CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


domenica 19 febbraio 2012

Pasolini


***
Una definizione di me stesso?

È come domandare la definizione dell'infinito.
(Pier Paolo Pasolini)

Postato da: giacabi a 22:22 | link | commenti (1)
pasolini

giovedì, 25 agosto 2011

Una domanda
a cui non so rispondere
***


Alcuni brani dello scrittore scomparso venticinque anni fa


di Fabio Pierangeli

Nostalgia del cristianesimo. Passione e morte. Come se, con le lucciole che scompaiono davanti al cemento delle città, possa morire anche quell’antica tradizione, legata al «paese di temporali e primule», alla civiltà contadina.
«Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, / dalle chiese, / dalle pale d’altare, / dai borghi [...] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»1 (Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa).
Non poco dell’opera di Pier Paolo Pasolini (nato a Bologna nel 1922, ma intimamente legato ai luoghi nativi della madre, il Friuli, il «paese di temporali e primule» dove visse alcuni anni fino al 1950) attinge a queste immagini:
«Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, / mai fui così volgare come in questa ansia, / questo “non avere Cristo” – una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine» (Poesia in forma di rosa).
Lontanissima eco di quel paese religioso, Pasolini la riconosce, fino alla metà degli anni Sessanta, nelle strade violente della borgata romana. Era arrivato nella capitale nel 1950, in misere condizioni economiche. Aveva dapprima abitato nel ghetto ebraico, a piazza Costaguti, poi nelle borgate accanto all’Aniene e in seguito, una volta risolti i problemi economici, a Monteverde.

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana
«Stella, stella guidaci nel cammino», dice Accattone, nel film omonimo, incontrando per la prima volta la ragazza (attrice friulana) che porta quel nome. Il suo sguardo, rivolto alla bionda Stella, smagato, furbetto, rassegnato, malizioso conserva per il regista una qualche autenticità creaturale, estranea alla grande omologazione. Non a caso Pasolini prova a più riprese ad ambientare tra quelle baracche, specie al Mandrione, nella Mortaccia e poi nella Divina mimesis, un poema, sulle tracce della Divina Commedia, omaggio all’amatissimo Dante. Non ci riuscirà.
Al di fuori di questo mondo del sottoproletariato, l’orribile e «volgare» mancanza si avverte a tutti i livelli, creando abnormi situazioni di noia e crudeltà. Come nelle sei tragedie, culmine, sia pur artisticamente debole, della violenta critica al mondo borghese, alla società del capitale e dell’interesse.
L’uomo è solo con se stesso, onnipotente, macabro, orgoglioso. Squallidamente annoiato dalle sue trasgressioni, come in Orgia. La ragione diventa follia, fissazione su un particolare, magari del passato, che non ritorna come si vorrebbe, non avendo più alcuna apertura alla realtà delle cose, come nel rapporto tra padre e figlio in Affabulazione. Niente accade di nuovo: è il segno del «vuoto volgare» che nei più intelligenti personaggi di Pasolini diviene appunto nostalgia di un avvenimento presente di novità.
Già riassuntivi i versi del poemetto Pietro II, del 1963, poi raccolti in Poesia in forma di rosa:
«Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca,
/ la ceralacca polvere, la polvere omissis.
/ Non una parola, o un accenno, o uno sguardo,
/ ah, uno sguardo, sono cristiani, per chi
/ ha l’abitudine, poco civile, certo, e un po’ angosciosa,
/ di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda.
/ Ah, dolce religione, del resto tante volte tradita,
/ nell’uomo in cui ti sei inaridita, nasce la pazzia
[...] L’io soffre
/ un’inestetica erezione: ha per sé un amore infelice [...]
Dove il Cristianesimo
/non rinasce, marcisce. E, contraddizione
/ mille volte, mille volte allusa
/ dal mio Cristo irriducibile,
/ finisce difeso da qualche Erodiano impazzito
/ macabramente privo di senso del ridicolo».

Del 1968 è Teorema, film e romanzo, ambientato a Milano. Pasolini pretende di inventare lui un dio carnale, l’Ospite. Anche artisticamente è fuori strada. La figura rimane irrisolta, la favola illusoria. Meglio riuscita la seconda parte, dove i personaggi, abbandonati dal dio che li aveva posseduti carnalmente, recitano diversamente la loro malinconia, fino a capire di abitare il deserto, pieni di una domanda, di un urlo straziante:
«IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. / [...] È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo».
Invocare l’attenzione di qualcuno che non si conosce e di cui si avverte il desiderio e la nostalgia. Dei movimenti e delle situazioni del romanzo l’urlo qui richiamato è ciò che resta più impresso.
Nel film Teorema le immagini rendono ancor più plasticamente la potenza dell’urlo finale. Sono fotogrammi che richiamano un altro finale quello del Vangelo secondo Matteo, racconto fedele di un fatto storico.
Nei finali dei due film citati la cinepresa sorprende il correre di uomini; la corsa solitaria e disperata di Paolo, protagonista di Teorema, nella cui pelle traspare la sabbia del deserto e il riflesso della luce, cielo e sudore, e la cui voce consegna al vento l’urlo disperato, anche oltre la parola fine. E la corsa stupita degli apostoli verso Gesù Cristo risorto che pronuncia una frase affascinante e commovente che abbraccia e dà respiro, completamente sorprendendola, alla genialità poetica dell’uomo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Quello che interessa è solo il presente.
«Caro Dio, / liberaci dal pensiero del domani [...] Caro Dio, / l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani [...] Caro Dio, / facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi» (Preghiera su commissione, in Trasumanar e organizzar).
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci), o di una rappresentazione, di una favola, di un sublime racconto (di fronte a cui è più sincera la ragione goliardica dei film picareschi, fino alla boccaccesca Trilogia della vita). Pasolini è come se volesse rivivere gli incontri evangelici in prima persona, chiamando amici e scrittori intorno a sé a recitare quell’evento. Perfino la madre dello scrittore interpreta la Madonna nel Vangelo secondo Matteo.
In una lettera del 27 dicembre 1964 a don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi, visitando la quale trovò spunto per il Vangelo secondo Matteo2, Pasolini scrive:
«Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere».
La Grazia: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Anche oggi, in un mondo in cui la grande omologazione, venticinque anni dopo quella notte tra il 1º e il 2 novembre all’idroscalo tra Ostia e Fiumicino in cui Pasolini fu ucciso, è trionfante.
«Dà angoscia il vivere di un consumato amore»: profonda e poetica saggezza umana. Attesa. Lo ha scritto Patrizio Barbaro. In Pier Paolo Pasolini. Biografia per immagini:
«“La vita finisce dove comincia”, ha scritto Pasolini. È una speranza. La vita comincia quando vi irrompe una novità bella e felice, una cosa imprevedibile e inaspettata. Allora la vita comincia nuova e tutto quello che c’era prima diventa subito irrimediabilmente vecchio, passato, nostalgia. Finisce. Ecco perché la vita finisce dove comincia. È un augurio. Che la vita cominci. Che accada un inizio» (p. 192).
Credo che Patrizio (scomparso nel ’99, il 29 settembre, come papa Luciani) ci guardi dal Paradiso.
Amava (ama) la realtà, il presente. E quindi Pasolini e i poeti. Non viceversa. Grato di quel dono semplice di aver intravisto nello sguardo di un amico l’accenno di una luce e di una speranza, anche dentro il tempo della malattia.
Poco prima di morire, sapendo di morire, ha scritto queste altre parole, sullo sguardo («ah, uno sguardo»), tema caro al cinema di Pasolini:
«L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La visione può essere simmetrica lineare o parallela in perfetto affiancamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c’è dubbio [...]. Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio».
DA:
logo - 30 giorni

***



Ah, miei piedi nudi, che camminate
sopra la sabbia del deserto!
Miei piedi nudi, che mi portate
là dove c'è un'unica presenza
e dove non c'è nulla che mi ripari da nessuno sguardo!
Bene. E cosa dire di me?
Di me, che sono dove ero, e ero dove sono,
automa di una persona reale
mandato nel deserto a camminare per essa?
IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE.
Perché guardo fisso davanti a me, come vedessi qualcosa?
E perché l'urlo, che, dopo qualche istante, 
mi esce furente dalla gola,
È un urlo che vuol far sapere, 
in questo luogo disabitato, che io esisto, 
oppure, che non soltanto esisto, 
ma che so. È un urlo 
in cui in fondo all'ansia 
si sente qualche vile accento di speranza; 

oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,
dentro a cui risuona, pura, la disperazione.

da: Teorema - Narrativa di Pasolini - Pagine corsare


Postato da: giacabi a 21:31 | link | commenti
pasolini

martedì, 02 agosto 2011

***
Come spesso mi accade di fare, apro a caso la Bibbia, e leggo il primo versetto che mi capita sotto gli occhi, per consultare quello che potrei chiamare lo spirito del mio destino: egli è il portavoce imparziale e spietato del parere di Dio. Naturalmente non sbaglia mai. Qualsiasi versetto io legga calza sempre alla perfezione al mio caso, con una precisione che mi agghiaccia.
(P. P. Pasolini)

Postato da: giacabi a 22:10 | link | commenti
pasolini

sabato, 01 gennaio 2011
Una domanda a cui non so rispondere

Una domanda a cui non so rispondere
Alcuni brani dello scrittore scomparso venticinque anni fa
di Fabio Pierangeli
***
      Nostalgia del cristianesimo. Passione e morte. Come se, con le lucciole che scompaiono davanti al cemento delle città, possa morire anche quell’antica tradizione, legata al «paese di temporali e primule», alla civiltà contadina.
      «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, / dalle chiese, / dalle pale d’altare, / dai borghi [...] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»1 (Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa).
      Non poco dell’opera di Pier Paolo Pasolini (nato a Bologna nel 1922, ma intimamente legato ai luoghi nativi della madre, il Friuli, il «paese di temporali e primule» dove visse alcuni anni fino al 1950) attinge a queste immagini:
      «Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, / mai fui così volgare come in questa ansia, / questo “non avere Cristo” – una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine» (Poesia in forma di rosa).
      Lontanissima eco di quel paese religioso, Pasolini la riconosce, fino alla metà degli anni Sessanta, nelle strade violente della borgata romana. Era arrivato nella capitale nel 1950, in misere condizioni economiche. Aveva dapprima abitato nel ghetto ebraico, a piazza Costaguti, poi nelle borgate accanto all’Aniene e in seguito, una volta risolti i problemi economici, a Monteverde.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fotografato nella sua casa romana
      «Stella, stella guidaci nel cammino», dice Accattone, nel film omonimo, incontrando per la prima volta la ragazza (attrice friulana) che porta quel nome. Il suo sguardo, rivolto alla bionda Stella, smagato, furbetto, rassegnato, malizioso conserva per il regista una qualche autenticità creaturale, estranea alla grande omologazione. Non a caso Pasolini prova a più riprese ad ambientare tra quelle baracche, specie al Mandrione, nella Mortaccia e poi nella Divina mimesis, un poema, sulle tracce della Divina Commedia, omaggio all’amatissimo Dante. Non ci riuscirà.
      Al di fuori di questo mondo del sottoproletariato, l’orribile e «volgare» mancanza si avverte a tutti i livelli, creando abnormi situazioni di noia e crudeltà. Come nelle sei tragedie, culmine, sia pur artisticamente debole, della violenta critica al mondo borghese, alla società del capitale e dell’interesse.
      L’uomo è solo con se stesso, onnipotente, macabro, orgoglioso. Squallidamente annoiato dalle sue trasgressioni, come in Orgia. La ragione diventa follia, fissazione su un particolare, magari del passato, che non ritorna come si vorrebbe, non avendo più alcuna apertura alla realtà delle cose, come nel rapporto tra padre e figlio in Affabulazione. Niente accade di nuovo: è il segno del «vuoto volgare» che nei più intelligenti personaggi di Pasolini diviene appunto nostalgia di un avvenimento presente di novità.
      Già riassuntivi i versi del poemetto Pietro II, del 1963, poi raccolti in Poesia in forma di rosa:
      «Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca, / la ceralacca polvere, la polvere omissis. / Non una parola, o un accenno, o uno sguardo, / ah, uno sguardo, sono cristiani, per chi / ha l’abitudine, poco civile, certo, e un po’ angosciosa, / di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda. / Ah, dolce religione, del resto tante volte tradita, / nell’uomo in cui ti sei inaridita, nasce la pazzia [...] L’io soffre / un’inestetica erezione: ha per sé un amore infelice [...] Dove il Cristianesimo / non rinasce, marcisce. E, contraddizione / mille volte, mille volte allusa / dal mio Cristo irriducibile, / finisce difeso da qualche Erodiano impazzito / macabramente privo di senso del ridicolo».
      Del 1968 è Teorema, film e romanzo, ambientato a Milano. Pasolini pretende di inventare lui un dio carnale, l’Ospite. Anche artisticamente è fuori strada. La figura rimane irrisolta, la favola illusoria. Meglio riuscita la seconda parte, dove i personaggi, abbandonati dal dio che li aveva posseduti carnalmente, recitano diversamente la loro malinconia, fino a capire di abitare il deserto, pieni di una domanda, di un urlo straziante:
      «IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. / [...] È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo».
      Invocare l’attenzione di qualcuno che non si conosce e di cui si avverte il desiderio e la nostalgia. Dei movimenti e delle situazioni del romanzo l’urlo qui richiamato è ciò che resta più impresso.
      Nel film Teorema le immagini rendono ancor più plasticamente la potenza dell’urlo finale. Sono fotogrammi che richiamano un altro finale quello del Vangelo secondo Matteo, racconto fedele di un fatto storico.
      Nei finali dei due film citati la cinepresa sorprende il correre di uomini; la corsa solitaria e disperata di Paolo, protagonista di Teorema, nella cui pelle traspare la sabbia del deserto e il riflesso della luce, cielo e sudore, e la cui voce consegna al vento l’urlo disperato, anche oltre la parola fine. E la corsa stupita degli apostoli verso Gesù Cristo risorto che pronuncia una frase affascinante e commovente che abbraccia e dà respiro, completamente sorprendendola, alla genialità poetica dell’uomo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
      «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Quello che interessa è solo il presente.
      «Caro Dio, / liberaci dal pensiero del domani [...] Caro Dio, / l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani [...] Caro Dio, / facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi» (Preghiera su commissione, in Trasumanar e organizzar).
      «Dà angoscia il vivere di un consumato amore» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci), o di una rappresentazione, di una favola, di un sublime racconto (di fronte a cui è più sincera la ragione goliardica dei film picareschi, fino alla boccaccesca Trilogia della vita). Pasolini è come se volesse rivivere gli incontri evangelici in prima persona, chiamando amici e scrittori intorno a sé a recitare quell’evento. Perfino la madre dello scrittore interpreta la Madonna nel Vangelo secondo Matteo.
      In una lettera del 27 dicembre 1964 a don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi, visitando la quale trovò spunto per il Vangelo secondo Matteo2, Pasolini scrive:
      «Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere».
      La Grazia: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Anche oggi, in un mondo in cui la grande omologazione, venticinque anni dopo quella notte tra il 1º e il 2 novembre all’idroscalo tra Ostia e Fiumicino in cui Pasolini fu ucciso, è trionfante.
      «Dà angoscia il vivere di un consumato amore»: profonda e poetica saggezza umana. Attesa. Lo ha scritto Patrizio Barbaro. In Pier Paolo Pasolini. Biografia per immagini:
      «“La vita finisce dove comincia”, ha scritto Pasolini. È una speranza. La vita comincia quando vi irrompe una novità bella e felice, una cosa imprevedibile e inaspettata. Allora la vita comincia nuova e tutto quello che c’era prima diventa subito irrimediabilmente vecchio, passato, nostalgia. Finisce. Ecco perché la vita finisce dove comincia. È un augurio. Che la vita cominci. Che accada un inizio» (p. 192).
      Credo che Patrizio (scomparso nel ’99, il 29 settembre, come papa Luciani) ci guardi dal Paradiso.
      Amava (ama) la realtà, il presente. E quindi Pasolini e i poeti. Non viceversa. Grato di quel dono semplice di aver intravisto nello sguardo di un amico l’accenno di una luce e di una speranza, anche dentro il tempo della malattia.
      Poco prima di morire, sapendo di morire, ha scritto queste altre parole, sullo sguardo («ah, uno sguardo»), tema caro al cinema di Pasolini:
      «L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La visione può essere simmetrica lineare o parallela in perfetto affiancamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Ma che certe volte si sveli non c’è dubbio [...]. Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio».


     
      Note
      1 La poesia è letta da Orson Welles nella Ricotta di fronte ad un giornalista.
      2
Si veda a questo proposito la testimonianza di Lucio Caruso su 30Giorni del novembre 1994.
© 30Giorni nella Chiesa e nel mondo. Tutti i diritti sono riservati

 

     

Postato da: giacabi a 07:49 | link | commenti
pasolini

mercoledì, 22 settembre 2010
Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m'hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d'estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell'avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po' di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell'estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d'incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l'anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.


Pasolini, Il pianto della scavatrice

Postato da: giacabi a 19:35 | link | commenti
pasolini

sabato, 11 settembre 2010

«Infantile ma un po’ ripugnante»
Nell’incompiuta pasoliniana il diavolo entra in scena nel frammento in cui compare il Potere con la P maiuscola. Nell’edizione Oscar Mondadori, siamo alle pagine 137-146, titolo: “Prima fiaba sul Potere (dal ‘Progetto’)”. In questo appunto un “affabulatore” racconta «la storia di un intellettuale dall’aria infantile ma un po’ ripugnante. (…) Non obeso ma tondo, gonfio di una carne insana, giallastra, (…) tutto tondo come se fosse fatto di cerchi concentrici, le sopracciglia tonde, gli occhi tondi, le guance tonde, trentacinque anni già cascanti, il mento tondo, la bocca tonda, (…) fronte abbondantemente stempiata, (…) radi capelli chiari – vagamente ascetici, da prete di paese, da avvocato di provincia». A chi corrisponde questo identikit? Chiunque sia questo misterioso intellettuale cattolico, un bel giorno egli viene visitato dal diavolo in persona. L’uomo «non sapeva ancora – all’inizio di questa nostra storia – quale fosse il fine reale della sua vita». Ci pensa Belzebù a rivelarglielo. «Allora, se tu non vuoi dirlo, te lo dirò io: lo scopo della tua vita è il Potere. Chiedimi attraverso che cosa vuoi il Potere e io te lo darò». Al che l’intellettuale sembra reagire dapprima con comicità fantozziana («Se lo dici tu…»), poi, come punto sul vivo, con un deciso: «Voglio raggiungere il Potere attraverso la Santità».
Segue cammino di santificazione e abbandono dei beni del mondo. «Visse in pura povertà (presso un convento della città natale, molto frequentato). Cominciò a elaborare un pensiero, che, non essendo affatto eretico, era tuttavia innovatore rispetto alla tradizione ecclesiastica. Si avvicinò moderatamente ai movimenti cattolici di sinistra, proclamando sempre con contrizione e modestia la sua fedeltà al Vaticano. Si precluse ogni contatto sessuale, e l’amore per la donna fu soppiantato dalla castità. Man mano che tutte queste operazioni venivano portate avanti, fino al punto estremo, i sintomi del potere cominciarono a manifestarsi. Intorno al nostro intellettuale santo si cominciò a creare prima un’atmosfera di prestigio, poi di rispetto, poi di profonda e silenziosa venerazione, e infine di un’alta, ispirata aspettativa».

La fiaba precipita nel dramma della radicalizzazione «della dissociazione teorica in cui era vissuto preparando la santità». Fede, Speranza e Carità si separano definitivamente. «Ogni forma di innovazione del pensiero religioso si rivelò impensabile al di fuori dell’eresia. Il cattolicesimo di Sinistra si rivelò inconciliabile col Vaticano». E siamo al colpo di scena: «È stato uno Scherzo. Il Diavolo non è una persona, ma una maschera». A manifestarsi, qui, secondo la narrazione pasoliniana, è Dio. Però, la conclusione della fiaba non lascia affatto tranquilli. Invitato dalla «Forza Luminosa» ad andare per la sua strada senza volgere lo sguardo indietro, l’uomo si incammina ma dopo pochi passi cede alla tentazione e si ritrova pietrificato come Lot. E Dio dov’è finito? «La Forza Luminosa era là. Ma non aveva più la faccia di Dio. Aveva la faccia del Diavolo».
 

Postato da: giacabi a 18:59 | link | commenti
pasolini

sabato, 14 agosto 2010

Solo nella tradizione è il mio amore
***
Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle Chiese, 

dalle pale d'altare, dai borghi 
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 
Giro per la Tuscolana come un pazzo, 
per l'Appia come un cane senza padrone. 
O guardo i crepuscoli, le mattine 
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, 
come i primi atti della Dopo storia, 
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe, 
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato 
dalle viscere di una donna morta. 
E io, feto adulto, mi aggiro 
più moderno d'ogni moderno 
a cercare i fratelli che non sono più.

Pasolini
"Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?
"Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.
"Che cosa ne pensa della società italiana?
"Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa." 
"Che cosa ne pensa della morte?
"Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione" 
Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia di Pasolini ("Io sono una forza del passato...), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest'ultimo idiotamente ride): 
"Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio." 
In un breve scritto del 1961, infine, Pasolini così si espresse: 
"Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di "imitatio Christi", quell'irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l'esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene".
«la tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che per caso si trovano ad andare per la maggiore»
Chesterton



Postato da: giacabi a 11:02 | link | commenti
pasolini, tradizione, chesterton

martedì, 13 luglio 2010

"Non aver paura di avere un cuore"
***

Pier Paolo Pasolini - 1 marzo 1975,
sul Corriere della Sera col titolo "Non aver paura di avere un cuore".
Contenuto in "Scritti corsari" col titolo "Cuore".


La "caccia alle streghe" è tipica delle culture intolleranti, cioè clerico-fasciste.
In un contesto repressivo, l'oggetto della "caccia alle streghe" (il "diverso")
viene prima di tutto destituito di umanità, cosa che rende lecita poi la sua
effettiva esclusione da ogni possibile fraternità o pietà: e, generalmente, in
pratica, anticipa la sua soppressione fisica (Himmler, i Lager).
Ma io ho più volte detto e ripetuto che la società italiana di oggi non è più
clerico-fascista: essa è consumistica e permissiva.
Il fatto dunque che in essa
possa scatenarsi una campagna persecutoria con arcaici caratteri
clerico-fascisti, contraddirebbe tale mia affermazione. Ma si tratta di una
contraddizione solo apparente. Infatti: primo, gli autori di tale goliardica,
volgare, spregevole campagna contro la "diversità" sono quasi tutti uomini
anziani, formatisi precedentemente all'età dei consumi e della sua sedicente
permissività; secondo, in effetti il consumismo altro non è che una nuova
forma totalitaria - in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al
limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio
(Marx) - e che
quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione
mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini.
Infatti (è la battuta di uno dei protagonisti del mio prossimo film, tratta da De
sade e ambientato nella Repubblica di Salò): "In una società dove tutto è
proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può
fare solo quel qualcosa". [...].

[...] Il potere non è più infatti clerico-fascista, non è più repressivo. Non
possiamo più usare contro di esso gli argomenti - a cui ci eravamo tanto
abituati e quasi affezionati - che tanto abbiamo adoperato contro il potere
clerico-fascista, contro il potere repressivo.
Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre
conquiste di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria
impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è
valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le
sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più.

In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica
possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della
merce come feticcio. Nulla più osta a tutto questo. [...
].
[...] Come polli d'allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova
ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione
e di di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è,
insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di
cui il potere dispone. Come polli d'allevamento, gli italiani hanno indi
accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo.
In questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti,
non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere. Dire che la
vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai
produttori.
E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani
non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non
ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono
rapidamente a liberarsene.
Che cos'è infatti che rende attuabili - in concreto, nei gesti, nell'esecuzione -
le stragi politiche dopo che sono state concepite? E' terribilmente ovvio: la
mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni
sentimento della propria. Che cos'è che rende attuabili le atroci imprese di
quel fenomeno - in tal senso imponente e decisivo - che è la nuova
criminalità? E' ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un
nulla e il proprio cuore un muscolo
(come dice uno di quegli intellettuali che
fanno più piovere sul bagnato, guardando con sussiego, commiserazione e
spregio dal centro della "storia" i disgraziati come me che vagolano disperati
nella vita). E infine vorrei dire che se dalla maggioranza silenziosa dovesse
rinascere una forma di fascismo arcaico, esso potrebbe rinascere solo dalla
scandalosa scelta che tale maggioranza silenziosa farebbe (e in realtà già fa
[e come se la fa, e questo arcaico fascismo si può dire che è rinato da tempo;
ndr]) tra la sacralità della vita e i sentimenti, da una parte, e, dall'altra, il
patrimonio e la proprietà privata: in favore di questo secondo corno del
dilemma. Al contrario di Calvino, io dunque penso che - senza venire meno
alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica - NON BISOGNA
AVER PIU' PAURA - come giustamente un tempo - DI NON SCREDITARE IL
SACRO O DI AVERE UN CUORE
.

Postato da: giacabi a 22:13 | link | commenti
pasolini

sabato, 29 maggio 2010
Venerdì 28 Maggio 2010 08:38

Un Pasolini del 1975 ci spiega cos’è stato, cos’è e cosa sarà L’Espresso
 ***

Tempi – 27 Maggio 2010 – Le lettere
 
 "[…] Ho "L’Espresso" in mano. Lo guardo e ne ricevo un'impressione sintetica: "Come è diversa da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov'è, dove vive?" E’ un’idea inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: "Essa vive nei Palazzo". Non c’è pagina, riga, parola in tutto "L’Espresso" che non riguardi solo e esclusivamente ciò che avviene "dentro il Palazzo". Solo ciò che avviene "dentro il Palazzo" pare degno di attenzione e interesse: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità ...[…]
Essere "seri" significa, pare, occuparsi di loro. Dei loro intrighi, delle loro alleanze, delle loro congiure, delle loro fortune; e, infine, anche, del loro modo di interpretare la realtà che sta "fuori dal Palazzo": questa seccante realtà da cui infine tutto dipende, anche se è così poco elegante e, appunto, così poco "serio" occuparsene. […] Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani. Sono sempre vissuti "dentro il Palazzo". Ma sono stati anche populisti, neorealisti e addirittura rivoluzionari estremisti: cosa che aveva creato in essi l’obbligo di occuparsi della "gente". Ora, se della "gente" si occupano, ciò avviene sempre attraverso le statistiche ed i sondaggi. […] A cosa si deve questo vuoto, questa diacronia? Perché la cronaca che è stata sempre così importante è ora chiusa in un reparto stagno, relegata in un ghetto mentale? Analizzata, sfruttata, manipolata, è vero, in tutti i modi possibili suggeriti dalle norme del consumo, ma non collegata con la "storia seria", non resa, cioè, significativa?[…] La domanda reale è: perché questa diacronia tra la cronaca e l’universo mentale di chi si occupa di problemi politici e sociali? Ciò che avviene "fuori dal Palazzo" e qualitativamente, cioè storicamente, diverso da ciò che avviene "dentro il Palazzo": è infinitamente più nuovo, spaventosamente più avanzato".
Mi fermo qui caro direttore. Lei sa bene che queste non sono parole mie. Siamo nel 1975. E’ Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera.
Fabio Cavallari.


Postato da: giacabi a 19:08 | link | commenti
pasolini

martedì, 26 gennaio 2010

Madre Teresa vista da Pasolini
***


Ho conosciuto dei religiosi cattolici: e devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce; un trapianto splendidamente riuscito. A Calcutta, Moravia, la Morante e io siamo andati a conoscere Suor Teresa,  una suora che si è dedicata ai lebbrosi. Ci sono sessantamila lebbrosi, a Calcutta, e vari milioni in tutta l’India. E una delle tante cose orribili di questa nazione, davanti a cui si è del tutto impotenti: in certi momenti ho provato dei veri impulsi di odio contro Nehru [3] e i suoi cento collaboratori intellettuali educati a Cambridge: ma devo dire che ero ingiusto, perché veramente bisogna rendersi conto che c’è ben poco da fare in quella situazione. Suor Teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla. La lebbra, vista da Calcutta, ha un orizzonte di sessantamila lebbrosi, vista da Delhi ha un orizzonte infinito.
Suor Teresa vive in una casetta non lontana dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato. Con lei ci sono altre cinque, sei sorelle, che l’aiutano a dirigere l’organizzazione di ricerca e di cura dei lebbrosi, e, soprattutto, di assistenza alla loro morte: esse hanno un piccolo ospedale dove i lebbrosi vengono raccolti a morire.
Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l’occhio dolce, che, dove guarda, «vede». Assomiglia in modo impressionante a una famosa sant’Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica.
Pierpaolo Pasolini da L'odore dell'India, Einaudi

Postato da: giacabi a 20:03 | link | commenti
pasolini, madre teresa


Pasolini e Madre Teresa

domenica 12 aprile, 2009
scritto da Laura Castelletti
***
 http://www.sanpaolo.org/madre06/0402md/images/0402md07.jpg
  Il ritratto di Pasolini
“Dove lei guarda, vede”.
Il primo a “scoprire” Madre Teresa, tra i nostri intellettuali, fu Pier Paolo Pasolini: la conobbe a Calcutta nel ‘61, in viaggio con Moravia. Ne rimase affascinato e la descrisse nel suo diario, Odore dell’India (Einaudi):Suor Teresa e’ una donna anziana, bruna di pelle, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili e l’occhio dolce, che dove guarda vede e ha nei tratti impressa la bonta’ vera. Devo dire che mai lo spirito di Cristo mi e’ parso cosi’ vivido e dolce. Un trapianto splendidamente riuscito”. Tanta era stata la commozione che Pasolini la ricordo’ “alta”, lei che era minuscola.

Postato da: giacabi a 14:46 | link | commenti
pasolini, madre teresa

domenica, 13 dicembre 2009

Gesù
***
 « L’umanità di Cristo è spinta da una tale forza interiore che per essa la metafora divina è ai limiti della metaforicità,  fino ad essere idealmente una realtà.».  

P.P. Pasolini. (Lettera al produttore del film Il vangelo secondo Matteo).


Postato da: giacabi a 08:47 | link | commenti
pasolini, gesù

venerdì, 21 agosto 2009

Cosa sono le nuvole
 ***
 (D. Modugno - P.P. Pasolini)

Che io possa esser dannato
se non ti amo
e se così non fosse
non capirei più niente
tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo
così

ahh ma l’erba soavemente delicata
di un profumo che da gli spasimi
ahh tu non fossi mai nata
tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo
così

il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso
perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta

ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura
l’unico e tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo
così



Postato da: giacabi a 13:01 | link | commenti
pasolini, canti

venerdì, 01 maggio 2009


Il vuoto di ideale
***
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale. 
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani. 
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione. 
Durante la scomparsa delle lucciole
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto" parlava Marx. 
Dopo la scomparsa delle lucciole
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste. 
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. “



Postato da: giacabi a 14:29 | link | commenti
pasolini

sabato, 14 febbraio 2009

IO SONO UNA FORZA DEL PASSATO
***
"Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d'altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l'Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe, dall'orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno d'ogni moderno a cercare i fratelli che non sono più".
 Pier Paolo Pasolini

Postato da: giacabi a 07:30 | link | commenti
pasolini, cristianesimo, tradizione

sabato, 21 giugno 2008

La sacralità
***
“«La polemica contro la sacralità e contro i sentimenti, da parte degli intellettuali progressisti, che continuano a macinare il vecchio illuminismo quasi che fosse meccanicamente passato alle scienze umane, è inutile. Oppure è utile al potere. Per queste ragioni sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c’è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi adoratori di feticci».
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane


Postato da: giacabi a 13:50 | link | commenti
pasolini

martedì, 17 giugno 2008

***
 Cristo ha accettato il tempo "unilineare", cioé quella che noi chiamiamo storia. Egli ha rotto la struttura circolare delle vecchie religioni e ha parlato di un "fine", non di un "ritorno"
Pasolini

Postato da: giacabi a 16:28 | link | commenti
pasolini, gesù

martedì, 13 maggio 2008

Abbiamo bisogno di Cristo
***
Alle volte è dentro di noi qualcosa che tu sai bene,
qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita:
un pianto eterno,
una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime..

 Pier Paolo Pasolini

Postato da: giacabi a 14:59 | link | commenti
pasolini, senso religioso

sabato, 15 marzo 2008
Sono contro l’aborto

Sono contro l’aborto
***
 Pier Paolo Pasolini - Articolo apparso sul Corriere della sera del 19 gennaio 1975, con il titolo “Sono contro l’aborto
Io sono per gli otto referendum del partito radicale, e sarei disposto a una campagna anche immediata in loro favore. Condivido col partito radicale l’ansia della ratificazione, l’ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia.
Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.
La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell’aborto, è il primo, e l’unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi, si appellano alla “Realpolitik” e quindi ricorrono alla prevaricazione “cinica” dei dati di fatto e del buon senso.
Se essi si sono posti sempre, anzitutto, e magari idealmente (com’è giusto), il problema di quali siano i “principi reali” da difendere, questa volta non l’hanno fatto.
Ora, come essi sanno bene, non c’è un solo caso in cui i “principi reali” coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. Nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l’intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza , nella sua sanità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo.
Perché io considero non “reali” i principi su cui i radicali e in genere i progressisti (conformisticamente) fondano la loro lotta per la legalizzazione dell’aborto?
Per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell’aborto (anche se magari nel caso di un nuovo “referendum” molti voterebbero contro, e la “vittoria” radicale sarebbe molto meno clamorosa). L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito dalle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.
Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore. Insomma, la falsa liberazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti: primo: risultato di una libertà sessuale dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza.
Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): la coppia ha finito dunque col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com’era nelle speranze democratiche). Secondo: tutto ciò che sessualmente è “diverso” è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). È vero; a parole il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludere che, prima o poi, alla televisione se ne parli pubblicamente. Del resto le “élites” sono molto più tolleranti verso le minoranze sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze). In compenso l’enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni , antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua “reale” tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato la sua storia. Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. È questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell’aborto e quindi l’abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata.
Ora, tutti, dai Radicali a Fanfani (che stavolta, precedendo abilmente Andreotti, sta gettando le basi di una sia pur prudentissima abiura teologica, in barba al Vaticano), tutti, dico, quando parlano dell’aborto, omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, cioè il coito.
Omissione estremamente significativa. Il coito – con tutta la permissività del mondo – continua a restare tabù, è chiaro. Ma per quanto riguarda i radicali la cosa non si spiega certamente col tabù: essa indica invece l’omissione di un sincero, rigoroso e completo esame politico. Infatti il coito è politico. Dunque non si può parlare politicamente in concreto dell’aborto, senza considerare come politico il coito. Non si possono vedere i segni di una condizione sociale e politica nell’aborto (o nella nascita di nuovi figli ) senza veder gli stessi segni anche nel suo immediato precedente, anzi, “nella sua causa”, cioè nel coito.
Ora il coito di oggi sta diventando, politicamente, molto diverso da quello di ieri. Il contesto politico di oggi è già quello della tolleranza (e quindi il coito è un obbligo sociale) mentre il contesto politico del matrimonio di ieri era la repressività (e quindi il coito, al di fuori del matrimonio, era scandalo). Ecco dunque un primo errore di “Realpolitik”, di compromesso col buon senso, che io ravviso nell’azione dei radicali e dei progressisti nella loro lotta per la legalizzazione dell’aborto. Essi isolano il problema dell’aborto, coi suoi specifici dati di fatto, e perciò ne danno un’ottica deformata: quella che fa loro comodo (in buonafede, su questo sarebbe folle discutere).(…)
  

Postato da: giacabi a 15:48 | link | commenti
pasolini, aborto

giovedì, 13 marzo 2008

Al principe

***

Al principe
Se torna il sole, se discende la sera,
se la notte ha un sapore di notti future,
se un pomeriggio di pioggia sembra tornare
da tempi troppo amati e mai avuti del tutto,
io non sono più felice, né di goderne né di soffrirne:
non sento più, davanti a me, tutta la vita...
Per essere poeti, bisogna avere molto tempo:
ore e ore di solitudine sono il solo modo
perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare ordine al cao
s.
Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte
che viene avanti, al tramonto della gioventù.
Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,
che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.



A me

In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza,
il più colpevole son io, inaridito dall'amarezza
.



da:Pier Paolo Pasolini "La religione del mio tempo"


Postato da: giacabi a 21:59 | link | commenti
pasolini

mercoledì, 27 febbraio 2008

L’educazione
***
« Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare».
 Pier Paolo Pasolini da Gennariello in Lettere Luterane


Postato da: giacabi a 20:13 | link | commenti (1)
pasolini, educazione

martedì, 26 febbraio 2008

L’omologazione attraverso la televisione
***
"Nessun centralismo fascista e riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. II fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, I'adesione ai modelli imposti dal Centro, è  totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza"della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si e potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d'informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a se I'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè -come dicevo -i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani, Ora esso e diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è  l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo,
 Non c'e infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono  due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina. Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone  ora secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?
No.O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone  la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d'animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i «figli di papa», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l'hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l'analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari umiliati cancellano nella loro carta d'identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Normalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che  essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzi piccolo borghese, nell'adeguarsi al modello «televisivo» che, essendo la stessa classe a creare e a. volere, gli è sostanzialmente naturale diviene stranamente rozzo e infelice. Se i  sottoproletari si  sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che e ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanta «mezzo  tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non e soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma e un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'e dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno  ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non e stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre...
P.P. Pasolini Corriere della sera 9-12-1973

Postato da: giacabi a 17:24 | link | commenti
pasolini, nichilismo

mercoledì, 06 febbraio 2008

L’Annunciazione
***

I figli:
Madre, cos’hai
sotto il tuo occhio?
Cosa nascondi
nel riso stanco?
Domeniche antiche,
fresche di cielo,
antichi maggi
rossi negli occhi
delle tue amiche,
antichi incensi...
Ora, al tuo letto,
tremiamo per te,
madre, fanciulla,
per le domeniche,
gli incensi, i maggi.
Tu eri tanto
bella e innocente...
Madre... chi eri
quand’eri giovane?
E Lui, chi era?
Madre, che muoia...
Ah, sia fanciulla
sempre la vita
nella severa
tua vita fanciulla...


L’ angelo:
Non senti i figli?
O lodoletta
canta in un’alba
di eterno amore...

Maria:
Angelo, il grembo
sarà candore.
Pei figli vergini
io sarò vergine.
P.P. Pasolini

Postato da: giacabi a 17:34 | link | commenti
pasolini, maria

sabato, 08 dicembre 2007

      Il gran male dell’uomo :     
la perdita dell’io
***
 C’è un’ideologia reale e incosciente che unifica tutti: è l’ideologia del consumo.
Uno prende una posizione ideologica fascista, un altro adotta una posizione ideologica antifascista, ma entrambi, davanti alle loro ideologie, hanno un terreno comune, che è l’ideologia del consumismo.
(...)Ora che posso fare un paragone, mi sono reso conto di una cosa che scandalizzerà i più, e che avrebbe scandalizzato anche me, appena 10 anni fa.
Che la povertà non è il peggiore dei mali, e nemmeno lo sfruttamento. Cioè, il gran male dell’uomo non consiste né nella povertà, né nello sfruttamento, ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo.
Pier Paolo Pasolini


Postato da: giacabi a 20:24 | link | commenti
pasolini, persona

sabato, 01 dicembre 2007

Nostalgia per qualcosa in cui credere
***


P.P. Pasolini
« Chi dice che io sono uno che non crede, mi conosce meglio di quanto io conosca me stesso. Io posso essere uno che non crede, ma uno che non crede che ha nostalgia  per qualcosa in cui credere. »

Postato da: giacabi a 20:47 | link | commenti
pasolini, senso religioso

venerdì, 23 novembre 2007

La solitudine
***


“Io non sono un qualunquista, e non amo neanche quella che ( ipocritamente) si chiama posizione indipendente. Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma del forti, ma per forza. E se dunque mi preparo a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è , in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contraddittoria, oggettività.”
Pier Paolo Pasolini Il Tempo - 6 agosto 1968

Postato da: giacabi a 20:58 | link | commenti
pasolini, solitudine

mercoledì, 07 novembre 2007

L’ urlo di Pasolini al Mistero
***
«...ebbi tentazione di santità»
Così scrisse Pier Paolo Pasolini forse ripensando al suo incontro con un frate eremita che oggi è sulla via della beatificazione. Era la primavera del 1963 e lo scrittore stava lavorando a Il Vangelo secondo Matteo
di Giovanni Cubeddu

Pier Paolo Pasolini

      Un povero frate cieco, malandato in salute. Per andare a trovarlo occorreva lasciare l’automobile qualche chilometro prima ed incamminarsi pazientemente tra i monti dell’Oltrepò pavese. Era l’unico modo di raggiungere l’eremo di Sant’Alberto di Butrio, dimora del religioso già in fama di santità, al secolo Cesare Pisano, per la Chiesa frate Ave Maria, eremita della Divina Provvidenza, famiglia religiosa fondata da don Luigi Orione. È la primavera del 1963 quando Pier Paolo Pasolini intraprende anch’egli la lunga passeggiata per l’eremo. Sta lavorando al Vangelo secondo Matteo, e non è la prima volta che cerca ispirazione in colloqui con uomini di fede o visitando luoghi di preghiera. Lo accompagna un’amica, Angela Volpini, personalità nota nel mondo cattolico italiano di quegli anni e attualmente teste nel processo di beatificazione del frate, dichiarato venerabile nel dicembre 1997. Delle testimonianze della Volpini raccolte nell’archivio dell’Opera don Orione a Roma (cfr. box a p. 75 il cui contenuto è inedito) e di una precedente ricerca pubblicata in Messaggi di don Orione (n. 100/2000) ci siamo avvalsi nella ricostruzione dell’episodio, pressoché sconosciuto.
      La Volpini raccontò a Pasolini della propria amicizia con l’eremita. Il poeta si incuriosì o, meglio, sospettò che l’incontro con quel frate dal nome così semplice (che nei maligni poteva suscitare ironia) valesse la pena del viaggio. Dunque Pasolini andò. E quando nel gennaio del 1964 frate Ave Maria muore, il poeta manda alla Volpini una copia del suo libro Poesia in forma di rosa (1961-1964), con uno scritto posto come segnalibro tra le pagine 42 e 43 di quella prima edizione. Si tratta della poesia La Realtà.
      Lo scritto era una lettera riservata e personale alla Volpini, ma la scelta delle pagine aveva probabilmente un senso: forse Pasolini desiderava che l’amica potesse rintracciare in quelle righe la trama autobiografica di quell’incontro all’eremo, potesse cioè ritrovare, tra i luoghi della memoria che Pasolini indicava esistenti «nell’Emilia del mio destino, nel Friuli dei miei numi», in realtà anche il paesaggio che l’accolse a Sant’Alberto:
      una sera, tra boschi
      cedui, chissà, tra macchie indissolubili
      di viole sulle prode, tra vigneti e lumi
      serali di villaggi, sotto vergini nubi

      E potesse vedere il nudo tormento che accompagnava il poeta e che quell’incontro aveva ancora una volta ridestato:
      A vincere fu il terrore. Voglio dire che fu
      più grande il terrore della realtà e della solitudine,
      di quello della società. Amara gioventù,
      preda di quella immedicabile coscienza
      di non esistere, che è ancora la mia schiavitù

Frate Ave Maria

      Quando Pasolini arrivò all’antica abbazia di Sant’Alberto si fermò ad ammirarne gli affreschi del Quattrocento. Frate Ave Maria come sempre era dietro l’altare, nella sua confidenza col Signore fatta di impercettibili rosari, litanie recitate a memoria e pie intenzioni da deporre ai piedi della Madonna. Vi fu qualche minuto di silenzio, interrotto improvvisamente dal gioviale saluto del frate al quale Pasolini rispose avvicinandosi, attraversando la chiesa per finire anche lui dietro l’altare. Il frate gli chiese di prendere una sedia per stare accanto a lui, in un colloquio che nessuno udì e che durò all’incirca due ore. Finalmente il respiro affannoso del frate annunciò che i due stavano scendendo dalla chiesa al chiostro. Pasolini tentava di aiutare la discesa del frate cieco, ma egli lo fermò bonariamente: «Queste pietre sono mie amiche. Le calpesto tante volte al giorno per andare da Gesù, non ho niente da temere da esse!». E rise della sua stessa allegra battuta. Poi proseguì dritto ritirandosi nella sua cella, luogo, assieme al cantuccio dietro l’altare, della predilezione del Signore verso di lui.
      Pasolini continuò la sua visita all’eremo, ogni tanto interrompendo la sintassi dei suoi pensieri con esclamazioni del tipo: «Che luogo! Che uomo! Che colloquio straordinario!». Solo alcuni giorni dopo si spiegò con l’amica Volpini, con maggiore dettaglio: «Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il suo Gesù ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui, io artista, non mi sono sentito, come succede spesso nei luoghi seri e importanti, un po’ fuori contesto… Anche il frate è un originale come me, un creativo… ha inventato la sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera ed affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia». Quindi Pasolini s’incamminò verso il bosco prospiciente l’abbazia, in solitudine, e forse annotò qualcosa dell’incontro.
      Fu allora che la Volpini, prima di congedarsi, ebbe l’opportunità di salire alla cella di frate Ave Maria per ringraziarlo. E lui invece: «L’amico che mi hai portato oggi ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest’uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!».
      Anche Pasolini ritornò dal frate per accomiatarsi. L’eremita lo accolse di nuovo, lo accompagnò fino all’uscita, e quasi gli gridò con la sua voce roca: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime».
      Pasolini non deve averlo dimenticato. Perché la poesia, in quelle pagine 42 e 43 segnalate ad Angela Volpini, così continuava
:
      Ché io arriverò alla fine senza
      aver fatto, nella mia vita
      la prova essenziale
, l’esperienza
      che accomuna gli uomini, e dà loro
      un’idea così dolcemente definita
      di fraternità almeno negli atti dell’amore!
      Come a un cieco: a cui sarà sfuggita,
      nella morte, una cosa che coincide
      con la vita stessa
, – luce seguita
      senza speranza, e che a tutti sorride,
      invece come la cosa più semplice del mondo –
      una cosa che non potrò mai condividere.
      Morirò senza aver conosciuto il profondo
      senso d’essere uomo, nato a una sola
      vita, cui nulla, nell’eterno corrisponde.

Pasolini mentre lavora al Vangelo secondo Matteo

     
 In questo grido, reso forse più acuto dall’aver intravisto un bagliore, si può forse ritrovare un’altra diversa allusione a quella giornata a Sant’Alberto di Butrio:




g
g
g
h
E questa fu la via per cui da uomo senza
      umanità, da inconscio succube, o spia,
      o torbido cacciatore di benevolenza,
      ebbi tentazione di santità. Fu la poesia
.
 
   «Quando scrivo poesia è per difendermi e lottare, compromettendomi, rinunciando a ogni antica mia dignità: appare, così, indifeso quel mio cuore elegiaco di cui ho vergogna», dicono i primi versi di La Realtà. E ora viene facile pensare che la misericordia del vecchio eremita nei suoi confronti abbiano a che vedere con quella tentazione di santità.
      Di quel pomeriggio nell’Oltrepò pavese restava, ancora più incarnato, visibile, un mistero: «E come mai» aveva detto frate Ave Maria appena salutato Pasolini, «un grande artista, un personaggio così famoso, è interessato a conoscere un povero cieco, che sa solo dire “Gesù, Maria, vi amo: salvate le anime”?».
Immagine:Eremo di butrio - 039 - Foto di Frate Ave Maria.jpg
   

Postato da: giacabi a 19:29 | link | commenti
pasolini, senso religioso

martedì, 06 novembre 2007

Urlo di significato
 ***
Ah, miei piedi nudi, che camminate sopra la sabbia del deserto!
Miei piedi nudi, che mi portate là dove c'è un'unica presenza e dove non c'è nulla che mi ripari da nessuno sguardo! [...]
Non c'è infatti, qui intorno, niente oltre a ciò che è necessario: la terra, il cielo e il corpo di un uomo.
Per quanto folle, abissale o etereo sia l'orizzonte oscuro, la sua linea è una: e qualunque suo punto è uguale a un altro punto.
Il deserto oscuro che sembra sfolgorare tanta è la sua durezza zuccherina, e la cavità del cielo," immedicabilmente azzurra, mutano sempre ma sono sempre uguali.
Bene. E cosa dire di me?
 Di me, che sono dove ero, e ero dove sono, automa di una persona reale mandato nel deserto a camminare per essa?
lo sono pieno di una domanda a cui non so rispondere.
 Triste risultato, se questo deserto io l'ho scelto come il luogo vero e reale della mia
vita!
Colui che cercava per le strade di Milano è lo stesso che cerca ora per le strade del deserto?
È vero: il simbolo della realtà ha qualcosa che la realtà non ha: eppure vi aggiunge- per la stessa sua natura rappresentativa -un significato nuovo.
Ma -non certo come per il popolo d'Israele o l'apostolo Paolo -questo significato nuovo mi resta indecifrabile. Nel profondo silenzio dell'evocazione sacra, mi chiedo allora se, per andare nel deserto "non bisogni avere avuto una vita già predestinata al deserto"; e se, dunque, vivendo nei giormi della storia -così meno bella, pura ed essenziale della sua rappresentazione -non bisogni avere saputo rispondere alle sue infinite e inutili domande per poter rispondere, ora, a questa del deserto, unica e assoluta.
Misera, prosaica conclusione, -laica per imposizione di una cultura di gente oppressa -di una vicenda cominciata per portare a Dio!
Ma cosa prevarrà? L'aridità mondana della ragione o la religione, spregevole fecondità di chi vive lasciato indietro dalla storia? [...]
Ma perché, improvvisamente, mi fermo? Perché guardo fisso davanti a me come vedessi qualcosa?
Mentre non c'è nulla di nuovo oltre l'orizzonte oscuro, che si disegna infinitamente diverso,e uguale, contro il cielo azzurro di questo luogo immaginato dalla mia povera cultura?
Perché, fuori dalla mia volontà, la mia faccia mi si contrae, le vene del collo mi si gonfiano, gli occhi mi si riempiono di una luce infuocata?
E perché l'urlo, che, dopo qualche istante, mi esce furente dalla gola, non aggiunge nulla all'ambiguità che finora ha dominato questo mio andare nel deserto?
È impossibile dire che razza di urlo sia il mio: è vero che è terribile -tanto da trasfigurarmi i lineamenti rendendoli simili alle fauci di una bestia -ma è anche, in qualche modo, gioioso, tanto da ridurmi come un bambino.
È un urlo fatto per invocare l'attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo.
È un urlo che vuoi far sapere, in questo luogo disabitato, "che io esisto", oppure, che non soltanto esisto, "ma che so". È un urlo in cui in fondo all'ansia si sente qualche vile accento di speranza; oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
Ad ogni modo questo è certo: qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni fine possibile.
(PP. Pasolini, Teorema)

Postato da: giacabi a 18:14 | link | commenti
pasolini, senso religioso

martedì, 02 ottobre 2007

Non poter più essere compresi
***

La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi

P.P. Pasolini                                                                                     a P.

Postato da: giacabi a 17:25 | link | commenti
pasolini

domenica, 30 settembre 2007

Cristo
***
Io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza.
Ma credo che Cristo sia divino:
credo cioè che in lui l'umanità sia così alta,
rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità.

Per questo dico 'poesia': strumento irrazionale
per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo
.
Pier Paolo Pasolini
 

Postato da: giacabi a 08:14 | link | commenti
pasolini, gesù

Nessun commento: