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domenica 19 febbraio 2012

Piccinini


Una cosa dell’altro mondo.
In questo mondo
***

 
di Enzo Piccinini
a cura di Alberto Savorana
Il 26 maggio 1999 è morto in un incidente stradale Enzo Piccinini. Chirurgo stimatissimo e
responsabile di Cl, ha lasciato la moglie Fiorisa e i figli Chiara, Pietro, Maria e Annarita.
Abbiamo pensato di ricordarlo pubblicando la trascrizione di un intervento all’Happening dei
giovani a Bologna nell’estate del 1995. Gli universitari lo avevano invitato a presentare le Lettere
sul dolore di Emmanuel Mounier. Lui medico aveva, infatti, una passione sfrenata per la lettura, il
che segnò i suoi primi incontri milanesi con don Giussani, che ogni volta gli passava qualche libro
dei suoi. E chi scrive ricorda i primi incontri con Enzo all’Università di Bologna - era il 1980-81 - e
quella libreria in casa sua a Modena con uno scaffale di libri misteriosamente ricoperti di una carta
bianca che non lasciava trasparire nulla. Erano i libri che gli aveva dato don Giussani nel corso
degli anni, questo lo scoprimmo più avanti quando Piccinini cominciò a fare lo stesso con alcuni di
noi. Ora molte di quelle opere sono finite in una collana della Bur Rizzoli e si chiamano “i libri dello
spirito cristiano”.
Comunque, quella serata all’Happening di Bologna divenne l’occasione per una testimonianza a
tutta la città: che «Dio si è fatto uomo» significa che «tutto il cammino, la ricerca, la capacità
dell’uomo acquistano una forza di aggancio alla realtà totalmente diversa; cambia tutto… Questa è
l’ipotesi positiva in assoluto… Si è fatto compagno degli uomini perché la vita possa non essere
vana» (p. 22). Il resto lo lasciamo alla lettura
.
Il mio mestiere non è il letterato. La passione per libri come le Lettere sul dolore di Emmanuel
Mounier nasce in me da lontano ed è un’esperienza che mi dà il coraggio di dire quello che dirò,
perché ci dovrebbe essere ben altri al posto mio, più capace e più impostato. Quello che faccio è
per passione, non per mestiere, e viene da lontano, lo ripeto, perché io sono cresciuto con questi
libri.
Quando ho reincontrato l’esperienza cristiana, dopo un periodo di obiettivo sbandamento, avevo
perso la formazione che la vita cristiana mi aveva dato e soprattutto l’amore all’umanità, all’uomo,
amore che avrei recuperato, riscoperto dopo, proprio rientrando nell’esperienza cristiana.
Incontrando don Giussani, anni fa, si era accorto del mio disagio, perché mi sembrava sempre di
essere fuori posto rispetto a chi credeva.
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Ricordo che mi chiese se mi piaceva leggere. «Da sempre» ho risposto, perché era una passione
antica. Mi ha chiesto se accettavo di leggere qualche libro; non sapevo che proprio quello sarebbe
stato il modo che mi avrebbe fatto crescere.
Così mi ha consigliato per due, tre anni, dei libri ogni mese, ogni due mesi. Il primo libro fu Ad ogni
uomo un soldo. Quando lo presi in mano - un po’ per pregiudizio e un po’ perché c’erano delle
“pause” che non erano il massimo dell’esaltazione - lo lessi saltando molte pagine per arrivare a
finirlo. Finito, chiusi il libro.
Un mese dopo incontrai Giussani, che mi chiese subito che cosa pensavo di quel libro. Mi stupì
perché pensavo fosse un regalo e basta, e non che mi avrebbe chiesto un giudizio.
Guardando Giussani facevo mente locale al libro, a quello che avevo letto, soprattutto volevo fare
bella figura: fattomi serio, ho detto quello che, secondo me, poteva fare piacere a un prete:
«Questo libro mi ha insegnato a pregare».
Giussani ha cominciato a ridere, poi mi ha detto: «Questo è un libretto che si legge in spiaggia,
cosa ti viene in mente!?». Da quella volta non ho mai azzeccato un commento a un libro, però ho
reimparato i primordi, le leggi essenziali che nascevano dall’esperienza cristiana e che nella
collana Rizzoli “i libri dello spirito cristiano”, che sarebbe nata molti anni dopo sotto la direzione di
don Giussani, venivano proposte come esempio.
Credetemi, non si parla volentieri delle cose a cui si vuole più bene e questi libri sono una di quelle
cose, perché con essi ho reimparato un’esperienza umana, cioè cristiana, cioè umana.
Pensando a quello che dovevo fare oggi ho guardato a quello che il direttore stesso ha messo
come criterio di affronto della collana e vorrei riproporlo perché è stato esattamente il criterio che
ha guidato me e lo capisco bene adesso, non allora, quando mi piacevano libri che proponevano
contenuti meno profondi.
L’unico commento che ho azzeccato, dopo tre anni, è stato sul libro Ilia ed Alberto. Quando ho
espresso il mio giudizio, Giussani mi ha detto: «Bene, capisco che hai capito».
Per me è stata una riscoperta grandissima; ho ancora tutti i suoi libri (che lui dice sempre che gli
ho rubato!).
Prima di presentare le Lettere sul dolore voglio fare una premessa.
Sarebbe bello anche fare qualche accenno, fare giustizia elementare, sulla formazione che
abbiamo, tutta fondata sull’immagine, e che ha scartato e sta scartando l’aspetto più importante e,
a mio parere, più completo della libertà, che è la lettura. Sarebbe interessante, ma non è questo il
luogo.
La prima questione che colpisce è l’affermazione che c’è nella Introduzione - che si ripete in ogni
libro della collana -, un’affermazione che noi diamo per scontata e, invece, è la cosa più importante
del mondo, da quando il mondo esiste: Dio si è fatto uomo.
Per farmi capire: il Big One - come tutti sanno - sarà un terremoto incredibile per cui metà della
California crollerà in mare; sarà inesorabile e tutti l’aspettano. Sarà tra un mese, tra un anno… non

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so, ma succederà. Il Big One, questa catastrofe che sarà, non è niente rispetto a questa
rivoluzione, a questo Fatto.
Che Dio si sia fatto uomo vuol dire che tutto il cammino, la ricerca, la capacità dell’uomo
acquistano una forza di aggancio alla realtà totalmente diversa; cambia tutto.
Se fino a quel momento la capacità, le doti personali hanno un valore estremo, così come
l’affermazione di sé, la possibilità di riuscire da sé a legare sé all’infinito, da quel momento in poi
cambia tutto: la passione alla realtà non è più per il risultato che si ha; ed è inutile sottolinearlo,
ma, in fondo, il progresso dipende da questo. Non ci può essere nessuno scienziato che possa
andare alla realtà senza un’ipotesi positiva su di essa; qualunque ricerca, anche la più banale, se
non avesse un’ipotesi positiva sulla realtà che affronta, non permetterebbe alcun passo.
Questa è l’ipotesi positiva in assoluto: Dio si è fatto uomo, il che vuol dire che ciò che abbiamo
sempre cercato, che io ho sempre cercato, anche inconsapevolmente nei giochi da bambini, nella
donna che ho amato, nella carriera, è qui, è presente.
L’imprevedibile è diventato un avvenimento reale. Si è fatto compagno degli uomini. Ma perché?
Questa è la più bella cosa del mondo e servirà a capire il libro: perché la vita possa non essere
vana. Perché non ci sia più niente da buttare via.
Che Dio si è fatto uomo vuol dire che Dio ha preso su di sé - dandogli il significato per la
partecipazione che Lui ha alla vicenda umana - ogni particolare, bello o brutto che sia.
E poi la vita non è più vana perché è impregnata del Mistero; questo vuol dire che anche quando
non capiamo accade, perché il Mistero non è sulla nostra lunghezza d’onda, come deve non
essere. Perciò possiamo offrire, ma anche questo va da sé.
Allora il criterio di lettura per “i libri dello spirito cristiano” è scoprire che Dio si è fatto compagno
agli uomini, cosicché la vita possa non essere vana.
Il libro di Mounier, come gli altri, vuol narrare una esperienza umana critica che, affrontata
secondo questa ipotesi - la fede -, diventa vivibile, più vivibile. Don Giussani, infatti, parla di
«un’umanità che realizza la sua passione per l’esistenza e la sua adesione al dramma della vita
con un realismo e una profondità altrimenti impossibili».
C’è una sfida dentro questi libri ed è la cosa che mi ha appassionato, io che avevo abbandonato
da tempo la possibilità che il cristianesimo potesse essere una sfida per l’uomo, essere una
promozione della mia umanità. La sfida è questa: chi accetta di vivere sul serio la fede scopre che
la propria umanità è cento volte di più, è veramente umana.
D’altra parte, non credo che sarei nel cristianesimo, se non capissi lucidamente questa possibilità
in più di umanità. Fuori da qui non c’è umanità.
Questo è il punto. «Questi testi ne sono una documentazione particolare, specie dove le parole
scavano nei fatti e nel cuore con tutta l’energia della grande arte».
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Nell’incontro con questo Fatto storico, la ragione, la volontà, l’affettività umana sono provocate a
realizzarsi e a compiersi secondo tutta l’ampiezza del loro desiderio di giustizia, di bellezza, di
bontà e di felicità.
È una sfida che non sentiamo più soltanto perché non cogliamo le ragioni vere, profonde
dell’esperienza cristiana. Ma è una sfida perché la vera umanità è scoperta solo nel drammatico
rapporto col Dio fatto uomo, cioè presente; questo è drammatico.
«Si tratta di romanzi, saggi e testi non facilmente reperibili… perché in essi si scopre uno spirito
cristiano impegnato a scoprire e a verificare la ragionevolezza della fede dentro le circostanze
della vita».
Il libro di questa sera, Lettere sul dolore di Mounier, lo conosco perché, nella mia disordinata
gioventù, ho partecipato anche alla costruzione di una Casa Editrice abbastanza dilettantesca,
nella quale editammo di Mounier un grosso volume (Lettere e diari, Città Armoniosa, Reggio
Emilia, 1982; ndr). Questa è un’antologia, una specie di fiori scelti da quel libro.
Lettere sul dolore sono come punti, pezzi di lettere, del grande epistolario di Mounier a sua moglie,
ai suoi amici su questo tema. Perché, lo scopriremo leggendolo, nella sua vita c’era una vicenda
che lo riguardava personalmente e, appunto, c’era in lui tutta l’esigenza di comprenderne la
ragionevolezza attraverso la fede.
Lettere sul dolore, perché? Perché il dolore è la cosa più presente e più difficilmente accettabile
della nostra vita. È qui che si deve misurare l’ipotesi che il fatto cristiano dà ragionevolezza:
laddove le cose sono necessarie, non dove le cose sono soprammobili, cose che puoi mettere da
parte.
La verità del Fatto cristiano, che rende la vita non vana, si deve misurare con le cose necessarie,
che non puoi saltare, con le cose che non vuoi o non vorresti.
Il dolore, l’esperienza del dolore, inevitabile per tutti, è la cosa più irragionevole al di fuori
dell’ipotesi cristiana.
È bellissimo ripercorrere i passaggi che hanno fatto di Mounier uno dei testimoni più belli e più
importanti della possibilità che il dolore non sia soltanto un’ipotesi negativa.
Nell’Introduzione di Davide Rondoni al libro c’è un’osservazione che fa capire immediatamente la
differenza. Tanti si sono misurati sul dolore e sulla possibilità di sopportarlo; tra essi si cita
l’insegnamento sul superamento del dolore di due maestri non a caso oggi tornati di moda: Epicuro
e Budda. E si fa un paragone.
«In uno degli scritti sacri del Beato orientale si trova raccontato questo dialogo tra il Maestro e
Visakha: “Il Beato le disse: ‘Come mai sei qui a quest’ora, Visakha, con la veste e i capelli ancora
umidi?’ [per il rito funebre, n.d.r.]. ‘La mia cara nipote è morta, per questo sono qui’… ‘Visakha, chi
ha cento cose che gli stanno a cuore ha cento dolori. Chi, ne ha novanta ha novanta dolori. Chi ha
ottanta, trenta, venti, dieci cose che gli stanno a cuore, ha ottanta, trenta, venti, dieci dolori. Chi ha
una sola cosa che gli sta a cuore ha un solo dolore. E chi non ha nulla che gli sta a cuore, costui

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non patisce nessun dolore. Ed è sereno colui che non patisce dolore né passione. I dolori, i lamenti
e i patimenti in questo mondo sono innumerevoli a causa di ciò che abbiamo caro: ma se non vi è
nulla che ci sia caro, non vi sono dolori. Perciò sono felici e liberi da sofferenza coloro che non
hanno nulla di caro al mondo’”. Quanto è diverso da questa posizione che gela l’affettività
[bellissimo!] e censura la natura appassionante del vivere lo slancio con cui Cristo si ferma
dinnanzi alle situazioni del dolore raccontate dal Vangelo».
Solo per fare un esempio di come Gesù condivide la ragionevolezza della fede che scopriremo nel
libro, pensiamo a quando incontra la vedova di Nain, un episodio noto a tutti: il figlio di madre
vedova morto, il pianto intorno a lei e la gente e i discepoli che si aspettano da Lui il miracolo, cioè
la restituzione immediata del ragazzo, perché questa sembrava la risposta più immediata,
desiderata, voluta, importante in quella situazione.
Immaginiamolo vicino alla donna, mentre le mette la mano sulla spalla - la donna che piange
distrutta, perché le è stata tolta l’unica cosa che vale - e le dice: «Donna, non piangere».
Ci vuole una grande umanità per capire che la cosa più difficile da sopportare è il dolore e che la
cosa di cui abbiamo più bisogno è che nel dolore ci sia qualcuno con noi che condivide e ci aiuta a
non essere soli. Ci vuole solo una grande, infinita, straordinaria umanità.
È questa la vita umana, non è la censura o il “cielo” o l’autocontrollo; è l’espressività tutta, ma
destinata.
Il Vangelo è pieno di questi esempi. Quando sono stato in Palestina ho visto il luogo dove Cristo,
guardando il Tempio, si mise a piangere. Un uomo! Gesù ha un sentimento umano della vita;
sapendo che quella città sarebbe stata distrutta, pianse su Gerusalemme.
Per vivere, questa umanità non cela la passione, non cela l’espressività.
Continua Rondoni: «Non un distacco dalla condizione umana, ma una passione commossa dinanzi
alla sua pena: questa è la grande novità introdotta dal cristianesimo. È da tale novità di
atteggiamento che è nata una civiltà che ha saputo accogliere e tentare la cura del dolore: non a
caso la tradizione degli ospedali è cristiana, mentre in ogni civiltà non cristiana [questo mi ha
colpito sempre molto!] si afferma il culto dei sepolcri».
È così. È questa ipotesi che ci sta a cuore.
>>>
Solo un accenno su Mounier. È l’unico, a mio parere, tra i suoi contemporanei, che abbia saputo,
partendo dalla posizione cristiana, fondare una posizione civile costruttiva: un movimento. È
l’unico, perché altri sono intellettuali un po’ come cattedrali nel deserto; Mounier, invece, ha creato
almeno due cose che testimoniano che questa posizione che stiamo narrando intersecava la vita
fino in fondo, tanto è vero che ha rischiato anche civilmente fondando Esprit. È una rivista alla
quale girava intorno tutto il mondo laico e cattolico; tutto il mondo intellettuale di allora si è misurato

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con Esprit. Dicevano che era comunista solo perché dialogava, ma Esprit è stato il primo che ha
denunciato il sopruso che accadeva all’Est, mentre gli altri non dicevano nulla.
Poi ha creato un movimento, il “personalismo”, di grande forgiatura filosofica, però un movimento
di gente.
L’ho detto perché mi interessa sottolineare che la posizione che Mounier ha di fronte al dolore è
una posizione che genera, fino alla capacità civile di far qualcosa di permanente. Non era un
sentimento, ma un fatto.
Andiamo a scorgere in questa antologia i cinque passaggi della vita di Mounier che lo
caratterizzano di più e facciamolo a partire da questa sfida, quella cioè che l’ipotesi cristiana sia
capace di dare ragione all’unica cosa che mette in difficoltà sul serio la vita dell’uomo, cioè il
sacrificio di sé.
>>>
1. Vediamo il primo passaggio; sono le prime lettere e ce n’è una che è straordinaria e guarda
proprio il mondo intellettuale dove lui è immerso, soprattutto il mondo universitario.
12 gennaio 1928, siamo agli inizi, questa è la posizione che gli darà la forza di affrontare quello
che vedremo dopo.
«Più si vive, più ci si accosta a Pascal: l’unica cosa che conta [ci sono delle espressioni sentite, ma
soprattutto lette, che sono come l’Everest della vita. Uno potrebbe tentarne tante, ma quella la
esprime più di tutte] è l’inquietudine divina delle anime inappagate».
Vedete, la differenza sta tutta qui: che ci possa essere nella nostra vita un’inquietudine divina - non
è che uno è divino! -, un’inquietudine messa da chi ti ha fatto, da Dio. Inquietudine significa un
permanente ricercare un significato della vita, che non è tuo, un permanente interesse, che si può
impiantare solo su anime inappagate.
Questo è il punto! Le anime inappagate che noi siamo, per cui Cristo ha terreno su cui attecchire.
Chi è già a posto non ha spazio per l’esperienza cristiana. Non c’è niente di più anticristiano di chi
cerca di mettersi a posto la vita. La vita cristiana è un permanente dramma del rapporto fra te e la
presenza del Mistero, ed è questo che fa viva la vita, a 90 anni come a 2. E non ti permette di
adagiarti su niente, ma di abbracciare tutto liberamente; tutto è tuo, ma non è tuo.
Ma ecco il punto più interessante della sua vita.
«Vedi, è assolutamente necessario che diamo un senso alla nostra vita. Non quello che gli altri
vedono e ammirano, ma il tour de force che consiste nell’imprimervi il sigillo dell’Infinito!» (12
gennaio 1928).
Finalmente qualcosa che fa della vita un’avventura: non quello che gli altri vedono e ammirano,
non una bella figura, ma «il tour de force che consiste nell’imprimervi il sigillo dell’Infinito».

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Le anime inappagate che guardano il mondo e le cose che hanno come realtà che sono state date;
le anime inappagate e l’inquietudine divina di chi si alza al mattino e le cose che vede e conosce
da dieci, venti anni è come se qualcuno gliele desse in quel momento. Questo vive la vita sul serio.
Poteva non esserci niente eppure sono qui adesso!
Questo fa stupire dell’aria che respiro, questo fa la vita grande, questa è la prima scoperta che
nella mia vita ho fatto: che la vita cristiana è drammatica, non tragica, ma drammatica, perché è un
rapporto continuo che tiene svegli la mente e il cuore, per cui ti stupisci delle cose che per tutti gli
altri sono sempre uguali.
>>>
2. Il secondo passaggio è scoprire che la vita val la pena di essere vissuta perché c’è qualcosa di
costantemente più grande di noi che ce la dona, istante per istante; e noi, alzandoci al mattino,
rispondiamo a qualcuno e a qualcosa di quel che facciamo e diciamo, non allo stato d’animo, non
al programma della giornata.
Mounier dice come concepisce lui “gente così”; gente così che ha impresso il tour de force
dell’Infinito. Costituisce un gruppo di persone veramente unico, un popolo nuovo, diremmo noi
adesso con la nostra terminologia, ma qui è più bello.
«Inoltre, c’è stata la nascita ufficiale del movimento che ha, da alcuni giorni, un nome, un locale,
delle lettere intestate, e che ha interessato e appagato gli uomini d’azione. Ora le due posizioni
sono più lineari, tra l’Esprit e il movimento [lì c’erano tutte le cose che succedono ovunque, non era
pacifica la questione, Esprit era la rivista e, quindi, c’era la difficoltà del rapporto con il movimento
che lui aveva fondato, il problema di chi era la rivista, ecc.], ma adesso era chiaro perché tutto
quello che poteva essere un po’ falso, nel nostro vasto e scapigliato accentramento degli inizi, è
ora regolato da una divisione dei compiti. I gruppi cominciano a formarsi» (3 gennaio 1933).
Cosa vuol dire? È successo che gente così si è messa insieme, gente che nella vita ha posto il
tour de force dell’Infinito, per cui non è più un bilancio appena la vita, ma è rapporto con questo
Destino e Mistero che mi fa istante per istante.
«Ho sempre pensato che dovremo durare, in virtù del carattere organico dei nostri inizi: è dalla
terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia (ci è stato mosso il
rimprovero di non avere ancora costruito abbastanza) e il sentimento paziente dell’opera che
cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza (tranne lo
sconforto dei giorni d’angoscia). È dalla terra, dalla solidità, che deriva un parto pieno di gioia e il
sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono aspettate con calma,
con sicurezza…» (3 gennaio 1933) ed è qui la svolta: «Occorre soffrire perché la verità non si
cristallizzi in dottrina [bisogna stamparlo su tutti i muri!], ma nasca dalla carne. Questa sera ho la
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consapevolezza che non difendo una posizione, ma che, dopo un periodo d’indifferenza, si
risveglia in me, mescolato alla fede che professo, l’uomo di questi ultimi giorni» (3 gennaio 1933).
«Non ci resta altro che amare, amare Dio per quello che fa, e amare intensamente quelli che Egli
spezza per amore. Io mi sento tanto piccolo di fronte a loro» (16 maggio 1933).
Uomini così. Il movimento che nasce è il tour de force dell’Infinito; nella vita occorre soffrire perché
non si cristallizzi in dottrina. Non bastano le intenzioni, anche le più belle, le idee, anche le più
belle; occorre che questa ipotesi che si ha entri nella carne, nella vita, intersechi le cose che ci
interessano.
Come è bello, allora, pensare che questo è l’invito che la nostra fede non sia né un rito, né appena
delle regole morali. Come è bello pensare che questo è l’indirizzo per cui scopriremo veramente
ciò che chiamiamo verifica, quanto è vero quello che crediamo; perché entrando nella vita, laddove
conta, laddove ci teniamo di più, scopriremo che è vero, ma occorre soffrire, cioè accettare questo
lavoro. Senza questo lavoro non c’è verifica e senza verifica non c’è maturazione, si rimane
infantili. Senza vedere come è vero non c’è maturazione e non c’è niente di più impressionante di
una fede che rimane bambina e che al primo scontro con la vita si sfascia.
>>>
3. Con il terzo passaggio c’è una nota di cronaca: ecco, allora, la caratteristica di questi uomini per
i quali il tour de force dell’Infinito diventa importante nella vita e che lo accettano come un lavoro su di sé, facendo entrare questa ipotesi nella vita concreta, non solo nelle discussioni
di salotto, non
solo quando si sta bene, ma nella vita concreta; ecco, allora, la posizione di questi uomini nel mondo: prima bisogna «trasformare in gioia tutto quello che la felicità ci rifiuta».
È utopico! Come si fa?
«Può darsi che Châtenay sia stato una tentazione di felicità; vorrei soprattutto che tu avessi il
minimo di calma per poter essere sofferenza alla sofferenza, speranza alla speranza. Dobbiamo
inventare un nuovo tipo di presenza, simile a quella che ci è stata propria per molti mesi, in un
clima di totale insicurezza. Tutto questo sarà più facile di quanto non si creda, nel corso delle
giornate. Insieme dovremo rendere belle le ore che ci saranno date. Camminando per strada, poco
fa, ho cercato di far gioire il mio cuore. Non è stato difficile. Mi è bastato pensare (…) che ogni
sofferenza assunta in Cristo perde la sua disperazione, la sua stessa negatività» (4 settembre
1939).
Ma «non si deve parlare di futuro nero (…) drammatico forse, doloroso anche. Ma noi cristiani
abbiamo solo il diritto di creare la gioia (penso alle belle pagine di Péguy sul cristiano che ottiene
l’acqua chiara con l’acqua torbida! Dovresti leggere proprio adesso i tre Mystères di Péguy)» (23
settembre 1939).

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«Come realizziamo poco e male la condizione cristiana del viator, il viaggiatore» (17 ottobre 1939).
Chi è il viator? L’uomo medievale, il viaggiatore, la gente del movimento, è l’uomo che cammina
con negli occhi e nel cuore l’ideale, la meta che non ha raggiunto, ma certo di essere sulla strada
per raggiungerla.
Questa è la vita cristiana e così tutto diventa gioia, non perché tutto diventi piacevole, ma perché in
tutto la luce dell’ideale può dare forma alle cose solite, tramutandole in qualcosa che non ti eri mai
aspettato prima.
«Chi procede soltanto in vista di uno scopo, chi vive solo per uno scopo, disprezza tutte le
preoccupazioni del viaggio, perché alla fine troverà il suo scopo, i suoi, la sua opera (…). Non ci
resta che diventare cristiani veramente, se non vogliamo fallire tutto» (17 ottobre 1939).
Scusate la banalità dell’esempio, ma è per chiarire. Io abitavo a Reggio Emilia e avevo la morosa
che stava a Bologna. Avevo solo una lambretta, con due sedili, come una volta. Faceva i 50, 60
all’ora, rimanevo sempre dietro ai camion e così arrivavo da lei sempre nero. Ma io non avevo
problemi. Era la coscienza dello scopo! Se qualcuno mi avesse obbligato a farlo più di tre volte,
l’avrei menato e, invece, quante volte l’ho fatto senza lamentarmi; anzi, ero contentissimo,
respiravo nero e via!
Perché è il senso dello scopo che cambia la vita, che illumina le circostanze concrete al punto tale
che non sono più solo circostanze, ma circostanze con dentro qualcosa d’altro.
È questo che fa la vita!
>>>
4. Arriviamo al quarto passaggio, quello cruciale. Mounier per anni con sua moglie aveva cercato
un figlio. È arrivato, ma era una microcefala, e gravissima, per cui tutto lo sviluppo di Françoise è
stato compromesso; allargandosi la massa cerebrale e incontrando una scatola cranica piccola,
aveva compromesso tutto.
A casa loro gira tutto il mondo della cultura francese di allora e loro ricevono sempre con la figlia
presente. Capiremo perché.
Questa è la grande prova per cui il dolore comincia a essere sentito come qualcosa che arriva al
cuore giorno per giorno, attimo per attimo e che urge una risposta, perché altrimenti tutto sarebbe
davvero assurdo.
Prima di fare un breve commento leggo le lettere più belle.
«Sento come te una grande stanchezza [non doveva essere facile! Io descrivo impetuosamente,
ma per loro era giorno per giorno, attimo per attimo] e una grande calma mescolate insieme, sento
che il reale, il positivo sono dati dalla calma, dall’amore della nostra bambina che si trasforma
dolcemente in offerta, in una tenerezza che l’oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma
con lei» (11 aprile 1940).

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«Occorre [e come non subire? Siamo in Francia. Come non pensare a Lourdes, alla possibilità del
miracolo, la possibilità di pensare che ci sia un modo meccanico di intervento del Mistero, che
possa risolvere il problema!? Tutti ne parlano. Sentite come Mounier e sua moglie affrontano il
problema. È straordinario, perché il vero senso del miracolo è qui, non il miracolo per cui tutti si
meravigliano e pensano che c’è Dio, perché questo Dio lo dà quando vuole Lui, ma il vero miracolo
è tutti i giorni, come è detto qui]. Occorre avere un cuore molto semplice per essere in comunione
con tutti coloro che hanno creduto in Lourdes. Penso che farei una pazzia da un punto di vista
semplicemente umano: condurrei Françoise a Lourdes non per chiedere il miracolo materiale, ma
per mettermi in fila e conoscere la gioia di ricondurre a casa una bambina sempre ammalata, la
gioia di aver creduto alla gratuità della grazia di Dio (e non al suo automatismo terapeutico), la
gioia di sapere che il miracolo non è rifiutato a chi lo accoglie in anticipo sotto tutte le sue forme,
anche sotto quelle invisibili, anche sotto quelle crocifisse, anche se si trattasse della fine. Touchard
ha ragione: Françoise è più presente di una bambina graziosa e normale» (17 aprile 1940).
È una posizione vertiginosa.
Questo brano l’ho preso dall’antologia che curammo allora.
«Eccoci nella stessa condizione [doveva essere duro!], poveri bambini deboli come sempre, le
gambe stanche, il cuore stanco e piangente e la stessa mano si posa sulla nostra spalla
mostrandoci tutta la miseria degli uomini, tutte le lacerazioni degli uomini, coloro che odiano,
uccidono e fanno smorfie e coloro che sono odiati, uccisi, deformati per tutta la vita e tutto il
cinismo dei ricchi e poi ci mostra questa bambina, colma delle nostre speranze future e non ci dice
se ce la prenderà o se ce la ridarà, ma lasciandoci nell’incertezza ci sussurra dolcemente:
“Datemela per loro”. E soavemente insieme, a cuore a cuore, senza conoscere se Egli se la terrà o
ce la ridarà ci prepariamo a donargliela poiché le nostre mani deboli e peccatrici non sono in grado
di tenerla [questo dovrebbe essere il rapporto normale con i figli] e soltanto se l’avremo messa
nelle sue mani avremo qualche speranza di ritrovarla. In ogni caso siamo sicuri che tutto ciò che
accadrà, a partire da quel momento, sarà positivo».
Qui c’è un’intuizione straordinaria. Il primo sforzo qual è stato? Di convincersi che tutto andava
bene? No!
«Il primo sforzo è stato quello di superare la psicologia della sventura. Questo miracolo che un
giorno si è spezzato, questa promessa su cui si è richiusa la lieve porta di un sorriso cancellato, di
uno sguardo assente, di una mano senza progetti [era tutta flaccida], no, non è possibile che ciò
sia casuale, accidentale. “È toccata loro una grande disgrazia” [la gente dice così]. Invece non si
tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno molto grande. Così non ci siamo fatti delle
prediche. Non restava che fare silenzio dinanzi a questo nuovo mistero, che poco a poco ci ha
pervaso della sua gioia. (…) Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia?
Chi sa se non ci è domandato di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare
la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me
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l’immagine della fede. Quaggiù, la conoscerete in enigma e come in uno specchio. In questa storia
[ed è questa la grandezza del fatto cristiano], la nostra disgrazia ha assunto un’aria di evidenza,
una familiarità rassicurante, o, piuttosto, non è la parola giusta, impegnata: un richiamo che non
dipende più dalla fatalità (…). Rimanere padre e madre, non abbandonarti alla nostra
rassegnazione, non abituarci alla tua assenza, al tuo miracolo; donarti il tuo pane quotidiano di
amore e di presenza, continuare la preghiera che tu rappresenti, ravvivare la nostra ferita, poiché
questa ferita è la porta della presenza, restare con te.
Forse occorre invidiarci questa paternità incerta [non li ha mai chiamati papà e mamma!], questo
dialogo inespresso, più bello dei giochi infantili» (28 agosto 1940).
«Ogni ora della sua lotta è la nostra lotta. Ogni ora della sua pena è la nostra pena. Credo che non
ci sia peggior ostacolo (peggior dolore) di un volto amato, sfigurato [man mano che cresceva si
deformava sempre più](…). Quando adoriamo, nostro malgrado senza enfasi, il mistero di bontà
che si trova in quel suo bello sguardo perduto, che non cerca più gli oggetti e gli uomini, succede
allora che la nostra fraternità con lei si fa più viva. Subiamo la prova della fede: “E ora la
conoscerai in enigma e come in uno specchio”. Possa la sua durare soltanto il tempo di una crisi
dello spirito!» (12 novembre 1940).
Quando venivano a trovarli, Mounier metteva la figlia a capotavola. Immaginatevi l’imbarazzo di
quelli che venivano per parlare delle strategie politiche!
Io ho avuto un’esperienza così solo un paio di volte, ma mi è rimasto impresso.
I primi tempi che avevo cominciato a vivere questa esperienza e mi ci ero buttato dentro, avevo
molte riserve, problemi, questioni per quel tale responsabile, per quello che diceva e non faceva.
Poiché avevo un certo rapporto con Giussani, un giorno gli dissi che ero stanco di questo e quello
e lui mi invitò a Milano a mangiare insieme. Vado. Alle 12.30 sono là, saluto e poi mi dice:
«Invitiamo anche lui a pranzo?». Era un matto, completamente andato! «Va bene» dico. Ci
mettiamo a sedere, io guardo il matto e Giussani mi dice: «Allora, che cosa hai da lamentarti?». E
io: «Niente».
Un’altra volta, con altri che avevano tanti problemi, ha fatto la stessa cosa e tutti hanno cominciato
a fare sul serio, nessuno parlava più per sé, tutte le osservazioni erano misurate, fatte con calma,
senza nessun vomito lamentevole.
Qui è il problema. Mounier metteva un’idiota a capotavola e a tavola con lui c’era chiunque; è
questo che mi ha colpito di più leggendo queste lettere, perché quella piccola idiota era il centro
della casa di Mounier e la casa di Mounier era il centro dell’intellighentia politica e culturale di
allora. Quell’idiota era guardata come Cristo, c’era un’identità immediata, Françoise era segno di
Cristo e perciò centro affettivo della compagnia tra marito e moglie e con gli amici: Cristo.
Ed era questo che li faceva più compagni. Questa memoria cambia il giudizio su di sé e sul
mondo, perché quella presenza problematica ricorda che o c’è il Mistero o davvero la vita è un
assurdo.

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È, se cambia. Al posto d’onore l’idiota: Cristo in croce.
Così il pranzo tra lui, la moglie e la figlia idiota diventò ogni giorno gioioso, non per lo sforzo del
rispetto reciproco, non per lo sforzo del galateo, ma per la consapevolezza drammatica del
Mistero, reso presente da una contraddizione che, senza l’ipotesi del Mistero presente, sarebbe
soltanto assurdità.
Altro che idiota! È il punto rigeneratore della loro gioia!
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Scopriamo adesso le tre posizioni che caratterizzano questo punto di fondo che ha fatto questa
grande cosa della vita e che si chiama “presenza cristiana”.
Ci sono tre dimensioni costanti nell’affronto del dolore e del sacrificio:
a. la memoria - la più grande parola cristiana che io conosca -, qualcosa che fa presente qualcosa
che è successo tempo fa. In sua figlia, nella circostanza che tutti consideravano sventura, c’è
l’emergere di un segno che costringe a pensare al Mistero di Cristo presente.
Questa è la memoria. Che questo incominci a diventare normale tra noi, che sia segno che
costringe a pensare al Mistero di Cristo presente! Non è il coraggio che me lo fa dire. È l’esigenza
di una esperienza umana che si possa chiamare tale, perché nella mia vita questa è la necessità
più assoluta.
b. Questa memoria immediatamente si fa offerta ed è qui la grandezza. Non si può vivere una
cosa “assurda”, nella misura in cui sembra assurda, se non si può offrire.
Offrire significa: capisco che c’è qualcosa che non dipende da me in questo mondo così come
nella mia vita e allora anche quello che adesso non capisco posso viverlo, in attesa di capirlo.
La memoria immediatamente si fa offerta, cioè partecipazione alla croce di Cristo, partecipazione
all’utilità stessa della croce di Cristo per la salvezza del mondo, affinché la vita non sia più vana.
Cosa c’è di alternativo a questo? Quello che mi succede tutti i giorni quando timbro il cartellino alla
mattina: «Come va?». «Taci, per carità…». Si comincia così. Si finisce e si va a timbrare il
cartellino: «Ciao, come è andata?». «Taci, soliti guai». Così, sempre!
L’alternativa, nella misura in cui una certezza e l’abbandono non ci sono, è il lamento. Ma non è il
lamento che straccia il cuore del bambino che soffre, è il lamento che ingombra il cuore e
l’orecchio di chi sente, rende pesante la vita di tutti quelli che ci circondano e la nostra vita resta una condanna anche per gli altri, una vita-lamento che non conosce la letizia e, tanto meno, la gioia.
c. Ma chi imposta la vita come lamento non conosce la cosa grande che fa l’uomo grande: la
tenerezza. L’uomo che si lamenta non conosce la tenerezza, ma butta sull’altro quello che ha

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dentro come vomito. Nei rapporti manca la tenerezza, possiamo innamorarci finché vogliamo, ma manca la tenerezza; c’è un fremito che può sembrare tenerezza, ma che non lo è, e questo è dimostrato dal fatto che prima di tutto è provvisorio e poi è egoista, egocentrico.
La tenerezza è una sensibilità verso la gioia dell’altro e c’è soltanto in chi si appoggia, accetta ed è bambino di fronte a Cristo, come gli apostoli.
>>>
5. Concludo con il quinto passaggio, dal quale deriva quella posizione cristiana che fa arrabbiare
tutti, perché è una posizione indomabile.
Un ecclesiastico ci diceva: «Voi siete come l’acqua: vi si mette qui e saltate fuori là». Indomabilità.
«Perciò fate rabbia». Perché?
Per questa posizione di Mounier: «Françoise è forse la nostra corona, per un disegno misterioso.
Essa dà, secondo me, un senso concreto, vicino, familiare, all’al di là: luogo nel quale ci diamo
appuntamento, nel quale saremo un’altra volta padre e madre di un essere assolutamente
sconosciuto, non toccato dal male» (9 marzo 1943).
«Eterna, cioè presente, fedele, questa mattina come questa sera, anche se non le siamo fedeli,
anche se non potessimo esserle fedeli in qualche parte di noi stessi, per distrazione, per
imbecillità, per ebbrezza, o per sonnolenza (…) [Nella sventura siamo solo colpevoli di un’aridità
disumana]. “Nulla di ciò che è grande cresce come le patate” affermava Péguy, arrotondando
egregiamente, senza volerlo, lo zero. Tutto ciò che appartiene all’ordine spirituale progredisce
attraverso le morti e le successive resurrezioni, e non c’è più nulla che conti quando manca al
cuore questo assoluto dell’amore»
(Pasqua 1943).
«Bisogna che un’eruzione di lave profonde e brucianti venga a fondere l’alluvione inerte dei giorni [la routine]. E questa lava si chiama verità. Il cuore e la verità non procedono mai in sintonia.
Capita che l’odio o semplicemente l’aggressività siano terribilmente più lucidi dell’affetto, lasciato a
se stesso. L’affetto è dolce e accomodante, pronto ai compromessi, all’illusione di tono mellifluo ed enfatico. Gli piace lasciarsi cullare da un chiacchiericcio intessuto di parole ingannevoli. Diventa una morte viva (…). In questo modo, credo che molti matrimoni inaridiscano lentamente, senza che ce ne si accorga (…). A questo punto occorre ritornare alla vera natura dell’affetto; essa non consiste nell’essere felici insieme, ma nell’essere più insieme. Si tratta della legge del più della crescita spirituale e della verità che fa male, del sacrificio che fa male, della lotta che fa male» (28aprile 1943).
Quando nei matrimoni uno o l’altro non piace più, è lì che accade il grande fenomeno che si
chiama gratuità. La conquista umana è rapporto con l’altro, che è Altro.
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«“Il mio regno non è di questo mondo” significa che l’armonia non è di questo mondo; l’affetto
troppo armonioso, l’accordo troppo stabile, la dolcezza troppo sistematica, l’ottimismo troppo
conciliante sono parzialmente frutto della menzogn
a» (28 aprile 1943).
Concludendo, allora: «Miei piccoli fratelli feriti, sapete che io credo che Olivier è vivo, più vivo che
mai. Poco importa che voi lo crediate o no, o piuttosto poco importa che voi lo diciate o non lo
diciate a voi stessi, con parole chiare, che lo crediate. Lasciategli aperta non soltanto la parola del
ricordo, ma anche quella della presenza e della speranza. Riservate nel vostro cuore un rifugio, un
posto caldo, per Olivier; e così lo ritroverete con parole che non avrebbe mai dette, di cui né io, né
voi sapremo completamente il senso» (ottobre 1948).
Allora che cosa vien fuori di fronte alla morte di un amico, di fronte alla guerra per cui sarà messo
in prigione? Questa indomabilità cristiana, per cui si capisce di cosa è fatto il cristianesimo e
perché ci odiano. Ci odiano per una baldanza, per una indomabilità che è il contrario della
spavalderia di chi fa conto sulla sua forza, sulla sua capacità.
La baldanza e l’indomabilità cristiane ci sono perché tutto ci è dato, poteva non esserci niente, e
allora di cosa abbiamo paura? È questa la libertà cristiana: non avere più paura di sbagliare.
Tutto ci è stato dato. Di fronte alla guerra, di fronte alla morte di amici in situazioni incredibili, di
fronte alle disgrazie, di fronte alla bellezza di certe compagnie, di fronte al fatto che due si
sposano, il problema è uno solo: che la verità, nella carne di tutti i giorni, smetta di cristallizzarsi in
dottrina, ma, attraverso il lavoro di tutti i giorni, generi quell’uomo che spera nella presenza infinita
del Mistero, per cui tutto gli è dato istante per istante; e rispondendo a quel Mistero vince
l’inclinazione ad avere un rapporto con la realtà dipendente solo da quello che sente lui e misura
lui.
Così nasce l’indomabilità. Si cadrà mille volte, ma mille volte si riprenderà. Questo è il cristiano. In questo senso, allora, è bello poterci dire l’ultima cosa.
Il sacrificio, per essere accettato, ha bisogno che noi abbiamo un punto sicuro, ma non si può
essere sicuri del sacrificio: si è sicuri di Cristo! Se sei sicuro di Cristo, la questione è semplice: se
credi, avrai il centuplo. È la Sua sfida.
Di fronte al sacrificio - non importa pensare ai grandi sacrifici, perché è sacrificio alzarsi dal letto
quando non vorresti, dover fare quello che non vorresti, accettare il mal di pancia che non vorresti -
l’unica risorsa che hai è percepire il tuo sacrificio come parte di Cristo che sale in croce e che
muore per il mondo.
Il tuo sacrificio vale per il dolore di tutti gli uomini, allevia il dolore di tutti gli uomini; magari c’è una persona che sta soffrendo in Giappone e quella persona alla fine del mondo ti dirà grazie. Il tuo
sacrificio in quel momento ha aiutato lei.
Nessun nostro gesto che non implichi il mondo intero (il tour de force dell’Infinito) è vero. Per
questo ci si alza ogni mattina: per aiutare Cristo a salvare il mondo, con la forza che abbiamo,con
la luce che possediamo, chiedendo a Cristo che ci dia più luce e più forza. È tutto.

GRAZIE A:Utente: pepeannamaria61 pepeannamaria61

Postato da: giacabi a 21:11 | link | commenti
piccinini, mounier

lunedì, 13 giugno 2011


L'OFFERTA
***

 
[Giussani]«Enzo, ma come fai a vivere come se Cristo non ci fosse e tutto dipendesse dalle tue mani? Così non vivrai più! Anzi, sono sicuro che tra un po’ non farai più niente, non ti assumerai più nemmeno un piccolo rischio. Farai come tutti: ti gestirai il tuo lavoro, cercherai di non essere disturbato… Farai così, perché ti comporti come se Cristo non ci fosse, e come se l’esito di tutto dipendesse dalle tue mani». Io sono rimasto bloccato, perché era vero. Non so come avesse fatto. Ai due ragazzi avevo detto: «Adesso basta. Per due o tre mesi non accettiamo più nessuno di questi casi. Io devo fare carriera, devo scrivere. Facciamo le cose come si deve, per favore. Questi casi mi devastano. Lasciamo stare». Era vero! Poi mi ha detto: «Senti Enzo, io voglio parlare ancora di questo. Possiamo trovarci?». Così, due o tre giorni dopo, ero a pranzo con lui: «Raccontami di nuovo la questione». Era ancora stanchissimo. Io mi sono sentito un meschino, e ho detto: «Senti, adesso, dopo che mi hai detto quelle cose, la situazione è cambiata. Io lavoro al terzo piano, al quarto c’è una cappella. Al mattino presto vado lì, dico una preghiera, mi fermo un attimo e vengo fuori che le cose sono già più normali, cioè più al loro posto, davvero». Lui ha avuto come uno scatto improvviso e ha detto: «Enzo, ma cosa c’entra pregare? Tu quello che non sai fare è offrire. Quando sei lì e non capisci, devi offrire. Quando sei lì ed è difficile, devi offrire. Quando sei lì e non ti va, devi offrire. Quando sei lì e hai paura dell’esito, devi  offrire. Perché, se offrirai, scoprirai due cose. Primo: una umiltà grande che ti farà chiedere quando non capisci, perché rispondi a qualcuno e a qualcosa di quel che hai di fronte. Secondo: una responsabilità altrettanto grande, perché darai sempre tutto, darai fino in fondo quello che puoi dare, sempre. E questo fa grande la vita». Ho fatto così. Non è ancora tranquilla la questione, però è vera: adesso quello che non so lo chiedo, ma non mi tiro indietro dal dare tutto quello che posso. È l’offerta. “Signore, sei tu, non io. Compi tu le questioni. Rivelati tu.” È questo che permette di ricominciare da capo dopo quello che è successo in famiglia, quando sembrava che non si potesse più andare avanti. È questo che permette di ricominciare dopo che la vita è stata devastata dalla propria istintività personale. È questo che permette di ricominciare quando tutti i bilanci sono negativi. È questo che permette di ricominciare quando i consensi intorno a te e per te non ci sono più. È questo che permette di ricominciare insieme a fare le cose che tutti giudicano in un altro modo. È l’offerta: “Sei tu Signore, non io”. Ed ecco un’umiltà grande che fa aderire alla realtà come non mai, e poi la responsabilità di dare tutto quel che sei, perché non puoi più venir meno. È questa la follia per i filosofi e lo scandalo per i moralisti: che Dio sia una cosa così alla mano. Così tanto da farmi cambiare le cose che ho tra le mani e il modo in cui le porto. Il Mistero emerge sensibilmente, si rende esperienza e come un vasaio incomincia a plasmare le cose e a rendere diversa la vita. È questa posizione che fa dire di sì: il sì di Pietro, che ormai da due anni è citato continuamente. È l’offerta. Non è questione di avere muscoli grandi o capacità superiori, né di capire tutto. Una volta, durante un incontro nella sede centrale, Giussani per l’ennesima volta aveva descritto in modo commovente il sì di Pietro e uno gli ha detto: «Caspita Giussani, che coraggio che ci vuole per dire sì come ha detto Pietro!». Lui si è quasi arrabbiato: «Quale coraggio? Ci vuole uno stupore!». Solo lo stupore fa dire di sì, così, senza pensarci: lo stupore di trovarsi di fronte ancora il significato del mondo e della storia, nonostante tutto e attraverso tutto. Non è un bilancio della vita in base al quale tu capisci che sei abbastanza morale per dire di sì: chi lo farebbe più? Non è perché tu sei abbastanza forte, e capisci che terrai nel tempo e non sbaglierai. Questo è contro natura: tutti sbagliamo. È la Sua presenza, di nuovo lì, miracolosamente lì, che ti fa spalancare gli occhi e dire, con tutto il peso di quel che sei, i dubbi, i problemi, con tutte le cose che hai in  mente adesso e che ti intasano il cuore e la mente: «Sì, si ricomincia». È solo la Sua presenza e nient’altro. Grandi o piccoli che siamo, la nostra morale nasce da una sorgente così che si ripropone sempre. Sempre! Ci odieranno per questo, perché la nostra morale non è non sbagliare mai, ma riprendere sempre. Una volta una persona mi ha detto: «Ma voi siete strani. Che gente che siete! Siete come l’acqua: vi si blocca qui e saltate fuori là…». Ci odieranno perché noi non siamo chissà chi: siamo gente che incomincia a dire di sì. Sì, per lo stupore di una presenza che ti si dona, attimo per attimo, attraverso le circostanze che prima consideravi banali, e che adesso sono la voce del destino che ti chiama a una risposta. È tutto qui. Allora cambia l’autocoscienza, il che vuol dire che cambia il modo di pensare a se stessi. «Non sono più io che vivo, sei Tu che vivi in me»: questa cosa strana che abbiamo sempre sentito dire incomincia a diventare vera. Cambia il soggetto dell’azione, ed è per questo che siamo liberi. Liberi! Essere liberi significa non avere paura di sbagliare. E non si ha paura di sbagliare quando c’è la risposta presente. Altrimenti si sta sempre a calcolare: è la fine, la fine dell’affetto, la fine del sentimento, la fine della passione, la fine del legame. E invece siamo liberi, perché non abbiamo paura di sbagliare, perché la Sua presenza è lì, e ogni volta ci riattacchiamo a Lui. E ogni volta Lui risponde, e ogni volta noi ridiciamo di sì. Perciò siamo indomabili. Quello che sto descrivendo è il frutto di un’autocoscienza nuova. «Non sono più io che vivo, è un altro che vive in me»: vuol dire che io, per dire “io”, dico “Tu”. Che scusa posso accampare per non mettermi di nuovo in cammino? Devo dire “Tu”! È il miracolo di una presenza che rende “viabile” anche la difficoltà che hai dentro al cuore, una presenza con cui si può andare e non essere più soli. Che razza di novità! Purtuttavia è una novità così vivibile che basta aprire gli occhi per vedere che è già cominciata tra noi. Ecco qui: l’autocoscienza tende a diventare coscienza di Cristo, che crea una nuova creatura, un modo nuovo di vivere che precede il paradiso.
Piccinini 
l’everest del ’umano

Postato da: giacabi a 07:52 | link | commenti
piccinini

L’ideale illumina le cose di tutti i giorni

***
Andare a casa e dover lavare i panni per la decima volta, sempre quelli; dover pagare la bolletta del telefono; fare i conti con il bilancio settimanale; tacere perché il marito è troppo arrabbiato… Tutte queste cose sarebbero mota e fango, sono le cose che rendono la vita meno gustosa. Però, illuminate dal raggio di questo sole, di questo ideale che ci colpisce e ci ha colpito, non sono più banali. È per questo, e solo per questo, che l’universo, tutto l’universo, non vale una vita che incomincia misteriosamente nell’utero di una donna, e che per almeno due o tre mesi si confonde con l’utero stesso, tanto è misteriosamente piccola, tanto è fragile. È per questo, e solo per questo, che l’intero universo per noi non vale quella vita che si sta svolgendo lì dentro. È per questo, e solo per questo, che il vecchio malandato, che non vale più niente per nessuno, noi lo curiamo e lo aiutiamo, e proviamo a vedere cosa si può fare per lui. È perché abbiamo questo giudizio, altrimenti il nostro sarebbe un moralismo schifoso. L’ideale illumina le cose di tutti i giorni e non le fa più sentire solo come cose di tutti i giorni (cioè meno delle altre cose). L’ideale illumina la vita giorno per giorno, attimo per attimo, e le cose solite diventano grandi perché sono legate al Mistero, permanentemente legate al Mistero. Solo che dobbiamo riconoscere che il volto di quel bambino lo ha guardato Dio, e che il suo angelo custode vede Dio in ogni attimo. Dobbiamo riconoscere che quel vecchio malandato ha un destino che è il mio: così, per la pietà e la misericordia, che è solo di Cristo, incomincio anch’io a volergli bene.
Dobbiamo richiamarci l’un l’altro a riconoscere una presenza. C’è un presente che mi provoca, mi cambia e mi apre il futuro. Il primo grande compito è richiamarci a riconoscere questo. E riconoscere questa presenza vuol dire anche scoprire, come normale abitudine della vita, un’obbedienza. L’obbedienza è una cosa grande, è veramente la ragionevolezza della vita.

Enzo Piccinini  L’EVEREST DELl’umano

Postato da: giacabi a 06:47 | link | commenti
piccinini

domenica, 29 maggio 2011

L’Everest dell’umano
***
[234]A frate N... ministro. Il Signore ti benedica!
Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell'amare ilSignore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia.
E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori.
[235] E questo sia per te più che stare appartato in un eremo.
E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè:
che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.
[236] E avvisa i guardiani, quando potrai, che tu sei deciso a fare così

SAN FRANCESCO D'ASSISI
***************************************************
Dice Francesco d’Assisi, rivolgendosi a un ministro, cioè a un ministro del culto: «Ama coloro che agiscono con te in questo modo», cioè in modo obbediente, rispettoso. Ma cosa vuol dire questo, rispetto alle segretarie, alle infermiere che lavorano con me? Immediatamente è una cosa grande! Ama coloro che si comportano così con te, non considerarli pezze da piedi. «Quelli che agiscono con te in questo modo»: era un ministro del culto quello, la gente gli andava dietro. «Ama coloro che agiscono con te in questo modo»: vale anche con i figli, perché non troviamo gusto nel tenerli sotto (tra l’altro, poi, psicologicamente, succedono tutti i disastri del mondo), ma ad amarli sì. «Non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te». Questo è troppo bello! «Non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te», e così come Dio dà a te quel che ti dà, e da te non si può pretendere di più, allo stesso modo tu non pretendere dagli altri più di quello che possono dare. Ma il prosieguo della frase è il massimo, l’Everest dell’umanità, una cosa che non ho mai sentito: «In questo amali [in questo amali: nella loro presenza], non pretendere che diventino cristiani migliori». Non pretendere che diventino cristiani migliori, perché quel “migliori” ce lo metti tu e vuol dire “come tu vuoi che diventino”. È il mistero di Dio presente che te li fa abbracciare, come ci fa abbracciare tra noi senza porci il problema se uno è più o meno cristiano. «Non pretendere che diventino cristiani migliori», perché sarebbero cristiani migliori secondo la tua testa. È veramente un’umanità grandissima.
ENZO PICCININI l'Everest dell'umano


Postato da: giacabi a 08:20 | link | commenti
cristianesimo, piccinini, sfrancesco

sabato, 28 maggio 2011


Questa è la strada giusta
***
Chi non si ricorda il pellegrinaggio del 23 marzo 19752? Doveva esserci la marea dei giovani da tutta Italia, ma c’eravamo solo noi. Mi ricordo perché io c’ero, era una delle prime volte che partecipavo. Mi guardavo intorno: c’eravamo solo noi, ma era il pellegrinaggio generale! Poi, alla fine, il Papa, per la prima volta (la prima volta!) ha aperto le porte della Sala Nervi a un’associazione laica. E mentre andava via ha chiamato Giussani. Giussani, come racconta lui (sarebbe bellissimo se ci fosse lui…), aveva una pisside in mano e, preso dall’emozione, l’ha data a una guardia svizzera, che la guardava come a dire: «Cosa ci faccio?». Poi è passato don Negri che è svelto: ha capito la situazione, ha preso la pisside e via. Comunque, mentre il Papa andava via, ha chiamato a sé Giussani e gli ha detto: «Don Giussani, questa è la strada giusta, vada avanti così». Giussani dice sempre che quel dialogo gli ha fatto venire immediatamente in mente gli anni in cui ha cominciato tutto a Milano, quando nascevano i primi gruppi. Allora c’erano i prevosti, che sta per parroci, i quali andavano dal vescovo, l’allora cardinal Montini, a lamentarsi: «I giessini ci rubano i ragazzi dalle parrocchie, dividono i gruppi, si impongono», eccetera. E Giussani gli spiegava: «Ma noi abbiamo fatto anche una ricerca: in parrocchia non va quasi più nessuno! E poi, scusi, un uomo che veda che i figli frequentano un posto che a lui non piace, ma aiuta loro a crescere, se è padre, li incoraggerà a restare in quel posto, perché crescano, perché ama la loro crescita, non quello che ha in mente per loro, il suo piccolo particolare progetto». Ebbene, Montini gli disse le stesse identiche parole: «Coraggio Giussani, vada avanti così. Questa è la strada giusta». Sono le uniche parole che Giussani ha riferito nella testimonianza scritta per il processo di beatificazione di Paolo VI, dicendo che questo è il modo di essere padri dei propri figli nella Chiesa. Ho visto io stesso la dichiarazione firmata. È straordinario, dovete ammetterlo
2 Si fa riferimento alla chiamata ricevuta dal movimento di Comunione e Liberazione a partecipare alla celebrazione della Domenica delle Palme presieduta da papa Paolo VI in piazza san Pietro (vedi M. Camiscasca, Comunione e Liberazione – La ripresa, Milano, San Paolo, 2003, pp. 310 - 311.
Enzo Piccinini

Postato da: giacabi a 07:48 | link | commenti
piccinini, paolovi


La Presenza
***

 

L’intensità della vita non è provare grandi sentimenti, ma è sentire che tutto ha un significato. Tutto, anche la penna che stai manovrando. Tutto ha un significato, adesso, in questo momento, perché consiste della Sua presenza misteriosa e reale, il cui segno, che coincide con la Sua presenza, è qui davanti a voi, è questa compagnia
In una bellissima poesia di Victor Hugo c’è un’aquila che, volando alto sulle montagne, dialoga col sole e dice: «Tu che illumini le cime dei monti e illumini e rendi pulita e serena l’aria dove io volo, tanto che è bellissimo andare in giro quando tu splendi, perché ti impicci e ti coinvolgi con il fango delle remote valli, là dove senza il tuo intervento rimarrebbe solo quello schifo, quel marciume? Tu invece vai a scovare quello schifo. Perché? Rimani a illuminare i monti, senza coinvolgerti con quella normalità banale». E il sole si rivolge all’aquila dicendo: «Sali sui miei raggi».L’aquila sale sui raggi del sole e improvvisamente – è una sensazione visibile – vedendo il sole che illumina, è come se le montagne diventassero una cosa sola con le valli, come se tutto diventasse illuminato alla stessa maniera, con la stessa intensità di luce. Tutto improvvisamente assume una bellezza che non si poteva concepire prima. Certo, noi, con la nostra immaginazione, questa immagine straordinaria, che dice l’intensità della vita, la sentiamo quasi come un livellamento, un di meno, però è sufficiente a dare l’idea di cosa succede nella vita, quando l’ideale la illumina in tutti i suoi particolari.
Andare a casa e dover lavare i panni per la decima volta, sempre quelli; dover pagare la bolletta del telefono; fare i conti con il bilancio settimanale; tacere perché il marito è troppo arrabbiato… Tutte queste cose sarebbero mota e fango, sono le cose che rendono la vita meno gustosa. Però, illuminate dal raggio di questo sole, di questo ideale che ci colpisce e ci ha colpito, non sono più banali. È per questo, e solo per questo, che l’universo, tutto l’universo, non vale una vita che incomincia misteriosamente nell’utero di una donna, e che per almeno due o tre mesi si confonde con l’utero stesso, tanto è misteriosamente piccola, tanto è fragile. È per questo, e solo per questo, che l’intero universo per noi non vale quella vita che si sta svolgendo lì dentro. È per questo, e solo per questo, che il vecchio malandato, che non vale più niente per nessuno, noi lo curiamo e lo aiutiamo, e proviamo a vedere cosa si può fare per lui. È perché abbiamo questo giudizio, altrimenti il nostro sarebbe un moralismo schifoso. L’ideale illumina le cose di tutti i giorni e non le fa più sentire solo come cose di tutti i giorni (cioè meno delle altre cose). L’ideale illumina la vita giorno per giorno, attimo per attimo, e le cose solite diventano grandi perché sono legate al Mistero, permanentemente legate al Mistero. Solo che dobbiamo riconoscere che il volto di quel bambino lo ha guardato Dio, e che il suo angelo custode vede Dio in ogni attimo. Dobbiamo riconoscere che quel vecchio malandato ha un destino che è il mio: così, per la pietà e la misericordia, che è solo di Cristo, incomincio anch’io a volergli bene.
Dobbiamo richiamarci l’un l’altro a riconoscere una presenza. C’è un presente che mi provoca, mi cambia e mi apre il futuro. Il primo grande compito è richiamarci a riconoscere questo.
Enzo Piccinini
PICCININI

Postato da: giacabi a 06:30 | link | commenti
hugo victor, piccinini

domenica, 08 maggio 2011


Il senso del limite ti mette
insieme all'altro

***

«La malattia, la sofferenza, il dolore e la morte sono
l’espressione normale ma più acuta del limite dell'uomo
e il fatto che l'uomo è limitato non può essere mai
tolto dalla coscienza che uno ha della vita. Questa consapevolezza
porta a una capacità, di rapporto altrimenti impossibile.

Il senso del limite ti mette immediatamente insieme
all'altro, anche se non è della tua idea, anche se
non capisce o non ti guarda.
Perché, come lui, anche tu
sei bisognoso. Questa consapevolezza, che sembra una
strana condanna, determina immediatamente un'apertura,
perché si capisce che siamo insieme, di schianto, non
perché la pensiamo nello stesso modo, ma perché siamo
bisognosi nello stesso modo.
È decisivo mettere a tema
questo quando si sta con i malati. Che razza di pazienza
ne nasce! Che razza di ripresa continua! Non c'è bisogno
di teorizzare il servizio, lo si fa per davvero>>.


Enzo Piccinini da :Enzo un'avventura di amicizia .Emilio Bonicelli Marietti 1820

Postato da: giacabi a 09:31 | link | commenti
piccinini


Serve un'appartenenza
***
«Anche chi si muove con le migliori intenzioni non ce la fa. Bisogna che questo qualcosa di più grande sia un'esperienza, sia Qualcuno presente, cui si risponde. Non qualcosa che sento e che penso. Non solo un sentimento cristiano. Come io che ogni tanto chiudo gli occhi, vedo il volto degli amici e riprendo».

«Bisogna non essere soli. Ci vuole un punto di appoggio. Serve un'appartenenza. Senza qualcosa  cui fai riferimento, per cui il tuo io non è solo un io sbandato e sbandabile, ma ha radici in volti e in storie, non ci se la  fa. Il vero problema è questo. Bisogna non essere soli.
  Anche perché così non si perde più la voglia di lottare. Nel tempo il gusto non è negato a chi sbaglia, ma è negato a chi non ha il senso del mistero nella propri a vita, cioè qualcosa di più grande presente, che è una compagnia a cui appartenere>>

Enzo Piccinini da :Enzo un'avventura di amicizia .Emilio Bonicelli Marietti 1820

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Solo l'ideale muove e commuove
***
< sempre a trovarla in Lambretta. Possedevo un Lambrettone
con due sedili che non andava per niente. Per
questo mi mettevo dietro ai camion perché facevano il
vuoto d'aria e così la mia velocità un poco aumentava.
Però arrivavo nero! Se mi avessero obbligato a farlo
per un qualunque altro motivo, avrei picchiato chi mi
obbligava. Invece io lo facevo e non me ne accorgevo
nemmeno , anzi ero contentissimo perché il volto di
quella donna mi accompagnava anche nella fatica.
Quando si sottolinea troppo la fatica vuol dire che l'ideale
è andato a quel paese ! È l'ideale che illumina i
passi della vita, come il volto di quella donna. Non
avevo problemi a stare dietro ai camion, mi sarei
attaccato al tubo di scappamento. Il problema è accorgersi
che l’ideale è presente e ci accompagna. Allora si

può offrire anche  la fatica>>.
Enzo Piccinini da :Enzo un'avventura di amicizia .Emilio Bonicelli Marietti 1820

Postato da: giacabi a 08:25 | link | commenti
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lunedì, 27 ottobre 2008

La persona è qualcuno in rapporto
***
l’innamoramento non è che una eco lontana di quel che accade quando si scopre la consapevolezza di essere creature, cioè che c’è uno che ti vuole istante per istante. Uno che ti vuole così tanto da farti unico e irrepetibile: fra trecento milioni di anni non ci sarà nessuno come te e per migliaia di anni non c’è mai stato nessuno come te, sei unico e irrepetibile, sei quel puntino nero nel mondo, ma lì si concentra la coscienza del mondo.
Allora,
nell’esperienza dell’uomo noi constatiamo una prima cosa fantastica: che l’uomo è qualcuno quando è qualcuno per qualcuno. Scusate il gioco di parole. Il bambino è qualcuno per la madre e si sente qualcuno con la madre, e la madre è qualcuno col bambino. Ma ci si può sentire qualcuno anche per altri motivi. Per esempio, il primario dell’ospedale è qualcuno perché gli mettono il tappetino rosso, perché ha il potere sulle decisioni, perché ha delle persone che lo devono seguire, perché gestisce. Essere qualcuno significa essere in rapporto, sempre, con qualcuno o con qualcosa. Perché quel primario, se gli tolgono tutto il personale, non è più nessuno. Perciò la persona, che è la chiave di volta dell’esperienza cristiana (perché Cristo ha portato nel mondo la grande rivoluzione che è l’avvenimento della persona), è qualcuno in rapporto. Ma attenzione: non può essere in rapporto con appena qualcosa di umano. Perché la mamma invecchia e il bambino cresce, il primario va avanti con l’età e perde quello che lo fa sentire qualcuno, i rapporti che ami nel tempo si logorano. C’è solo una chance: che ci sia un rapporto che segna l’eterno, che segna il per sempre che desideri. L’uomo è veramente uomo e ha finalmente una dignità nella sua azione, comunque essa sia, se ciò che lo fa consistere è il rapporto col Mistero che fa tutto. Si chiama Dio, in tutte le religioni del mondo, il Mistero che fa tutto. Allora è veramente unico e irrepetibile. È intoccabile. E questo dall’inizio fino alla fine, da quando tutto ha inizio in quelle due cellule famose fino a quando il vecchio è decrepito e non ragiona più, è una larva umana, com’è stato mio papà, con mia mamma che l’ha assistito… È incredibile quando ci penso: per anni lo ha assistito, e lui aveva l’Alzheimer. Per anni! È una dignità, capite? È finalmente una dignità. E non c’entra con quello che fai. Che bella la frase della Bibbia che dice: «Io ti ho amato di un amore eterno, per questo ti ho attratto a me, avendo compassione del tuo niente» (Ger 31,3). Dice che razza di posizione è l’esperienza cristiana, fin dalle sue origini, dall’Antico Testamento, nei riguardi della persona che esiste in rapporto col Mistero. La dignità della vita, allora, è appartenere, cioè rispondere a qualcuno o a qualcosa di quel che sei e che fai. È una responsabilità. Non ero niente, non c’ero, e sono stato fatto: io devo rispondere. Se voglio essere me stesso, devo rispondere. Io non mi sto facendo, in questo momento non sto modificando, anche volendolo, una sola cellula del mio corpo. Perciò, che io voglia o no, dipendo.”.
  Enzo Piccinini da : http://www.tracce.it/  maggio 2008


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sabato, 05 luglio 2008

La pazienza
***
La personalità cresce nella storia, ma la virtù della storia, quella che garantisce la crescita, si chiama pazienza. Si chiama pazienza, solo che la pazienza non è un mettersi a sedere, cioè un’ultima passività. Pazienza viene da patio, che significa “portarsi sulle spalle”. Che cosa permette la pazienza? Una chiarezza dello scopo (bisogna aver chiaro perché ci siamo, da dove veniamo e dove andiamo) e poi quella che noi chiamiamo tenacia. Tenacia, come dice sant’Ambrogio: «Rerum, Deus, tenax vigor», Dio che sei la consistenza tenace delle cose. Portare il peso di tutte le umane componenti, di tutti gli umani incontri, è una potenzialità che solo un contesto di fede e la pazienza del tempo possono attuare. Ma attenzione, la fede è uno sguardo positivo sul reale.
E. Piccinini Tracce Maggio 2008


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martedì, 14 novembre 2006

«Guardate ogni giorno il volto dei santi
e traete conforto dai loro discorsi» La Didaché

Il cristianesimo è
per la felicità dell'uomo
Enzo Piccinini
Il fatto cristiano ridotto a regole morali. Questo è il dramma di oggi. Che Dio si sia incarnato ha bisogno di una verifica: si deve vedere. Una presenza che determina il rapporto con tutta la vita. La sfida della Chiesa. Una testimonianza di Enzo

Il 14 maggio 1999, pochi giorni prima di morire in un incidente stradale (26 maggio), Enzo Piccinini fu invitato dall’Arcivescovo di Ferrara, monsignor Carlo Caffarra, a tenere la conferenza conclusiva di un ciclo di incontri proposti ai giovani della città emiliana. Gli era stato affidato il tema “Vivere la Chiesa: cultura, carità, missione”. Degli appunti di quella testimonianza proponiamo ampi stralci. Perché i particolari sono importanti per la memoria

La posizione cristiana è la posizione umana nel senso vero del termine; all’infuori del cristianesimo l’umano non è compiuto. L’esperienza cristiana è l’esperienza umana e la Chiesa è maestra di umanità.
Questo è il tema di questa sera, proprio attraverso le cose solite, quelle che sembrano relegate alle sacrestie o a chi ha qualche problema religioso in più.
Quello di cui parlo è per la vita di tutti gli uomini, di ogni uomo, proprio perché l’esperienza umana esige, per essere se stessa, la proposta cristiana.
Cristo è tutto per la vita dell’uomo
. Tutto. Non ci può essere niente nella vita di un uomo, che ami fino in fondo e con lealtà la propria umanità, che possa esimersi dal rapporto con Cristo, perché è il cuore della vita di ogni uomo.
Non starei nell’esperienza cristiana, se non fosse per questo. Mi ribellerei anche solo al pensiero che essere cristiani significhi essere (come tanti pensano) uomini un po’ meno degli altri e con qualche problema in più. Se ho scelto di stare nell’esperienza cristiana, è perché qui trovo tutto me stesso, quello che ho sempre cercato
.
Ma allora che Cristo sia tutto per la vita e per il cuore dell’uomo, deve per forza coincidere con quello che il Signore ha detto nel Deuteronomio: «È per la felicità dell’uomo».
Per questa parola, che segna la vita di ciascuno di noi - ci alziamo al mattino per essere felici, abbiamo fatto tutto per essere felici, continueremo a farlo fino all’ultimo respiro -, proprio per questa felicità Cristo si pone come risposta all’uomo: per la felicità di ciascuno di noi.

Cosa c’entra con la vita?

Guardiamoci intorno: io guardo, per esempio, la mia vita, i miei colleghi, l’ambiente universitario, gli studenti, ecc. La cosa che mi sorprende è che la maggior parte della gente è battezzata (e il Battesimo è il punto di introduzione all’esperienza cristiana). Ma Cristo dov’è? Se domandate: «Ma scusa, se sei battezzato e sei dentro la tradizione cristiana, cosa c’entra tutto questo con quello che fai?», ti guardano come se stessi dicendo un’enorme stranezza. E se tu ti mettessi di fronte ai ragazzi e dicessi loro: «Credi in Dio?», raramente troveresti uno che direbbe di sì con quella naturalezza con cui si aderisce a una realtà vera.
Come mai? Vi invito a fare un esperimento: prendete dei bambini che non hanno mai sentito parlare di Cristo e parlategli di Cristo. Se a questi stessi bambini diceste che venendo a casa avete visto, nella curva vicino a casa vostra, il condomino che ha tirato fuori lunghe mani e con queste ha pulito i vetri e sistemato i comignoli, vi guarderebbero ridendo, chiedendovi quando finisce la favola. Raccontare loro di Cristo non è meno “strano”, però non si ribellano. Perché? Perché corrisponde, naturalmente.
Ma, allora, che cosa è successo? Come mai i fatti e gli episodi, che descrivono e introducono all’esperienza cristiana in quanto tale, non c’entrano più? Io credo sia perché il cristianesimo non è più un avvenimento. Il cristianesimo o è un avvenimento o non ha incidenza nella vita. Che cos’è il cristianesimo? Una serie di riti a cui partecipare, una serie di regole morali, un modo, un certo comportamento a cui richiamarci, è questo? Se è questo, perdiamo la battaglia, perché tanti altri dicono meglio o sembrano fare meglio (soprattutto se hanno il potere). Allora è qualcosa d’altro, evidentemente qualcosa d’altro, perché nella misura in cui è ridotto a riti, regole, modi di fare, galateo, doveri, partecipazioni, non incide più. Il cristianesimo è un avvenimento: qualcosa di imprevisto e di imprevedibile, di impensabile e inimmaginabile che è successo 2000 anni fa: il Mistero, ciò che fa tutto, improvvisamente viene incontro all’uomo e diventa un’esperienza possibile.

Si deve vedere
Ma se Dio che è diventato Cristo - incontro, esperienza possibile per l’uomo del Mistero e risposta alla vita -, si deve vedere, non può restare una serie di intenzioni, di qualcuno intensamente pensieroso che va in convento o di qualcuno che ha avuto una triste gioventù. Si deve vedere nell’operaio della Fiat, nel grande intellettuale, nello spazzino, in chi è malmesso psicologicamente e in chi è protagonista dello sport nostrano. C’è una verifica: si deve vedere.
Ecco allora qual è il problema
: si deve poter vedere e bisogna provare a capire dov’è che davvero si vede. Come il fatto cristiano (cioè un avvenimento che ci sorprende) determina un cambiamento nell’uomo, per cui l’uomo è veramente uomo, è l’umanità che ha desiderato di essere?
Occorrono due cose perché la verifica sia vera:
l) un impegno educativo totalizzante con la proposta che è Cristo. È la Chiesa, questa unità ed esperienza di appartenenza, di amicizia. Una vita globalmente impegnata rispetto alla proposta che è Cristo;
2) stare alla proposta nei termini della proposta stessa. Nel rapporto con un oggetto deve essere l’oggetto a determinare il metodo del rapporto
. Se io avessi una bottiglia di vino Tocai bianco del Friuli (il migliore vino del mondo), svitassi la bottiglia, mettessi il dito dentro, lo tirassi fuori e poi dicessi: «Sentite, è secco!», voi direste che sono impazzito. Ho “sentito” il vino, solo che ho scelto io il metodo, perciò ho alterato il rapporto. Il vino va bevuto perché le papille gustative non sono nel dito. Questa è una verità fondamentale che vale nella mia ricerca e nel mio lavoro: e perché non deve essere vera anche con Cristo? Se è una presenza (come è una presenza), se è un fatto (come è un fatto), se è un avvenimento (come è un avvenimento) che ha sorpreso tutti e continua a sorprendere tutti, allora è Lui che dice come ci si rapporta con lui, non noi. E Lui l’ha detto: è una realtà di uomini scelti da Lui, che si coinvolgono insieme, che Lo rende presente. Non le nostre strade tortuose; ma un’adesione alla realtà. Allora si tratta di stare al metodo che Cristo ha posto nel mondo.

Cultura, carità, missione
Che cosa determinano queste due condizioni? «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù». Questa è la promessa di Cristo. Dice: «Chi mi segue». Cristo parte sempre da un aspetto affettivo, perché se c’è un delitto nella vita cristiana, è pensare che basti osservare i dieci comandamenti per andare in Paradiso. Invece Cristo ha detto: «Chi mi ama osserverà la mia legge», non viceversa. C’è un aspetto di affezione da scoprire, altrimenti è un disastro, perché la meccanicità non ha mai compreso l’uomo e non lo comprenderà mai. È la sorpresa di una affezione per cui si sente che tutto quello che viene da lì lo si vuole per sé.
E come viene descritta questa promessa? Da tre dimensioni che misurano l’esperienza cristiana: cultura, carità, missione. Proviamo a scorgerle.
1
.Cultura
. Se Cristo è un fatto e una presenza, allora è una presenza che determina il rapporto con tutto; da cui una coscienza critica e sistematica della propria esperienza umana, che si traduce in una manipolazione diversa delle cose, in un uso diverso di sé. Pensate a quando eravamo bambini e si faceva qualcosa di nascosto: improvvisamente compariva il padre o la madre e uno si accorgeva subito di quello che faceva. È una presenza che determina una coscienza nuova di sé.
2
. Carità. Viene in mente di tutto: l’elemosina, fare i bravi, e invece no! La carità è la presenza di Cristo e perciò è imitare Lui. Lui è la risposta alla vita. La carità viene dal greco charis: gratis, gratuità. È la forma suprema dell’espressione amorosa, perché implica l’assenza del tornaconto, del calcolo: gratis.

3.
Missione: è come il calore che un corpo vivo non può non emanare. Non è mai un’iniziativa, ma è la modalità di vita che nasce da come tu stai cambiando adesso, per quello che ti sta succedendo.


Cosa fai per il Vietnam?
Quando mi sono convertito, all’inizio, c’erano vari problemi, perché i miei amici di prima (che erano piuttosto tenaci e duri, era il periodo della guerra in Vietnam) mi perseguitavano. E il tono era questo: «Ti sei fatto il tuo angolino, eh? Vai anche a pregare. Cosa fai per il Vietnam? Non ti rimorde la coscienza?». Ero un po’ ricattato, non riuscivo a capire. Una volta c’era stata una manifestazione, uscivo dalla mensa universitaria, mi hanno circondato e hanno incominciato un’invettiva durissima. Vedevano che ero debole proprio nelle ragioni. Io stavo malissimo, non riuscivo a rispondere; a un certo punto mi è venuta l’idea e ho detto loro: «Io per il Vietnam costruisco la Chiesa, qui». Non lo scorderò più: questa è la verità della questione. Oggi quando mi vedono si vergognano, perché fanno tutti i mestieri che non volevano fare e il loro “sinistrismo” è rimasto nei viaggi in Oriente, nel verdismo o nel fare i sub e scambiarsi le foto o nel portare il cane a passeggio. Questo è quello che è rimasto. Io, invece, sono ancora sulla breccia! Qualche volta dico a qualcuno di loro: «Che cosa fai per il Vietnam?». C’è un pezzo fantastico dei Cori da «La Rocca» di Eliot: «
Senza tempio non ci sono dimore»: senza la presenza del Mistero che ci ama, non c’è posto per l’umanità. Per questo bisogna costruire la Chiesa.

Costruire la Chiesa
Un’autentica dimensione religiosa, questa salva l’uomo. Di questi tempi, brutti o buoni, vogliamo costruire la Chiesa dove siamo, perché questa è l’umanità vera, edificare la comunità cristiana dovunque. Ma come avviene? Noi edifichiamo la Chiesa attraverso la nostra presenza: essere presenza, questa è la nostra ultima, decisiva indicazione e categoria. Essere presenza, qualunque temperamento uno abbia; non importa le doti di cui uno dispone, occorre la fede e basta. Presenza vuol dire il modo di essere dentro la situazione, perché non si vive per aria, ma dentro il rapporto con la propria ragazza, i genitori, gli amici, il lavoro, lo studio universitario, dentro il momento culturale e politico... dentro a tutto. Essere presenza in una situazione vuol dire esserci in modo da perturbarla, se no non si è presenza. Cristo è venuto nel mondo sconvolgendo il ventre di una donna, sconvolgendo un grandissimo uomo che si chiama Giuseppe e mettendo in crisi i grandi legulei di Israele (non ha chiesto: «Permesso?»). Si è posto per quello che era. Essere presenza in una situazione vuol dire esserci in modo da perturbarla, così che se tu non ci fossi, tutti se ne accorgerebbero, perché sarebbe diverso; non perché fai grandi cose, ma perché sei te stesso. Essere presenza vuol dire essere dentro una situazione prendendo Cristo come avvenimento della nostra persona. Non si tratta di fare discorsi (lascia il tempo che trova): il vero annuncio lo facciamo attraverso quel che Cristo ha perturbato nella nostra vita. È una baldanza umile e certa; è un paradosso: umile e certa, cioè non fondata su di sé, ma sulla grazia che ci è stata fatta di una presenza che non verrà mai meno («Io sarò con voi fino alla fine del mondo»). Una baldanza, una certezza per il futuro.

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