rimanda all’Infinito. Cosi la sua bellísima faccia
circonscritta dentro una folta chioma di capelli nerissimi. Ripenso al
filmato visto a La Thuile e poi a S. Paolo. Ripenso e rivedo Giussani
leggere quella bellissima poesía di Leopardi: “Sopra il ritratto di una
bella donna”.
É
proprio la descrizione della mia Rosetta. Ha appena 18 anni. Come in
una rapidissima sequenzza vedo passare davanti a me quell’ora in cui
Giussani ci racconta “Cara Beltá”. Ho pianto tanto, fina dalle prime ore
del mattino, quando con il S. Sacramento fra le mani sono arrivato al
suo letto. Che strazio (solo chi é padre puo capirmi e vive della
paternitá che solo la verginitá ti dona) nel vederla con gli occhi semi
chiusi, rivolti leggermente all’indietro, e lottando contro la morte. I
suoi respiri affanosi sempre piú distanziati nel tempo, come per
descrivermi la grande ultima battaglia fra l’anima che vuole ritornare a
quel “TU che mi fai”e il corpo che non cede, non vuole lasciarla
partire. Un lotta che vedo tutti i giorni nei miei figli che partono
(quasi 700 in 5 anni) e che per me ogni volta é un martirio che mi tocca
perfino fisicamente. La sua fronte tutta piena di sudore, come le mani.
É duro morire, é la fatica piú dura della vita. Sono stato al suo
fianco tutto il tempo possibile.
Non
potevo non vivere con lei, accarezzandola e e baciandola, questo
momento drammatico in cui Rosetta giá tutta consegnata al Mistero, stava
per raggiungerlo. Quando alle 12:30 sono ritornato da lei con il
Santissimo Sacramento, mi sono inginocchiato e ho messo
l’ostensorio al suo fianco. Eravamo noi tre, o meglio era “Io sono Tu
che mi fai”. Era quel TU che ci prendeva tutti. Che esperienza di
appartentenza, di paternitá, di figliolanza ho provato! Ripensavo alla
parolle del Giuss, dette da Carrón che l’aveva salutata alcuni giorni
fa: “l’uomo non dipende dai suoi antecedenti… neanche dal cancro e dai
terribili dolori… l’uomo é relazione diretta con l’Infinito”.
Giá
alcune ore prima di questa scena Eucaristica mi era stata data un’altra
prova di questa veritá, quando la polizia mi aveva portato un “barbone”
incontrato sballato nella strada. Era irriconoscibile come uomo: barba
lunga, incolta, zeppo dei suoi escrementi. Accolto come Gesú, l’amico
Carlo lo metteva sotto la doccia, gli taglia la barba ed i Capelli.
Sorpresa: quando lo vedo sul letto non lo riconoscevo piú. É un
altro, sempre quello di prima, ma è un’altro. Gli chiedo l’etá: 57 anni.
Non ci posso credere. Sembrava come averne 80 appena arrivato. Che cosa
ha fatto la differenza? Prima non aveva conoscenza di essere “Tu che mi
fai”, adesso SI' e questo cambia, ricostruisce l’io, rinasce l ‘uomo.
Come? Mediante un abbraccio… é ancora quell’abbraccio del Giuss che
raggiunge ogni giorno quelli che per il mondo sono solo degli “sporchi
barboni”. Mi viene in mente l’epitaffio che c’é sulla tomba di Santa Rita da Cascia: “l’amicizia é una virtú ma l’essere abbracciati é la felicitá”. Ora anche questo uomo, da una vita nella strada, é felice.
Come
la mia Rosetta, che mai ha perso il suo sorriso né quando le
amputaronno la gamba destra, né quando tutta metastasi perse l’udito e
il suo ginicchio diventò come un enorme pallone. In questo momento sono
venuti a salutarla dandole un bacino i suoi fratellini della Casita di
Belem. Un incontro incredibile… e che fatica dire loro una parola,
mentre mi guardavano sbigottiti con gli occhi spalancati, come
chiedendomi: perché?. “Rosetta é in paradiso, guardate il suo sorriso”. É
ció che sono riuscito dire loro. Ma sono bastate queste parole perché
si rendessero conto che quel TU ci ha reso una sola cosa per sempre e
che Rosetta é viva. Sì, quel TU che ha strappato anche loro della
violenza di ogni tipo, rendendoli felici.
In questo momento, é morta un’altra mamma.
Pregate
per me e per i miei figli e non dimenticate mai quel percorso della
conoscenza necessaria, sì, oh sì! per essere abbracciati e abbracciare
tutti.
Ripenso
e prego per Caterina per che guarisca, la figlia di Antonio Socci, per
il figlio di Achilli e di tanti altri, che sono in paradiso con la mia
Rosetta. “Io sono TU che mi fai”. Solo cosi anche in questo
momento il mio cuore riposa sicuro, mentre il dolore si fa
adorazione.
P. Aldo
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Postato da: giacabi a 22:51 |
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padre trento
Il cristianesimo felice
***
Il cristianesimo felice di una peccatrice malata di Aids e il moralismo triste che vanifica l’incarnazione di Dio
«Padre,
ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della
vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo
ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù
me stessa», mi ha scritto Fabiana
di Aldo Trento
Negli
ultimi giorni di agosto migliaia di persone hanno visitato la mostra
“Il Cristianesimo Felice”, allestita da un gruppo di architetti e
studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Brera presso il Meeting per
l’Amicizia fra i popoli, a Rimini. Più precisamente la mostra si chiama:
“Una vita felice per Dio e per il re. La vita quotidiana nelle
Riduzioni Gesuitiche”. Di fronte a questo titolo, in molti mi hanno
chiesto: «Perché parlate di cristianesimo felice? Esiste forse un
cristianesimo triste?». Ludovico Antonio Muratori, famoso storiografo del Settecento e autore di un libro che si intitola proprio Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, ha inteso provocarci proprio questa domanda. E la risposta è che sì, esiste un cristianesimo felice e sì, ne esiste anche uno triste. Però mentre il primo è un Avvenimento che
entrando nel mondo ha cambiato la vita di quanti lo hanno incontrato,
riconosciuto e accolto, e da cui è scaturita la civiltà dell’amore e
della verità, il secondo è un modo ideologico e moralista di guardare alle conseguenze del fatto cristiano, che mette in secondo piano il fatto cristiano stesso.
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo» dichiarava l’ultimo grande retore dell’impero romano, Mario Vittorino. È
proprio questo il contenuto della prima evangelizzazione dell’America
latina, che i padri della Compagnia di Gesù realizzarono nell’esperienza
delle riduzioni. In questi luoghi gli
indios Guaraní, affascinati dall’avvenimento cristiano, diedero vita,
in assoluta libertà, a una società fondata sull’amore e sulla ricerca
della verità, suscitando perfino l’ammirazione di Voltaire e Montesquieu.
Ma come è nata un’esperienza simile? Di che cosa si sono preoccupati i
gesuiti fin dal primo impatto con gli indios? È lo stesso Ruiz de Montoya, padre dei Guaraní impersonificato
da Robert De Niro nel bellissimo film Mission, a raccontarlo nel suo
libro La conquista spirituale del Paraguay: «Per
due anni non abbiamo parlato della morale cristiana, e in particolare
del VI e IX comandamento, perché non volevamo soffocare quelle piccole e
tenere piante che stavano per aprirsi alla vita con dei precetti
assolutamente incomprensibili per loro, poligamici da sempre. Per due
anni abbiamo annunciato senza stancarci la bellezza dell’Avvenimento
cristiano. E sarà il fascino di questo Fatto che permetterà alla loro
libertà di chiedere il matrimonio monogamico». Non è per una decisione etica che si diventa cristiani, ma per un incontro vivo, l’incontro con il Fatto cristiano di cui parla padre Ruiz de Montoya. È questo che cambia la vita, ci dice Benedetto XVI.
Cosa
vuol dire che la vita cambia? Il segno, come accadde a me, è una
rinascita dell’Io, che ogni giorno si guarda allo specchio e si sorride:
comincia a guardarsi con gli occhi di Dio. Ossia uno vive guardando con
sorpresa come cresce il proprio Io, come diventa grande e maturo. L’Io
non può essere definito da regole e precetti, non può vivere sempre
scandalizzandosi dei limiti propri e stracciandosi le vesti di fronte a
quelli altrui, perché così diventa disperato. L’Io
cambia se è totalmente afferrato da quel “Tu che mi fai”. La moralità
di un uomo si vede se è felice, ed è felice quando il suo Io è definito
dal nesso con l’infinito. L’uomo morale è colui che vive cosciente che
“Io sono Tu che mi fai”. È l’uomo che in ogni momento vive un inizio di
pienezza, di corrispondenza, il cui segno visibile è la letizia.
Recentemente alcuni religiosi mi hanno chiesto: «Perché molti abbandonano la propria vocazione?». Perché non
sperimentano in ogni momento quella soddisfazione che il cuore
desidera, e un cuore vuoto o a metà non può reggere l’urto del mondo.
Il cristianesimo è l’incontro con un Uomo che si è fatto carne, perciò è
incontrabile oggi, e il cuore di chi lo incontra trabocca di letizia.
Il moralista al contrario è l’uomo “castrato” nel suo desiderio di
felicità, mortificato e scandalizzato dal limite, che cerca
farisaicamente di vivere aggrappato alle regole finendo per restarne
soffocato. È l’uomo che vive colpevolizzando gli altri, che a loro volta
lo soffocano con le loro miserie ripugnanti. Il cristianesimo felice è invece l’ironia e il sorriso di Dio che cambia la vita.
Le bellissime mostre su sant’Agostino e sulle riduzioni gesuitiche
presenti al Meeting di quest’anno ci testimoniano che il cristianesimo è
un fatto. È l’ironia, è il sorriso di Dio fatto carne… Sì, fatto carne solo ed esclusivamente per noi pubblicani, peccatori umilmente coscienti di ciò che ontologicamente siamo.
Che bello alzarsi ogni giorno e gridare “Io sono Tu che mi fai”, o ripetere insieme al profeta Geremia: «Di un amore eterno ti ho amato, per questo ho pietà del tuo niente». Scandalizzarci
del peccato e condannare il peccatore è davvero l’eliminazione non solo
dell’umano, ma anche del divino, che per il mio peccato sì è umiliato
facendosi uomo, per ridare a me e ad ogni uomo (“creatura divina”) il
sorriso e l’ironia dell’inizio dei tempi, quando «creò l’uomo a Sua
immagine e somiglianza». Dolorosamente, quando l’uomo elimina la
ferita lacerante del cuore che brama vedere il volto di Dio, si
appiattisce e cade vittima del fariseismo, schiacciato dalle regole e
dai precetti. I
Guaraní chiamavano Dio con la parola “Tupa”: “Tu”, cioè bellezza,
meraviglia; “Pa”, cioè chi ha fatto queste cose belle? Il riaccadere di
questo stupore, di questa domanda, è la fine del moralismo e l’inizio
della libertà, cioè della felicità.
Non esiste niente di più concreto capace di scrollarci di dosso il
polverone mediatico di questi giorni, che non il riaccadere di questo
sguardo, “Io sono Tu che mi fai”, in cui consiste la bellezza della
vita, e quindi in fondo anche la moralità.
Solitudine e desiderio
Il “cristianesimo felice” del Muratori, o il
“paradiso in Paraguay”, come ha definito Chesterton l’esperienza dei
gesuiti tra gli indios, ci dice che la spada e la croce in questo mondo
non si possono separare, così come il peccato e la Grazia, il santo e il
peccatore. È di questa consapevolezza, di questa libertà, che il mondo,
perdutosi nel gioco farisaico del puritanesimo e dell’idolatria delle
regole, ha estremo bisogno. Non si diventa cristiani a forza di
scrupoli, ma grazie a un incontro che è sempre presente nell’orizzonte
della vita, come un bellissimo sorgere del sole.
I
miei malati terminali me lo ricordano ogni giorno, loro, vittime delle
peggiori nefandezze cui può giungere la libertà umana… Eppure,
incontrando un uomo che si inginocchia davanti a loro abbracciandoli, il
loro sguardo diventa luminoso. «Padre,
ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della
vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo
ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù
me stessa», mi ha scritto in questi giorni Fabiana, una ragazza di appena diciannove anni, madre di una bambina di due. Chi
è più morale? Lei, peccatrice, o il borghese, il fariseo con il cuore
rinsecchito dalle sue false sicurezze e con il dito sempre puntato per
condannare, sempre dimentico di quanto ci ha detto Gesù: con la misura
con cui misuriamo saremo noi stessi giudicati?
Nei
giorni del Meeting ho incontrato un popolo di peccatori, cioè di santi
che si avvicinano a me non per parlarmi degli scandali dei politici –
che non interessano all’uomo d’oggi – ma per chiedermi: «Padre, sto
male, sono depresso, ho perso un figlio, mio marito mi ha abbandonato…
Per favore, può aiutarmi?». Ho
visto una grande solitudine, e nello stesso tempo un desiderio umano di
un senso ultimo per cui vivere, di poter incontrare qualcuno sul cui
volto si rifletta “il volto del Mistero”. Ho visto ancora una volta il
cuore dell’uomo mendicante di Cristo, e Cristo mendicante del cuore
dell’uomo.
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Postato da: giacabi a 08:28 |
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cattolico, pseudo recensioni, padre trento
Postato da: giacabi a 20:49 |
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padre trento
CRISTIANESIMO/
Educati a conoscere:
la storia delle Reducciones in Paraguay
***
INT. Bozidar Darko Sustersic lunedì 31 agosto 2009
Ha
più di ottantotto anni il professor Bozidar Darko Sustersic,
paraguayano docente di storia dell’arte a Buenos Aires e da decenni
rinomato studioso sia sotto il profilo artistico sia sotto il versante
storico delle “reducciones”, le riduzioni dei Guaranì al tempo
dell’arrivo dei Gesuiti nel suo Paese. Un’età avanzata che non spegne
però l’energia vitale trasmessa dagli occhi azzurri e vispi, dalla
lucidità del pensiero, dalla passione con la quale parla della storia
del proprio popolo nonché dall’indomabile voglia di vedere tutto, ma
proprio tutto quello che lo circonda all’ultima edizione del Meeting di
Rimini. Già, perché quest’anno il professore è, in un certo senso,
ospite privilegiato dal momento che una delle mostre è proprio dedicata
alla storia delle riduzioni in Paraguay, terra dove l’amico missionario
Don Aldo Trento, anch’egli presente alla kermesse riminese, da una
trentina d’anni segue le sorti della sua opera, una casa di accoglienza
per malati terminali. Là, nel cuore dell’America Latina.
Professor
Sustersic, solitamente parliamo di incontro fra la cultura occidentale e
quella orientale, in quali modalità si espresse invece il contatto fra
l’occidente moderno e il popolo guaranì?
Questo
è un argomento molto interessante intorno al quale mi piacerebbe
sentire l’opinione del professor Carmine di Martino che ha parlato della
cultura occidentale al Meeting di Rimini e che ho molto apprezzato. Per
quel che posso dire fu davvero “interessante” da entrambe le parti
venute a contatto. Mi spiego. Prima dell’arrivo dei Gesuiti, nel XVII secolo, i guaranì avevano già visto arrivare agostiniani e francescani.
Ma con questi ordini il rapporto fu alquanto difficile, perché la
figura di Gesù così come veniva introdotta non riusciva ad affascinare
il loro popolo. Fu grazie ai Gesuiti che le cose cambiarono e i guaranì,
che già nel loro credo aspettavano l’arrivo di una sorta di “messia”,
accettarono di buon grado il messaggio evangelico.
Per quale motivo i gesuiti conseguirono questo “successo” lungo la loro evangelizzazione?
Fu
una questione di approccio e comprensione della mentalità. I gesuiti
furono i primi, o più precisamente i più attenti, a non censurare, a non
cancellare interamente la cultura del popolo che andavano a
evangelizzare, bensì a completarla. Non si trattò dunque di una
sostituzione di credo, ma di una rivelazione a tutti gli effetti di
quanto i guaranì stavano attendendo.
Può fare qualche esempio?
Certamente,
ma prima di tutto vorrei approfondire quello che intendo per
“mentalità”. Occorre infatti tener presente che gli europei del XVII
secolo, come d’altra parte noi che ne siamo i discendenti, imperniavano
il proprio pensiero sulla logica aristotelica, il logos greco che,
incarnatosi nel Dio cristiano, trovava il compimento della ragione. Ora,
è chiaro che per formare una simile visione del mondo occorrono, come
sono occorsi, parecchi secoli e non qualche anno di missione.
I Gesuiti capirono che per parlare di Gesù Cristo sarebbe stato
necessario rifarsi alla sensibilità locale. Quest’ultima non era
lineare, logica e deduttiva, bensì incentrata sulla “selva”, sulla
compagnia, sulla tribù. Fu dunque un approccio assai più esperienziale
che teorico quello compiuto dai missionari che fondarono le reducciones.
E adesso arrivo all’esempio: in uno dei più ancestrali e sanguinari
rituali guaranì il guerriero più valoroso alla fine di una battaglia
veniva fatto a pezzi e mangiato dalla comunità perché ognuno potesse
così partecipare del suo valore. Lascio intuire come i gesuiti
riuscirono a spiegare l’Eucarestia. Ma soprattutto come furono sorpresi
di vedere l’entusiasmo mediante il quale i guaranì battezzati vivessero
tale sacramento.
Non si tratta però di svilire questo sacramento al cannibalismo?
In
primo luogo non era proprio cannibalismo, ma antropofagia. Una
differenza sottile, ma essenziale. Il sacrificio del guerriero aveva
tutti i connotati di un rituale religioso. Non mangiavano carne umana
abitudinariamente. Poi è ovvio che i convertiti avessero colto la
differenza sostanziale fra un gesto e l’altro. Ciò non toglie che la
grande coscienza con la quale si avvicinavano alla Comunione fosse in un
certo senso iscritta nel loro DNA. In poche parole il cristianesimo
dava il senso compiuto di quell’archetipo religioso che era
l’antropofagia presso le loro usanze.
Da un punto di vista morale che cosa cambiò?
In
questo campo ci sono divertenti esempi di fraintendimenti e
contraddizioni nel corso della trasmissione del messaggio cristiano in
Paraguay. Per esempio i guaranì non riuscivano a capire il concetto di
inferno, perché nella loro religione non c’erano i dannati, ma solamente
malvagi che dovevano transitare per qualche tempo in una sorta di
purgatorio. Di simile al Biblico ammonimento per il quale “chi risparmia
il bastone al proprio figlio non lo ama” avevano l’educazione paterna.
Se infatti un padre di famiglia puniva con delle percosse il proprio
figlio per uno sbaglio quest’ultimo lo ringraziava. Se ciò non avveniva
addirittura il figlio si sentiva poco amato al punto da chiedere:
«padre, perché non mi hai picchiato? Non mi ami più?».Interessante fu
invece come elaborarono la Resurrezione.
In che senso?
Nel
senso che per loro l’idea di morte era davvero molto diversa dalla
mentalità occidentale. In un certo senso l’avevano censurata. Nel
linguaggio guaranì non si diceva «vado a seppellire mio padre», ma «vado
a piantare mio padre». Come se il cadavere fosse un bulbo dal quale
sarebbe rinata la vita. In questo senso la
Resurrezione di Cristo venne proprio accettata come resurrezione di
tutte le resurrezioni. L’evento che permetteva il rinascere della vita.
Lei studia storia dell’arte. Quali cambiamenti portò l’incontro con la cultura Guaranì?
Uno su tutti il modo di dipingere la Madonna. A quel tempo infatti molti
pittori occidentali, chiamati ad affrescare chiese o a dipingere quadri
dal tema religioso, rappresentavano i santi, ma soprattutto la Madonna
con gli occhi rivolti al cielo oppure fissi verso l’infinito, con uno
sguardo assente. Numerosi sono i casi in cui i
guaranì si rifiutarono di pregare davanti a questo tipo di immagini. Il
motivo risiede nel fatto che contestavano l’idea di rivolgersi a
personaggi che non si degnavano di guardarli in faccia. «Se io prego»
pensavano gli indigeni «colui al quale mi rivolgo deve vedermi».
Insistettero così tanto su questo punto che alla
fine le rappresentazioni sacre vennero dipinte con gli occhi fissi
verso il basso, in direzione del popolo che pregava. Questa la trovo una
storia davvero commovente. Gli stessi gesuiti apprezzarono l’idea, un
atteggiamento più concreto nei confronti della presenza di Dio nella
vita quotidiana.
E furono molti gli episodi in cui si assistette a una compenetrazione
fra le due culture. Col tempo molti gesuiti asserirono di non aver
conosciuto altro popolo in cui la fede cristiana fosse così radicata, e
cominciarono ad augurarsi che tale fervore prendesse piede anche in
Europa.
Io stesso tutt’oggi penso che l’Europa dalla cristianità dell’America
Latina debba ricevere almeno tanto quanto in passato ha dato.
A proposito di cristianità, lei è amico di Don Aldo Trento. Come giudica la sua opera nel suo Paese?
Don Aldo Trento sta costruendo un’opera grandiosa.
Certo non si può dire tecnicamente che egli abbia rifondato le
riduzioni dei gesuiti, perché si occupa di malati terminali, ma voglio
raccontare un aneddoto. Una
volta portò con sé una donna giunta alla fine di una vita alquanto
infelice. Nel giro di pochi giorni in cui si era trovata nella casa di
don Aldo ella esclamò: «per tutta la vita sono stata maltrattata, e
adesso che sto per morire scopro che cos’è la felicità». E non aveva la
minima paura di morire, proprio perché, accortasi dell’esistenza della
felicità, per lei era chiaro che morendo sarebbe andata direttamente
alla fonte di tale esperienza che provava sulla terra. Credo che
l’esperienza delle Reducciones, la felicità che provarono i guaranì
accolti dai gesuiti non sia stata molto diversa da quella di questa
donna.
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Postato da: giacabi a 22:14 |
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padre trento
Il peccato luciferino del socialismo sudamericano
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Il peccato luciferino del socialismo sudamericano che ci ha promesso il Paradiso, ma ci ha consegnati all’Inferno
Con questo articolo padre Aldo Trento comincia la sua collaborazione con Tempi
di Aldo Trento
«Un
errore è una verità impazzita» diceva Chesterton. Ed è esattamente
questo ciò che è accaduto col socialismo del ventunesimo secolo. Ma
qual è la verità che è impazzita, e che sta all’origine e alla fine del
ben noto “asse del male” che unisce Castro, Chávez, Correa, Morales e
Lugo? La risposta non è rintracciabile nelle parole di questi personaggi, nelle loro utopie e nelle astrazioni in cui vivono, ma piuttosto nella
premessa antropologica che sta alla base dell’ideologia che si
propongono di incarnare. Bisogna chiedersi: che cos’è l’uomo, per questi
signori? È solo rispondendo a questa domanda che si può arrivare a
comprendere la menzogna che propinano. Essi partono, infatti, da una
verità indiscutibile: l’uomo ricerca, desidera, sogna la felicità. È la
struttura stessa dell’“io” che grida questa esigenza intima e
insostituibile dell’essere umano; perché l'io umano, qualunque cosa
faccia inclusa la peggiore, è mosso da questa tensione alla felicità.
La
felicità coincide col benessere della persona, con la sua soddisfazione
integrale: solo quando un uomo sta bene, è soddisfatto, è felice può
definirsi libero. Tutto il cammino dell’umanità nel corso dei secoli si
riassume nella bellissima domanda di san Francesco: «Quid animo satis?»,
che cosa soddisfa realmente il cuore dell’uomo?
Ogni movimento filosofico, sociale, politico, qualsiasi ideologia parte
da questa esigenza umana. La fortuna del marxismo è coincisa con la sua
abilità di illudere la gente con la vana promessa che il paradiso
consistesse nell’assalto al Palazzo d’Inverno, come veniva chiamato il
Cremlino, residenza degli Zar e simbolo del potere che opprimeva il
popolo. E così il grido marxista “proletari di tutto il mondo, unitevi”
nasce dall’intelligenza di Karl Marx che percepì l’esigenza, non solo
individuale, ma del proletariato del XIX secolo, di essere felice. E di
conseguenza, il suo desiderare un mondo nuovo.
“Forza
compagni, distruggiamo tutto e costruiamo un mondo nuovo. Forza
compagni, afferriamo la falce e il martello e uniti cambieremo questo
mondo”. La falce e il martello erano i simboli dell’utopia comunista.
Però, se davvero è questa la verità che tutti cerchiamo, – perché
il cambiamento, cioè la felicità, è l'anelito che ci definisce nella
profondità del nostro essere – perché questa verità è impazzita, cioè si
è trasformata in bugia, inganno?
L’illusione
che la felicità coincida col benessere economico e sociale della
persona, con la risposta alle sue necessità biologiche e psicologiche.
Una visione parziale dell'uomo, che censura la verità primordiale
dell’“Io”, che è relazione con l’Infinito. Per
il marxismo l’uomo è “un tubo digerente”, un ingranaggio del sistema
funzionale alla collettività. Per Marx l’uomo non coincide con la
persona: a lui non interessava l’individualità ma la funzione che
ciascuno ricopre nella salvezza prevista dalla cosiddetta “nuova società
socialista”. Ricordo bene quando col cervello annebbiato da questa
ideologia gridavamo per le strade “il privato non esiste, quello che
conta è il pubblico!”. La
visione trascendente dell’uomo, che è poi la dimensione qualitativa
dell’Io, era totalmente eliminata, censurata, negata. Da qui l’ateismo
di Stato che diede origine ad ogni forma di violenza.
Il
socialismo del secolo XXI incarnato da Castro e Chávez altro non è se
non il figlio diretto e abortito di questa posizione. E cos’è il
chavismo se non l’illusione, nel ventunesimo secolo, di poter rispondere
al desiderio di felicità dell’uomo dimenticando la trascendenza di
quello stesso uomo? Il populismo, la nuova malattia che affligge la
maggioranza dei paesi latinoamericani, altro non è se non un uso
strumentale del bisogno ontologico dell’uomo, imponendo un’ideologia di-
sumana,
che pretende di risolvere il dramma dell’uomo con l’illusione di un
benessere economico, peraltro strutturalmente impossibile, a cui manca
una visione integrale della persona. Per di più un benessere a buon
mercato, costituito da un sussidio economico che consente a tutti di non
morire di fame e favorisce l’assistenzialismo suicida del popolo stesso. Mai
i paesi caduti sotto il comunismo hanno conosciuto tanta miseria e
infelicità come durante gli anni in cui furono vittime della violenza di
questo mostro. Certo avere di cui cibarsi e di cui coprirsi è importante. Ma
“non di solo pane vive l’uomo”, perché è relazione con il Mistero. E se
non lo incontra, cade nella disperazione. O il benessere dell’uomo è
totale, integrale, oppure è un terribile malessere. È ciò che papa
Benedetto XVI spiega nella sua enciclica Caritas in Veritate, quando
afferma che il nome dello sviluppo è Cristo, e che la povertà peggiore è
la perdita del senso della vita che nasce dalla realtà. Perdita a sua
volta originata dal fatto che l’uomo ha eliminato Dio dal suo orizzonte.
Pupazzi e fannulloni
La
diabolica pretesa che l’uomo, novello Lucifero o Prometeo, possa con le
sue mani realizzare il mondo nuovo, possa con le sue forze cambiare il
mondo, trasformarlo, risponde al desiderio di felicità che lo definisce.
È la prima tentazione, quella in cui caddero Adamo ed Eva e i poveri
illusi della Torre di Babele. Cosa
pretendono i padri dell’“asse del male”? Di cambiare Cuba, Venezuela,
Ecuador, Bolivia e Paraguay con le loro proprie mani, sfidando Dio e
affermando, in pratica, che ciò che Dio non è riuscito a compiere, essi
lo faranno. È la posizione diabolica che Cristo respinse quando fu
tentato dal demonio, e che questi signori, al contrario, hanno assunto
come pratica di vita e di governo. Non c’è peggior menzogna
dell’orgoglio quando si impadronisce dell’essere umano, spingendolo ad
autodefinirsi Dio o a sostituirsi a Lui.
E il fatto che questi signori non amino la Chiesa, questa Chiesa reale e
in comunione col Papa, mostra quanto siano convinti del fatto che
nemmeno Cristo e l’annuncio cristiano siano riusciti ad ottenere in
America Latina ciò che loro, e soltanto loro, sono in grado di
realizzare.
Le conseguenze evidenti sono la progressiva perdita di libertà, la
paura della diversità, un nazionalismo disperato che rinnega la
tradizione, l’assistenzialismo alienante, una classe di fannulloni che
vivono al fianco del potere come pupazzi incapaci di un’intelligenza
creativa, e il sottosviluppo culturale indispensabile al potere per
sussistere. Sarebbe sufficiente un viaggio in Bolivia, per vedere con i
propri occhi la miseria del socialismo del secolo XXI.
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Postato da: giacabi a 20:38 |
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comunismo, padre trento
La reducción del cristianesimo felice
Nel
“castello” di don Aldo ad Asunción, dove centinaia di paraguaiani
cercano una famiglia, un rifugio o anche solo una carezza prima di
morire. La cittadella che commuove perfino i “nemici” al governo
***
Nella
parrocchia di San di San Rafael ad Asunción sorge un castello. Che è un
po’ come la Fabbrica del Duomo di Milano. Sempre in costruzione. E in
perenne manutenzione. Oggi chi scrive ricapitola il suo passaggio in un
angolo di cristianesimo felice. E prende nota. Asilo e scuole per 200 bambini. Clinica
per malati terminali. Venticinque letti che raddoppieranno il prossimo
anno a fronte dell’apertura della nuova clinica con facciata scolpita da
artista locale e cupola di Etsuro Sotoo, architetto giapponese erede di Gaudí, responsabile dei lavori alla Sagrada Famiglia di Barcellona. Poliambulatorio. Sede dell’Observador Semanal, che esce ogni giovedì allegato al quotidiano laico di tiratura nazionale Ultima Hora. Libreria e sede della casa editrice Editorial San Rafael. Farmacia. Casa
di riposo per anziani. Casita de Belén, per l’accoglienza di bambini
abbandonati e/o malati. Pizzeria ’O sole mio. Caffè letterario. Boutique
di artigianato. Agenzia di viaggio. Cooperativa per il microcredito. Negozio di articoli religiosi.
Inoltre, appena fuori città, dependance del castello, una fattoria, La
Granja, dove ci sono voluti cinquecento camion di terra e sassi per
trasformare una palude appestata da serpenti e altri animali poco amici
dell’uomo in un ranch di lusso, con giardini inglesi, cavalli, mucche e
una sorgente di acqua minerale che si è cominciato a imbottigliare e a
commercializzare.
Un morto raccolto per strada
Tutto
ha inizio cinque anni orsono, racconta il medico e compagno di viaggio
Roberto Sega, «con un morto raccolto per strada, caricato in macchina e
seppellito in parrocchia». Quante volte padre Aldo Trento si era trovato
in quella circostanza, aveva visto un cadavere, si era fatto il segno
di croce, aveva recitato un Gloria e poi passi lunghi e ben distesi?
Tutto ricomincia ogni mattina, prima dell’alba, in una clinica per
malati terminali voluta dal prete dopo quel morto, tra pareti domestiche
che sanno di amore, corridoi illustrati da riproduzioni di Van Gogh,
lettini di ferro che ricordano fantaccini agonizzanti in ospedali da
campo. Con l’unica e non piccola differenza che qui le latrine e gli
altri locali da trincea sono lindi e profumati come potrebbero esserlo
le migliori beautyfarm, con annesse palestra, musica e massaggiatrici. In
questa Casa della Divina Provvidenza intitolata al santo e medico
italiano Riccardo Pampuri, una sessantina tra medici, infermiere e
volontari accompagnano al trapasso in Cristo decine di esseri umani
giunti agli ultimi respiri. Qui incontriamo la suora
carmelitana Sonia Maria della Croce, una donna di una bellezza
stupefacente. Una innamorata di Cristo che vive 24 ore su 24 in un
hospice con persone come Pablo, 22 anni e un sarcoma alla spalla che gli
pesa e puzza fino a togliergli il fiato, fino a fargli vomitare il poco
che ha mangiato. O come Gloria, 27 anni e una metastasi ossea che è un
coltello che entra ed esce ad ogni istante in quegli occhi così belli,
in quel volto così da madonna.
Il posto più pulito del paese
E
va bene – uno si chiede – dove sta il trucco in questo film? Niente
trucchi e niente film. Tutta realtà da morirci dentro. Da viverci in un
crescendo di stupore e di ammirazione che fanno venir voglia ai tanti
che sono passati e passano di qui di dire, come quel tale dei Vangeli,
«Signore, piantiamo delle tende e restiamo qua». Di uomini, donne,
vecchi e bambini in fin di vita, dal 2005 ad oggi, nell’hospice di don Aldo ne sono passati settecento. Morti
e, dice la fede cattolica, ora viventi nella comunione dei santi.
Eccolo Victor, tre anni, idrocefalo che doveva essere stecchito da un
pezzo. Victor che gemeva in continuazione e che adesso non geme più.
Chissà perché. Chissà cosa può capire della compagnia che gli fanno gli
altri tre piccoli idrocefali che gli hanno messo in stanza,
quell’esserino il cui cervello è stato spappolato da un liquido che gli
sgorga in continuazione nella testa, come un rubinetto rotto che
continua a sversare e premere sulle cervici. Victor,
un bambino ridotto a ostia, a trasparenza come di medusa in cui ogni
filamento è una vena o un’arteria che pulsa nelle notti blu dello
strepitoso emisfero australe. Dove le stelle sono cascate di
fuochi d’artificio e la mezza luna ha la gobba che non guarda né a
Occidente né a Oriente. Ma guarda a Sud o a Nord. Luna dei cieli
stellati del Paraguay a cui il corpicino di Victor grida: «Ed io che
sono?».
In
un paese dove due bambini su tre non sanno chi è il loro padre, né
sanno se i loro fratellini e sorelline siano figli di primo o di
ennesimo letto della loro madre, qui, accanto all’hospice, accanto alla
pizzeria sorta per iniziativa di una cooperativa di sopravvissuti al
carcere o a una dura malattia, la pizzeria dove ogni sabato sera passa
la festa dei malati che possono ancora ingoiare un pezzo di pasta col
pomodoro e farsi un segno di croce al passaggio della bara aperta (così
usa ad Asunción, e – badate – la pizzeria degli amici di don Aldo è
frequentata da gente comune, bella gioventù e buone famiglie),
in due casette piantate in un buon quartiere residenziale, un plotone di
bambini ora festosi, ieri perduti o abbandonati come cani per strada,
violati dalla bestialità di adulti scriteriati o malati di Aids, bambini
tra gli uno e i sedici anni, chiamano “padre” don Aldo e “madre”
Cristina, una ragazza che ha perso due figli e ne ha ritrovati a decine
sotto le ali delle opere di carità sorte dalla fede di un povero prete,
malato di depressione e d’amore. «Come quella volta che dissi a don
Giussani: ma non si tratta solo di sentimento, qui c’è di mezzo qualcosa
che ti scombussola le viscere alte e il basso ventre. E lui: “Quando sei lì lì per arpionarla, dì un gloria al padre, e che Dio ti protegga amico mio”».
Un
pretino venuto dal Sessantotto, che doveva finire spretato in qualche
comune dionisiaco-guevarista e invece è stato arpionato col suo povero
comunismo terzomondista dall’obiezione di un ragazzino di Battipaglia.
Un ragazzino di don Giussani che un giorno gli disse: «Prof, non è così che si cambia il mondo, ma con la nostra amicizia che ha origine in Gesù. E dovrebbe essere lei a insegnarlo».
È per questo che, molti anni dopo quell’incontro, il montanaro venuto
da un paesino del Bellunese ha fatto incidere all’entrata della sua
chiesa paraguaiana la testimonianza dei primi padri gesuiti che
cristianizzarono i guaraní e li protessero fino al martirio dai fratelli
degli imperi cattolici e protestanti. Che nel nome delle nuove idee
moderne e progressiste vennero dall’Europa per schiavizzare gli indios
e, infine, sterminarli. «Padre Louis de Montoya ci insegna che l’essenza dell’antropologia cristiana e il cuore dell’esperienza gesuitica è l’affermazione della supremazia dell’ontologia sull’etica, dell’avvenimento sulle conseguenze, della grazia sulla norma».
Una supremazia laica. Basti pensare che quando i gesuiti arrivarono
nelle selve del Paraguay la speranza di vita media di un indio era di 26
anni. Quando se ne andarono, alla fine del Settecento, 56 (quella degli
italiani nell’immediato Dopoguerra dello scorso secolo era di 58 anni).
Come i gesuiti del Cinquecento
Vent’anni fa don Giussani promise a don Aldo che avrebbe fatto grandi cose. Lui
piangeva, era depresso, si era innamorato di una vedova, voleva morire.
«Bene, adesso che sei diventato un uomo – gli disse Giussani – la tua
vocazione fiorirà». E così è stato. Il simbolo visivo di questa
vocazione fiorita per la felicità di sé e dei fratelli uomini è il
castello, letteralmente un castello, con tanto di muri di cinta,
merlature, passaggi reconditi, cavalieri scolpiti da Ferdinando
Pistilli, un artista recentemente scomparso, dallo stile che ricorda il
grande Giacometti. Un castello costruito ad arte e a imitazione delle
amate reducciones gesuitiche, quelle comunità cristiane di indios sparse
per tutta l’America latina che don Aldo ha illustrato in una strepitosa
mostra allestita al Meeting di Rimini 2009, e che proprio in Paraguay
ebbero la loro principale fioritura. Di queste comunità sorte intorno
alla metà del Cinquecento, che durarono centocinquant’anni e furono
distrutte dalla furia imperialista e schiavista delle potenze europee,
la parrocchia di San Rafael vuol essere ideale erede. Ecco,
nel cuore di uno dei paesi più poveri del mondo, dove il tre per cento
degli abitanti possiede tutte le ricchezze (e dunque si capisce che il
Pil pro capite di 200 dollari mese è una statistica che non spiega come
stanno i conti domestici dei sei milioni di abitanti sparsi su
quattrocentomila chilometri quadrati, centomila in più dell’Italia con i
suoi sessanta milioni di abitanti); dove le più importanti e
sterminate coltivazioni di soia, canna da zucchero e manioca sono
gestite da colonie agricole di multinazionali laiche e sette religiose
di tedeschi, ucraini, polacchi; dove la metà della popolazione vive da
campesino in proprietà agricole grandi come intere regioni italiane,
mentre solo il 2 per cento risiede nel Grande Chaco, una steppa
semidesertica che copre il 60 per cento del territorio del Paraguay;
dove le scuole scarseggiano, la corruzione è regina, il contrabbando
fiorisce e trova uno dei punti di maggiore attrazione internazionale a
Ciudad del Este, famosa città sui tre confini, Paraguay, Brasile,
Argentina; dove la migliore sanità è costituita dalla fortuna di non
beccarsi il parassita che scivola nel cuore e lo fa scoppiare o di avere
i soldi per acquistare le medicine per la chemioterapia; in tutto
questo casino don Aldo Trento ha piantato un seme di umanità che produce
curiosità, rispetto, ammirazione e – aspetto decisivo – contagio,
emulazione. «È impressionante vedere come questa gente impari imitando.
Mangio le mele verdi argentine? I miei bambini, che non hanno mai visto
una mela, vogliono solo mele verdi. Nasce la pizzeria a San Rafael? Ecco
che in città sorgono come funghi locali dove si serve pizza. Piantiamo
ficus benjamin? Tutti mi chiedono un ramo per piantarlo. Insegno ai
bimbi che le regole servono perché nella comunità regnino bellezza,
ordine, rispetto e disciplina? Le mamme applicano anche a casa il metodo
dei “cercatori della terra senza male”, una specie di catechismo in
azione, una sorta di scoutismo, che abbiamo organizzato qui in
parrocchia sotto un titolo che ricorda l’esperienza religiosa dei
guaraní, il cui Dio insegnava a cercare, appunto, “la tierra sin mal”».
Cristianesimo felice è quello che si radica in una ossessione di
bellezza, ordine, pulizia. Un
posto dove Gesù Cristo non insegna valori a nessuno. Ma porta il fuoco e
la bellezza, anche i più elementari. Dalla cura del mare di begonie che
colorano di rosa l’entrata della chiesa ai pavimenti tirati a lucido,
dentro e fuori ogni angolo della parrocchia. Uno si chiede se tutto
questo è spiegabile con una concezione della fede come metodo. O se nei
paraggi di San Rafael c’è una grossa azienda di pulizie. Appurato che
non c’è , ci si deve arrendere alla constatazione di maestro Rubin: «Non ci credo, ma se questo è Dio, quasi quasi ci credo».
Chi è Rubin?
Humberto Rubin è uno dei più autorevoli giornalisti paraguaiani,
anchorman tv e fustigatore per via radiofonica dei vizi della nazione.
Ebreo agnostico dal background ideologico alla Michele Santoro e un
cervello da Giuliano Ferrara. Cocktail micidiale. Sua moglie, ministro
delle Pari opportunità, è un tipetto femminista che pare abbia vietato
l’entrata in Paraguay perfino al compagno Manuel Ortega, presidente
nicaraguense coinvolto in uno scandalo di violenza sessuale. Bene,
dopo aver cercato invano di attirare don Aldo in una di quelle
trasmissioni dove si parla di preti e omosessualità, con le solite ovvie
implicazioni dell’agguato a mezzo televisivo intorno ai mali della
Chiesa, la pedofilia, l’omofobia, l’arretratezza culturale e
scientifica, Rubin si è presentato in parrocchia armato di taccuino,
troupe e telecamere. Doveva essere una fucilazione. È finita nella
“quasi”conversione del fucilatore. Un’ora di trasmissione con immagini
di malati e bambini ripresi in primo piano, che mai nessuna tv al mondo
manderebbe in onda per non incorrere nelle sanzioni previste dalle leggi
su privacy e minori. «Mi
scuso con i telespettatori, mi assumo tutta la responsabilità di quanto
state vedendo, mi dispiace, ma anche questa è la realtà». Così
avverte Rubin nel mezzo di un filmato cominciato sotto il Santissimo
esposto nell’hospice e con il quesito sarcastico del conduttore: «Cos’è questa roba qui e cosa c’entra la Madonna?».
Abbiamo
incrociato il fiume di lava incandescente sulla strada brecciata,
l’empedrado che comincia appena all’angolo della parrocchia di San
Rafael, mentre già alle sette del mattino urlava al telefono con un
collaboratore di Sotoo. Come la vuole questa scultura? Cosa deve
rappresentare in un hospice per morituri? E don Aldo con il suo
veneto-ispanico da cavernicolo, la voce concitata, al limite
dell’afonia: «Ricapitolare
in Cristo tutte le cose, questo è il tema. Tutto in Cristo resuscitato,
trasfiguratore della realtà. E poi il destino che ci aspetta, vivi e
morti, agonizzanti e nuovi nati, terra nuova e cieli nuovi, la creatura
che soffre e grida Cristo, Cristo vincitore della morte che attrae a sé,
alla felicità totale, tutte le cose». Uno si chiede se quest’uomo è matto. Oppure un altro, uno che nel nostro caso è
Federico Franco, vicepresidente del Paraguay e leader del maggior
partito di governo, congiunge le mani e chiede: «Padre, mi benedica».
«Chi si mette contro la Chiesa soccombe»
Signor
vicepresidente, chi è secondo lei don Aldo Trento? «È molto difficile
appurarlo, ma so che è impossibile imbattersi in padre Aldo senza poi
sentirsi attratti a seguirlo. La sua testimonianza mi fa piangere. Fa il
bene senza guardare a chi lo fa. È l’avamposto di un altro mondo.
Diciamo che è merito suo se oggi il Paraguay ha un legame speciale con
l’Italia. E dire che don Aldo ha fatto una infuocata propaganda contro
di me e il presidente Lugo durante la campagna elettorale. Ma come le ho
detto, quando lo si conosce non si può non diventare amici. Anzi,
fratelli». Il presidente Lugo si è allineato a Chávez, anche se su
posizioni più moderate, e il boliviano Evo Morales, un altro dei
presidenti dei paesi latinoamericani che come il Paraguay sono entrati
nell’alleanza bolivariana e chavista denominata Alba, ha appena fatto
una dichiarazione programmatica in cui sostiene che «la Chiesa cattolica
è un simbolo del colonialismo europeo e per tanto deve sparire dalla
Bolivia». Come la mette con questi “fratelli”? «Io rispetto le posizioni
del presidente Lugo e le decisioni del mio governo, ma non penso come
loro. In particolare credo
che la linea del presidente venezuelano sia completamente sbagliata,
perché vìola la democrazia, la libertà di stampa, la proprietà privata,
lo Stato di diritto. Quanto alle dichiarazioni di Morales, è chiaro che
dissento e mi dissocio completamente. Penso che gli scriverò facendogli
notare il fatto che chiunque è andato contro la Chiesa cattolica alla
fine ha dovuto soccombere».
Le peripezie di un ex vescovo al governo
Chissà
se vorrà dire qualcosa sui piccoli e grandi Antonio Di Pietro in giro
per il pianeta il fatto che secondo la classifica stilata dalla molto
politicamente corretta Transparency International i paesi più corrotti
dell’America latina sono gli stessi governati da caudillos andati al
potere sull’onda di parole d’ordine quali “lotta alla povertà, lotta
alla corruzione”. Classifica che, nell’ordine di apparizione, vede in
testa il Venezuela di Chávez, seguito da l’Ecuador di Correa e dal
Paraguay del presidente Fernando Armindo Lugo Méndez, già vescovo di San
Pedro e nipote di Epifanio Méndes Fleitas, che a metà del secolo scorso
fu esponente di punta dell’Associación Nacional Repubblicana, meglio
nota come Partito Colorado. Lugo non può ricordare che anche suo zio
brigò perché nel 1954 salisse al potere un giovane generale che i boss
colorado credevano di potere controllare e utilizzare per restituire
stabilità interna e affidabilità internazionale a un paese sconvolto da
continui colpi di Stato. Quel giovane generale si chiamava Alfredo
Stroessner. Ma invece di essere controllato, fu lui il controllore.
Mandò in esilio Epifanio e piegò il Paraguay a una dittatura feroce che
durò fino al 1989, anno in cui come il Muro di Berlino, anche Stroessner
divenne da un giorno all’altro un cascame storico. Gli sfilarono la
poltrona come se fosse la cosa più semplice e naturale. Come la muta
sfila la pelle al serpente. Altri vent’anni e il nipote di Epifanio era
lì, dopo una vocazione religiosa che lo condusse a entrare nel seminario
di una congregazione tedesca, la Società del Verbo Divino, a
raccogliere prima il sacramento dell’ordine sacerdotale, poi l’anello
pastorale del vescovo, infine la palma del presidente della Repubblica
del Paraguay. Una decisione maturata nel seno della cosiddetta teologia
della liberazione, avendo come consigliere il vecchio Leonardo Boff.
L’ideologo del Cristo poveraccista “stroncato” dal cardinal Ratzinger
prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. È forse per
distrarsi dalla fine ingloriosa di una teologia in dismissione che Boff
ha ingiuriato l’encilica Caritas in veritate con un «Benedetto XVI
dovrebbe leggersi Marx»? Comunque sia, il 20 aprile 2008, dopo sessantun
anni di generali giannizzeri e politici colorado, il prete e vescovo
Lugo ha conquistato la presidenza del Paraguay sostenuto da una
coalizione molto simile all’Unione di Romano Prodi, l’Alleanza
patriottica per il cambiamento, composta da partiti e movimenti che
vanno dalla Democrazia cristiana al Partito comunista. In realtà il
grosso dell’Alleanza è costituito dal Partito liberale radicale
autentico, un nome davvero troppo sfarzoso anche per il medio
latinoamericano retorico. Mentre il partitino democristiano di Lugo è
una formazione di peso infinitesimale nella coalizione. A dimostrazione
del fatto che Lugo è espressione del mondo clericale. È un fatto
deducibile sulla base dei risultati del voto: Lugo è stato votato dai
preti e soprattutto dalle suore, mentre il laicato cattolico ha votato
liberale o colorado. In effetti preti e suore lo chiamano “illuminador”.
E in lui il clero è convinto di aver trovato il profeta di un’epoca
nuova, dopo una lunga e frustrante storia di cristianesimo per il
socialismo fallito in tutti i continenti. E del resto Lugo, da parte
sua, una volta eletto, ha scelto di non mettersi in diretta
contrapposizione alla Chiesa. «Dal nuovo governo – ha spiegato a Tempi
il nunzio vaticano in Asunción, monsignor Orlando Antonini – mi
aspettavo un atteggiamento ostile, perché tutti sanno quali siano state
le nostre posizioni a riguardo della candidatura di Lugo. Mi attendevo
di essere dichiarato persona non grata. Ma da un autorevole esponente
dell’esecutivo mi è stato risposto: “E perché mai, eccellenza? Lei ha
fatto solo il suo dovere”. Devo dire che anche Lugo, da presidente, è
stato rispettoso nei confronti della Chiesa».
E
infatti, dopo aver ottenuto la spoliazione dalla veste ecclesiastica e
la riduzione allo stato laicale, Lugo ha chiesto perdono al Papa e ha
riconosciuto il figlio naturale avuto quando era vescovo della città di
San Pedro dalla relazione con una 24enne. Ora però il presidente non
accetta di sottoporsi all’esame del Dna che stabilisca se è vero, come
sostengono le signorine, che da vescovo abbia reso madri felici altre
cinque ragazze. Non bastando l’aver dovuto rinunciare a distribuire ai
poveri lo stipendio presidenziale perché, come ha dichiarato lo stesso
Lugo, «adesso quei soldi servono per pagare gli alimenti a una madre e
al suo bambino», sulla testa di un presidente che resta tra i più
simpatici e amati dell’America latina, adesso è piovuto un altro
scandalo a sfondo sessuale: uno degli imprenditori che ha finanziato la
sua campagna elettorale, forse per vendetta per non aver ottenuto il
posto di ministro che, a suo dire, Lugo gli aveva promesso, sostiene di
avere le prove di orge e amori pedofilici che si sarebbero svolti nella
residenza presidenziale e in cui sarebbe coinvolto pure il presidente
della Corte di giustizia, l’analogo della nostra Corte costituzionale.
L’avvocato di Lugo ha annunciato querele. Ma intanto la storia ha fatto
crollare di oltre dieci punti il suo indice di gradimento.
L’indigenista e il gesuita
Lugo
sorride: «Hola padre, mi raccomando la dieta. Come va il suo diabete?».
La scena si svolge nella fine mattinata di un giorno di fine luglio,
davanti al palazzo del Parlamento paraguaiano, prima che il presidente
entri nella conferenza stampa in cui annuncerà lo storico accordo con il
Brasile per la gestione di Itaipù, la più grande centrale idroelettrica
del mondo. Don Aldo Trento è stato tra i pochi sacerdoti che, insieme
al vescovo di Ciudad del Este e il nunzio Antonini, si sono schierati
apertamente contro il candidato vescovo. E Lugo sa bene fino a che punto
l’opinione e il giudizio del prete italiano pesino anche dentro il suo
palazzo. Ecco, tanto per fare un esempio, il passaggio che parla di lui
nel decreto numero 1996 licenziato dalla presidenza della Repubblica lo
scorso maggio, in occasione del bicentenario dell’indipendenza del
Paraguay: «Visto la nota presentata all’Eccellentissimo Signor
Vicepresidente della Repubblica da Padre Aldo Trento, della Fondazione
Centro San Rafael… dichiara di Interesse Nazionale la Commemorazione dei
400 anni della fondazione di San Ignacio Guazù, prima Riduzione
Gesuitica in Paraguay». Un atto politico e culturale che per un
presidente teologo della liberazione e indigenista, alleato di Morales e
di Chávez, è abbastanza singolare.
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