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domenica 19 febbraio 2012

Pascoli


"La grande aspirazione"
***
 
I
Un desiderio che non ha parole
v'urge, tra i ceppi della terra nera
e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera,
alberi schiavi! Dispergendo al cielo
l'ombra de' rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo
dentro la terra, sembra che v'accori
un desiderio senza fine anelo.
- Ali e non rami! piedi e non errori
ciechi di ignave radiche! - poi dite
con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite
solco d'odore; vedo voi lontano
cennar con fiamme piccole, infinite.
E l'uomo, alberi, l'uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano,
noi nostri fiori, voi vostre parole.
Giovanni Pascoli
§ 


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pascoli

sabato, 08 marzo 2008

IL FANCIULLINO lo sguardo di Marcellino

***


Egli (il fanciullino) nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammi­rando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da al­lora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché o­ra vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere un fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce. [ ... ]
Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adat­ta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impiccio­lisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo è un segno, un suono, un co­lore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta. [ ... ]
Sì, anch'essi, gli oratori, ingrandiscono e impiccioliscono ciò che loro piaccia, e adoperano, quando loro piace, una parola che dipinga invece di un'al­tra che indichi. Ma la differenza è che essi fanno ciò appunto quando loro pia­ce e di quello che loro piaccia. Tu no, fanciullo: tu dici sempre quello che ve­di come lo vedi. Essi lo fanno per malizia! Tu non sapresti come dire altrimen­ti; ed essi dicono altrimenti da quello che sanno che si dice. Tu illumini la cosa, essi abbagliano gli occhi. Tu voi che si veda meglio, essi vogliono che non si veda più.
Tu sei ancora in presenza del mondo novello e adoperi a significarlo la novella parola. Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo. E in ciò è il mistero della tua essenza e della tua funzione. Tu sei antichissimo, o fanciullo!
E vecchissimo è il mondo che tu vedi nuovamente! E primitivo il ritmo (non questo o quello, ma il ritmo in generale) col quale tu, in certo modo, lo culli o lo danzi! Come sono stolti quelli che vogliono ribellarsi o all'una o all'al­tra di queste due necessita che paiono cozzare tra loro: veder nuovo e veder an­tico, e dire ciò che non s'è mai detto e dirlo come sempre si è detto e si dirà!
Non vuoi né ripetere il già detto né trovare l'indicibile; non vuoi essere né un’inutilità né una vanità. Vuoi il nuovo, ma sai che nelle cose è il nuovo, per chi sa vederlo, e non t'indurrai a trovarlo, affatturando e sofisticando.
Poesia è trovare nelle cose - come ho da dire? - il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serena­mente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima.
A volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercare lontano. Ma pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avervelo trovato fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi. Direte voi (non parlo a te, ora, o fanciullo, ma a cotali fanciulloni) direte voi che il sentimento poetico abbondi più in chi, torcendo o alzando gli occhi dalla realtà presente, trovi solo belli e degni del suo canto i fiori delle agavi americane, o in chi ammiri e faccia ammirare anche le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo in cui siede? E non voglio dire che non abbondi nel primo, quel sentimento, e non si trovi an­zi unito ad altre virtù di scienza e di fantasia che lo facciano giustamente am­mirabile; sebbene, come più agevolmente muove, così presto annoia il suo letto­re, e, a ogni modo, poiché le cose assenti, o non viste mai, sono sempre a tutti maravigliose, egli fa come l'uomo che pretende d'aver rallegrato con sue novel­lette l'uditore che, pure ascoltando, abbia bevuto largamente del vino letifi­cante. Egli è stato, forse, arguto e festevole; ma chi rallegra con la parola sua schietta, senza bisogno di calici, ha maggior merito.
Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggero freno all'instancabile desiderio, il qual ci fa per­petuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh! chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, in­sinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine?
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del Maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemme­no, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri pa­ga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere dagli altri. [...]
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova anco­ra tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola che si trova subito piena delle lagrime di tutti. Il poe­ta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno a­vrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. Ricordati che la poesia vera fa battere, se mai, il cuore, non mai le mani.

 Giovanni Pascoli da "PROSE"



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sabato, 04 agosto 2007

La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle
. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E`, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!

La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera
.
Giovanni Pascoli 

 

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pascoli

venerdì, 13 luglio 2007

Quando manca
 la Chiesa
***
I due orfani
I
Fratello, ti do noia ora, se parlo?»
«Parla: non posso prender sonno». «Io sento
rodere, appena...» «Sarà forse un tarlo...»
«Fratello, l'hai sentito ora un lamento
lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane...»
«C'è gente all'uscio...» «Sarà forse il vento...»
«Odo due voci piane piane piane...»
«Forse è la pioggia che vien giù bel bello».
«Senti quei tocchi?» «Sono le campane».
«Suonano a morto? suonano a martello?»
«Forse...» «Ho paura...» «Anch'io». «Credo che tuoni:
come faremo?» «Non lo so, fratello:
stammi vicino: stiamo in pace: buoni».
II
«Io parlo ancora, se tu sei contento.
Ricordi, quando per la serratura
veniva lume?» «Ed ora il lume è spento».
«Anche a que' tempi noi s'aveva paura:
sì, ma non tanta». «Or nulla ci conforta,
e siamo soli nella notte oscura».
«Essa era là, di là di quella porta;
e se n'udiva un mormorìo fugace,
di quando in quando». «Ed or la mamma è morta».
«Ricordi? Allora non si stava in pace
tanto, tra noi...» «Noi siamo ora più buoni...»
«ora che non c'è più chi si compiace
di noi...» «che non c'è più chi ci perdoni».
G. Pascoli



 

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chiesa, pascoli

mercoledì, 11 luglio 2007



"Il cieco "
I
Chi l'udì prima piangere? Fu l'alba.
Egli piangeva; e, per udirlo, ascese
qualche ramarro per una vitalba.
E stettero, per breve ora, sospese
su quel capo due grandi aquile fosche.
Presso era un cane, con le zampe tese
all'aria, morto: tra un ronzìo di mosche.
II
«Donde venni non so; né dove io vada
saper m'è dato. Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m'addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, né saprò mai...);
III
nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d'api,
si ruppe il tenue filo. E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano. Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su' due piedi. E l'aria in vano
nera palpo, e la terra anche, s'io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano
IV
addormentata. Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d'un'orma!
Egli è fuggito; è vano che l'insegua
per l'ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d'un sole,
V
che di là brilla! Vano il grido, vano
il pianto. Io sono il solo dei viventi,
lontano a tutti ed anche a me lontano
.
Io so che in alto scivolano i venti,
e vanno e vanno senza trovar l'eco,
a cui frangere alfine i miei lamenti;
a cui portare il murmure del cieco...
VI
Ma forse uno m'ascolta; uno mi vede,
invisibile. Sé dentro sé cela.
Sogghigni? piangi? m'ami? odii? Siede
in faccia a me. Chi che tu sia, rivela
chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
o si compiange della mia querela!
Egli mi guarda immobilmente, e tace.
VII
O forse una mi vede, una m'ascolta,
invisibile. È grande, orrida: il vento
le va fremendo tra la chioma folta.
Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento,
dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
sopra la palma, che mi guarda, e tace.
VII
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
cansar l'abisso che mi sento ai piedi...
di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n'odo incessante; e d'ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
tra un nero immenso fluttuar di mare».
IX
Così piangeva: e l'aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.
Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d'oblìo, volgeva; fin ch' - io so la strada -
una, la Morte, gli sussurrò - vieni! –
G. Pascoli
 

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pascoli, senso religioso


LA CHIESA


Il focolare
I
È notte. Un lampo ad or ad or s'effonde,
e rileva in un gran soffio di neve
gente che va né dove sa né donde.
Vanno. Via via l'immensa ombra li beve.
E quale è solo e quale tien per mano
un altro sé dal calpestìo più breve.
E chi gira per terra l'occhio vano,
e chi lo volge al dubbio d'una voce,
e chi l'innalza verso il ciel lontano,
e chi piange, e chi va muto e feroce.
II
Piangono i più. Passano loro grida
inascoltate: niuno sa ch'è pieno,
intorno a lui, d'altro dolor che grida.
Ma vede ognuno, al guizzo d'un baleno,
una capanna
sola nel deserto;
e dice ognuno nel suo cuore - Almeno
riposerò! - Dal vagolare incerto
volgono a quella sotto l'aer bruno.
Eccoli tutti avanti l'uscio aperto
della capanna, ove non è nessuno.
III
Sono ignoti tra loro, essi, venuti
dai quattro venti al tacito abituro:
a uno a uno penetrano muti.
- Qui non fa così freddo e così scuro! -
dicono tra un sospiro ed un singulto;
e si assidono mesti intorno al muro.
E dietro il muro palpita il tumulto
di tutto il cielo, sempre più sonoro:
gemono al buio, l'uno all'altro occulto;
tremano... Un focolare è in mezzo a loro.
IV
Un lampo svela ad or ad or la gente
mesta, seduta, con le braccia in croce,
al focolare in cui non è nïente.
Tremano: in tanto il bàttito veloce
sente l'un cuor dell'altro. Ognuno al fianco
trova un orecchio, trova anche una voce;
e il roseo bimbo è presso il vecchio bianco,
e la pia donna all'uomo: allo straniero
omero ognuno affida il capo stanco,
povero capo stanco di mistero.
V
Ed ecco parla il buon novellatore,
e la sua fola pendula scintilla,
come un'accesa lampada, lunghe ore
sopra i lor capi. Ed ecco ogni pupilla
scopre nel vano focolare il fioc
o
fioco riverberìo d'una favilla.
Intorno al vano focolare a poco
a poco niuno trema più né geme
più: sono al caldo; e non li scalda il fuoco,
ma quel loro soave essere insieme.
VI
Sporgono alcuni, con in cuor la calma,
le mani al fuoco: in gesto di preghiera
sembrano tese l'una e l'altra palma.
I giovinetti con letizia intiera
siedon del vano focolare al canto,
a quella fiamma tiepida e non vera.
Le madri, delle mani una soltanto
tendono; l'altra è lì, sopra una testa
bionda. C'è dolce ancora un po' di pianto,
nella capanna ch'urta la tempesta.
VII
Oh! dolce è l'ombra del comun destino,
al focolare spento. Esce dal tetto
alcuno e va per suo strano cammino;
e la tempesta rompe aspro col petto
maledicendo; e qualche sua parola
giunge a quel mondo placido e soletto,
che veglia insieme; e il nero tempo vola
su le loro soavi anime assorte
nel lungo sogno d'una lenta fola;
mentre all'intorno mormora la morte.
G. Pascoli
 

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martedì, 10 luglio 2007

IL SENSO RELIGIOSO

***
“non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via, sperar... che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!”
G.Pascoli
La vertigine da Nuovi poemetti
 

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pascoli, senso religioso

lunedì, 09 luglio 2007

IL SENSO RELIGIOSO
***
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi me, parla dunque: dove sono? Io voglio cansar l'abisso che mi sento ai piedi...
 di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio  n'odo incessante; e d'ogni intorno pare che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,  tra un nero immenso fluttuar di mare".
G. Pascoli, Il cieco, in Poesie

 

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pascoli, senso religioso

martedì, 26 dicembre 2006

 
Stella di Natale
Era pieno inverno.
Soffiava il vento dalla steppa.
E aveva freddo il neonato nella grotta
sul pendio della collina.
L'alito del bue lo riscaldava.
Animali domestici stavano nella grotta,
sulla culla vagava un tiepido vapore.
Scossi dalle pelli le paglie del giaciglio
e i grani di miglio
dalle rupi guardavano
assonnati i pastori...
E lì accanto, mai vista sino allora,
più modesta d'un lucignolo
alla finestrella d'un capanno,
tremava una stella sulla strada di Betlemme...
 

Boris Pasternak

 

********

 

Le ciaramelle

 

Udii tra il suono le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata né suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
Ognuno é sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;
suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa,suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.

                                                             

  Giovanni Pascoli 


 


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