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mercoledì 22 febbraio 2012

san benedetto


Il consiglio
***
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Ascolta, figlio mio, i precetti del maestro, piega l'orecchio del tuo cuore, accogli con docilità e metti concretamente in pratica gli ammonimenti che ti vengono da un padre pieno di comprensione; cosicché tu possa per la fatica dell'obbedienza tornare a colui dal quale ti eri allontanato per l'inerzia della disobbedienza. Queste mie parole si rivolgono a te, che deciso a rinunziare alle tue volontà per prestare servizio sotto il vero re, il Cristo Signore, sei disposto a brandire le armi dell'obbedienza, invincibili e gloriose sopra tutte.

Per prima cosa, quando tu incominci a fare una qualsiasi opera buona chiedi, insistendo molto nella preghiera, che sia egli stesso a portarla a termine.

(Dal prologo alla Regola di San Benedetto)


Postato da: giacabi a 20:41 | link | commenti
san benedetto

martedì, 23 febbraio 2010

La nascita dell’Europa
***

Era, secondo la tradizione, l'anno 529, data memorabile, se più di un dubbio non ne mettesse in forse l'esattezza. Il monte «a cui Cassino è nella costa» si levava allora selvoso, coronato da un antico tempio d'Apollo e, intorno, dai boschetti dedicati agli dei, dove salivano i contadini con le offerte agresti e con le vittime sacre. Con l'impeto e col gesto famoso dei martiri, Benedetto fece distruggere il simulacro del dio, rovesciare l'altare, abbattere i boschi, e «sul luogo del tempio edificò un oratorio dedicato a San Martino, e all'ara di Apollo sostituì un altare dedicato a San Giovanni. Quindi con assidua predicazione chiamò alla fede la moltitudine dei paesi vicini».
La selva risuona dell'opera dei monaci, a cui egli soprintende. S'atterrano gli alberi, si squadra la pietra, si spiana e si scava il terreno, si gettano le fondamenta. Un muro che crolla seppellendo un monachino, un macigno che non si riesce a smuovere nonostante tutti gli sforzi, danno in quel recesso di paganesimo la certezza, suscitano la visione del nemico, giurato ad impedire l'opera santa, sempre protervo e sempre sconfitto. Ed ecco sorgere il monastero: l'oratorio, la biblioteca, il dormitorio, il refettorio, la foresteria, il forno e il molino, la cucina e la lavanderia, le officine, e l'orto, e il cimitero, e la torre sul dinanzi; donde il Santo tra cure e letture, meditazioni e preghiere, veglierà sull'ingresso del chiostro; donde avrà la visione del mondo intero compendiato in un raggio di sole, dell'anima del vescovo Germano e della sorella Scolastica, che salgono in cielo.
Ed ecco la famiglia costituita: i fratelli, i decani, ai quali «per il merito della buona vita e per la cognizione della vera sapienza», «l'abate affida una parte dei suoi pesi»; il preposito che gli sta a fianco, per la fiducia sua e dei fratelli; il cellerario, un monaco sobrio, alacre, saggio, che custodisce e amministra ogni cosa; il vecchio portinaio, assennato; i novizi, entrati volontari nel monastero od offerti dai parenti, che prima della professione definitiva s'addestrano sotto la guida dei decani alla disciplina monastica. Nessuno può allontanarsi senza il consenso o l'ordine dell'abate.
Totila davanti al Santo
Bussano alla porta uomini d'ogni sorte: il povero debitore perseguitato in cerca di danaro; il goto Zalla, «ariano arrabbiato contro tutti i servi di Dio», che si spinge avanti al cavallo il misero agricoltore a cui vuoi strappare il suo avere; il suddiacono Agapito che viene a chiedere la carità di un po' d'olio in tempo di carestia; il nobile che accompagna il figlio malato in cerca di guarigione; il contadino che porta il figliolino morto sulle braccia e implora di farlo risuscitare; il fratello del monaco Valentiniano o l'abate Servando, che vengono in pellegrinaggio per devozione verso il Santo.
Non v'è più dispersione: la grande luce irraggia ferma dal monte e illumina tutto il paese dintorno. Quando Benedetto è pregato da un devoto di fondare un monastero in un suo podere vicino a Terracina, egli esaudisce il desiderio; ma non scende -come i figli avevano creduto- a dare il suo consiglio sul modo di costruire l'oratorio, il refettorio, la foresteria. Il rumore del mondo, l'ambizione dei re, la trepidazione della guerra che infuria intorno a Roma, sulla misera Italia, tutto è lontano, se non quanto ne porta la carestia, o la voce dei pellegrini, come il vescovo di Canosa, o lo stesso Totila che marcia contro la Città. Il re fa annunciare la sua visita e gli si risponde dal monastero che sia il benvenuto. Ma egli vuol metter prima alla prova la virtù miracolosa del Santo, e fa indossare le vesti regali al suo portaspada di nome Rigone, affinchè gli si faccia innanzi accompagnato da tre fra gli uomini più cospicui del suo seguito. Senonché, erano giunti appena a portata di voce, quando: «Deponi, figlio, deponi ciò che porti; non è tuo», odono gridare dall'alto della torre, e si prostrano a terra, sbigottiti che l'inganno sia stato scoperto. Tornano quindi subito al re, che ora muove di persona verso il monastero. Totila s'inginocchia davanti al Santo; questi si alza, gli si fa incontro e lo invita a levarsi; poi lo riprende dei danni che ha fatto e che va facendo, lo invita a ravvedersi, gli predice la presa di Roma, il passaggio del mare, la morte. E il re, sbigottito, se ne parte dopo essersi raccomandato alle sue preghiere.
…….La comunità monastica
 La comunità monastica è concepita sotto due aspetti, che si fondono in uno ed hanno come principio comune l'amore verso gli uomini e verso Dio: essa è scuola del servizio divino ed è famiglia. Il maestro vi si chiama signore, abate, padre e fa le veci di Cristo; gli anziani che sovrintendono sono detti familiarmente ed affettuosamente i nonni; i discepoli, fratelli. Il fratello che debba mettersi in viaggio si raccomanda alle preghiere di tutti ed è ricordato quotidianamente nell'ultima orazione dell'ufficio divino. Tutti possono entrare a far parte della comunità, il servo e il libero, il Goto e il Romano, purché se ne mostrino degni nell'anno di noviziato e vi si obblighino con voto solenne, consegnato in un documento sottoscritto, deposto sull'altare e conservato nell'archivio del monastero. Una famiglia siffatta non consente dispersioni o diserzioni, e chi ha pronunciato il voto, si è vincolato alla perpetua «stabilità», salvo, come s'è detto, in casi eccezionali, il consenso e l'ordine dell'abate. La legge che governa questa convivenza, è una sola, semplicissima e quasi irraggiungibile nella sua compiutezza: l'amore, tutto l'amore, escluso l'amore di se stessi, cioè la totale rinuncia ai propri voleri, l'abnegazione di sé in Dio e nel prossimo: nei fratelli, nei novizi, negli oblati, nell'ospite che batte alla porta, chiunque egli sia, poiché nell'ospite si accoglie Cristo. Nell'ordine gerarchico non vale l'età, ma l'anzianità di professione monastica e la discrezione dell'abate, che può promuovere e chiamare agli uffici l'uno o l'altro secondo i meriti della vita e la saggezza. Il monastero è, per così dire, una repubblica autoritaria che nell'abate venera Cristo, una repubblica dove tutti possono e talvolta debbono esser chiamati a consiglio, dove nessuno conta come persona, e dove uno solo può volere. Ma non v'è passo dove questa autorità dell'abate sia affermata, senza che immediatamente si richiami la sua responsabilità formidabile, per le anime che gli sono affidate, e di cui dovrà rendere conto dinanzi a Dio.

«Ecco, lavora e sta' allegro»


Dato che
il chiostro è essenzialmente famiglia e scuola del servizio divino, il centro della sua vita è costituito dall'ufficio liturgico, celebrato notte e giorno in comune, nelle ore stabilite. La preghiera individuale, scevra di clamorose manifestazioni esteriori, dev'essere breve, muto linguaggio del cuore, pianto cocente, più che suono di parole; le volontarie pratiche ascetiche vanno sottoposte all'approvazione dell'abate. E poiché l'ozio è nemico dell'anima, «debbano i fratelli occuparsi in certe ore del giorno nel lavoro manuale e in altre attendere alla lettura delle cose divine».

Ecco dunque l'esistenza del monaco: pregare, leggere, lavorare.
Immagine scialba, se non la facciamo vivere dello spirito che il Santo voleva infondere nella sua creazione. Ricordate le parole di Benedetto, dopo aver restituito la roncola caduta nel lago al buon Goto, che mondava il campicello dai rovi? «Ecco, lavora e sta allegro». Può essere un simbolo. Nessuno deve contristarsi per colpa altrui, nessuno deve contristare il fratello. Il cellerario provveda con sufficienza e con prontezza, sì che nessuno abbia motivo di lagnarsi, e se non può dare, risponda almeno con una buona parola, poiché «siccome sta scritto, una buona parola vale più di un ottimo dono». A coloro che ne abbisognano, si provvedano aiuti per il lavoro, affinchè non siano amareggiati. Tutte le scorie, tutte le cattive passioni vanno rimosse dal monastero, tutto ciò che può turbare l'armoniosa comunanza della scuola e della famiglia divina.

Con un accento più alto del consueto si condanna, sia il vagabondaggio dei monaci, l'immensa rovina di chi presuma di riferire ciò che ha udito o veduto fuori del monastero, sia la peste del possedere: «Principalmente questo vizio è da sradicare: che niuno ardisca di dare o ricevere alcunché, senza l'ordine dell'abate, né avere cosa alcuna di proprio, assolutamente nessuna cosa, né codice, né tavolette, né stilo, addirittura nulla; come coloro ai quali non è lecito valersi a proprio arbitrio, né del loro corpo, né della loro volontà. Tutte le cose siano comuni a tutti, come sta scritto, e nessuno osi dire o pensare che una cosa sia sua».

Ma con energia e insistenza affatto singolari
si condanna la «mormorazione», la ribellione sorda, l'animo in contrasto col viso. Non sarà lecito mormorare neppure a colui «al quale per avventura s'ingiungano cose gravose ed impossibili». Egli dovrà accogliere sempre con tutta tranquillità e obbedienza l'ordine di chi comanda. Al più, potrà «esporre al superiore con pazienza e a tempo debito le ragioni della sua impotenza, senza montare superbia o resistenza o contraddizione. E se, dopo le sue parole, l'ordine non verrà revocato, sappia che così gli convien di fare e obbedisca per amore, rimettendosi all'aiuto di Dio».
Da: Giorgio FALCO La Santa Romana Repubblica, Ricciardi, Milano-Napoli 1986, cap. V.
La relazione del prof. Negri al convegno del 14 novembre 2002


Postato da: giacabi a 09:09 | link | commenti
europa, san benedetto

mercoledì, 11 luglio 2007

Antonio   Maria  Sicar

Ritratto 
di  san  Benedetto  da  Norcia
(480 ca. - 547 ca.)
 Nel secolo V dopo Cristo, l'impero romano era in decomposizione.
Avevano cominciato i Vandali ad oltrepassare la frontiera del Reno con vere e proprie migrazioni d'intere tribù, con donne, bambini, greggi.
Nel 410 Roma era caduta, ed era stata saccheggiata per la prima volta dalle truppe d'Alarico, sotto gli occhi stupefatti del mondo.
Poi, nei primi tre quarti di secolo, si era compiuta la rovina.
A metà secolo c'era stata la terribile minaccia dì Attila ed i suoi Unni, provenienti dal Nord, e, subito dopo, un altro saccheggio di Roma da parte dei Vandali di Genserico che, avevano devastato la Spagna, le province d'Africa, ed erano risaliti dal mare, dopo aver conquistato la Sicilia e la Sardegna. Le città imperiali restarono, di conseguenza, prive di grano.
Nel 476 fu ucciso a Ravenna l'ultimo imperatore d'Occidente e il barbaro Odoacre prese il potere; il figlio minorenne dell'ucciso lo chiamavano per spregio Romolo l'imperatoruccio (Augustolo). Nel 490 Teodorico il Grande prende il potere e fonda a Ravenna il regno dei Goti d'Oriente, tentando una sintesi, anche culturale, di romanità e germanesimo. Ma l'impresa fallirà in una trentina d'anni, per l'incompatibilità tra la fede ariana dei Goti e quella cattolica dei Romani.
Benedetto nasce dalle parti di Norcia, verso il 480; è dunque bambino quando l'impero romano si dissolve. Roma. dove si reca adolescente per iniziare gli studi, è sopraffatti dalle sventure: ripetute carestie e inondazioni nel Tevere, epidemie, lotte intestine, disfacimento del tessuto sociale amministrativo e religioso.
Sembrava davvero una città agonizzante, anche se - dice un testimone del tempo - «Roma moriva ridendo», senza voler rinunciare ai piaceri e alle dissolutezze che spesso accompagnano la  disgregazione.
Raccontare la vita di colui che sarebbe divenuto il Santo Patrono d'Occidente è impresa ardua: di lui non s'interessò la storia, e non conosciamo quasi nulla, se non i miracoli e la Regola che scrisse per i suoi monaci.
Qualche autore dice che il volto di Benedetto lo si vede male «per troppa luce». L'unico, che ci ha parlato di lui, lo ha inondato di chiarore soprannaturale.
Fu san Gregorio Magno a raccontarne la vita, a dedicargli un libro dei suoi Dialoghi, circa cinquant'anni dopo la morte del Santo Patriarca.
I Dialoghi sono un'opera a metà strada tra la storia e la riflessione filosofico-teologica, ma il grande pontefice ci assicura d'avere avuto informazioni di prima mano da quattro abbati benedettini (tra cui il successore di Benedetto) che egli aveva ospitato a Roma, quando Montecassino era stata distrutta dai Longobardi (nei 587).
A noi moderni una vita raccontata a miracoli sembra poco documentata e poco interessante a dal punto di visita storico, ma l'idea di papa Gregorio Magno è ben definita: la storia è evidente nell'opera di Benedetto, nei suoi monasteri che vanno disseminandosi in Europa, nella Regola che accuratamente descrive un tipo umano inconfondibile, ma la persona di Benedetto è un'incarnazione della grazia di Dio.
Scrive perciò: «Benedetto, l'uomo del Signore, ebbe lo spirito di quell'Unico che, per mezzo della grazia della redenzione concessaci, riempì i cuori di tutti i suoi eletti; ed è di Lui che Giovanni dice: “Era la Luce che venne a illuminare ogni uomo che viene in questo mondo”;  e altrove dice:  “Dalla sua immensa ricchezza noi tutti abbiamo ricevuto” »(D II,8).
Raccogliendo le testimonianze dei miracoli di Benedetto, raccontandoli e commentandoli con opportune riflessioni spirituali. San Gregorio è convinto di darci il vero ritratto di Benedetto. Conforme a quello di Cristo e dei suoi santi profeti e apostoli.
Anzi, i miracoli sono raccontati con l'intento di dimostrare, con la maggiore evidenza possibile, che in Benedetto agivano la forza e lo stile di Gesù, ma anche di Pietro, di Mosè, di Elia, di Eliseo, di Davide e così via, a seconda che i miracoli dì Benedetto attualizzassero quelli dei protagonisti biblici.
«A mio giudizio, è lo spirito di tutti i giusti che ha riempito questo nostro santo» (D II,8), avverte Gregorio, con la persuasione che un simile uomo non può essere raccontato con la cronaca, ma può essere soltanto «rivelato»: i miracoli ce lo rivelano, per l'appunto.
Affidiamoci allora alla sapienza di questo papa che non peccava certo di spiritualismo. Prima di essere eletto al pontificato aveva ricoperto la carica di prefetto di Roma, era stato ambasciatore a Costantinopoli e, da papa, si ritrovò a dover svolgere un'opera immensa: sociale, culturale, politica, religiosa. Era l'unica autorità rimasta, sia che si trattasse di intervenire spiritualmente su tutta la cristianità, sia che si trattasse di riorganizzare i rifornimenti e di amministrare la giustizia nel ducato di Roma, sia che si trattasse di ammansire i Longobardi, sia che si trattasse di progettare la conversione dei barbari fino nella lontana Inghilterra, sia che si trattasse di dare impulso all'organizzazione della Schola cantorum e della salmodia sacra (detta appunto «canto gregoriano»).
Per un uomo del genere, raccogliere testimonianze di miracoli non era evadere dalla realtà, ma scendere fin dentro il cuore della realtà.
«Ci fu un uomo Benedetto, di nome e per grazia..», così comincia il racconto di san Gregorio, presentandoci subito un adolescente che ha già - come piaceva a quei tempi - la saggezza di un uomo maturo.
Benedetto è un ragazzo di famiglia agiata che, dal territorio di Norcia, viene a Roma per dedicarsi agli studi letterari.
Ma la «città eterna» gli appare piuttosto come un abisso di perdizione in cui è facile perdersi, ed egli intuisce che deve anzitutto «cercare se stesso», realizzando quell'ideale di «abitare con se stesso» che è condizione primaria di salvezza, quando tutto sembra crollare.
Fugge dunque da Roma: quel mondo desolato che si abbevera agli ultimi piaceri gli sembra un deserto; preferisce perciò un deserto vero, secondo le più antiche e pure tradizioni monastiche.
Fugge, soli Deo placere desiderans («desiderando piacere soltanto a Dio»), inaugurando, con i fatti, una di quelle splendide massime spirituali di cui diventerà maestro.
E, riflettendo sugli studi di letteratura che Benedetto ha abbandonati, il santo pontefice crea un'altra massima di splendido sapore antico: «Se ne andò, sapendo di non sapere e sapientemente ignorante» (scienter nescius et sapienter indoctus) (D II, prol.).
Per tre anni Benedetto visse in un paesino a settanta chilometri da Roma, accompagnato e accudito dalla sua governante, abitando in una chiesa; e già lì diede inizio alla sua attività taumaturgica per risparmiare qualche dispiacere casalingo a colei che lo accudiva con tanto affetto.
Ma è difficile vivere in solitudine, quando si fanno miracoli, e Benedetto fuggì di nuovo - questa volta completamente solo - rifugiandosi in un inaccessibile speco a Subiaco.
Vi restò tre anni, assistito da un monaco del posto che gli portava periodicamente un po' di pane.
Fu Dio a decidere che quella solitudine dovesse cessare dopo tre anni: il giorno di Pasqua suggerì a un prete delle vicinanze, che si stava preparando il pranzato festivo, di andare a condividerlo con l'eremita della montagna.
Poi furono dei pastori che cominciarono a scambiare con lui del cibo: essi gli portavano il necessario, dai prodotti del loro gregge, e il giovane solitario ricambiava, offrendo il nutrimento della sua predicazione.
Stava per cominciare la missione pubblica di Benedetto, ma prima egli doveva essere provato dalla tentazione e definitivamente purificato.
Secondo i canoni antichi delle «tentazioni nel deserto», l'eremita si vide assalito dal ricordo bruciante di una bella ragazza che aveva intravisto nel breve soggiorno romano, e tanto bastò per incendiarsi il cuore. la mente e le membra.
Benedetto spense quel fuoco accendendone un altro più materiale, ma più tormentoso: si ravvoltolò nudo tra spine e ortiche, finché il corpo bruciò davvero: «Di fuori bruciò per lo strazio, e dentro si estinse il fuoco del peccato» - commenta il saggio pontefice.
Molti secoli dopo, in altra stagione, Francesco d'Assisi, per lo stesso problema, sceglierà di immergersi nella neve gelata.
Ambedue comunque dimostrarono d'avere una notevole intelligenza, dato che compresero che non si può mai curare l'ardore dei sensi affidandosi solo ad elevazioni spirituali.
La vittoria fu comunque definitiva. Nel racconto essa ha lo scopo esplicito di garantirci che Benedetto non diventò maestro di altri cristiani, senza prima aver imparato ad avere un completo dominio di sé.
Non trascorse molto tempo, che i monaci di Vicovaro (tra Subiaco e Tivoli) vennero a offrirgli la nomina a superiore. Benedetto accettò, dopo molte resistenze, ma i monaci se ne pentirono subito, non appena si accorsero che egli esigeva una vera osservanza regolare, (crearono un mezzo spiccio per liberarsene e decisero di avvelenargli, a pranzo, il bicchiere di vino.
Avevano però dimenticato che la consuetudine prescriveva (li benedire il bicchiere di vino prima di bere, e così - quando Benedetto tracciò il segno di croce - la coppa logicamente si spezzò, perché «la bevanda di morte non aveva potuto sopportare il segno della vita».
Forse il miracolo spaventò i monaci, ma Benedetto si convinse che era meglio per lui abbandonarli, perché non voleva «stremare le sue forze» nel tentativo di correggere «chi non voleva essere corretto».
Da allora furono monaci e postulanti ad accorrere da lui, ma accorrevano soltanto coloro che desideravano davvero d'essere spiritualmente guidati.
In breve, i discepoli furono tanti che Benedetto si trovò, quasi senza accorgersene, ad essere fondatore di dodici monasteri disseminati nella zona: ognuno abitato da dodici monaci.
Il numero perfettamente e sapientemente biblico (dodici per dodici) rappresenta anticipatamente «il disegno» della armoniosa architettura benedettina. Ed erano già monasteri in cui - secondo un uso rimasto a lungo - si accoglievano anche bambini, figli di nobili, da educare.
Comincia così la simpatica storia-leggenda (nel senso di una storia senza cronaca, ma esemplare) del rapporto tra Benedetto, il «piccolo san Placido» e il «giovane san Mauro», discepoli che vengono da lui custoditi, educati, privilegiati e fatti crescere come suoi veri figli ed eredi.
Di questa prima «storia benedettina» (ancora Cassino non è stata fondata e la vera storia di Benedetto fondatore non s'è ancora precisata) l'agiografo ci tramanda alcuni episodi emblematici , oltre che prodigiosi.
C'è anzitutto la vicenda del monaco che non riesce a fare il monaco, non riesce cioè ad «abitare con se stesso»: nel momento della preghiera e del silenzio è tentato di vagare oziosamente.
Dietro la ferialità dell'episodio, si nasconde e si annuncia il grande dibattito che sta per cominciare tra il monachesimo benedettino, tutto fondato sulla stabilità dei membri, e il monachesimo preesistente, gravato ormai da una tara assai diffusa: l'instabilità e la vagatio materiale e spirituale dei monaci.
Solo Benedetto riesce a vedere che quel monaco distratto e vagante è in realtà trascinato via da un «demonio piccolo e nero», e l'abbate lo guarisce «con un buon colpo di verga, dato che non c'è altro modo di vincere la cecità del cuore». Il colpo lo riceve il monaco, ma lo sente il piccolo demonio tentatore che fugge via per sempre.
C'è poi l'episodio dei tre monasteri costruiti in località troppo scoscese per avere l'acqua a portata di mano, il che provoca il lamento dei monaci. È un lamento biblico, come quello del popolo eletto nel deserto, e Benedetto, come nuovo Mosè, fa scaturire per loro l'acqua dalla roccia. Egli, però, prima del miracolo, congeda i monaci «con dolci parole di conforto» e poi passa la notte in preghiera tra quelle aride rocce, aiutato nell'intercessione dal piccolo Placido, il monachello obbedientissimo.
Un altro episodio è quello del «goto sempliciotto» che chiede di essere accolto in monastero. Benedetto lo mette a disboscare i rovi sulla riva di un lago, e il barbaro mena grandi colpi, finché il ferro esce dal manico di legno e affonda nelle acque. Dietro l'episodio macchiettistico, si nasconde il problema della convivenza nei monasteri tra i latini civilizzati e capaci e i barbari rozzi e maldestri, il «goto sempliciotto» confessa al giovane Mauro la sua colpa e il danno arrecato alla comunità, e se ne sta lì tremebundus. Ma ecco che Benedetto interviene: immerge nelle acque il manico di legno e il falcetto di ferro risale ad infilarsi nel manico.
L'episodio, pieno di ingenua poesia, non solo insegna che Benedetto è un nuovo profeta Eliseo - dato che costui aveva fatto lo stesso miracolo tredici secoli prima (cfr. 2 Re 6,1-7) - ma permette all'agiografo di mettere in bocca al Santo Patriarca un'espressione che è quasi un invito e un abbraccio accogliente per tutti i barbari che giungevano ai monasteri: Ecce labora, et noli contristari: «Ecco lavora, e non rattristarti».
Un altro episodio ancora accade al piccolo Placido che, un po' spaventato, va attingere acqua nel lago, immerge il secchio con troppa foga e affonda nelle acque che lo trascinano via.
Benedetto lo vede in spirito dalla sua cella e manda in fretta Mauro che corre a salvarlo. Solo dopo aver trascinato a riva il piccolo confratello, Mauro si accorge di aver camminato sulle acque. Preso da sacro timore, il giovane racconta l'accaduto al santo abbate e Benedetto spiega che è tutto merito della pronta obbedienza dì Mauro. Costui ribatteva invece che era tutto merito del comando di Benedetto. Risolse il virtuoso dibattito il piccolo Placido: disse che lui aveva visto sul suo capo la mantellina dell'abbate ed aveva subito creduto che fosse Benedetto a trarlo fuori dall'acqua.
Così obbedienza e autorità si intrecciavano assieme armoniosamente, e i discepoli capivano che Benedetto era come un nuovo Gesù che poteva comandare a Pietro di camminare sulle acque.
Giustamente Gregorio conclude questo primo ciclo dicendo che quei luoghi si andavano infiammando, in lungo e in largo, d'amore, per nostro Signore Gesù Cristo» (D II, 8).
La storia di Montecassino inizia in seguito a un opportuno stacco voluto da Dio, anche se allora sembrò che fosse il demonio ad avere la meglio.
In breve, ci fu un prete «astioso di invidia» che fece di tutto per distruggere l'opera del Santo: prima gli mandò del «pane avvelenato» e Benedetto sventò la minaccia; poi organizzò nell'orto del monastero, con alcune ragazze, uno spettacolo lascivo per avvelenargli i monaci.
In conclusione Benedetto, comprendendo che l'astio era rivolto a lui, diede un definitivo ordinamento a quei monasteri, assegnò loro dei bravi superiori e poi li lasciò alla loro sorte, conducendo con sé solo pochi fratelli.
Inutile dire che, appena Benedetto si mise in viaggio, quel prete astioso e malvagio morì vittima di una disgrazia, ma il santo Patriarca rimproverò Mauro e gli impose una penitenza perché gli aveva portato la notizia con una certa soddisfazione. Lui provava invece un immenso dolore.
Non tornò indietro tuttavia, ma si incamminò verso Cassino, una rocca situata sul fianco di un alto monte, sulla cui vetta c'era ancora un tempio dedicato ad Apollo.
Quando Benedetto si diede a distruggere tempio e altare pagani e a predicare ai nativi la Buona Novella, la lotta con Satana esplose con violenza. I monaci dicevano di sentire un grido lamentoso: «Maledetto, non Benedetto, che cos'hai contro di me? Perché mi perseguiti?». Era l'annuncio che la nuova fondazione avrebbe contribuito alla distruzione del regno di Satana, ma dovevano attendersi prove su prove.
Durante la costruzione dell'abbazia, i monaci, come vedevano in ogni aiuto la mano provvidente di Dio, così vedevano nelle difficoltà più insormontabili la mano oppressiva di Satana.
Era infatti una terra seminata di idoli.
In questi casi Benedetto interveniva con la sua preghiera, sia che si trattasse di spostare un macigno che sembrava radicato nel terreno, sia che si trattasse di placare qualche allucinazione dei monaci, sia che un muro in costruzione crollasse improvvisamente su uno dei ragazzini affidati alla comunità.
Il potere del santo si estendeva allora fino a richiamare in vita il fanciullo morto per la cattiveria del demonio.
Altri miracoli gli occorrevano, poi, per aiutare i monaci a osservare la Regola. Così Benedetto sapeva, per divina ispirazione, se dei monaci in viaggio l'avevano trasgredita mangiando fuori del monastero o accettando regali.
Allo stesso modo egli metteva a nudo le intenzioni e le trame di chi cercava di ingannarlo o le interne mormorazioni di chi disobbediva nel cuore.
L'episodio rimasto celebre nella storia fu quello di Totila, il re goto, che scorrazzava impunemente per l'Italia e che si avvicinò a Montecassino incuriosito della fama di Benedetto.
Per mettere alla prova il santo, il re gli mandò un suo scudiero abbigliato da re, con tutte le insegne e la scorta dei nobili. Benedetto non lo lasciò nemmeno avvicinare. Da lontano gli gridò: «Figlio mio, levati quelle vesti che non ti appartengono!». Caddero tutti a terra, impressionati non perché l'inganno fosse stato scoperto, ma per la «velocità» con cui erano stati smascherati.
Quando Totila giunse in persona, non osava nemmeno avvicinarsi e se ne stava genuflesso lontano. Gli si accostò Benedetto, lo fece alzare e gli disse senza mezzi termini: «Il male che fai è molto, e molto ne hai già fatto. Metti fine, una buona volta, alle tue malvagità. Entrerai a Roma, passerai il mare, regnerai nove anni e nel decimo morrai».
Dicono che, da allora, fu un po' meno crudele.
«Al suo orecchio risuonavano perfino le parole solamente pensate», spiega l'agiografo, che narra anche «miracoli» più spirituali: intuizione dell'animo e delle debolezze altrui, premonizioni, sogni, autorevolezza sulle anime estesa fin quasi all'aldilà, forza di intercessione in terra e in cielo.
La formula usata per spiegare tutto è questa: ad agire è «la grazia di Benedetto». Il santo è talmente ricolmo di doni spirituali che può dispensarli con larghezza, in ogni direzione.
Poi ancora quei miracoli di guarigione e di «abbondanza», caratteristici di ogni «epoca messianica»: liberazione di indemoniati, guarigione di lebbrosi, sollievo di prigionieri e sofferenti, remissione di debiti, e abbondanza prodigiosa di provviste (pane, olio) in tempo di carestia.
Viene anche sottolineata la soccorrevole carità verso i più poveri, ai quali Benedetto si prefigge «di dare tutto in terra per non perdere nulla in cielo», tanto da innervosirsi quando il monaco dispensiere conserva gelosamente l'ultima ampolla d'olio.
Solo una volta Gregorio descrive Benedetto, nella sua dolente umanità: non mentre compie miracoli, ma mentre si abbandona a un dirotto pianto: così lo vede infatti un nobile ospite del monastero che entra improvvisamente nella camera dell'abbate.
A lui Benedetto confida: «Tutto questo monastero che io ho costruito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente sono destinate a finire preda dei barbari, A gran fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, siano risparmiate almeno le persone».
E così accadde alcuni decenni dopo la morte del Patriarca, al tempo dell'invasione longobarda.
A nessun amico di Dio può infatti essere risparmiata la passione e la sua notte.
L'ultimo miracolo raccontato vede per la prima volta Benedetto quasi tremare di impotenza. Ha davanti un papà disperato che porta in braccio il corpicino del figlio morto. «Restituiscimi mio figlio, restituiscimi mio figlio!», grida insensatamente l'uomo, con la persuasone che, rivolgendosi a Benedetto, il grido raggiunga Dio.
«Te l'ho forse tolto io tuo figlio?», chiede confuso Benedetto, ma quando si accorge che gli viene chiesto un miracolo di resurrezione, subito manda via gli altri monaci: «Allontanatevi, fratelli, allontanatevi! Non sono miracoli per me questi! Solo i Santi Apostoli possono farli! Perché volete addossarmi un peso che non sono capace di portare?». Poi il miracolo accade, ma Benedetto lo chiede a Dio «per la fede di quest'uomo che chiede di resuscitargli il Figlio».
Ora che l'agiografo ha toccato il vertice della sua narrazione, racconta anche, per la prima e unica volta, una sconfitta di Benedetto: «Ci fu qualcosa che, pur da lui desiderata, non riuscì ad ottenere».
Improvvisamente Benedetto esce dal suo alone misterioso e sublime, e veniamo a sapere qualcosa dei suoi affetti.
Scopriamo così che egli ha una sorella gemella alla quale è molto affezionato e che, come lui, si è consacrata a Dio fin dall'infanzia.
Scopriamo che il venerabile Patriarca le dedica un giorno all'anno: un'intera giornata in visita al monastero di lei, «a parlare assieme di argomenti santi», fino alla cena compresa.
Ed ecco che ci viene narrata l'ultima visita. Quando, a sera, giunge l'ora in cui Benedetto deve tornare in monastero (la Regula proibisce severamente di pernottare fuori), Scolastica chiede al fratello un'eccezione: «Questa notte non lasciarmi, te ne prego, così potremo fino a domani mattina parlare della gioia della vita celeste». Ma riceve un rifiuto quasi scandalizzato: «Che cosa dici mai, sorella!».
Il cielo non ha una nuvola. Scolastica pone le mani intrecciate sul tavolo e china la testa. In brevissimo tempo il cielo sì annuvola e scoppia una tale tempesta con lampi e tuoni e rovesci dì pioggia, che Benedetto, per tutta la notte, non può nemmeno metter piede fuori della soglia.
«Dio Onnipotente ti perdoni, sorella mia», disse Benedetto, «che hai fatto?». E Scolastica, con logica tutta femminile, rispose: «Vedi, ho pregato te, e tu non mi hai voluto ascoltare. Allora ho pregato il mio Signore e mi ha ascoltata. Ora esci pure, se ci riesci, torna in monastero!».
Così Benedetto si trovò a subire un miracolo.
Il motivo era duplice, spiega papa san Gregorio.
Il primo: nel cristianesimo tutto è questione d'amore. Dio stesso è amore, quindi fu cosa logica «che potesse di più colei che amò di più». Ed è con questo conclusivo giudizio che Gregorio relativizza in un colpo solo tutti i miracoli che ha raccontati e ne fa - anche a favore di Benedetto, si intende - una questione d'amore.
Il secondo: Dio sapeva che quell'incontro tra i due fratelli era l'ultimo. Scolastica morì dopo tre giorni. Benedetto mandò i suoi monaci a prenderne il corpo, per deporlo nel sepolcro che egli aveva fatto preparare per sé. «Si ebbe perciò che, come in vita la loro anima era stata sempre una cosa sola in Dio, così in morte anche i loro corpi non furono separati neppure dalla tomba» (D II,34).
Siamo così giunti quasi al vertice della narrazione, e sentiamo perciò il bisogno di andare all'altra fonte della biografia di Benedetto, a cui san Gregorio rinvia il suo lettore scrivendo.
«Tra i tanti miracoli che resero famoso nel mondo quest'uomo di  Dio c'è da porre anche il luminoso splendore della sua dottrina. Scrisse infatti per i monaci una Regola, davvero notevole per la sua discrezione, e chiara e bella ("luculenta") nell'espressione. E se qualcuno vuole conoscere più a fondo i suoi costumi e la sua vita, nell'insegnamento della Regola può trovare gli atti con cui egli stesso visse il proprio magistero, perché egli non poté insegnare in maniera diversa da come visse» (D  II,36).
Che la Regola debba in qualche maniera rispecchiare la vita del nostro santo è evidente soprattutto là dove descrive le qualità e i compiti dell'abbate che - dice Benedetto - «sono già tutti indicati dal nome cori cui lo si chiama: “Padre!”».
Il cuore dell'avvenimento evangelico - la venuta sulla terra del Figlio di Dio e il dono del suo Spirito che ci rende capaci di invocare Dio col nome di AbbàPadre!») - diventa così il cuore stesso del  monastero, tutto abitato da figli che si rivolgono con questo nome al loro Superiore.
Costui sa di dover trasmettere la volontà di Dio, con le parole e con la vita, ricordandosi sempre «del nome che porta»: sa di dover essere un padre «puro, sobrio, misericordioso» che lascia sempre «prevalere la misericordia sulla giustizia».
A lui Benedetto chiede il difficile equilibrio di un amore capace, a un tempo, di estendersi a tutti e di privilegiare ciascuno secondo le sue necessità.
Un padre riservato e indulgente, forte e saggio; non inquieto né ansioso, non oppressivo né geloso; capace di tenerezza e di infinita pazienza, ma anche di severità e di decisione.
Un padre che «preferisce sempre la misericordia alla giustizia», ma non trascura mai la correzione.
Un padre che osserva attentamente i suoi figli e la loro diversa indole in modo che   «i forti abbiano sempre un ideale a cui tendere e deboli la possibilità di non scoraggiarsi».
Gli aggettivi, le immagini, i proverbi si susseguono sotto la penna di Benedetto, a volte con un certo umorismo, come quando esorta l'abbate a non essere come quel pastore che «a forza di far correre il gregge fa morire tutte le pecore in un solo giorno», o quando gli consiglia «di stare attento a non spezzare il recipiente a forza di grattare via la ruggine».
Altri consigli hanno la bellezza di motti programmatici: «L'abbate curi più di essere amato che temuto» (studeat plus amari quam timeri); «sappia di dover giovare più che comandare» (magis prodesse quam preesse); «usi discrezione che è la madre di tutte le virtù».
Dietro molte espressioni si intravvedono le esperienze personali di Benedetto: le sue scoperte pedagogiche, i propositi di buon governo che deve aver elaborato nel corso degli anni, le delusioni che deve aver subito e i successi riportati con l'aiuto di Dio.
Ma la Regola è soprattutto descrizione dell'edificio che Benedetto va man mano costruendo. Si può dire che egli progetti una costruzione grandiosa, ma a suo modo incredibilmente semplice.
È un'epoca in cui tutto sembra sfaldarsi - sia la società ecclesiale che quella civile, sia la vita monastica che quella laicale - e Benedetto pensa in termini di «famiglia»: il monastero è un intera «società» gestita come una «famiglia».
Nella sua compiutezza, il monastero deve contenere tutto ciò che serve alla vita: «l'acqua, il mulino, l'orto e i locali dove si esercitano i vari mestieri».
Da un lato è il monaco che non ha più bisogno di girovagare per il mondo né di cercarvi il necessario per vivere, dall'altro - nei secoli bui che si avvicinano - sarà piuttosto il mondo che verrà a vivere all'ombra e sotto la protezione del monastero, cercandovi quella pace, quell'ordine, quella progettualità che sarà impossibile trovare altrove.
Nel monastero benedettino vengono a vivere, come fratelli sotto l'autorità di un unico Padre, tutti coloro che lo desiderano, purché promettano obbedienza e stabilità. Non si fa distinzione tra liberi e schiavi, né tra uomini d'arme e contadini, né tra ignoranti e dotti.
Non si fa distinzione di età: perfino i fanciulli sono ammessi; l'abbazia ha sempre una scuola in cui dei bambini - amati come figli - già si preparano alla vita monastica; la Regola vale anche per  loro, anche se tocca all'abbate adattarla alla loro età e temperarla.
Non si fa nemmeno quella distinzione che più ci si attenderebbe: la previa valutazione delle disposizioni spirituali e l'attuazione di un discernimento vocazionale.
La Regola sembra dare per scontato, quasi in ogni pagina, che in monastero abitino, con lo stesso diritto, monaci obbedienti, capaci, pazienti, docili, virtuosi, intelligenti e altri caparbi, cattivi, orgogliosi, ribelli, turbolenti, arroganti, indisciplinati, inutili...
Tutti assieme essi formano «il gregge dell'abbate», ed egli deve pascerli dando ad ognuno il giusto nutrimento e la giusta medicina. Alla fine del cammino (... alla fine della Regola) Cristo li prenderà tutti assieme e «assieme ("pariter") li condurrà alla vita eterna».
Nel prologo Benedetto definisce il suo monastero «una scuola per imparare a servire il Signore»; poco dopo dirà che è un'«officina» dove tutti lavorano, avendo a disposizione gli «strumenti delle buone opere».
Se si legge la lunga lista di questi «strumenti consigliati» (quasi 74) non ci si deve meravigliare di trovare elencati assieme i principali comandamenti (compreso quello di «non ammazzare» e «non commettere adulterio»), le opere di misericordia (compresa quella di seppellire i morti»), le tentazioni contro le quali bisogna resistere (tra cui «non dare sfogo all'ira», «non covare rancore», «non almanaccare l'inganno»), i vizi che bisogna eliminare (tra cui la raccomandazione di non essere «pigri», «beoni», «mangioni», «dormiglioni», «brontoloni»), e le virtù che bisogna coltivare (tra cui «venerare i più anziani» e «amare i più giovani»).
Il fatto che - Benedetto si attardi a enumerare raccomandazioni spesso grevi, ci dice che si ritiene normale anche in Vocazione di molti robusti e inveterati peccatori: i tempi sono tali che il monastero non può essere immaginato come rifugio di anime elette e spiritualmente affinate, ma come rifacimento e salvezza di tutto un mondo, solo in parte cristiano, che sembra inabissarsi,
Ma tra i tanti pesanti richiami risplendono indicazioni di altissima vita mistica, offerte come lampi di ideale a chi «può comprendere»: dal bellissimo «Affidare a Dio la propria speranza», al suggestivo «Desiderare la vita eterna con ogni concupiscenza spirituale», al conclusivo e pacificante «Non disperare mai della misericordia di Dio» (Et de Dei misericordia numquam desperare).
E non si può certo dimenticare quello splendido aforisma: «Non anteporre nulla all'amore di Cristo» che Benedetto mette all'inizio della Regola (Nihil amori Christi praeponere) e che riprende alla fine con un'assolutezza ancora maggiore (Christo omnino nihil praeponant).
Su tutto dovrà poi dominare l'obbedienza all'abbate, soprattutto quella prestata «senza indugio», che è propria di coloro «che ritengono di non avere per sé nulla di più caro di Cristo» e che porterà i fratelli a un desiderio umile «di obbedirsi reciprocamente.
L'esistenza che la Regola descrive e prescrive è tutta organizzata attorno a un duplice «lavoro» (opus): il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti «operai del Signore».
L'opus Dei (la preghiera comune di tutti i monaci) è un lavoro che dev'essere compiuto «al cospetto degli angeli» e scandisce le ore del giorno e della notte. Esso dà un orientamento verticale e purificatore a tutte le tensioni dell'esistenza.
Anche in questo caso deve valere una radicale decisione del cuore: Nihil operi Dei praeponaturnon si deve anteporre nulla all'Opera di Dio»), così come non si deve anteporre nulla all'amore di Cristo.
L'opus manuum è il lavoro a cui tutti devono dedicarsi negli altri tempi della giornata. In un'epoca in cui il lavoro è affare di schiavi, Benedetto lo fa diventare questione di umana dignità, di fraterna solidarietà e di spirituale offerta.
Perfino gli strumenti di lavoro vanno trattati «come i vasi sacri dell'altare».
Perfino l'economo della casa deve curare l'amministrazione e deve tutto sorvegliare in base a un criterio di profonda umanità innervata dalla fede: anch'egli è tenuto a comportarsi «come padre, della comunità» e il suo compito deve tendere a che «nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio».
Ora et Labora: il motto sintetico, che diverrà poi tradizionale, descrive il monaco che sa di lavorare con Dio e per Dio, ma sa che anche Dio lavora con lui e in lui.
Fu così che i monaci - guidati da questa Regola (che Benedetto, alla fine, definisce «piccolissima Regola da principianti») - impararono a rendere «eroica la vita quotidiana e quotidiana la vita eroica» con lo stesso ritmo con cui apprendevano «a dissodare terre e a darle alla civiltà», dopo aver dissodato e offerto a Dio il loro cuore.
Col passare dei secoli «l'Europa sarà rinserrata in una rete di fattorie modello, di centri di allevamento, di focolai di alta cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola: di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza alcun dubbio il Padre d'Europa. I benedettini, suoi figli, sono i padri della civiltà europea»: così ha scritto Léo Moulin. Egli amava ricordare che perfino le leggi del galateo che oggi rispettiamo a tavola (tovaglie, tovaglioli, fiori, silenzio, pulizia, sequenza dei cibi, cortesia reciproca, modo di comportarsi) furono inventate dai monaci che resero il cibo «una pietanza», qualcosa che è legata alla pietas: un cibo ricevuto e consumato con gratitudine e rispetto.
Ai tempi della prima abbazia di Montecassino il lavoro riguardava la stretta amministrazione della casa e dei suoi più vicini possedimenti.
Col tempo i monaci impareranno a dissodare terre, bonificare, irrigare, fino a gestire vere e proprie aziende agricole, allevamenti, vivai, serre sperimentali.
Impareranno e insegneranno la viticultura, lo sfruttamento delle foreste, l'uso delle piante medicinali.
Si preoccuperanno di ricopiare nei loro freddi scriptoria tutte le opere dell'antichità classica che oggi noi conosciamo soltanto per loro merito.
I monasteri diverranno perfino centri finanziari, e adempiranno per secoli anche alla funzione di banche di depositi e prestiti.
Dicono che in Europa non c'è luogo in cui non si trovino tracce dell'azione dei monaci, e molte città ebbero il loro primo nucleo in un'abbazia.
La Regola è all'origine di tutto questo: ha salvato e costruito l'Europa non perché offrisse un progetto dettagliato e credibile di ricostruzione, ma perché trasmetteva un modello di vita in cui «la dignità umana aveva un riconoscimento quotidiano» (Bernard de Jouvenel) e - aggiungiamo noi - tale dignità era riconosciuta in ogni azione del giorno, dalla più sacra alla più umile.
Lo scopo di Benedetto - e poi quello dei suoi monaci - non fu quello di supplire alle deficienze di una società in sfacelo, ma quello di poter semplicemente realizzare la vocazione che Dio dona all'uomo.
Benedetto credette, insomma, che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una schola dominici servitii: «una scuola per imparare a servire il Signore»; ma comprese che, in quegli anni e in quei secoli. una simile «scuola» doveva semplicemente farsi carico di insegnare  tutto, anche tutto l' «umano»: dalla cortesia al senso della misura, dalla tenerezza alla serietà, dall'onorare Dio all'onorare i propri fratelli e le proprie responsabilità.
Aveva poco più di sessant'anni, quando Dio gli fece l'ultimo regalo. Una notte in cui Benedetto pregava silenziosamente, stando alla finestra, una luce si diffuse lentamente fino a che tutto sembrò risplendere come in pieno giorno. Ed ecco che «durante questa visione si verificò un fatto prodigioso, come ebbe a dire in seguito lui stesso: davanti ai suoi occhi si presentò addirittura il mondo intero come raccolto sotto un unico raggio di sole».
Anche san Gregorio Magno, che racconta quest'episodio conclusivo, fa fatica a spiegare il significato e la possibilità stessa di una simile visione. Spiega tuttavia così: «Non furono la terra e il cielo a rimpicciolirsi, fu l'anima del veggente che si dilatò».
È questa una nota ricorrente nell'esperienza di molti santi, che merita di essere sottolineata: l'ultima preghiera, l'ultima visione riguardano Dio Creatore e la bellezza di tutte le creature.
Il primo articolo del Credo anche l'ultima verità pienamente creduta e gustata.
Ormai il Santo Patriarca sapeva d'essere giunto al termine del suo cammino. Si fece portare nell'oratorio del monastero, ricevette l'Eucaristia. e poi «con l'aiuto dei discepoli che sostenevano le sue deboli membra, rimase in piedi con le mani alzate verso il cielo, finché spirò mormorando un'ultima preghiera».
Moriva com'era vissuto, nella posizione dell'Orante, mentre alcuni monaci di lontani monasteri ricevevano la visione di una strada, tutta coperta di tappeti, che si innalzava dritta fino al cielo, verso Oriente, e una voce spiegava loro: «Questa è la via per la quale Benedetto, caro a Dio, è asceso al cielo».
Così finisce il racconto della vita di colui che fu «Benedetto di nome e per grazia».
Più avanti, in un altro libro dei suoi Dialoghi, san Gregorio aggiungerà ancora un episodio sul Santo Patriarca che può servirci come conclusione del racconto e ammonimento.
Il Pontefice narra la vicenda di un eremita del monte Morsicano che, in quegli stessi anni, viveva chiuso in una caverna e che, per restare fedele al suo proposito, aveva addirittura legato il suo piede alla roccia con una catena di ferro.
Benedetto, quando lo seppe, gli mandò a dire: «Se sei servo di Dio, a tenerti legato non deve essere una catena di ferro, ma la catena di Cristo».
Voleva dire - a lui e a noi - che l'unico legame indissolubile è l'amore di Gesù.
Immagine di S. Benedetto disegnata da Consolo
 

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san benedetto

giovedì, 13 luglio 2006
A proposito di San Benedetto


Ho letto questo Interessante articolo di don Luigi Negri, vescovo di San Marino, su San Benedetto che vi propongo:
Introduzione a Benedetto da Norcia
sussidio per la Scuola di Comunità, tratto da Litterae Communionis, anno VII, aprile 1980, p. 20.

"Le invasioni germaniche posero ai cristiani un problema doloroso: dai tempi di Costantino e, soprattutto, di Teodosio, la loro Chiesa si era integrata all'impero e la loro religione era diventata quella di Roma; ecco che ora, sotto la pressione dei barbari, l'impero e Roma vacillano. Che fare? Trincerarsi dietro un angusto nazionalismo e rifiutare ogni contatto con gli invasori? o abbandonare il mondo antico e unirsi ai Germani?
Alcuni uomini risolsero il dilemma. Pensatori come Agostino, nel «De civitate Dei», e Salviano, nel «De gubernatione Dei», trasferirono gli eventi storici in una prospettiva soprannaturale: non si trattava che di una crisi fra le tante che il mondo aveva conosciuto, una crisi di cui i cristiani dovevano comprendere il significato, ma che non poteva turbarli, né arrestarli. Uomini d'azione, come Germano d'Auxerre, continuarono la loro attività quotidiana, senza porsi ansiose domande sull'avvenire, e gli uni e gli altri dettero l'esempio ai loro correligionari. Da romani e da patrioti, questi difesero l'impero agonizzante e, morto, lo piansero; ma «da credenti nella provvidenza del Padre, nella presenza del Figlio e nell'aiuto dello Spirito, non si perdettero in vani rimpianti e si volsero verso il nuovo Occidente».
Nel volgere di tre secoli i loro vescovi, preti e monaci vi compirono un'opera considerevole; conquistarono i singoli, evangelizzarono i Germani ariani o pagani e gli autoctoni, soprattutto le popolazioni rurali, che la Chiesa non aveva ancora raggiunto; poi intrapresero l'opera, meno appariscente ma più difficile, di «cristianizzazione». Nello stesso tempo, intervennero sempre più nella vita collettiva; eredi del genio organizzatore di Roma, aiutarono i regni barbarici a svolgere la loro missione politica; essendo gli unici rappresentanti della cultura, si dedicarono, sostituendo la decadente società civile, all'insegnamento, alle scienze, alle lettere, alle arti. Gettarono così le fondamenta di quell'unità religiosa e spirituale che doveva rivelarsi decisiva per il medioevo".
L. Genicot, «Profilo della civiltà medievale», p. 73-74.

In questa pagina uno dei più grandi storici del medioevo ha indicato con chiarezza la grande sfida che la Chiesa cattolica riceveva dalla storia, nella rovina dell'impero romano e sotto l'incalzare dei nuovi popoli barbari che prendevano, di forza, il loro posto nel mondo di allora. La Chiesa ha saputo raccogliere questa sfida e vi ha risposto, mostrando che la fede sa, per sua natura e per sua forza, generare un mondo di valori umani, una civiltà per l'uomo.

San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, è la personalità in cui questa capacità diventa assolutamente esemplare: la sua persona e la sua opera rimangono l'immagine dell'energia che costruisce, lentamente ma irresistibilmente, il mondo cristiano medievale ed, insieme, la civiltà europea. Per San Benedetto la fede è il principio che lo ha chiamato a vita nuova ed ha conferito a lui una personalità nuova: è il principio sintetico capace di fornire i criteri per giudicare e l'intelligenza e la energia per agire. Uomo di fede, cristiano, perciò, prima ancora che romano: ma, proprio per questo, capace di valorizzare pienamente l'esperienza della romanità e di rilanciare il suo genio organizzativo in nuove forme e con nuova responsabilità. In lui è chiaro che la fede illumina la vita e la educa a piena maturità umana, personale e sociale.

Una grande intuizione ha folgorato san Benedetto, e questa intuizione è la chiave di lettura di tutta la sua opera e dell'Europa cristiana che di questa opera è il frutto maturo. L'intuizione che, dalla fede vissuta in Cristo e per la fede vissuta in Cristo, nasce una realtà sociale, una capacità di coinvolgimento umano, una struttura sociale.

Il monastero benedettino è la prima realtà in cui, in modo elementare, si è espressa questa capacità sociale della fede. Nel monastero benedettino, per il fondamento che è la fede, sono accolti tutti, schiavi e liberi, romani e barbari, vincitori e vinti, dotti e indotti; e su quest'unico fondamento può nascere una convivenza che, nel mondo, sarebbe impossibile. Le differenze che nel mondo sono incolmabili e spunto per violenze continue vengono accolte dentro una unità più grande: quella della fede. Dal monastero benedettino tutto il cattolicesimo occidentale impara così la sua dimensione di popolo e la sua incidenza storica.

In questa fraternità «ordinata» avviene un cammino educativo per la persona. Il primo fine della fraternità è l'aiuto a svolgere la certezza della fede fino a giudicare presente e passato. Senza l'amore dei monasteri benedettini per la storia passata i grandi documenti letterari, storici, filosofici, scientifici e artistici del mondo antico non sarebbero stati «fisicamente » salvati, e tutto il mondo antico ed i suoi valori sarebbero naufragati.

Nel convento benedettino si sperimenta che la comunità cristiana è fonte di cultura. La memoria dell'avvenimento di Cristo diviene intelligenza, coscienza morale, personale e sociale. Una fraternità così fondata sulla fede educa la persona ad assumere liberamente la propria responsabilità morale ed a vivere la propria creatività personale.

San Benedetto ha testimoniato a pagani e a barbari, e addirittura ai cristiani, che il cristianesimo non è una dottrina astratta ma è una realtà viva documentabile e storicamente incidente. La fraternità benedettina ha mostrato infatti la capacità di incidenza operativa della fede creando una nuova nozione ed una nuova immagine del lavoro.

L'uomo nuovo cristiano si esprime infatti nel lavoro e il lavoro è la utilizzazione della realtà, spirituale e materiale, libera o determinata, per affermarvi il valore per cui si vive. Mentre il lavoro è per tutto il mondo antico un peso, soprattutto quello manuale, da far fare agli schiavi perché l'uomo libero (il vero cittadino) possa vivere il suo «otium», il mondo cristiano ha operato un rovesciamento radicale. Ogni lavoro (anche quello manuale, anche quello durissimo che sarà realizzato da migliaia di monaci per bonificare l'Europa dalle paludi e per rinnovare il ciclo dell'agricoltura, elemento primario della nuova Europa) è fatto nello spirito di un'offerta intelligente ed appassionata di sé a Dio, che potenzia una dedizione dell'uomo a trasformare le stesse condizioni materiali in cui è chiamato a vivere.

Così il lavoro diventa sintomo di libertà e di creatività. Nel monaco che «prega e lavora», che vive in una comunità di liberi ed uguali eppure in un «ordine» religioso, nel monaco che accoglie con responsabilità ed impegno la grande sfida di quella situazione, l'Europa cristiana contempla il fattore dinamico che l'ha creata.

Dietro l'«ora et labora» benedettino, che è stato per più di mille anni la grande regola intellettuale e morale dell'uomo medievale, sta un profondo suggerimento per il nostro presente e per la nostra responsabilità di cristiani di fronte alla realtà. Di fronte al vecchio mondo anticristiano che sta morendo e ancor più nei confronti del nuovo mondo alla cui costruzione siamo chiamati, come Benedetto, con la forza della fede nel Signore e con l'aiuto della fraternità che da questa fede nasce.

http://www.storialibera.it/epoca_medioevale/monachesimo/introduzione_a_benedetto_da_norcia.html

Postato da: giacabi a 07:36 | link | commenti
santi, san benedetto



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