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domenica 19 febbraio 2012

Pavese


Da : Ciò che abbiamo di più caro
***

La circostanza è il modo in cui il Mistero ti convoca

il destino conduce coloro che vi aderiscono e travolge coloro che lo respingono

Ciò che colpisce è prima di tutto la Presenza e poi l’eccezionalità,
perché l’eccezionalità deve essere dentro un corpo, altrimenti...



Cristo è presente oggi in una compagnia: la visibilità
di Cristo, infatti, è la Chiesa e la visibilità della Chiesa è
questa amicizia.


«Vedo avanzarsi il deserto, ma ciò che s’accorge del
deserto non appartiene al deserto»


Questo brano di Mario
Luzi, tratto dal Libro di Ipazia, è fantasticamente espressivo
di tutto ciò. Ipazia: «Chi viene? Chi mi chiama? Perché
questa visita? Sono stanca e colma, non posso accogliere
niente e nessuno» (è il mio paragone invertito). La voce:
«Sono colui che è dovunque. E sempre. Non vengo. Sono
qui come sono in ogni parte».
Ipazia: «Oh non ti riconosco.
Ti pensavo diverso»
. La voce: «Sono come sei tu. Perché
io sono te. Te e altro da te. È questo altro che devi sopprimere,
perché anch’esso devi comprendere e far tuo
». Non
è facile, anche se è semplice. La voce risponde: «Sono come
sei tu. Perché io sono te»


tratta dalla Storia
della letteratura latina di Concetto Marchesi, che voi avrete
letto, ma non certo sottolineato: «L’arte ha bisogno di
uomini commossi, non di uomini riverenti»
.


Van Broeckhoven nel Diario dell’amicizia dice: «È
fonte di gioia scoprire che questa creazione mitica e santa
[la creazione mitica: il culmine del realizzarsi dell’essere
e della purità] è il mondo concreto di oggi: qui, ora,
Bruxelles, questi uomini concreti, in questa fonderia sporca,
anche i nostri amici, tutto questo costituisce la realtà
e questa realtà è santa, essa è infatti l’unico luogo in cui
Dio può venirci incontro, e dunque l’unico luogo in cui
ci viene incontro. Anche se dovessi scegliere tra il roveto
ardente e Bruxelles, sceglierei Bruxelles»


«La poesia nasce dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo
con stupore la vita. Anche la normalità
[la banalità]
diventa poesia quando si fa contemplazione, cioè cessa di
essere normalità e diventa prodigio»
, PAVESE

Pavese, l’8 agosto 1940, scrive: «La vita non
è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio
strato fondamentale ci si accorge che esso combacia col
proprio destino e si trova la pace»
.

Lo dice anche de Lubac: «Amare il prossimo in Dio
è amarlo nella sua vocazione
[nella sua convocazione,
nella sua chiamata al destino], nella chiamata di Dio che
lo costituisce, amarlo in ciò che è più lui stesso, amarlo del
solo amore che lo raggiunge nella sua singolarità viva e
che è la sola irriducibile
[in te l’irriducibile è Ciò di cui sei
fatto, è l’Altro di cui sei fatto], è amarlo come Dio lo ama,
nell’amore di Dio che lo fa essere ed essere tale, ed è,
nello stesso tempo, amarlo di un amore universale, perché
la sua vocazione singolare si inscrive sempre all’interno
della grande vocazione comune in vista del grande concerto
unanime
»

Questa è l’orrenda radice del vostro errore [abbiamo
già sentito]: voi pretendete di fare consistere il dono di
Cristo nel suo esempio [
Cristo ridotto a modello morale],
mentre quel dono è la Sua persona stessa.S.AGOSTINO.
Don Giussani



Postato da: giacabi a 19:22 | link | commenti
pavese

lunedì, 28 novembre 2011

"L'isola"

(da "Dialoghi con Leucò", 1947)

***
Tutti sanno che Odisseo naufrago, sulla via del ritorno,
restò nove anni sull’isola Ogigia,
dove non c’era che Calipso,
antica dea.
Calipso. Odisseo, non c’è nulla di molto diverso.
Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola.
Hai veduto e patito ogni cosa.
Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito.
Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino.
Perché continuare ?
Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi ?
Qui mai nulla succede.
C’è un po’ di terra e un orizzonte.
Qui puoi vivere sempre.

Odisseo. Una vita immortale.
Calipso. Immortale è chi accetta l’istante.
Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola,dilla. Tu sei davvero a questo punto?

Odisseo. Io credevo immortale chi non teme la morte.
Calipso. Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto? Perché i discorsi che vai facendo tra gli scogli?
Odisseo. Se domani io partissi tu saresti felice?
Calipso. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale.
Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni,
se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte,
non uscirai da quel destino che conosci.

Odisseo. Si tratta sempre di accettare un orizzonte.
E ottenere che cosa ?

Calipso. Ma posare la testa e tacere, Odisseo. Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dei che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni. E chi son io, chi è Calipso?
Odisseo. Ti ho chiesto se sei felice.
Calipso. Non è questo, Odisseo
L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta,
che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare
e di stridi di uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada.
Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio,
un arresto, che è come la traccia
di un’antica tensione e presenza scomparse ?

Odisseo. Dunque anche tu parli agli scogli ?
Calipso. E’ un silenzio, ti dico.
Una cosa remota e quasi morta.
Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dei quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare ma obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli piú muovere. Qualcuna di noi resistè ai nuovi dei; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.

Odisseo. Ma non eri immortale?
Calipso. E lo sono, Odisseo. Di morire non spero.
E non spero di vivere.
Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile,
la vecchiezza e il rimpianto.
Perché non vuoi posare il capo
con me, su quest’isola?

Odisseo. Lo farei, se credessi che sei rassegnata.
Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose,
hai bisogno di me, di un mortale,
per aiutarti a sopportare.

Calipso. E’ un reciproco bene, Odisseo.
Non c’è vero silenzio se non condiviso.

Odisseo. Non ti basta che sono con te quest’oggi ?
Calipso. Non sei con me, Odisseo.
Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola.
E non sfuggi al rimpianto.

Odisseo. Quel che rimpiango
è la parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno
che terra e mare ti obbedivano ? Hai sentito ch’eri sola  e che
eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto.
Quello che sei l’hai voluto.

Calipso. Quello che sono è quasi nulla, caro.
Quasi mortale, quasi un’ombra come te.
E’ un lungo sonno cominciato chissà quando
e tu sei giunto in questo sonno come un sogno.
Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio.

Odisseo. Sei tu, la signora, che parli ?
Calipso. Temo il risveglio, come tu temi la morte.
Ecco, prima ero morta, ora lo so.
Non restava di me su quest’isola
che la voce del mare e del vento.
Oh non era un patire. Dormivo.
Ma da quando sei giunto
hai portato un’altr’isola in te.

Odisseo. Da troppo tempo la cerco.
Tu non sai quel che sia avvistare una terra
e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi.
Io non posso accettare e tacere.

Calipso. Eppure, Odisseo,
voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto
è sempre un male. Il passato non torna.
Nulla regge all’andare del tempo.
Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso,
potrai ancora riconoscere le case, le tue case ?

Odisseo. Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.
Calipso. Oh mutata, perduta, un silenzio.
L’eco di un mare tra scogli e un po’ di fumo.
Con te nessuno potrà condividerla.
Le case saranno come il viso di un vecchio.
Le tue parole avranno un senso altro dal loro.
Sarai più solo che nel mare.

Odisseo. Saprò almeno che devo fermarmi.
Calipso. Non vale la pena, Odisseo.
Chi non si ferma adesso, non si ferma mai più.
Quello che fai, lo farai sempre.
Devi rompere una volta il destino,
devi uscire di strada,
e lasciarti affondare nel tempo…

Odisseo. Non sono immortale.
Calipso. Lo sarai se mi ascolti.
Che cos’è la vita eterna
se non questo accettare l’istante che va ?

L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto ?

Odisseo. Se lo sapessi avrei già smesso.
Ma tu dimentichi qualcosa.

Calipso. Dimmi.
Odisseo. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

Postato da: giacabi a 18:21 | link | commenti
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domenica, 13 febbraio 2011

PAVESE era religioso? (Divo Barsotti)

 Pavese  in lotta con l’ombra del sacro
***

diDivo Barsotti


Di tutti gli scrittori italiani di questi ultimi decenni,  Pavese  è uno dei più religiosi. Sembra un paradosso: in realtà il mondo di  Pavese  sembra un mondo deserto da Dio. Questo mondo è come vuoto. Il posto di Dio non si può dire che sia stato preso da qualcuno, da qualcosa. È questo vuoto stesso che parla di Dio? Certo, nessuno può prendere il suo posto. È troppo facile dire che l’assenza di Dio è già una testimonianza. Nessun’assenza, di fatto, può essere veramente totale; nemmeno, forse, l’inferno. Ma l’assenza di Dio nelle opere di  Pavese  è più apparente che reale.
Se alla religione, al cristianesimo, a Dio lo scrittore non ricorre quasi mai apertamente nei suoi racconti, e romanzi, non è detto che, più spesso di quanto fa supporre una rapida lettura, non vi si riferisca segretamente ma, certo, intenzionalmente.
La rarità di questi richiami non sembra dovuta alla assenza di contenuto  religioso  ma al pudore, al rispetto. Non vi è in  Pavese  un accenno a Dio, un richiamo al cristianesimo e alla religione in generale, che non comporti serietà; ma si può dire che egli non conosce il mondo  religioso  e spesso, quando ne parla, rivela la sua ignoranza.
 Pavese  può sembrare che ignori tutto della religione. Né il primo romanzoIl carcere
La spiaggiahanno accenni, sia pur fuggitivi, a una qualunque vita religiosa e quasi nessunoLa bella estate. Non i protagonisti soltanto, ma tutti i personaggi che popolano questi romanzi ignorano Dio. 
Nessuno di loro sembra aver più un qualsiasi legame con una tradizione religiosa. Diverso è il caso dell’altro romanzoPaesi tuoi (1939). La morte di Gisella, che chiude questo romanzo violento, aspro e crudele, introduce la figura del prete che porta alla ragazza gli ultimi sacramenti. Tuttavia anche qui il prete non si vede, si sa che è entrato dalla moribonda: si sa che per qualche tempo è rimasto al suo letto, ma non si vede venire e non si vede partire, non si ascolta una parola da lui. Le donne, intorno al letto, pregano, attendono con affanno angoscioso il Santissimo; hanno preparato l’altare. Solo le donne. Gli uomini, di fronte alla morte, sono più sprovveduti, non sanno che fare, non hanno nulla da dire. Del resto  Pavese  non sa cosa possa fare un prete al capezzale di un moribondo. Una strana novella del 1937,Notte di festa ci presenta un padre in un collegio. Egli dovrebbe essere l’educatore o il prefetto; non si sa che cosa, in verità. Più che un sacerdote è un contadino robusto e manesco che sa farsi obbedire dai garzoni nei lavori anche più ingrati. Che cosa ci stiano a fare, di fatto, questi tre giovanotti con lui e che cosa lui praticamente faccia, rimane un mistero.  Pavese  non ne fa una macchietta; non ha mai né disprezzo né sarcasmo, anche prima del suo ritiro a Crea, per i sacerdoti. Non li capisce, ecco tutto.
 Ignora tutto di loro. Sembra strano, dal momento che è stato alunno in un collegio dei padri Gesuiti, nella sua adolescenza.
Non so se li ammira, certo questi preti di cui egli parla, non sono come gli altri uomini. Il tono rimane un po’ sforzato.
Sono dei fanatici? In quello che fanno e in quello che dicono non sembrano degli uomini veri. Più solenne è un altro prete che appare nella novella scritta in quell’anno medesimo,Carogne : tradotto in prigione e messo nella cella assieme a due malviventi comuni, per non aver obbedito prontamente al proprio ordinario che lo aveva trasferito. Egli fa l’apologia dell’autorità, riconosce la sua colpa, accetta il castigo come una grazia, e tutto con un frasario così poco conveniente all’ambiente, così poco naturale, per quei due che lo stanno a sentire, che indispone.
Non si può negare che  Pavese  abbia voluto dare una nobiltà, una grandezza a questo sacerdote. Ma come più vivi ci appaiono i due giovani! Come sono più naturali nella loro incomprensione! Il sacerdote è certamente sincero in quello che dice, ma le sue parole non cessano per questo di avere un tono oratorio un po’ convenzionale; sono parole pie di chi non cessa di recitare una parte e si sente impegnato a recitarla. Eppure forse è proprio questo che  Pavese  ammirava nel sacerdote cattolico. Lui che  era  tutto impulsi, doveva ammirare gli uomini che sapevano impersonare una istituzione e una dottrina. Rimane il fatto che  Pavese  ci faccia incontrare con un sacerdote di questa tempra proprio nel carcere, là dove poi incontreremo anche gli uomini più impegnati, gli eroi del partito. Nei primi anni della sua carriera  letteraria questa è la pagina più significativa sul sacerdozio cattolico che abbia scritto  Pavese Il diario di questi anni – dal 1935 al 1944 – può dirci molto di più. Una delle pagine forse più grandi è il suo esame di coscienza all’inizio del 1936. Si scopre da questo che se  Pavese  non sentiva ancora come suo il problema della fede cristiana, sentiva come suo, più intensamente di quanto non lasciasse supporre, il problema morale. Se egli fino da allora si giudica un vinto, è perché si riconosce colpevole. Non ha alternativa. «Mi sono sempre carezzato con l’illusione di sentire la vita morale... non voglio dissotterrare la compiacenza che un tempo provavo nell’avvilimento morale a scopo estetico, sperandone una carriera  di genio. E questo tempo non l’ho ancora superato». In queste parole vi è tutto il suo destino: già queste parole adombrano una scelta consapevole e terribile fra essere santo ed essere poeta, come poi scriverà, amaro, pochi anni dopo (24 febbraio 1940). Di fatto già allora non vedeva «la via della salvezza» che nella «disciplina» morale e nel «sacrificio». Egli «non è cresciuto moralmente», non «lo sorregge più che il pensiero del suicidio». Le sue parole spietate dicono non certo la serietà della sua vita, ma la esigenza interiore di saldezza morale, di serietà, di vita religiosa. Non intendo dire cristiana. Di fatto egli si definisce uno stoico, ma l’imperativo morale che gli fa trovare pace solo nel pensiero del suicidio, possiamo dire che non abbia già una grandezza religiosa terribile?
Che il problema morale sia problema  religioso, lo si scopre poche pagine dopo. Alla legge morale è già anteposta la carità. Lo scrittore vede in questa «un immenso ideale».
Forse, non lo vorrebbe confessare nemmeno a se stesso, ma  Pavese  in quel tempo vive una crisi religiosa: «Scrivo: x x x, abbi pietà. E poi?».
Saranno queste le parole che concluderanno anche il diario e sono preghiera. Egli non osa credere, non osa dare un nome a Colui cui si rivolge. Esiste?

Ma tutta la sua vita interiore lo esige.

È del 1938 uno dei pensieri più profondi: «La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante. Non potrà mai sparire dal mondo, proprio per questa ragione». Solo nel rapporto con Dio, l’uomo acquista il senso della sua grandezza assoluta: è il rapporto con l’Assoluto che salva l’uomo dal naufragio: così, finché l’uomo vuole la propria salvezza, ha bisogno di Dio. È allora che egli scopre il valore della morte: la sofferenza suprema non può essere accettata per altro motivo che come «conquista di Dio», o per rassegnazione «al destino comune». La morte così coincide per l’uomo o con la sua stessa salvezza, perché questa è la conquista di Dio, o con la fine di un’avventura che non ha senso. Il 1939 è l’anno in cui si iniziano le grandi opere.Il carcere ePaesi tuoi sono i romanzi scritti in quell’anno. Il diario ci assicura che il problema  religioso  non solo continua a essere vivo, ma si approfondisce. L’uomo è solo dinanzi a Dio. «La distinzione fra sé e altri, che avviene nell’età matura, tende a convincere il sé che non c’è passaggio agli altri. E infatti passaggio diretto non c’è. Si riconosce la dignità degli altri solo attraverso un Essere superiore: Dio... Ci vuole sudore di sangue per passare... alla carità vera  o, come si dice, trovare Dio». Il frammento è estremamente importante.

L’uomo è chiuso in se stesso. Non si apre veramente e non realizza se stesso che nel rapporto con Dio e questo rapporto è la carità: vuol dir questo  Pavese? Che solo  la religione spezzi la solitudine umana, lo dirà poche pagine dopo: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio.La preghiera  è lo sfogo come con un amico». Il 1944 è stato l’anno decisivo della sua vita.  Pavese  rimase nascosto, come tanti altri, in quel tempo, nella casa dei padri Somaschi, al Santuario di Crea.
Quel tempo fu particolarmente prezioso: impedì che la crisi religiosa si risolvesse puramente e semplicemente in un’esperienza di carattere estetico. Proprio all’inizio dell’anno, in una pagina, la più schietta e apertamente religiosa del diario, egli riconoscerà la trascendenza del mondo della fede.

29 gennaio: «Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre quello sgorgo di divinità. È questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui: in questo tremito del se fosse vero! Se davvero fosse vero...».
1° febbraio: «Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione... Si arriva ad augurarsi il dolore». Queste parole così nuove e luminose sono seguite da altre più decisive, più ferme, che condannano precisamente lo sforzo che egli aveva fatto di confondere «attimi di esperienza in attimi di assoluto». No, la poesia, con l’esperienza estetica, non  era  il mondo soprannaturale che egli ora aveva intravisto. Anche la poesia coi suoi miti  era  una droga che poteva per qualche istante introdurre l’anima in un paradiso artificiale, in un mondo irreale; solo la grazia poteva introdurre nel mondo di Dio, il soprannaturale, «altra realtà». «La ricca e simbolica realtà dietro cui ne sta un’altra, v era  e sublime, è altro dal cristianesimo? Accettarlo vuol dire alla lett era  entrare nel mondo del soprannaturale».


Non è certo che il dubbio non ritorni (2 febbraio), non si riaffacci, se non la confessione, la tentazione di passare dalla religione all’estetica (12, 15 febbraio), ma il linguaggio si fa sempre meno equivoco e a questa chiarezza lo inducono le letture di Guardini, Wust, Bossuet, Gratry, Blondel – letture decisamente religiose. Ora non è più la religione che si traduce in esperienza estetica, non è l’esperienza religiosa che si trasforma in una esperienza di mistica naturale; al contrario è l’esperienza della mistica naturale che si vuol riportare a un principio, a una sorgente religiosa. È certo che mai, come in quel tempo, egli fu vicino a Dio. Al principio del 1945 egli annota: «Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio... Potrebbe essere la più importante annata che hai vissuto. Se perseveri in Dio, certo». È proprio 1a grazia che provoca la decisione e la scelta.  Pavese  purtroppo non sceglie. Ci voleva una grazia ben grande perché egli potesse volgersi pienamente a Dio. Così dopo quegli anni ci fu come un lento ma inesorabile allontanamento da Dio. Il problema  religioso  non fu più così vivo. Egli non conobbe che «la religione dell’amore» l’unica cui rimase fedele e l’uccise. La tragedia della sua impotenza è misurabile soltanto da questo: che in fondo egli che non aveva creduto in Dio, non  era  nemmeno riuscito a credere in qualche altra cosa: non gli rimaneva che l’amore e l’amore gli  era  negato. Egli non abbandona la ricerca di Dio, almeno non ancora. Alcuni testi ne rendono testimonianza.
«Superstizione è ogni teodicea insufficiente. Quando una giustificazione di Dio è superata, diventa superstizione».
 Pavese  è alla ricerca di una nuova teodicea? La sua teodicea ha come fondamento la coscienza morale. Anche da questo si apprende quale importanza ebbe per lui l’ideale cristiano della carità. «Fuori della coscienza morale non c’è criterio di certezza, ma superstizione. La verità dell’universo si modella sul nostro senso morale. Religione è incontro di verità e giustizia». E subito dopo: «Superstiziosa è ogni spiegazione dell’universo che crede di conciliare verità e giustizia e non ci riesce più. Fuori della religione non c’è che la sospensione del giudizio – per quanto è possibile». Probabilmente egli non sa accettare la teodicea tradizionale, proprio perché ogni argomento si polverizza, per lui, di fronte alla ferrea necessità della morte. Il cristianesimo non conosce la necessità, non «sa che tutto è ferreo »; il comunismo invece avrebbe la carità del cristianesimo e non misconoscerebbe la necessità. È un po’ difficile che le due cose possano essere unite: egli stesso ne dubita. «Non ci sono che due atteggiamenti – il cristiano e lo stoico. Probabilmente il comunista vale a fonderli – ha la carità e il senso della roccia, sa che tutto è ferreo alla fine eppure fa il bene».

Si ha come l’impressione che dal 1945 l’umanità di  Pavese  si disgreghi, non regga più. Eppure è proprio dopo il ’45 che darà il meglio di sé come scrittore e poeta. Nei romanzi ultimi egli ci darà tutto quello che poteva darci prima del suo inaridimento, del suo morire. I romanzi sono il frutto di un’esperienza umana che si  era  arricchita via via, dalla fanciullezza lontana fino al 1945. Lo dirà quasi alla vigilia della morte, nel dicembre del ’49: «...gli anni di guerra e di campagna (Crea!) ti ridiedero una verginità passionale (attraverso la religione, il distacco, la virilità)... negli anni ’43-’44-’45 tu sei rinato nell’isolamento e nella meditazione». Ma, dopo aver scritto, che cosa gli sarebbe rimasto? Forse il partito? Il comunismo non avrebbe potuto salvarlo. Se anche avesse conosciuto la carità, non lo salvava ugualmente dalla morte e non salvava coloro che amava. Ma conosceva poi la carità? La rinunzia alla fede cristiana volle dir per  Pavese  soltanto l’accettazione stoica della morte. «Lo stoicismo è il suicidio». Al suicidio arriverà dopo qualche anno. Ma il destino  era  segnato. Il comunismo non lo poteva salvare. «Il credente è sano», ma egli ormai si sentiva ed  era  un uomo finito. Ormai egli vivrà un’esperienza religiosa solo nel ricordo, solo scrivendo i suoi romanzi, ai quali affida il ricordo. DopoLa casa in collina , iDialoghi con Leucò, dopoIl diavolo sulle colline egli sembra essersi allontanato definitivamente da Dio. L’ideale di  Pavese , se non  era  più il santo, rimaneva il saggio e l’eroe. Purtroppo Dio si  era  come eclissato. Egli rimaneva solo. Nel romanzoTra donne sole è l’espressione cruda che ritorna anche nell’epistolario, espressione di orgoglio in una persona distrutta: «Non si può amare un altro più di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno». È questa la parola terribile che dice il rifiuto di Dio, di Cristo. Poteva  Pavese  esser tentato di divenire buddhista come Poli nel romanzoIl diavolo sulle colline ? Egli cercò in altra direzione la sua salvezza – non nell’esperienza di un misticismo ateo, ma nella decisione stoica del suicidio. Non  era  una salvezza, ma egli comunque non poteva più accettare la vita. Ha ragione Lajolo a riconoscere in Rosina del romanzoTra donne sole lo stesso  Pavese . Nell’ultimo romanzoLa luna e i falò l’unico richiamo al cristianesimo è politico e perciò esteriore.
Al cristianesimo non è più legato il problema della sua salvezza, anche se  Pavese  non muta il suo atteggiamento di rispetto. Ormai vede la Chiesa solo dal di fuori. Il cristianesimo è divenuto estraneo alla sua intima vita. Dio sembra che sia definitivamente morto per lui. È nell’atto in cui egli si dà la morte, che Dio ritorna a farsi vivo e presente nell’umile preghi era  che invoca pietà.

Postato da: giacabi a 20:57 | link | commenti
pavese

sabato, 25 dicembre 2010

Ridurre il cuore a sentimento
***

 
" Non ho ancora compreso quale sia il tragico dell'esistenza , non me ne sono ancora convinto. Eppure è tanto chiaro: bisogna vincere l'abbandono voluttuoso, smettere di considerare gli stati d'animo quali scopo a se stessi.Per un poeta è difficile. O anche molto facile. Un poeta si compiace di sprofondarsi in uno stato d'animo e se lo gode - ecco la fuga dal tragico. Ma un poeta dovrebbe non dimenticare mai che uno stato d'animo per lui non è ancor nulla, che quanto conta per lui è la poesia futura. Questo sforzo di freddezza utilitaria è il suo tragico.
Che occorra vivere tragicamente e non voluttuosamente, è provato da quanto ho patito sinora. Anzi, da quanto ho inutilmente patito. Mi ha aperto gli occhi la rilettura delle poesie del ’27
. Ritrovare in  quella sbrodolata e napoletana ingenuità, gli stessi pensieri e le stesse parole di questo mese scorso mi ha atterrato. Nove anni sono passati ed io rispondo ancora tanto infantilmente alla vita? E quella virilità che pareva cosa mia duramente conquistata negli anni del lavoro, era tanto inconsistente?
Meno che ad ogni altra cosa, la colpa di tale insufficienza va alla poesia. La poesia, se mai, mi ha insegnato a dominarmi, a raccogliermi, a veder chiaro; la poesia mi ha reso, nel più pratico dei sensi. La colpa va alla sognería 
cosa molto diversa, e nemica della buona arte. Va al mio bisogno di evitare le responsabilità, di sentire senza pagare.
Non è soltanto una similitudine il parallelo tra una vita di abbandono voluttuoso e il fare poesie isolate, piccole, una ogni tanto, senza responsabilità di insieme. Ciò abitua a vivere a scatti, senza sviluppo e senza principi."
Cesare Pavese da: Il Mestiere di vivere 1936

Postato da: giacabi a 08:53 | link | commenti
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martedì, 17 agosto 2010

 Pavese: il mestiere di credere

***
anniversari                                             da:www.avvenire.it 17-08-10
 Da Sanguineti a Barsotti, da Calvino all’amico padre Baravalle, tutte le testimonianze sull’inquieta ricerca dello scrittore, uno «spirito religioso» morto suicida a Torino sessant’anni fa


 DI FILIPPO RIZZI
 « M i scriveva da Roma, in un periodo di sconforto. Diceva di essersi recato in una chiesa, ma che gli era parso che una mano invisibile lo respingesse: 'Forse non sono degno di avvicinarmi a Dio'». Fu lo sfogo amaro che espresse in una lettera Cesare Pavese, pochi anni prima di morire, al suo amico e confidente il religioso somasco padre Giovanni Baravalle. Sono trascorsi sessant’anni da quel tragico 27 agosto quando in serata venne trovato morto in una stanza dell’albergo Roma di Torino lo scrittore Cesare Pavese (1908-1950): il grande poeta delle Langhe si era tolto la vita con sedici bustine di sonnifero. La sua opera, nel corso di questi sessant’anni, è stata solcata dalla critica di ogni segno e direzione mettendo in evidenza il suo dramma esistenziale ma anche religioso. Anzi buona parte della critica, da angolature ideologiche diverse, ha affermato che è giusto mettersi di fronte alla sua opera con l’umiltà tipica che si deve avere nei confronti degli spiriti religiosi. Non a caso molti critici, da Edoardo Sanguineti a Bona Alterocca, dal gesuita Domenico Mondrone a Geno Pampaloni, dal monaco Divo Barsotti fino ai recenti studi dell’arcivescovo dell’Aquila Giuseppe Molinari, di Vincenzo Arnone e di Antonio Spadaro, non hanno dimenticato le suggestioni religiose che hanno attraversato la breve vita di Cesare Pavese. Ancora oggi rivelatore di questa ricerca del trascendente è il giudizio di Geno Pampaloni nel trentennale della morte: «Credo in definitiva che Cesare Pavese sia stato quello che via via ha rappresentato; e credo che per rileggerlo con giustizia sia necessaria l’umiltà del dolore con cui i trentenni del’50 accolsero la notizia della sua morte. L’umiltà, vorrei aggiungere, che occorre di fronte agli spiriti religiosi». In molti scritti, da Il mestiere di vivere ai diari, dai suoi romanzi a – soprattutto – le lettere indirizzate, ad esempio, agli amici di sempre come Fernanda Pivano, Davide Lajolo, il cattolico e antico compagno al liceo d’Azeglio Tullio Pinelli, alla sorella Maria emerge il grande fascino che Pavese avverte per la figura di Cristo come personaggio storico, associata per grandezza nel campo della carità a Dostoevskij – «Tutto il resto sono balle» –, ma ricorrono anche gli interrogativi sulla vita, la morte, il peccato, l’aldilà, l’esistenza di Dio. In particolare, sul finire degli anni Venti, si confronta con Tullio Pinelli sulla sua opera giovanile Il crepuscolo di Dio, dove affronta in modo fantastico ed originale, in uno stile quasi da pamphlet teologico, il tema dell’aldilà. Sono gli anni in cui Pavese, grazie a Pinelli, frequenta un sacerdote di simpatie moderniste, don Brizio Casciola. Con l’antico compagno di liceo manterrà una fitta corrispondenza fino all’agosto del 1950. Sarà lo stesso Pinelli, oramai divenuto famoso sceneggiatore di molti film di Fellini, nel 1996, in una intervista rilasciata a 'Jesus', a raccontare la religiosità del suo amico: «Era uno spirito religioso, tormentato dal dubbio, dall’incertezza. Il punto terminale, su questa terra, della nostra discussione è stato sulla religione e su Dio».
  Nonostante le crisi esistenziali e religiose il pensiero di Dio diventa, come testimonia lo stesso poeta delle Langhe ne
Il mestiere di vivere: «Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatti inginocchiare».
  Ed è proprio durante il periodo di confino e di prigionia prima a Roma a Regina Coeli e poi a Brancaleone Calabro, negli anni Trenta, per le sue posizioni contro il regime fascista, che confida in alcune lettere alla sorella Maria di essersi appassionato alla lettura della Bibbia e delle
Osservazioni sulla morale cattolica di Alessandro Manzoni. Nel 1939 Pavese giunge, addirittura, ad affermare che la religione è la soluzione del più gravoso problema della vita, quello relativo a come uscire dalla propria solitudine: «La preghiera è lo sfogo come con un amico. L’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente in contatto con chi ne usufruirà». Ma nell’itinerario religioso dello scrittore delle Langhe è il 1944 quello che lui stesso definirà «l’annata strana e ricca, cominciata e finita con Dio». In quel periodo, per sfuggire ai tedeschi e fascisti e agli orrori della guerra e non essere di peso alla sorella Maria, Pavese cerca un lavoro e lo trova presso i padri somaschi nel collegio Trevisio di Casale Monferrato, come assistente e guida nelle ripetizioni agli studenti. Stringe una particolare amicizia con padre Giovanni Baravalle. È il religioso somasco a procurargli i libri durante il suo ritiro forzato: dall’Action di Maurice Blondel allo Spirito della liturgia di Romano Guardini, alla
 Storia delle religioni
di Pietro Tacchi Venturi. Non a caso la mite figura del padre Baravalle ritornerà, nella narrativa pavesiana, in La casa in collina,
 sotto il nome di padre Felice. Il dialogo con il religioso somasco sfocerà in una sincera amicizia che porterà il poeta delle Langhe a ricevere il sacramento della confessione e il giorno successivo il 1 febbraio del 1944 la comunione. Durante il soggiorno a Casale Monferrato e a Serralunga di Crea frequenti sono le visite di Pavese al santuario della Madonna nera, dove si confronta sul tema del credere con un sacerdote di quel luogo.
  Dopo il 1945 si diradano gli incontri con il 'suo prete', padre Baravalle, ma continua la corrispondenza testimoniata dalle tante interviste e testimonianze rilasciate dal religioso negli anni successivi alla morte di Pavese, dal 1970 al 1990 al 'Secolo XIX', 'Gente' e 'Il Corriere della Sera'. E proprio sulle colonne del 'Secolo' di Genova padre Baravalle, in un’intervista concessa a Carlo Repetti, tornerà con la mente alla drammatica lettera di Pavese in cui una «mano invisibile pareva che respingesse» lo scrittore delle Langhe da una chiesa di Roma: «Gli risposi immediatamente esortandolo a superare la crisi.
  Forse avrei dovuto essergli maggiormente vicino con gli scritti; è un rimorso che di quando in quando mi assale, come mi assalì la prima volta allorché leggendo il giornale del 28 agosto 1950 vi lessi la notizia del suicidio». E vent’anni dopo, nelle memorie stese e affidate alla cura di Cesare Medail, sul 'Corriere' aggiungerà: «Aveva un fondo di religiosità. Le tirannie della vita, le letture disordinate lo avevano gettato nel dubbio. Tutto questo mi convinse che il problema di Dio era rimasto ben presente in Pavese, dopo Casale, pur escludendo che i mesi del chiostro ne avessero fatto un fervente cristiano».
  Un’irrequietezza forse di vivere che ancora oggi è ben scolpita dalle parole di Italo Calvino dedicate all’amico nelle sue lettere dal 1940-85: «La sua disperazione non era vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quell’interezza di vita che desiderava». A sessant’anni dalla sua scomparsa rimane ancora attuale e intatto, nella sua lucidità e freschezza, il giudizio, scritto nel 1968, da don Divo Barsotti sul dramma esistenziale del poeta delle Langhe: «Pavese è stato consapevole di essere un vinto: ma da chi? L’impotenza a costruire una sua vita può essere stata la condizione, per lui, di abbandonarsi a Dio. Allora l’atto dell’abbandono avrebbe concluso la sua vita meglio di come egli poteva aver sognato». Il suo gesto estremo mette a nudo la sua «protesta di vita» come ebbe a scrivere ne
Il mestiere di vivere.
Su questa protesta riecheggiano ancora oggi le ultime parole del diario di Pavese, scritte il 18 agosto del 1950: «O Tu, abbi pietà. E poi?».


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pavese

mercoledì, 30 dicembre 2009

La realtà: un sogno reale
***
Si è tanto parlato, descritto, divulgato l’allarme sulla nostra vita, sul nostro mondo, sulla nostra cultura, che vedere il sole, le nuvole, uscire in strada e trovare dell’erba, dei sassi, dei cani, commuove come una grande grazia, come un dono di Dio, come un sogno. Ma un sogno reale, che dura, che c’è.

Cesare Pavese, in Il mestiere di vivere


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reale, pavese

mercoledì, 19 agosto 2009


REALTA',SORRISO DI DIO
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Il santo di giugno
Lettera del 21/06/09
Carissimi,
Il pensiero piú risoluto, piú scientifico non é nulla di fronte a ció che accadde, la pazzia consiste nel credere eventi i semplici pensieri”
Questa affermazione di Pavese descrive bene la mia storia ed anche il lavoro quotidiano di cui parla Carron, che sono chiamato a fare su me stesso. Un lavoro sostenuto in modo davvero eccezionale dal dolore che mi circonda e che é dentro di me durante le 24 ore del giorno. Sembrerá per molte un assurdo, peró trovo molto bello una frase che oggi mi ha detto un amico, commentando la frase de Pavese: “il rimedio alla pazzia é dato dal dolore, che ci fa mettere i piedi per terra”.
Mettere i piedi per terra é la grande battaglia da 20 anni ad oggi, che compio 38 anni di sacerdozio. E che cosa mi permette questo miracolo che é quello di amare la veritá dei “piedi per terra”, della realtá, per cui vivo comosso, in pace anche quando, come in questi giorni le circostanze sembrano (il dramma dei pensieri o pensieri cattivi, che sono ció che distraggono dalla veritá, dalla realtá) negative, mentre sono positive?
La grazia, mendicata attimo per attimo, anche fisicamente, ripetendo sempre “Io sono Tu che mi fai” o “anche i capelli del vostro capo sono contati”. Oggi, 38 anni fa ero ordinato sacerdote. Il vangelo del giorno é quello di Matteo 6,24-34 dove Gesú pone ai suoi discepoli tante domande che hanno come fondo quanto Carron ci ripete spesso “anche i capelli del vostro capo sono contati”.
Ma allora capite che davvero il primo lavoro da fare é chiedere che questo capitolo 6,24-34 di Matteo diventi carne. Umilmente, peró veramente guardando me stesso, la mia storia, ció che accadde qui é letteralmente quanto scrive San Matteo. Ma pensate se la mia vita non fosse cosi, se tutte queste opere non fossero cosí, ma che senso avrebbero?
Nessuno. Si, per uscire dalla “pazzia”, cioé dalle immaginazioni, dai progetti, dai pensieri é neccessario che le parole di Matteo diventino carne.
Cari amici mentre vi scrivo queste cose sono qui davanti ai miei piccoli crocifissi: Victor, Aldo e Cristina. Per cui potete capire cosa vuol dire per me la parola “dolore”. Nella stanza a fianco. Marziana di 20 anni é sempre piú grave. Al suo fianco Claudia di 35 anni, evangelica, mi ha detto: “Sono alla fine, voglio confessarmi, la comunione, torniare alla Chiesa cattolica”. In due giorni, poi, due morti, fra cui una giovane mamma, morta dopo aver cantato: “Ti adoriam ostia divina...” e dicendo “adesso ho cantato tutto”.
Adesso sono arrivati i miei bambini della casetta di Betlemme, quelli piú grandicelli. Con me faranno la processione con il Santissimo. Staranno a fianco di ogni ammalato grave e anche moribondo. Loro sono educati a guardare in faccia la veritá della realtà. La realtà non fa mai paura perchè grida la sua presenza.
Guardateli nella foto, appena fatta, con Attilio, anche lui alla fine. Guardate le loro facce e quella di Attilio. “Dov´è o morte il tuo pungiglione?”
Attilio e i miei bambini guardano in faccia alla morte, come guardano la vita. Osservo e capisco la bellezza della frase di Pavese. Giasmina, quella con la faccina fra le mani, vedendo Marziana mi dice: “Che bella, sembra la mia mamma quand´era viva qui in clinica”. Ogni sabato vogliono venire qui a vedere il letto, la camera dove sono morte le loro mamme. Come vedete la realtá é stupendamente amica, come ogni circostanza che per noi sono il sorriso di Dio. È propio bella la vita.
Buone vacanze, peró vissute cosí...
Lettera del 25/06/09
Cari amici,
dopo gli esercizi di Rimini, che noi abbiamo vissuti quest`ultimo fine settimana attraverso la registrazione, ho sentito l'urgenza di andare da Marcos e Cleuza per condividere la commozione, come già loro in aprile, di ogni parola ascoltata.
Normalmente da alcuni mesi ci troviamo spessissimo.
Adesso sono io che vado, perchè solo in questo modo quanto Carron ci dice diventa carne. Ed è stato bello. Ci siamo ritrovati all`aeroporto alle 15 e già è stato una festa, come sempre. Quindi, a casa di Marcos e Cleuza, insieme al grande amico P. Julian de la Morena, e altri 15 persone abbiamo iniziato la fraternità. Erano le 17 e senza accorgerci siamo arrivati alle 21. Quindi Messa, cena e avanti fino alle 24, quando la Paola di Savador de Bahia disse: “Dopo aver ascoltato tanti miracoli, andiamo a dormire per la stanchezza”. Che febbre di vita! La domanda da cui siamo partiti e posta dagli Zerbini era: “Com'è cambiata la nostra vita dopo l`ultimo incontro fatto in Paraguay?” e ovviamente alle luce degli esercizi. I nostri amici del movimento dei “Sem terra” quelli che già sono totalmente presi, affezionati dal carisma di Don Giussani, ci hanno letteralmente commossi per i miracoli, per la verità con cui raccontavano la vita.
Davvero ho sperimentato come sempre quanto gli apostoli vivevano con Gesù. E non solo io, ma anche chi è andato a letto alle 1:30 del mattino, tanto era bello respirare di Gesù, della realtà. Qualcuno si domanderà, ma dove nasce questa potente amicizia che è diventata più necessaria dell`aria che respiriamo?
Un amico ha detto quella sera:
Questa amicizia è bella e vera per questi motivi:
1- Perchè tutti guardiamo a Carron. Ci sentiamo figli. I nomi che ricorrono di continuo fra noi sono: Gesù, il Papa, Giussani e Carron. Senza Carron non ci saremmo mai conosciuti, perchè tutto è iniziato quando Carron ci disse dove guardare. Ed è qualcosa che se uno non lo vive non può capire.
2- La caritativa: la “sopa di P. Aldo” (sopa=zuppa). Si tratta di un gesto di carità che nell`associazione di Marcos si compie ogni giovedì dopo la Scuola di comunità. Vendono la “sopa” anche nella strada per aiutare la mia casetta di Betlemme. Ma sapete come Marcos e Cleuza definiscono la caritativa? Un gesto per ricordare il volto dell'amico P. Aldo. Cioè un gesto per vivere la memoria di volti che camminano assieme seguendo Carron. Mai avevo sentito definire così la caritativa. Cuociono la “sopa” e dopo la Scuola di comunità, la vendono per ricordare un amico, il volto, lo sguardo di un amico. Quindi un amicizia che è operativa e non buone intenzioni.
3- Il tempo ci è dato per incontrarci, cioè per andare al cuore della realtà, per vivere le circostanze, qualunque siano, come il sorriso di Dio (numerare i fatti raccontati sarebbe troppo lungo).
4- Questa amicizia è una proposta per tutti perchè il movimento è chiunque rimane sorpreso da uomini che si vogliono bene così tanto per la passione con cui guardano al loro destino. Uomini la cui unica grande opera non è il movimento dei “Sem terra” o le opere di San Rafael, ma la costruzione del proprio io. Non si fanno 3000 km ogni 15 giorni se non è per quest`opera: la costruzione dell’io.
5- È un amicizia definita per la festa. Anche la Messa, la cena che non vi dico che squisitezza è segno di questa festa.

Una nota finale: una donna dei “Sem terra” ha detto:
“Se la gente della clinica di San Rafael non ha paura di morire perchè dovrei avere paura di ciò che accade ogni giorno? E' cambiata la concezione che avevo della mia vita?”
Davvero sono tornato - andata e ritorno - con il cuore traboccante di gioia, desideroso di gridare a tutti e in tutti modi il miracolo di questa amicizia che solo seguendo chi oggi ci garantisce il carisma del Giuss, Carron, è possibile vivere. L'unica opera che mi interessa è sempre più seguire questo uomo, perchè nel seguire lui perfino il concetto di sviluppo, il concetto di collaborazione, di economia cambia e tutto diventa una voglia pazza che Cristo sia conosciuto ed amato. Sono qui solo per testimoniare questa esperienza per me piena di letizia...e a 62 anni e mezzo.
E pensare che come ricorda sempre Cleuza, un anno fa loro non sapevano della mia esistenza, mentre io si, ma non potevo neanche immaginare quello che sarebbe accaduto da novembre 2008 ad oggi. Veramente non potrei più stare senza vederli, ascoltarli perchè è come rivivere ogni volta quell’abbraccio del Gius, di molti anni fa e che ha cambiato la mia vita.
Oggi loro sono per noi qui il punto luminoso che rende lieta la nostra vita.
con affetto, P. Aldo Trento



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pavese, padre trento

lunedì, 15 dicembre 2008

Non basti da solo, e lo sai.
Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro
***
12 Aprile 1947
Aver l’impressione che ogni cosa buona che ti tocca sia un felice errore, una sorte, un favore immeritato, non nasce da buon animo, da umiltà e distacco, ma dal lungo servaggio, dall’accettazione dell’arbitrio e della dittatura. Hai l’anima dello schiavo, non del santo. Che a vent’anni, quando i primi amici ti lasciarono, tu soffrissi per nobile sofferenza, è una tua illusione. Ti dispiacque dover smettere abitudini gradite, non altro. E continui adesso, tale e quale.
Tu sei solo, e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato da un altro, che sia però tanto gentile da lasciarti fare il matto e illudere di bastare da solo a rifare il mondo. Non trovi mai nessuno che duri tanto; di qui, il tuo soffrire i distacchi -non per tenerezza. Di qui, il tuo rancore per chi se n’è andato; di qui la tua facilità a trovarti un nuovo patrono -non per cordialità. Sei una donna, e come donna sei caparbio. Ma non basti da solo, e lo sai.

21 Novembre 1947
Sapere che qualcuno ti attende, qualcuno ti può chiedere conto dei tuoi gesti e pensieri, qualcuno può seguire con gli occhi e aspettarsi una parola -tutto questo ti pesa, t’impaccia, t’offende.
Ecco perchè il credente è sano, anche carnalmente -sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe - non credi in Dio
Cesare  Pavese da : Il Mestiere di Vivere

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pavese

sabato, 08 novembre 2008

Tutto in me esige Dio!
***
   “Tu sei solo e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro
Pavese Mestiere di vivere

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pavese, senso religioso

mercoledì, 29 ottobre 2008

La riduzione del cuore
 a sentimento
***

Noi prendiamo il sentimento invece che il cuore come motore ultimo, come ragione ultima del nostro agire. Cosa vuol dire? La nostra responsabilità è resa vana proprio dal cedere all'uso del sentimento come prevalente sul cuore, riducendo cosi il concetto di cuore a quello di sentimento. Invece, il cuore rappresenta e agisce come il fattore fondamentale dell'umana personalità; il sentimento no, perché preso da solo il sentimento agisce come reattività, in fondo è animalesco. «Non ho ancora compreso -dice Pavese -quale sia il tragico dell' esistenza [. ..] Eppure è chiaro: bisogna vincere l'abbandono voluttuoso e smettere di considerare gli stati d'animo quali scopo a se stessi». Lo stato d'animo ha ben altro scopo per essere dignitoso: ha lo scopo di una condizione messa da Dio, dal Creatore, attraverso la quale si è purificati. Mentre il cuore indica l'unità di sentimento e ragione. Esso implica una concezione di ragione non bloccata, una ragione secondo tutta l'ampiezza della sua possibilità: la ragione non può agire senza quella che si chiama affezione. È il cuore -come ragione e affettività -la condizione dell'attuarsi sano della ragione. La condizione perché la ragione sia ragione è che l'affettività la investa e cosi muova tutto l'uomo. Ragione e sentimento, ragione e affezione: questo è il cuore dell'uomo.
don Giussani, L’uomo e il suo destino in cammino,ed.Marietti 1820


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ragione, pavese, giussani

sabato, 04 ottobre 2008

L’uomo ha bisogno di compagnia
 ***
 “ Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese voul dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.
Cesare Pavese, La Luna e i Falò (1949)”
 
***
 
"Da uno che non è disposto a condividere con te il destino non dovresti accettare nemmeno una sigaretta".
C. Pavese
 

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amicizia, pavese

mercoledì, 24 settembre 2008

Amare un’altra persona
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«Amare un’altra persona è come dire: “D’ora innanzi, quest’altra persona penserà alla mia felicità più che alla sua”. C’è qualcosa di più imprudente?»
Cesare Pavese

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amicizia, pavese

sabato, 20 settembre 2008

***
"La vita ha valore solo se si vive per qualcosa o qualcuno."
(Cesare Pavese)

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vita, pavese

lunedì, 28 luglio 2008

 La fiducia
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 “Come si può aver fiducia in una persona che non si arrischia ad affidarti tutta la sua vita, giorno e notte?”
(28 novembre 1945)
Cesare Pavese da: "Il mestiere di vivere"



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pavese


 Lo  sviluppo del proprio io
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“Lo scopo della vita è lo sviluppo
del proprio io.
Il completo sviluppo
di se stessi - ecco la ragione d'essere di ognuno di noi.”
Oscar Wilde
 ***
“Il supremo ostacolo al nostro cammino umano è proprio la trascuratezza dell'io. Nel contrario di tale trascuratezza, cioè nell'interesse del proprio io, sta il primo passo di un cammino veramente umano.
Don Giussani da:Alla ricerca del volto umano-Rizzoli
***
 “La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio strato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace.”
(8 agosto 1940)
Cesare Pavese da: "Il mestiere di vivere

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wilde, persona, pavese, giussani

domenica, 27 luglio 2008

Sull’amore
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L'amore ha la virtù di denudare
non i due amanti l'uno di fronte all'altro,ma
ciascuno dei due davanti a sé. 
(12 ottobre 1940) 
***
Un uomo non rimpiange per amore chi l’abbia tradito, ma per avvilimento di non avere meritato la fiducia”
(13 novembre 1937)
Cesare Pavese da: "Il mestiere di vivere"

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pavese

sabato, 26 luglio 2008

Cosa ci colpisce degli altri
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Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.
(3 dicembre 1938)
Cesare Pavese da: "Il mestiere di vivere"
 a:*

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pavese

sabato, 12 luglio 2008

La realtà è positiva
***

E’ notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani, sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose. È bello andare a dormire, perché ci si sveglierà. È il mezzo più rapido per fare il mattino.“
  Cesare Pavese(Il mestiere di vivere – 5 Marzo 1947).

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pavese

martedì, 03 giugno 2008

Il vero amico
***
 “Le cose che tu dici non hanno
in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dai nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva. O come il vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire: chi è quest’uomo?”
         Pavese Dialoghi con Leucò

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amicizia, pavese

venerdì, 18 aprile 2008


Pavese e l’amico prete
***

di Padre  Giovanni Baravalle *

".......Un bel giorno Pavese è stato mandato a Roma a riordinare la filiale di Casa Einaudi. Da Roma mi ha scritto una lettera triste, mesta, in cui mi diceva che non aveva pace, non aveva tranquillità. Il 5 luglio 1945 gli ho scritto : “ Soprattutto mi ha tanto colpito e addolorato la sua tristezza; se può esserle di conforto le assicuro che le sono vicino e che non passa giorno che io non chieda anche per lei un po’ di quiete e luce spirituale.”
Il 22 dicembre del 1945 andai a Torino. Da Roma mi aveva scritto : “ Padre, venga a Torino, ho assolutamente bisogno di parlarle.Andai a Torino, a Casa Einaudi. Dico al portiere : “ Voglio parlare con Cesare Pavese.” “ Non c’è.” Mi rivolgo quindi alla direzione e mi informano che Pavese sarebbe dovuto tornare la sera prima., ma non era arrivato per qualche inconveniente. Pavese arriva
il giorno dopo e gli viene riferito : “ E’ stato qui un prete.”, e Pavese grida : “Il mio prete!”
(l’hanno sentito in molti). Qualche tempo dopo ritorno da Einaudi. Suono e questa volta il portiere mi fa un bell’inchino.
M’introduce in un corridoio. A lato del corridoio c’era un grande salone dove le dattilografe stavano lavorando. Il portiere grida : “ Il prete di Pavese!” e le ragazze hanno cessato tutte di battere a macchina per vedere il prete di Pavese. Pavese non c’era, era andato via ancora.
Venne a trovarmi lui a Casale. Poi è tornato a Roma e mi ha scritto una lettera penosissima :“ Padre, ho cercato di fare come lei mi ha detto, di pregare, di andare in chiesa. Ieri mi sono trovato di fronte a una chiesa, ho cercato di entrare, ma una mano misteriosa sembrava respingermi. Forse io non sono degno.” Gli ho risposto immediatamente ( la lettera è conservata da mia sorella ) : No Pavese, lei deve continuare, deve sforzarsi, deve vincere la tentazione e lo scoraggiamento di questo momento. Lei deve pregare.”
Pavese ha conservato quella lettera. L’ha consegnata a sua sorella Maria : siccome allora sono state fatte tante tesi di laurea, a quelli che si rivolgevano a me riferivo la mia corrispondenza con Pavese e li mandavo a visionarla personalmente dalla sorella di Pavese. Ad un certo momento qualcuno ha tentato di rubare questa lettera. Dunque la sorella di Pavese ha preso tutte le mie lettere, le ha portate nella sua camera da letto e le ha chiuse in un armadietto ; non le mostrava ad alcuno se non dietro mia presentazione.
Continuavano così i nostri rapporti.
Io dovevo dare l’esame di storia, c’era un professore terribile alla Cattolica, di origine ungherese, nobiluomo Sergio Mochionori, parlava a voce altissima. L’argomento dell’esame era : “ La formazione dell’unità europea dal VI al XIX secolo.” Nessuno degli studenti sapeva come preparare l’esame. Arrivato il giorno della firma per l’iscrizione all’esame entriamo nello studio del professore e vedo sul tavolino il libro La formazione dell’unità d’Europa pubblicato dalla casa editrice Einaudi. Immediatamente scrivo a Pavese di mandarmi qualcosa, almeno le bozze di
stampa. Lui mi rispose che all’Einaudi c’erano solo sei copie e venivano conservate per un’eventuale nuova edizione. “Però per lei un volume c’è sempre”, disse Pavese, e me lo fece mandare..
Siamo arrivati al 1948. Io nella primavera del ’48 non sapevo che Pavese fosse diventato celebre. Intanto lui non mi aveva mai parlato dei suoi romanzi. Molto tempo dopo vengo a sapere di un romanzo intitolato La casa in collina in cui si parla di Padre Felice. In una conferenza il prof. Apollonio, allora ordinario di letteratura in università Cattolica, parlava del romanzo contemporaneo e ad un certo punto ha detto : “Oggi Pavese è sulla cresta dell’onda.”
Che piacere per me! Immediatamente scrivo a Pavese quello che Apollonio aveva detto di lui. Mi rispose . “ Padre, mi scusi, lei non ha capito niente. E’ impossibile che Apollonio abbia detto questo di me.” Invece Pavese cominciava ad imporsi, e venne poi premiato col Premio Strega. Questo momento coincise con un periodo molto negativo per Pavese. Finchè Pavese era con me mi diceva
chiaramente di non essere iscritto al P.C.I. , ma di essere solo simpatizzante. Io gli dicevo che lui non poteva essere comunista, perché al Comunismo mancava la vita spirituale. Lui mi diceva che io stavo parlando del comunismo russo, non di quello italiano. “Questo sarà totalmente diverso, sarà il primo partito d’Italia; Einaudi editore dei comunisti farà molti soldi. E quindi avremo tutti qualcosa
da guadagnare.” Io gli avevo detto : “ Lei non è capace di accettare l’opinione di un altro.” Pavese era risoluto nelle sue idee, non ammetteva contraddizioni.
Ad un certo momento Pavese, che scriveva su una rivista comunista, ha urtato Togliatti, il quale gli ha fatto una replica piuttosto dura. Allora Pavese fece questa affermazione : “ Si può credere in una religione soprannaturale ma non si può credere in un rito naturale.” Cioè Pavese si era distaccato completamente dall’ideologia comunista.
Voi sapete che Pavese ha pronunciato una frase terribile riguardo alla politica : “Mi sono impegnato nell’attività politica che mi schiaccia…” Ha una crisi politica e una crisi come scrittore.
Un giorno Pavese mi disse : “ Padre, cosa devo fare nella vita?” Gli risposi : “ Lei deve continuare a scrivere romanzi. Non le chiedo di scrivere romanzi per educande, le chiedo di scrivere romanzi della vita di oggi, ma in cui il bene appaia bene e il male appaia male.Credevo di averlo convinto,ma mi sbagliavo. Pavese pensava che la sua opera letteraria non avesse soddisfatto. Eppure si era impegnato in tutti i modi. Aveva scritto, e lo dirà lui stesso : La mia parte pubblica l’ho fatta, ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.”16 agosto 1950. Mancano 11 giorni.
Era quasi impossibile per lui inserirsi nella vita sociale, viveva piuttosto solitario. Soffriva, ma viveva solitario."
Improvvisamente vennero a Roma due attrici americane, le sorelle Doris e Costance Bowling. Pavese dapprima le avvicinò per il gusto di parlare l’americano. Questa erano venute in Italia per avere contatti e sfondare nel mondo del cinema. Pensavano che Pavese, essendo un uomo
importante nella letteratura, potesse aprire loro qualche porta e far loro ottenere una parte in qualche film. Pavese si era innamorato di Costance e la voleva sposare; l’aveva trattata coi guanti. Pavese non era un uomo sensuale. Era un uomo come tutti gli altri, ma molto prudente. Questa Costance, che come attrice aveva una vita più movimentata, si meravigliava che lui non allungasse neanche una mano, e un bel giorno si fece vedere con un altro in un atteggiamento “ non di devota preghiera”. E’ stata una pugnalata per Pavese : tre fallimenti in una volta, il letterato, il politico e il sentimentale. Non rimaneva più niente. Pavese si è sentito solo, incapace di vivere. A Torino ha bruciato molte lettere.
La sera del 26 agosto dice alla sorella Maria di preparargli la sua valigetta. Lei sapeva che Cesare ogni tanto si prendeva qualche giorno di vacanza. La nipotina di Pavese, Cesarina, saluta lo zio. Pavese si reca all’albergo Roma, chiede una stanza con telefono. E’ veramente disfatto.
Nei giorni precedenti l’unica persona che aveva incontrato era una ragazzina, allora forse diciottenne, diventata poi giornalista, la quale poi ha scritto l’opera più profonda e più sentita su Cesare Pavese. Pavese le voleva bene e l’aiutava in tutti i modi. Un giorno l’ha incontrata, l’ha condotta in un bar e le ha detto : “Ordini quello che vuole ma stia zitta e mi stia a sentire.” E per due ore si è sfogato sulla sua vita, sulla sua sofferenza, sulla sua incapacità di vivere. Lei, sebbene fosse giovane, ha avuto il sentore che ci fosse una tragedia nell’aria. Appena lasciato Pavese, telefona a tutti gli amici comuni per indurre qualcuno ad aiutarlo, per cercare di fermarlo in quello che, essa capiva, era un momento terribile. Non ha trovato nessuno.
Sabato, 26 agosto: chi in ferie, chi in weekend. Non c’era nessuno.
Pavese quel giorno chiede di non essere disturbato : viene lasciato solo.
La sera del 27 agosto, non vedendo comparire questo ospite, il cameriere prova ad aprire la porta, chiusa dall’interno. Nessun segno di vita, si avverte la polizia.
Lailo ha falsificato tutta la morte di Pavese. Afferma che lo trovarono sul letto composto. ( Tenete presente che Pavese il 18 agosto nel suo diario scrive : “Oh Tu, abbi pietà di me.” )
Pavese ha bruciato una lettera, non si saprà mia a chi fosse indirizzata né cosa contenesse; c’era la cenere sul davanzale della finestra. Sul davanzale c’erano anche le bustine delle pastiglie inghiottite. Ma cos’è successo? Il giornale ha scritto . “ Si è avvelenato.” Ma cosa c’è dietro a quell’avvelenamento?
C’è una disperazione infinita. Pavese si è sentito solo, fallito completamente, sotto ogni aspetto. E allora a chi si rivolge? Non ha mai dimenticato quella sera in quella cappella, e io gli dicevo :“Ricordati di quello che hai passato nella cappella del collegio Trevisio quando hai incontrato Dio.”
In quel momento Pavese ha compiuto un’opera incomprensibile : è abbandonato da tutti, non se la sente più di vivere. Scrive: “ O Tu abbi pietà” e decide di suicidarsi. Ma il suicidio è male. Ma perlui era l’unica via rimastagli. Dagli uomini non aveva più nulla da aspettarsi. Uno solo poteva ancora dargli fiducia, e si è rivolto a Dio : “ O Tu abbi pietà.”, e ha compiuto quel gesto.
Ma durante la morte che cosa deve essere avvenuto? A un certo momento ( l’ho ricostruito io sulla base di notizie che ho ricevuto ) Pavese deve aver recuperato per qualche istante, non so per quanto, la lucidità mentale : ha tentato di andare verso la porta e di aprirla, forse per chiamare aiuto. E’ caduto per terra, si è fatto una ferita al ginocchio e al braccio, quindi, non potendo arrivare alla porta, ha tentato di ritornare sul letto a distendersi, non ci è riuscito, si è seduto sul letto ed è caduto riverso col torso appoggiato al letto e coi piedi a penzoloni. Così è stato trovato la sera del 27 agosto 1950. Viene avvertita la sorella. Quello che poi è avvenuto lo lascio immaginare a voi.
Il pomeriggio del 28 agosto apro “La Stampa Sera” e trovo : “ Cesare Pavese si è suicidato.” Non vi dico che cosa ho provato. Mi pareva che mi fosse caduto addosso il mondo, mi sono sentito annientato, sono stato attaccato da un senso di rimorso : io ero forse l’unico prete che sapeva tutto di Pavese, che sapeva anche quella tentazione del suicidio, e io non l’ho fermato. Spero di non avere
colpa davanti a Dio, però nel mio cuore ho sofferto realmente molto. E ho pianto. Poi gli ho celebrato una messa e ho pregato per lui.
Ecco il Pavese che ho conosciuto io: il Pavese che da 40 anni porto nel mio ricordo e che questa sera sono stato lieto di presentare in qualche modo alla vostra attenzione.”*
Padre  Giovanni Baravalle
Dal 1943 al 1945 durante gli anni della Resistenza si legò in profonda amicizia con Cesare Pavese . Morì 17 febbraiol999
*da conferenza presso il Centro Culturale di Milano, nel 40° anniversario di Pavese 1990
 da: Centro Culturale di Milano

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pavese

giovedì, 10 aprile 2008

Il talento femminile
***
Il talento femminile è un talento innato, una disposizione originaria, un assoluto virtuosismo a conferire al finito un senso. La donna concilia l'uomo e se stessa col mondo, è in armonia con l'esistenza in una misura che l'uomo non conosce. Poichè la donna spiega la finitezza, essa è la vita profonda dell'uomo: una vita tranquilla e nascosta, come è sempre la vita delle radici. Il matrimonio è quindi il legame umano, che riannoda lo spirito al mondo e alla vita sociale.
Cesare Pavese, Biografia per immagini, Gribaudo, 1989


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pavese

mercoledì, 02 aprile 2008

Pavese,
confessione di un rifugiato
da: www.avvenire.it   27-03-2008
DI GIOVANNI BARAVALLE (sacerdote amico dello scrittore)
 La sera del 29 gennaio 1944, io stavo nella cappella del collegio. Erano le cinque del pomeriggio. Stavo dicendo quello che si dice il 'breviario dei sacerdoti', la preghiera dei sacerdoti. Ero solo. Sento un piccolo rumore, qualcuno che si avvicina. Non mi muovo. Continuo a leggere il mio breviario, come se non avessi sentito niente. I passi si avvicinano sempre più e una persona si siede accanto a me. Con la coda dell’occhio ho sbirciato. Era Pavese, il quale si era seduto, aveva messo la testa tra le mani e stava lì. Quest’uomo vuole parlarmi. Allora faccio presto a terminare il mio breviario e gli dico: «Professore, cos’ha?» e lui mi dice: «Padre, mi aiuti. Ho bisogno di lei».
  Io ero giovane, avevo 28 anni. Ero prete da due anni. E lui mi dice: «Devo sfogarmi. Devo narrarle tutto». E incominciò a raccontare la sua vita per due ore, il bene e il male, tutto quello che poteva dire. Io gli facevo qualche domanda in più per capire esattamente le cose. Due ore!
  Alla fine mi dice: «Padre cosa può fare per me?» E io gli rispondo: «Professore, io sono un prete. Se lei ha dispiacere di quello che è accaduto contro la legge di Dio, io le posso dare l’assoluzione». E lui: «Mi spiace se ho offeso Dio».
  Non potevo capire che valore avessero queste parole. E allora gli ho detto: «Va bene, io le do l’assoluzione ». L’ho confessato. Due ore di confessione; e ne ha dette di cose!
  Non si era più confessato da quando aveva fatto la prima comunione. Allora mi dice: «Ma lei potrebbe anche darmi la comunione?» «Ma certo, non adesso. Domani mattina alle sei e mezza io celebro messa nella chiesa che sta dietro quella pare­te » «Ma non so come fare, non so come comportarmi». Allora io gli di­co: «Lei non deve fare niente. Faccio tutto io».
  Alle sette di quel giorno, 30 gennaio, gli ho dato la comunione.
  Quel giorno, 29gennaio1944, è una data terribile per Pavese. Se voi leggete Il mestiere di vivere, trovate una pagina che è stata giudicata meravigliosa per contenuto religioso: «Ci si umilia per chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza di giungere alla fede, il modo di essere fedele rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento di barlume di questa possibilità: forse è tutto qui».In questo tremito del «Se fosse vero… se davvero fosse vero…» Pavese non aveva dubbi sull’esistenza di Dio. Era stato in gioventù lontano da ogni principio religioso e forse anche un po’ agnostico, ma quando l’ho conosciuto io, non aveva più dubbi. Quella data del 29 gennaio, quella seguente del primo febbraio, sono rimaste scritte nell’animo di Pavese e lo accompagneranno per tutta la vita.
  Davide Lajolo dice che Pavese ha cercato un po’ di conforto leggendo la Bibbia, parlando con dei frati, ma ha detto una sciocchezza. Quel momento è stato per Pavese il mo­mento decisivo di tutta la sua vita. Il problema di Pavese non era Dio, il problema di Pavese era il Cristianesimo.
  Il Cristianesimo o è una religione come tutte le altre, cioè una purificazione di una religione pagana che si è presentata al mondo in un determinato momento e ha conqui­stato i suoi adepti, oppure è una religione rivelata da Dio. Questo è il problema. Lui propendeva in un certo momento a considerare il Cristianesimo come una sublimazione di una religione pagana che è sta­ta però purificata. Naturalmente io non potevo accettare questa spie­gazione della religione e le nostre discussioni erano diventate sempre più frequenti.
  Un giorno gli dico: «Professore, lei sa come me che Gesù Cristo è risorto, lei sa che i Vangeli sono stati scritti nel primo secolo d.C. e i Vangeli parlano tutti della Resurrezione di Cristo: che cosa è avvenuto? Gli Ebrei perseguitarono i Cristiani. Ma lei mi trovi un solo libro scritto di quel secolo in cui qualche ebreo osi contestare la Resurrezione di Cristo. Lei non ne trova, perché gli Ebrei sapevano che Cristo era risorto, ma non volevano che se ne parlasse. Non era un Messia politico, quindi era inutile farne un’apologia».
 Un ragionamento molto popolare, ma Pavese mi disse: «Toh! Non ci avevo mai pensato!» La nostra vita comunque, si svolgeva tranquillamente. Io ricorrevo a Pavese anche per aiuto. Oltre a fare il padre spirituale dovevo anche curare gli studenti del liceo classico e scientifico di Casale Monferrato. A­desso parlo di quarant’anni fa, bi­sogna tenerlo presente. Allora un ragazzo e una ragazza prima di leg­gere un romanzo o vedere un film andava dal prete per chiedere il per­messo. Ora i tempi sono cambiati (...) Sabato, 26 agosto: chi in ferie, chi in weekend. Non c’era nessuno.
  Pavese quel giorno chie­de di non essere disturbato: viene lasciato so­lo.
  La sera del 27 agosto, non vedendo compari­re questo ospite, il ca­meriere prova ad aprire la porta, chiusa dall’interno. Nessun segno di vita, si avverte la polizia.
  Lajolo ha falsificato tutta la morte di Pavese. Afferma che lo trovarono sul letto composto. ( Tenete presente che Pavese il 18 agosto nel suo diario scrive : «Oh Tu, abbi pietà di me».) Pavese ha bruciato una lettera, non si saprà mai a chi fosse indirizzata né cosa contenesse; c’era la cenere sul davanzale della finestra. Sul da­vanzale c’erano anche le bustine delle pastiglie inghiottite. Ma cos’è successo? Il giornale ha scritto: «Si è avvelenato». Ma cosa c’è dietro a quell’avvelenamento?
  C’è una disperazione infinita. Pavese si è sentito solo, fallito completa­mente, sotto ogni aspetto. E allora a chi si rivolge? Non ha mai dimenticato quella sera in quella cappella, e io gli dicevo : «Ricordati di quello che hai passato nella cappella del collegio Trevisio quando hai incontrato Dio». In quel momento Pavese ha compiu­to un’opera incomprensibile: è abbandonato da tutti, non se la sente più di vivere. Scrive: «O Tu abbi pietà» e decide di suicidarsi. Ma il suicidio è male. Ma per lui era l’unica via rimastagli. Dagli uomini non aveva più nulla da aspettarsi. Uno solo poteva ancora dargli fiducia, e si è rivolto a Dio : «O Tu abbi pietà», e ha compiuto quel gesto.
  Ma durante la morte che cosa deve essere avvenuto? A un certo momento (l’ho ricostruito io sulla base di notizie che ho ricevuto) Pavese deve aver recuperato per qualche istante, non so per quanto, la lucidità mentale : ha tentato di an­dare verso la porta e di aprirla, for­se per chiamare aiuto. È caduto per terra, si è fatto una ferita al ginoc­chio e al braccio, quindi, non po­tendo arrivare alla porta, ha tenta­to di ritornare sul letto a distendersi, non ci è riuscito, si è seduto sul letto ed è caduto riverso col torso appoggiato al letto e coi piedi a penzoloni. Così è stato trovato la sera del 27 agosto 1950. Viene avvertita la sorella. Quello che poi è avvenuto lo lascio immaginare a voi.
  Il pomeriggio del 28 agosto apro 'La Stampa Sera' e trovo: ' «Cesare Pavese si è suicidato». Non vi dico che cosa ho provato. Mi pareva che mi fosse caduto addosso il mondo, mi sono sentito annientato, sono stato attaccato da un senso di rimorso: io ero forse l’unico prete che sapeva tutto di Pavese, che sapeva anche quella tentazione del suicidio, e io non l’ho fermato. Spero di non ave­re colpa davanti a Dio, però nel mio cuore ho sofferto realmente molto. E ho pianto. Poi gli ho celebrato una messa e ho pregato per lui diario29

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cristianesimo, pavese

venerdì, 08 febbraio 2008

***
La noia, l'insoddisfazione, è la molla prima di qualunque scoperta, piccola o grande.
Cesare Pavese


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pavese

giovedì, 13 dicembre 2007

L’Attesa

***
In verità siamo tutti in attesa... Siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ti fa trasalire la pelle nuda.”
C. Pavese


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tristezza, pavese

martedì, 11 dicembre 2007

La trascuratezza dell’io
***
« Si teme il proprio vuoto»
 Cesare Pavese


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solitudine, pavese

venerdì, 30 novembre 2007

La solitudine
***
« "(...) Cara Fern,
la solitudine che lei sente si cura in un solo modo, andando verso la gente e <> invece di <>. (E' la solita sacrosanta predica). Non che io aneli ad essere quello a cui lei dovrebbe donare- tanto più che i doni che lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Finché uno dice <>, sono <>, <>, starà sempre peggio. E' solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto (...
)"»

Cesare Pavese -  Lettere, Einaudi, 1996



 

Postato da: giacabi a 19:29 | link | commenti
solitudine, pavese

giovedì, 29 novembre 2007

La  solitudine
***
Tutti lo cercano uno che scrive, tutti gli vogliono parlare, tutti vogliono poter dire domani “so come sei fatto”, e servirsene, ma nessuno gli fa credito di un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo”.
 Cesare Pavese: Saggi letterari, Einaudi

Postato da: giacabi a 14:11 | link | commenti
solitudine, pavese

sabato, 27 ottobre 2007

La vita
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8 agosto
«La vita non è ricerca di esperienze ma di se stessi. Scoperto il proprio proprio  stato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace»
C. Pavese Il mestiere di vivere

 

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vita, persona, pavese

lunedì, 15 ottobre 2007


La speranza
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« E’ notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani, sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose. È bello andare a dormire, perché ci si sveglierà. È il mezzo più rapido per fare il mattino.»
  (Il mestiere di vivere – 5 Marzo 1947).
Cesare Pavese

Postato da: giacabi a 21:23 | link | commenti
bellezza, pavese



La solitudine
***

« Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia »
Cesare Pavese


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