LETTURE/ Siamo davvero figli di Pico della Mirandola e della sua libertà?
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mercoledì 6 ottobre 2010
Pico
della Mirandola (1463-1494), tra i maggiori esponenti dell’Umanesimo
del Quattrocento, gode di questi tempi di una meritata riscoperta.
Non solo è protagonista di un incontro a Mantova nell’ambito del
Festivaletteratura in cui Giulio Busi e Cesare Segre ne ricordano
l’opera dedicata alla cabala, ma soprattutto la traduzione cinese della
sua epistola sulla dignità dell’uomo è stata presentata di recente
all’Expo di Shanghai, come contributo dell’occidente allo sviluppo della
cultura, che vede nel rispetto dei diritti umani la prova della
maturità della società civile.
Generalmente noto per la proverbiale memoria, nella sua vasta produzione emergono interessi disparati, che si raggrumano attorno al rapporto dell’uomo con Dio non tanto nella storia concreta quanto nella vastità del cosmo. In un passo famoso del De hominis dignitate, la sua concezione dell’uomo viene espressa con chiarezza ed efficacia, evidenti nell’originario latino, meno nella traduzione. Il testo è quasi un manifesto dell’Umanesimo, un documento del complesso travaglio di un’epoca che rilegge in modo nuovo la tradizione classica e cristiana, emblematico di una personalità e di un’intera cultura di confine, sull’orlo della modernità.
Già
il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di
un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio
augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona
iperurania, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva
popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del
mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice
desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di
un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità.
Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosé e Timeo, pensò da
ultimo a produrre l’uomo. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a
colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva
singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di
natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti
ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né
alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle
prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo
consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta
entro leggi da me prescritte. Generalmente noto per la proverbiale memoria, nella sua vasta produzione emergono interessi disparati, che si raggrumano attorno al rapporto dell’uomo con Dio non tanto nella storia concreta quanto nella vastità del cosmo. In un passo famoso del De hominis dignitate, la sua concezione dell’uomo viene espressa con chiarezza ed efficacia, evidenti nell’originario latino, meno nella traduzione. Il testo è quasi un manifesto dell’Umanesimo, un documento del complesso travaglio di un’epoca che rilegge in modo nuovo la tradizione classica e cristiana, emblematico di una personalità e di un’intera cultura di confine, sull’orlo della modernità.
Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnerai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.
O suprema liberalità di Dio Padre! O suprema felicità dell’uomo, a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole.
Non
può sfuggire il tentativo di conciliare la visione biblica dell’uomo
fatto a immagine di Dio e la filosofia platonica. Il centro del brano è
un inno alla dignità di colui che ha la sua ragion d’essere nel fatto
che il mondo abbia chi lo comprenda, insieme all’insistenza sulla
libertà come essenza della natura umana. Si sente l’eco del classico
“ognuno è fabbro della sua fortuna”, con il suo volontarismo e la sua
astrattezza, unito al più concreto avvertimento delle diverse
possibilità offerte alla libertà umana, sempre in bilico tra
l’aspirazione alle cose più grandi e il pericolo della caduta nella
meschinità, quando non nella violenza.
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