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mercoledì 22 febbraio 2012

scienza - articoli


La tecnica
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Uno dei mali della nostra epoca consiste nel fatto che l’evoluzione del pensiero non riesce a stare al passo con la tecnica, con la conseguenza che le capacità aumentano ma la saggezza svanisce.
(Bertrand Russell)




Postato da: giacabi a 14:53 | link | commenti
scienza - articoli

venerdì, 01 gennaio 2010

L' amore nella conoscenza
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«Il desiderio e l'attesa della verità nella sua interezza sono amore nella conoscenza. Questo amore nella conoscenza è il vero ispiratore e motore della ricerca di tutte le verità particolari e della loro trasmissione; è questo amore a far sapere che queste verità particolari non racchiudono la verità e spingono a rimettersi in marcia. Proprio come leggiamo al paragrafo 30 dell'Enciclica: “C'è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c'è l'intelligenza e poi l'amore:ci sono l'amore ricco di intelligenza e l'intelligenza piena di amore”».
 Laurent Lafforgue             

Postato da: giacabi a 09:38 | link | commenti
benedettoxvi, scienza - articoli

sabato, 26 dicembre 2009

La scienza
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"La scienza ha radici nell'immanente,
ma porta l'uomo verso il trascendente".
Papa Giovanni Paolo II

Postato da: giacabi a 21:55 | link | commenti
giovanni paoloii, scienza - articoli

sabato, 19 dicembre 2009

Robert Spaemann:

la scienza è un bene,

ma l’uomo non smetta mai di contemplare

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2007-SCHUELERKREIS-LUNCH.jpg image by MARITER_7
INT.
Robert Spaemann (Berlino, 1927) e' uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, erede della Cattedra che fu di Hans G. Gadamer, ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo del dibattito sull'etica contemporanea, in sintonia con gli studi dell'amico Joseph Ratzinger.
venerdì 18 dicembre 2009
Ieri era l’ateismo materialista, nelle sue varie colorazioni ideologico politiche. Più tardi è stato l’indifferentismo religioso ad attaccare la credenza dell’uomo in Dio. Ma la persona non ha mai smesso di interrogarsi sul senso di tutto. Senza credere in Dio, dice il filosofo tedesco Robert Spaemann, l’uomo ci perde: è meno libero. Perché ne va della ricerca della verità e del suo fine e dunque dell’io stesso che domanda. Ma è il cristianesimo la risposta definitiva alla ricerca, «non solo perché ipotesi di un altro mondo o di un'altra visione della realtà - dice Spaemann - ma perché la Verità si è fatta carne».
Da chi viene oggi il vero attacco contro Dio e la religione?
In ogni tempo della storia ci sono state cause e motivi diversi che hanno provocato le più svariate domande circa l’esistenza di Dio. Sebbene in molti lo sostengano, oggi il problema non mi sembra che riguardi come l’uomo possa venir liberato dagli obblighi della religione. In realtà la maggior parte delle persone, più o meno inconsapevolmente, fa esperienza di una minaccia della propria libertà da parte della scienza e della tecnologia. Le scienze naturali hanno sempre di più espanso il loro dominio negli ambiti della vita delle persone.
Il progresso delle scienze sperimentali non è “innocente”?
Purtroppo i mezzi di questo dominio sono anche mezzi di potere sull’uomo e, soprattutto, del potere di uomini su altri uomini. Tale dominio sull’uomo ha raggiunto oggi confini enormi e minacciosi, come la possibilità che abbiamo, o presto avremo, di incidere geneticamente sul profilo biologico di una persona. Oppure pensiamo alle neuroscienze il cui principale intento è quello di dimostrarci che la nostra libertà e il nostro libero arbitrio sono un’illusione. Le estreme conseguenze di questa logica potrebbero portarci a imprigionare tutti coloro il cui profilo genetico e neurologico descrive come potenziali criminali.
E come entra in gioco Dio?
La fede in Dio in questo contesto equivale alla libertà dell’uomo. Libertà intesa come ricerca della verità. In questa ricerca l’Illuminismo ha cercato di sostituire totalmente la fede con la ragione, ma proprio qui risiede il grande errore dell’Illuminismo: l’aver negato a priori la validità della fede come elemento per raggiungere la verità. Come ultima conseguenza lo scientismo ha contestato poi il fatto che la ragione abbia a che fare con la verità, circoscrivendo la ragione a un ambito puramente empirico. Mentre è la fede, come apertura alla realtà, l’unica vera compagna della ragione.
In queste sue risposte si avverte l’eco della critica che Horkheimer e Adorno fecero nei confronti dell’Illuminismo (cfr ilsussidiario.net 18-3-2009). Come spiega però la coesistenza dei dogmi dello scientismo e dell’assenza di verità proclamata dal relativismo?
Come dicevo, lo scientismo riduce la ragione a un solo ambito circoscritto. Una verità che valga per tutti è negata anche dallo scientismo. In questo modo lo scientismo si può conciliare con il relativismo. Nietzsche è stato il primo a portare agli estremi la conseguenza di questo ragionamento. Se non c’è Dio e non c’è la Verità possono esistere solo le prospettive di ogni singola persona. Non esiste una prospettiva “universale”. E Rorty, neopragmatico, lo ha ribadito sinteticamente: “desiderare la verità significa credere in Dio, infatti non c’è la verità”. Naturalmente è vero che lo scientismo pretende per sé che le proprie tesi siano verità. Il suo successo viene nutrito dai passi avanti che quotidianamente fa la scienza. Utilizza i progressi scientifici per propagandare l’illusione che la scienza sappia totalmente definire l’uomo.
Nel suo recente discorso al convegno della Cei lei si domanda «di quale tipo è la realtà del passato, l’eterno essere vera di ogni verità». E pone la questione come obiezione al relativismo. Potrebbe spiegare la centralità di questo ragionamento?
Il passato rimane vero così come questa intervista è stata fatta e rimarrà tale per milioni di anni, per sempre. Questa di primo acchito è una risposta al relativismo. Perché nessuno potrà negare che ci sia stata: c’è stata punto e basta. Ma qui scatta il vero problema dell’interpretazione soggettiva. Oggi siamo propensi come mentalità comune a pensare che un evento è accaduto per come lo si è vissuto. Se si fosse conseguenti una persona potrebbe dichiarare «ho mal di testa» e quindi un’altra iniziare a contraddire dicendo: «per come ti sento io, non hai mal di testa». In realtà perdiamo così di vista il fatto in sé, l’evento. In questo senso la mia domanda punta alla verità innegabile sulla natura di un evento, di qualcosa che è accaduto.   
A proposito di mentalità comune. Nel suo ultimo libro lei punta il dito in particolare contro Rousseau nell’evidenziare gli errori della modernità.
In realtà la mia opinione su Rousseau non è del tutto negativa. In lui indico piuttosto la sintesi dell’uomo moderno, l’esaltazione della soggettività di cui parlavo anche prima. E la stessa figura di Rousseau è percepita soggettivamente. Egli è sia un eroe della rivoluzione sia della controrivoluzione; per qualsiasi lato lo si prenda può essere insignito come paladino. In questo senso Lévi-Strauss, recentemente scomparso, ha giustamente detto che Rousseau è il padre di tutti.
Quindi un modello, ma certamente non un’origine. A quali cause lei fa invece risalire il pensiero moderno?
Gli aspetti sono naturalmente molteplici. Se devo trovare però una radice comune sarei propenso a indicare l’abbandono totale della visione teleologica della realtà, la disillusione dal fatto che la realtà abbia un fine. Questa visione comincia già nel tardo Medioevo. Francis Bacon è il primo ad affermare che il considerare le cose per il loro fine non ci serve assolutamente a nulla. Thomas Hobbes sostiene che conoscere un oggetto significa sapere cosa ne dobbiamo fare se lo possediamo. Di qui è derivato l’abbandono del rapporto contemplativo con la realtà e il conseguente tentativo di dominarla da parte dell’uomo.
La scienza non ha alcun merito?
Tutt’altro. I meriti della scienza e della visione scientifica sono innegabili, hanno alleggerito di molto il lavoro e le sofferenze dell’uomo. Ma la pretesa scientistica di assurgere a unico tipo di conoscenza possibile ha messo da parte un altro tipo di rapporto con la realtà, altrettanto fondamentale.
Per quale motivo lei vede nella Chiesa Cattolica l’unica risposta alle minacce dell’epoca moderna nei confronti dell’umanità?
Bisogna fare chiarezza. Credo che molte persone vivano l’esperienza di un enorme malessere nei confronti del dominio della tecnica, nella perdita di valori e del senso dell’esistenza. Prima abbiamo parlato di Horkheimer. Ebbene io sono totalmente d’accordo con la critica da lui mossa nei confronti dell’Illuminismo, sposo quasi in tutto la sua visione. Il problema è che nel pensiero di Horkheimer non c’è terapia, non c’è soluzione. C’è l’“hotel abisso” a Francoforte, come diceva Ernst Bloch. La critica riguarda solo l’aspetto distruttivo. Il cristianesimo è la risposta non solo perché ipotesi di un altro mondo o di un'altra visione della realtà, ma perché la Verità si è fatta carne. È un fatto di cui la Chiesa rende testimonianza e che rende unica l’esperienza di risposta alle domande dell’uomo.
(Raffaele Castagna)       Da: http://www.ilsussidiario.net/

Postato da: giacabi a 08:00 | link | commenti
ragione, cristianesimo, spaeman, scienza - articoli

sabato, 24 ottobre 2009

Lo scoprire
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Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato.
Albert Szent-Györgyi von Nagyrapolt

Postato da: giacabi a 14:27 | link | commenti
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domenica, 27 settembre 2009

La scienza non può stabilire dei fini ***
La scienza non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici.
Albert Einstein

Postato da: giacabi a 21:43 | link | commenti
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mercoledì, 23 settembre 2009

Il senso religioso
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  Abbiamo una spiegazione per tutto. Abbiamo una scienza per ogni come e una per ogni perché. Eppure qualcosa manca. Le grandi intelligenze del nostro tempo lasciano in calce  ai loro libri, una pagina  bianca: la consapevolezza di una domanda rimasta senza risposta. Chi non riesce  ad annegare  la propria ansia di altro, nell’abitudine del muoversi, del rivaleggiare, del contare  i successi o i fallimenti, sente che qualcosa sfugge. Non c’è risposta plausibile alla disperazione della morte, alla radicale ingiustizia dell’offesa, agli squilibri del dolore e del sopruso, della solitudine e della malattia. Le grandi scienze, la fisica, la matematica offrono informazioni parziali che rinviano a nuovi punti neri. Gli uomini, dopo aver rinunciato alla strada della religione, sentono con chiarezza un deficit di conoscenza e c’è in molti il desiderio di un di più. Infatti sappiamo sempre di più ma questo sapere, non esaudisce alcun definitivo perché. Oggi nessun onesto pensatore vorrà affermare la falsità dell’ipotesi religiosa.  Si limiterà eventualmente a sostenerne l’inutilità. Esplorati alcuni risultati della scienza contemporanea, è lecito chiedersi se oggi non sia più plausibile,cercare oltre i limiti, la risposta ai perché nella riscoperta di Dio  .
 Gaspare Barbiellini  Amidei - La riscoperta di Dio

Postato da: giacabi a 17:46 | link | commenti
senso religioso, scienza - articoli

martedì, 22 settembre 2009

Non fare dell’intelletto il nostro dio
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   In tutte le cose umane, sino ad ora, l’audacia ha avuto sempre l’ultima parola. Ma modificare la natura biologica dell’uomo è ben più grave che sostituire la pittura informale a quella figurativa. Penso che occorrerà ad  ogni modo mostrarsi circospetti nell’accettare frontiere che ci vengono proposte dai Picasso del laboratorio. L’uomo non può giocare con il proprio essere come fa con le creazioni del suo spirito. Io non so e nessuno sa e probabilmente nessuno saprà mai, che cosa è l’uomo. Dobbiamo avere un po’ di riguardo  per questo sconosciuto che è in noi.     
        Jean Rostand I miracoli della biologia

Postato da: giacabi a 21:34 | link | commenti
scienza - articoli


Non fare dell’intelletto il nostro dio
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   La nostra epoca è orgogliosa del progresso che  ha fatto compiere allo sviluppo intellettuale dell’umanità. La ricerca e la lotta per la verità e per la conoscenza sono fra le più alte qualità dell’uomo. Certamente dovremo badare a non fare dell’intelletto il nostro dio. Esso  ha sì dei muscoli potenti, ma nessuna personalità. Esso non può guidare, può solo servire. L’intelletto  ha una vista acuta quanto ai metodi e agli strumenti, ma è cieco quanto ai fini e ai valori. Così non c’è da meravigliarsi che questa fatale cecità sia passata dai vecchi ai giovani e oggi affligga una intera generazione. Il fattore più importante nella formazione dell’esistenza umana è la creazione di un fine: quello di una comunità libera e di essere umani felici che con continuo sforzo interiore, lottino per liberarsi dall’eredità di istinti antisociali e distruttivi
 Albert Einstein ,  Pensieri degli anni difficili

Postato da: giacabi a 21:22 | link | commenti
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venerdì, 28 agosto 2009

La scienza
che non sa spiegare l’uomo ***

| Cultura | Rémi Brague
Pubblicato il giorno: 27/08/09

Il paradosso della scienza odierna è che è sempre più esatta, ma sempre meno interessante. Mi spiego con una distinzione fra tre significati della parola “interessante”.
Il primo significato è quello di ciò che ci fa guadagnare qualcosa. Questo qualcosa può darsi che siano i soldi, come quando si parla dell’interesse di un capitale. Ma quello che guadagniamo può essere più importante, per esempio la felicità, o la stessa esistenza.
Il secondo significato di “interessante” è quello di fascinoso, attraente, avvincente. Un paesaggio o un’opera d'arte sono interessanti, ma questo tipo di interesse non è lo stesso di quello definito in precedenza. Kant, nella sua terza Critica, quella in cui sviluppa la sua estetica, parla del piacere estetico, di ciò che sentiamo davanti al bello, come di un piacere disinteressato .
Il terzo significato di “interessante” è, secondo me, il più autentico. Esso corrisponde a una possibile etimologia. Il verbo latino interesse vuole dire partecipare, essere in mezzo a qualcosa. L’interessante è ciò che si deve attraversare per giungere a se stessi. L’arte al suo apice è interessante. Come esempio, possiamo pensare al teatro. Una commedia può essere molto buffa, può affascinarci, ma non ci dice niente su noi stessi. Non accade lo stesso in una grande tragedia. In questo caso, si può sempre dire: de te fabula narratur, la storia che si racconta è la tua. Quello che si svolge sulla scena non è un oggetto, ma costringe il soggetto a un esame di coscienza. Questo accade quando si leggono la Divina Commedia, il Don Quijote, il Faust, i Fratelli Karamazov, ecc.
Allora, per la concezione pre-moderna della conoscenza, cioè quella antica o medievale, la natura era interessante nel senso più autentico di questa parola. La contemplazione della natura ci insegnava quello che siamo e quello che dobbiamo fare per essere più umani. Lo scrive per esempio Seneca nella prefazione alle sue ricerche di fisica: lo studio dell’astronomia permette all’anima umana di scoprire il suo vero luogo d’origine nei corpi celesti.

Il grande paradosso

Altri dicevano, con il Timeo platonico: dobbiamo imitare l’ordine splendido dei fenomeni celesti per porre ordine anche noi nelle nostre vite.
Questa concezione è irrimediabilmente tramontata. E rimane l’uomo moderno davanti a un grande paradosso: la conoscenza della natura che gli dà la scienza moderna è mille volte più vera e più efficace di quella pre-moderna; ma non è per niente affatto più interessante nel senso che ho appena detto.
La scienza moderna, alleata alla tecnologia che essa rende possibile, è sommamente redditizia. Un solo esempio: la vaccinazione, a cui molti in questo auditorium devono la vita stessa. Questa conoscenza scientifica è anche sommamente affascinante. Si pensi agli spazi dell’infinitamente grande o dell’infinitamente piccolo, a tutto ciò che ci mostra il telescopio o il microscopio, per non parlare di strumenti ancora più precisi.
Tuttavia, questa conoscenza non è interessante. Prendiamo le scoperte che riguardano l’uomo, per esempio quelle della paleontologia o della preistoria, o di tutti i rami dell’antropologia. Tutto questo è affascinante, ma non ci dice niente sui problemi che abbiamo da affrontare nella vita. Non ci dice niente del “senso della vita”. Più semplicemente, benchè ci dica moltissime cose sull’uomo come specie vivente, non dice niente su quello che dice “io”. Non dice nulla di quello che io dovrei fare.
Davanti a questo problema, ci sono due tentazioni opposte:
a) Possiamo conservare la scienza e scordarci del desiderio di capire. Fare come se l’uomo potesse vivere senza la brama di senso. La scienza deve essere l’unica sorgente di verità. Questa tesi non la sostiene la scienza, che non dice niente di sé. La sostiene l’uso ideologico della scienza, secondo cui potremo guarire l’uomo dal desiderio vano di senso. Si produce così una specie di mutilazione.
b) Possiamo conservare il desiderio di senso e scordarci della scienza. Il ritorno a una visione pre-moderna del mondo, superata nel campo della scienza, ma finora presente nel campo del mito. Si produce una specie di schizofrenia: si difende una visione del mondo che sappiamo essere illusoria. Esempio: la Terra era per il mito greco una dea; per la scienza moderna è un pianeta. Dopo la modernità, non possiamo vederla più come una dea. Purtroppo, possiamo illuderci e idolatrare Gaia, la Terra. Questo lo faceva già Auguste Comte, alla fine della sua vita. Chiamava la Terra il “grande feticcio” .
La terza via sarebbe una conciliazione tra la conoscenza scientifica dell’universo e l’interesse vitale. La potremmo cercare nel campo della fede.
Appare interessante che né l’uso ideologico della scienza, né l’illusione del mito, accettano la fede, e specialmente quella cristiana.

Cadute ideologiche

Per l’ideologia scientista, “credere” è soltanto un modo debole o scarso del sapere. Da qui la concezione positivistica della religione come spiegazione primitiva dei fenomeni naturali, una concezione che non corrisponde a quello che ci dice l’etnologia. La visione mitica del mondo non accetta la fede. La fede sa quello che crede. Il mito crede di sapere, o si illude sulla verità di quello che crede. La fede si sviluppa dove abbiamo a che fare con cose interessanti nel senso che ho appena delineato. La fede non si oppone alla ragione; la fede è la ragione che prende come oggetto le sue condizioni di possibilità.
La fede non ci dice nulla sulla costituzione della realtà naturale. Quindi non si muove nello stesso piano della scienza. Per esempio la fede nella creazione non ci dice come è fatto il creato, neppure come venne fatto. Ci lascia liberi di cercare e di costruire modelli di intelligibilità.
Ma ci dice qualcosa di più fondamentale: ci dice che c’è una intelligibilità delle cose. Ci dice che il mondo è immerso in una dimensione di carattere razionale: all’inizio, dice il quarto Vangelo, c’era il Logos, il Verbo, la ragione. Ci dice inoltre che questa intelligibilità si radica in una libertà che è la sorgente della nostra e a cui la nostra libertà può avere accesso, con cui può entrare in dialogo.
 da:libero 27-08-09

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scienza - articoli

mercoledì, 26 agosto 2009

MEETING/
Il Nobel Townes:
dal Laser a Dio, una ricerca accomunata dallo stupore  
***
INT.
mercoledì 26 agosto 2009                            da: http://www.ilsussidiario.net/
Nel 1964 ha vinto il premio Nobel per la fisica, per la scoperta della tecnologia del maser e del più noto laser; nel 2005 gli è stato assegnato il premio Templeton per i suoi contributi sulla tematica del rapporto tra scienza e fede. Tra l’uno e l’altro una catena di altri premi e riconoscimenti nazionali e internazionali. Così si presenta Charles Townes alla platea del Meeting di Rimini, dove interverrà oggi all’incontro clou della giornata sul tema: “L’esperienza umana della scoperta”, insieme con Yves Coppens, professore Emerito al Collège de France, con l’astrofisico John Mather, anch’egli Premio Nobel per la Fisica (nel 2006) e col coordinamento di Marco Bersanelli.
Townes, dall’alto dei suoi 94 anni, è ancora pienamente attivo in campo scientifico tanto che nel giugno scorso è apparso su The Astrophysical Journal Letters un articolo con i risultati dello studio da lui condotto insieme a un gruppo di colleghi e relativo ai cambiamenti di dimensione di Betelgeuse, una supergigante rossa, una delle stelle più luminose del cielo.
È inevitabile, nel suo caso, partire da un richiamo alla grande scoperta che l’ha lanciato, negli anni Cinquanta del secolo scorso, sulla ribalta scientifica internazionale.

Le avranno chiesto più volte di raccontare come è arrivato alla scoperta del maser e poi del laser. Cosa ancor oggi la colpisce di quella esperienza?

L’aspetto più impressionante di questa esperienza è stato avere avuto l’idea. Era l’aprile del 1951 ed ero seduto su una panchina nel Franklin Park di Washington, nell’intervallo di un convegno sulle microonde e cercavo di capire come realizzare degli oscillatori ad alta frequenza. Avevo lavorato su questo problema per molti anni. Avevo provato molte cose, ma nessuna funzionava e non capivo perché. Il problema era complicato, perché, secondo le leggi della termodinamica devi rompere le molecole per avere abbastanza energia e non si poteva disobbedire alla termodinamica. Improvvisamente mi venne un’idea: provare a realizzare una specie di cassa di risonanza per la radiazione prodotta dal salto degli elettroni da un livello energetico più alto a uno più basso. Riflettendo la radiazione, si poteva innescare una emissione con una lunghezza d’onda costante. Era l’idea del maser (Microwave Amplification by Stimulated Emission Radiation). Tirai fuori dalla tasca un pezzo di carta, scrissi alcune equazioni e mi resi conto che avrebbe potuto funzionare. Pochissime persone però erano convinte di questo: io avevo uno studente e un post-doc che lavoravano al sistema cercando di farlo partire. Dopo due anni, il direttore del dipartimento entrò nel mio ufficio dicendo: questo non funzionerà… lo sai, vero? Ma solo due mesi dopo avevamo il primo prototipo: a questo punto tutti volevano lavorare con noi e diventò molto interessante sia in ambito accademico che in ambito industriale.

E per arrivare al laser?

A questo punto iniziai a studiare come raggiungere lunghezze d’onda più corte: ho scritto le equazioni e mi sono reso conto che si potevano raggiungere le lunghezze d’onda visibili. Il mio primo obiettivo era operare sulle alte frequenze, ma ho iniziato con le microonde perché era la strada più semplice: fin dal principio, volevo usare questo strumento per la spettroscopia ottica. Con la spettroscopia delle microonde, avevamo ottenuto risultati estremamente precisi, per cui volevo muovermi nell’ambito del visibile. Allora ero un consulente ai Bell Telecom Laboratories, dove lavorava anche mio cognato, Arthur Schawlow, che era stato mio studente e decise di aiutarmi in questa impresa. Schawlow ebbe l’idea di usare due specchi paralleli per riflettere la radiazione avanti e indietro (io avevo pensato di usare una cavità quadrata). Il fatto interessante, che mostra come le idee nuove non sempre vengono accettate, è che ho proposto ai Bell Laboratories di brevettare l’invenzione: ci hanno risposto che non erano interessati, perché la luce non era mai stata usata nelle telecomunicazioni (“potete brevettarlo per voi stessi, se siete interessati”). Per il brevetto, il laser venne denominato “maser ottico” (il maser era una tecnica molto nota ormai). Sapevo che se avessi iniziato a lavorare sul sistema, moltissime persone avrebbero tentato di competere con me: quando avevo costruito il maser, nessun altro era interessato, per cui avevamo potuto prenderci tutto il tempo necessario. Per questo motivo, io e Schawlow decidemmo di scrivere un articolo teorico su come costruire un maser ottico e molti gruppi furono entusiasti all’idea di lavorare in questa direzione. I primi laser vennero tutti costruiti in ambito industriale.

Gli studi che hanno portato al laser sono stati importanti solo per le applicazioni tecnologiche più note o ci fanno capire meglio qualche aspetto del comportamento della natura?

Mi sono reso conto che il laser sarebbe stato importante in moltissimi modi: per misurare distanze, per misurare linee rette, per tagliare e saldare (era uno strumento molto potente, con un’altissima concentrazione di energia). Ma non fui capace di riconoscere le molteplici applicazioni mediche del laser: per curare gli occhi, per esempio. Moltissime scoperte scientifiche sono state ottenute tramite l’uso del laser e questo era il motivo per cui l’avevo inventato, per studiare problemi scientifici. Finora, una dozzina di premi Nobel sono stati attribuiti a ricerche effettuate con questa mia invenzione, che comprendono importantissimi contributi in diversi ambiti della scienza, specialmente dove sono necessarie misure di altissima precisione o misure spettrali.

Papa Benedetto XVI nel messaggio inviato a questo Meeting 2009 ha parlato del coinvolgimento personale con l’oggetto conosciuto come conditio sino qua non per la conoscenza, contro l’idea di una astratta oggettività. Quanto conta la passione nella scoperta scientifica?

La passione e l’interesse sono importantissimi per fare delle scoperte: per essere un buono scienziato, devi essere molto interessato. Fare scienza è affascinante e divertente, mi piace raccontare che io non ho mai lavorato nella mia vita: faccio ricerca e mi diverto un sacco. Da sempre faccio le cose che mi piacciono: ho seguito il mio interesse per le lunghezze d’onda corte e ho lavorato su questo problema in diversi modi, finché ho avuto l’idea giusta.

Qual è stata la sua reazione all’annuncio che le avevano assegnato il premio Templeton? Le era già capitato di esprimere pubblicamente la sua posizione di credente?

Fui molto felice e orgoglioso di ricevere il Premio Templeton. Sono molto interessato alle idee religiose e penso che la religione sia molto importante per tutti gli esseri umani. Credo in Dio e credo che la spiritualità sia molto importante per me. Nello stesso anno del conferimento del Nobel, fui invitato dal Men’s Bible study Group del Manhattan’s Riverside Church (vicino a Columbia) a parlare del rapporto tra scienza e religione. Ero stato selezionato perché ero l’unico scienziato da loro conosciuto che andava regolarmente in chiesa. Sulla base di questa prima conferenza sul rapporto fra scienza e religione, nel 1966 scrissi l’articolo La convergenza tra scienza e religione, che venne pubblicato sull’IBM Journal Think e, in seguito, sul Massachuttes Institute of Technology (MIT) Alumni Journal e in molte altre pubblicazioni, in cui mi dichiaravo sostenitore dell'affinità tra le due discipline. Sono stato uno dei primi scienziati a parlare pubblicamente del rapporto fra scienza e religione in termini positivi.

Cos’hanno detto i suoi colleghi quando hanno saputo che lei è un devoto cristiano?

In realtà ci sono molti più scienziati credenti di quanto si pensi. Certamente alcuni dei miei colleghi pensavano che fossi pazzo: mi tolleravano ma pensavano che fossi un po’ pazzo.

In questi anni è cambiata la posizione degli scienziati sul possibile costruttivo dialogo tra scienza e fede?

Penso che quello che ho detto e scritto abbia contribuito, in questi anni, a migliorare questa situazione: gli scienziati cercano di avere una mentalità molto più aperta verso la religiosità e c’è un dialogo molto costruttivo in entrambe le direzioni.

Quando la interrogano sulla sua esperienza di scienziato credente, su quali punti preferisce soffermarsi?

La religione è stata molto importante nella mia vita. Sono sempre stato ispirato e guidato dalla religione. La religione mi ha aiutato a capire meglio la scienza? È difficile da dire, non lo so ma credo di sì. Certamente la religione mi ha offerto un punto di vista, una posizione circa il modo di lavorare e così via. Ha formato e influenzato la mia vita in moltissimi modi: certamente nella mia famiglia, ma sicuramente anche nel come faccio scienza. E mi ha insegnato a sostenere le mie idee, mi ha dato il coraggio di essere me stesso quando la gente mi dice che ho torto: devo credere a quello che penso, non a quello che mi dicono. Mi ha insegnato a rischiare per le mie idee, quando altra gente non era d’accordo con me.

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scienza - articoli

domenica, 17 maggio 2009

Fede fra ragione e sentimento
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1. La crisi della fede nel mondo contemporaneo
Nei suoi dialoghi «sulla fìsica atomica» Werner Heisenberg racconta di un incontro che ebbe luogo nel 1927 a Bruxelles con alcuni giovani fisici, al quale oltre allo stesso Heisenberg partecipavano anche Wolfgang Pauli e Paul Dirac. Si venne a parlare del fatto che Einstein faccia spesso menzione di Dio e che Max Planck sia dell’idea che non esista nessun contrasto tra scienza e religione; entrambe sarebbero – ciò che allora era un concetto abbastanza sorprendente – molto ben conciliabili fra loro. Heisenberg interpretava questa nuova apertura dello scienziato alla religione a partire dalle esperienze della propria casa paterna. Al fondo vi è la concezione che nella scienza e nella religione si tratti di due sfere completamente diverse, senza interferenze reciproche: nella scienza si tratta del vero o del falso; nella religione del buono e del cattivo, di ciò che ha valore o non ha valore. I due ambiti vengono riferiti separatamente all’aspetto oggettivo e a quello soggettivo del mondo. «La scienza è per così dire il modo, con cui noi affrontiamo la dimensione obiettiva della realtà... La fede religiosa è invece l’espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo per noi i valori, secondo i quali ci regoliamo nella vita»[1]. Questa decisione avrebbe naturalmente diversi presupposti nella storia e nella cultura, nell’educazione e nell’ambiente, ma sarebbe – Heisenberg descrive ancora sempre l’immagine del mondo dei suoi genitori e quella di Max Planck – in ultima analisi soggettiva e pertanto non esposta al criterio «vero o falso». Planck si sarebbe in questo modo deciso soggettivamente per il mondo dei valori cristiani; i due ambiti – aspetto oggettivo e soggettivo del mondo – rimanevano però accuratamente distinti. A questo punto Heisenberg aggiunge: «Devo confessare che a me questa separazione è causa di disagio. Dubito che comunità umane possano vivere a lungo con questa netta spaccatura fra scienza e fede»[2]. A questo punto prende la parola Wolfgang Pauli e rafforza il dubbio di Heisenberg, elevandolo addirittura a certezza: «La totale separazione fra scienza e fede è certamente un espediente per un tempo molto limitato. Nell’ambiente culturale occidentale ad esempio in un futuro non troppo lontano potrebbe giungere il momento, in cui le metafore e le immagini della religione finora dominante non avranno più nessuna forza di convinzione neppure per la gente semplice; allora, così temo, anche l’etica finora vigente crollerà in brevissimo tempo ed accadranno cose di un’atrocità, che oggi noi non ci possiamo ancora neppure immaginare» [3].
Nel frattempo il crollo delle antiche certezze religiose che allora, 70 anni fa, si stava solo preannunciando è divenuto ampiamente realtà, ed il timore di un crollo ad esso inevitabilmente connesso dell’etica intera diviene più forte e generale.
Non vorrei qui soffermarmi ulteriormente a descrivere come Heisenberg con i suoi amici tanto nel dialogo del 1927 come in uno analogo del 1952, tenti di aprire una via per uscire da questa schizofrenia della modernità, cerchi a partire da un pensiero scientifico che si interroga sui suoi fondamenti di giungere ad una visione generale ed organica, che divenga punto di riferimento del nostro agire e allo stesso tempo appartenga sia all’ambito soggettivo che oggettivo [4]. Infatti questo è il problema, che il tema di questa conferenza pone.
Cerchiamo pertanto innanzitutto di riassumere e di precisare che cosa è emerso fino ad ora. L’illuminismo aveva perseguito l’ideale della «religione all’interno dei confini della ragion pura». Ma questa religione della ragione pura si è presto sgretolata, e soprattutto non aveva nessuna forza che sostenesse la vita: una religione, che deve diventare la forza portante per tutta la vita, necessita infatti di una certa evidenza. La decadenza delle antiche religioni come la crisi del cristianesimo nell’epoca moderna rivelano questo: quando la religione non può più armonizzarsi con le certezze elementari di una determinata visione del mondo, essa si dissolve. Ma d’altra parte la religione ha bisogno di un’autorevolezza, che vada al di là di ciò che si può pensare da se stesso, infatti solo così è accettabile l’istanza assoluta, che essa pone agli uomini. Così dopo la fine dell’illuminismo a partire dalla consapevolezza dell’irrinunciabilità della dimensione religiosa si è andati alla ricerca di un nuovo spazio per la religione, nel quale essa al riparo per così dire dalle continue scoperte della ragione, doveva poter vivere in una costellazione non più raggiungibile, da quella non minacciata. Perciò le si era attribuito il «sentimento» come l’ambito dell’esistenza umana ad essa proprio. È divenuta classica la risposta di Faust alla domanda di Margherita sulla religione: «Il sentimento è tutto. Il nome è suono e fumo...». Ma la religione, per quanto sia anche necessaria la sua distinzione dal piano della scienza, non si può ridurre ad un ambito particolare. Essa esiste proprio per questo, per integrare l’uomo nella sua totalità, per unire reciprocamente in modo organico sentimento, ragione e volontà e per dare una risposta alla provocazione della totalità, alla sfida della vita e della morte, della comunità e dell’io, del presente e del futuro. Non deve avere la presunzione di risolvere quei problemi, che hanno le loro proprie leggi interne, ma deve rendere capaci di decisioni ultime, nelle quali è in gioco sempre la totalità dell’uomo e del mondo. E proprio di qui deriva in verità la nostra situazione di difficoltà, dal fatto che oggi dividiamo il mondo in modo settoriale e così in un modo finora mai visto possiamo disporne nel pensiero e nell’azione, ma gli interrogativi non rinviabili circa la verità ed i valori, circa la vita e la morte diventano così sempre più irresolubili.
La crisi dell’epoca presente deriva proprio dal fatto che è venuta meno la mediazione fra l’ambito soggettivo e quello oggettivo, ragione e sentimento si allontanano sempre più l’uno dall’altra e così perdono entrambi di vigore e di vitalità. Infatti la ragione settorialmente specializzata è sì incredibilmente forte e capace di risultati, ma a motivo della standardizzazione di un unico tipo di certezza e di ragionevolezza non permette più uno sguardo che penetri le questioni fondamentali dell’essere umano. Ne segue un’ipertrofia nell’ambito della conoscenza tecnico-pragmatica, alla quale si contrappone un’atrofizzazione nell’ambito delle questioni di fondo e così un disturbo dell’equilibrio generale, che può divenire mortale per l’umanità. Da parte sua per altro la religione oggi non è affatto scomparsa. Esiste anzi da molteplici punti di vista un aumento della richiesta religiosa, che però si sgretola nel particolarismo, si distacca dal suo grande contesto spirituale e, invece di innalzare l’uomo, gli promette un aumento di potere e una soddisfazione di bisogni. L’irrazionale, il superstizioso, il magico viene ricercato; incombe la minaccia di un ritorno a forme anarchico-distruttrici di interazione con potenze e forze occulte. Si potrebbe essere tentati di dire che oggi non vi è nessuna crisi della religione, ma piuttosto una crisi del cristianesimo. Io però non sarei d’accordo. Infatti il semplice diffondersi di fenomeni religiosi o parareligiosi non è ancora una fioritura della religione. Quando si assiste ad un aumento di forme morbose del fenomeno religioso, ciò dimostra sì che la religione non va scomparendo, ma rivela che essa è di fatto in una condizione di seria crisi. Anche il fenomeno apparente, secondo cui al posto del cristianesimo ormai allo stremo siano ora in ascesa le religioni asiatiche o l’Islam, inganna. È evidente che in Cina e in Giappone le grandi religioni tradizionali non riescono a fare fronte o solo in modo insufficiente alla pressione delle ideologie moderne. Ma anche la vitalità religiosa dell’India non toglie nulla al rilievo, che anche là non è finora riuscito un felice incontro fra i nuovi problemi e le antiche tradizioni. Quanto il nuovo slancio del mondo islamico sia nutrito da forze autenticamente religiose, resta ugualmente da chiederselo. Sotto molti aspetti – lo vediamo – è in agguato anche qui la minaccia di un’autonomizzazione patologica del sentimento, che rafforza soltanto la minaccia di quelle atrocità, di cui Pauli, Heisenberg ed altri ci hanno parlato.

Non c’è alternativa: ragione e religione devono ritornare insieme, senza dissolversi l’una nell’altra. Non è in questione la tutela degli interessi di antiche corporazioni religiose. È in questione l’uomo, è in questione il mondo. Ed entrambi non sono evidentemente salvabili, se Dio non si rende visibile in un modo convincente. Nessuno può avere la presunzione di conoscere una soluzione perfetta, per come risolvere questa situazione di difficoltà. Questo non è possibile già per il fatto che in una società libera la verità non può e non deve cercare altri mezzi per affermarsi se non la forza della convinzione, ma la convinzione si forma solo a fatica nella molteplicità delle impressioni e delle istanze che premono sugli uomini. Un tentativo di trovare la via d’uscita deve però essere fatto, anche per ridare plausibilità, attraverso convergenze che si manifestano, a ciò che per lo più si trova molto al di là dell’orizzonte dei nostri interessi.

2. Il Dio di Abramo
Non è mia intenzione riprendere qui il tentativo di Heisenberg di trovare a partire dalla logica propria del pensiero scientifico l’autosuperamento della scienza e l’approdo ad una «visione generale ed organica», per quanto utile e indispensabile tale ricerca sia. Il mio tentativo in questa conferenza tende a mettere in luce, per così dire, l’interiore razionalità del fatto cristiano. Questo si realizzerà nel senso che ci chiederemo che cosa ha propriamente dato al cristianesimo nel crollo delle religioni del mondo antico quella forza di convinzione, per cui esso da una parte ha arrestato l’affondare di quel mondo e allo stesso tempo fu in grado di trasmettere in tal modo le sue risposte alle nuove forze che stavano entrando sulla scena della storia del mondo, i germani e gli slavi, che di qui nonostante molte trasformazioni e crolli è nata una forma di comprensione della realtà che è durata oltre un millennio e mezzo, nel quale antico e nuovo mondo poterono fondersi.
Cercherò quindi di mostrare brevemente l’interiore razionalità del cristianesimo. Ma la religione cristiana non è un sistema, è una storia, un cammino. L’essenza del cristianesimo appare solo nella logica del suo cammino storico. Perciò cercherò di mostrare la logica, che si dischiude nell’evolgersi storico della fede, sperando che così appaia una razionalità profonda, che ha il suo valore anche oggi, proprio oggi. Quel cammino che ebbe il suo inizio con Abramo. Naturalmente non posso e non intendo qui entrare nel groviglio delle molteplici ipotesi circa ciò che negli antichi racconti può essere considerato come storico e ciò che non può esserlo. Qui si tratta solo di chiedersi come vedono quel cammino quei testi stessi che alla fine sono stati decisivi per la storia.
Chi era quest’uomo Abramo, al quale si riferiscono ebrei, cristiani, musulmani? Qui vi è allora da dire che Abramo era un uomo, che aveva la consapevolezza di essere stato interpellato da un Dio e che conformò la sua vita a partire da questa parola. Si potrebbe pensare per qualcosa di simile a Socrate, al quale un «daimonion», una singolare forma di ispirazione, pur non rivelando di fatto niente di positivo, tuttavia sbarrava la strada, se egli voleva abbandonarsi solo alle sue proprie idee o accodarsi all’opinione generale [5]. Quale interesse può avere per noi questo Dio di Abramo? Questo Essere, che parla ad Abramo, non si presenta ancora con la precisa fisionomia monoteistica dell’unico Dio di tutti gli uomini e di tutto il mondo, ma ha però una fisionomia molto specifica. Questo Essere, questa voce non è il Dio di una determinata nazione, di un determinato territorio; non il Dio di un determinato ambito, ad esempio dell’aria o dell’acqua, ecc., che nel contesto religioso di allora erano alcune delle più importanti forme di manifestazione del divino. Egli è il Dio di una persona, e cioè di Abramo. Questa particolarità di non appartenere ad una terra, ad un popolo, ad un ambito vitale, ma di associarsi ad una persona, ha due conseguenze degne di menzione.

La prima conseguenza era che questo Essere, questo Dio può esercitare ovunque il suo potere in favore di colui che gli appartiene, della persona da lui eletta. Il suo potere non è vincolato a determinati limiti geografici o di altro tipo, ma egli può accompagnare, proteggere, guidare quella persona, ovunque egli vuole e ovunque questa persona si rechi. Anche la promessa della terra non lo rende il Dio di un territorio, che poi diverrebbe quello soltanto suo. Essa mostra piuttosto che egli può distribuire terre, come vuole. Possiamo quindi dire: II Dio-di-una-per-sona opera prescindendo dal luogo. A ciò si aggiunge come secondo elemento che egli opera anche transtemporalmente, anzi, la sua forma di parlare e di agire è essenzialmente il futuro. La sua dimensione sembra – a prima vista in ogni caso –principalmente essere il futuro, e meno il presente. Tutto l’essenziale è dato nella categoria della promessa di ciò che verrà – la benedizione, la terra. Ciò significa che manifestamente egli può disporre del futuro, del tempo. Per la persona interessata ciò comporta un atteggiamento di forma del tutto particolare. Essa deve sempre vivere al di là del presente, una vita verso qualcosa di altro, di più grande. Il presente viene relativizzato. Se infine – questo potrebbe essere un terzo elemento – si indica la proprietà particolare di un Dio, il suo essere altro rispetto agli altri e all’altro con il concetto di «santità», allora diviene visibile che questa sua santità, il suo essere stesso ha qualcosa a che fare con la dignità dell’uomo, con la sua integrità morale, come la storia di Sodoma e Gomorra mostra. In essa viene messa in luce da una parte la provvidenza, la bontà di questo Dio, che a motivo di alcuni buoni è disposto anche a risparmiare i cattivi; ma viene messo in luce anche il no alla distruzione della dignità umana, che si esprime proprio nel giudizio sulle due città.

3. Crisi e allargamento della fede di Israele nell’esilio
Nello sviluppo successivo fino all’alleanza delle dodici tribù, con l’occupazione della terra, la nascita della monarchia, la costruzione del tempio ed una legislazione cultuale ampiamente differenziata la religione di Israele sembra immergersi largamente nel modello religioso del vicino Oriente. Il Dio dei padri, il Dio del Sinai, è ora divenuto il Dio di un popolo, di una terra, di un determinato ordinamento di vita. Che questo non sia tutto, che qualcosa di specifico resti e che in tutti i mutamenti della vita religiosa in Israele la particolarità, la diversità della sua fede in Dio si apra un varco, anzi si ampli ulteriormente, si rivela nel momento dell’esilio. Normalmente un Dio che perde la sua terra, lascia il suo popolo sconfitto e non è stato in grado di difendere il suo santuario, è un Dio detronizzato. Non ha più nulla da dire. Scompare dalla storia. Nell’esilio di Israele sorprendentemente avviene il contrario. Emerge la grandezza di questo Dio, la sua totale alterità rispetto alle divinità delle altre religioni, la fede di Israele acquista soltanto ora la sua vera grandezza. Questo Dio può permettersi di lasciare ad altri la sua terra, perché non è legato a nessuna terra. Può lasciare che il suo popolo sia vinto, per risvegliarlo proprio così dai suoi falsi sogni religiosi. Non dipende da questo popolo, ma non lo lascia affondare nella sconfitta. Non dipende dal tempio e dal culto ivi celebrato, secondo quella che è la concezione comune: gli uomini nutrono gli dei, e gli dei sostengono il mondo. No, non ha bisogno di questo culto, che celava sotto un certo aspetto la sua essenza. Così insieme ad una approfondita immagine di Dio si fa luce anche una nuova idea di culto. Certamente già dal tempo di Salomone si era verificata l’equiparazione del Dio personale dei padri con il Dio di tutti, il creatore, che tutte le religioni conoscono, ma generalmente escludono dal culto come Dio non competente per le proprie necessità. Questa identificazione compiutasi in linea di principio, anche se fino allora nella coscienza verosimilmente poco efficace diviene ora la forza della sopravvivenza: Israele non ha un Dio particolare, ma adora semplicemente l’unico Dio esistente. Questo Dio ha parlato ad Abramo ed ha scelto Israele, ma in realtà egli è il Dio di tutti i popoli, il Dio comune, che guida tutta la storia. Ne consegue la purificazione dell’idea di culto. Dio non ha bisogno di nessun sacrificio, egli non deve essere mantenuto dagli uomini, perché tutto gli appartiene. Il vero sacrificio è l’uomo che è divenuto conforme al piano di Dio. 300 anni dopo l’esilio, nella crisi altrettanto grave della soppressione ellenistica del culto del tempio, il libro di Daniele così si esprime: «Ora non abbiamo più né principe né profeta..., né sacrificio, né oblazione... né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato» (Dn 3,38s). Con il venir meno di un presente conforme alla potenza e alla bontà di Dio emerge anche nuovamente in modo più forte la dimensione del futuro nella fede di Israele, ovvero diciamo forse meglio: si fa strada la relativizzazione del presente, che può essere correttamente padroneggiata e compresa solo in un orizzonte più ampio, che superi il momento attuale, anzi tutto quanto il mondo.

4. Il cammino verso la religione universale dopo l’esilio
I 500 anni dopo l’esilio fino all’arrivo di Cristo sono caratterizzati soprattutto da due fattori nuovi. Vi è innanzitutto il nascere della cosiddetta letteratura sapienziale e il movimento spirituale che è alla sua base. Accanto alla legge ed ai profeti, dai cui libri lentamente cominciò a formarsi un canone delle Scritture come normativo della religione di Israele, appare un terzo pilastro - appunto la sapienza [6]. Essa viene dapprima influenzata soprattutto dalle tradizioni sapienziali egiziane, ma poi lascia trasparire sempre più anche i contatti con la cultura greca. Qui viene soprattutto approfondita la fede in un solo Dio e radicalizzata la critica degli idoli, che già si manifestava presso i profeti. Il monoteismo viene ulteriormente chiarito e guadagna in forza razionale attraverso il collegamento con il tentativo di una comprensione razionale del mondo. L’elemento di unione fra la concezione di Dio e la spiegazione del mondo viene trovato nel concetto di sapienza. La razionalità, che si manifesta nella struttura del mondo, viene compresa come un riflesso della sapienza creatrice, dalla quale esso deriva. La visione della realtà, che ora si va formando, corrisponde press’a poco alla questione, che formula Heisenberg nei dialoghi sopramenzionati, quando dice: «È dunque completamente insensato pensare dietro alle strutture ordinanti del mondo nel suo insieme una "coscienza", di cui esso sarebbe lo "scopo"?» [7]. Nel dibattito contemporaneo sul rapporto fra natura e spirito, in particolare nell’uomo, viene sollevata la questione della unità della realtà e la questione delle origini. La scienza suppone oggi la priorità della materia come origine di tutto; rimane tuttavia la domanda: il fenomeno spirito è riducibile totalmente alla materia o si deve rilevare una sporgenza inspiegabile? [8] Se la priorità della materia determina oggi il modo di porre la questione, nella riflessione della sapienza biblica e greca si trova la posizione opposta: Si suppone la priorità dello spirito, che lo spirito sia in condizione di suscitare la materia e sia da considerare come il vero punto di partenza della realtà; resta quindi il problema inverso: Esiste eventualmente una sporgenza oscura, che non si lascia più ricondurre allo spirito creatore? La domanda deve essere ammessa se una tale visione ha di per sé meno verosimiglianza della visione moderna formulata in modo radicale da Monod, il quale dice: Tutto il concerto della natura è il risultato di stonature, non suppone nessuna razionalità precedente [9]. La visione dei libri sapienziali vede il mondo come riflesso della razionalità del creatore e permette così anche la connessione di cosmologia e antropologia, di comprensione del mondo e di moralità, perché la sapienza, che edifica la materia ed il mondo, è allo stesso tempo una sapienza morale, che indica le direzioni essenziali dell’esistenza. Tutta quanta la Torah, la legge di vita di Israele, viene ora concepita come autorappresentazione della sapienza, come la sua traduzione in discorso ed in indicazioni umane. Da tutto questo scaturisce una evidente vicinanza con la cultura greca, da una parte con i motivi del platonismo, dall’altra con la connessione stoica di spiegazione divina del mondo e morale.

La questione della sporgenza del non divino, dell’irrazionale nel mondo, che abbiamo prima toccato, assume nella letteratura sapienziale con la questione della teodicea la forma di una lotta drammatica: il grande tema diviene l’esperienza del dolore nel mondo - di un mondo, nel quale il diritto, il bene, la verità perdono continuamente di fronte alla mancanza di scrupoli dei potenti. Questo comporta a partire ora da un punto di vista totalmente altro un approfondimento della morale, che si distacca dal problema del successo e cerca un senso proprio nella sofferenza, nella sconfitta della giustizia. Alla fine appare in Giobbe al di fuori dei confini di Israele la figura del pio esemplare ed allo stesso tempo del sofferente esemplare [10].
All’avvicinamento inferiore al mondo culturale greco, al suo illuminismo ed alla sua filosofia, corrisponde quindi logicamente un secondo passo importante: il trapasso del giudaismo nel mondo greco, che si è compiuto soprattutto in Alessandria come luogo centrale dell’incontro delle culture. L’evento più importante in questo processo fu la traduzione dell’Antico Testamento in greco, il cui blocco fondamentale - i cinque libri di Mosè - era già completato nel terzo secolo avanti Cristo. Fino al primo secolo si formò quindi un canone greco dei libri sacri, che fu assunto dai cristiani come il loro canone dell’Antico Testamento [11]. La denominazione di questa traduzione greca della Bibbia veterotestamentaria come «Septuaginta» (libro dei 70) si fonda sull’antica leggenda, secondo cui la traduzione sarebbe stata l’opera di 70 sapienti. 70 secondo Dt 32,8 era il numero dei popoli del mondo. Così questa leggenda potrebbe significare che con questa traduzione l’Antico Testamento esce da Israele e giunge ai popoli della terra. Ciò fu di fatto l’effetto di questo libro, che nella sua traduzione sotto molti aspetti accentuò ulteriormente il tratto universalistico nella religione d’Israele - non da ultimo nell’immagine di Dio, se ora il nome divino JHWH non appare come tale, ma viene sostituito dalla parola Kyrios - Signore. Così la concezione spirituale di Dio dell’Antico Testamento viene ulteriormente approfondita, ciò che era del tutto conforme all’orientamento interno dello sviluppo sopra accennato.

La fede d’Israele, come si rispecchiava nei suoi libri sacri, ora tradotti in greco, divenne immediatamente elemento affascinante per lo spirito illuminato degli antichi, le cui religioni dopo la critica socratica avevano perduto sempre più la loro credibilità. Nel mondo ellenistico, accanto a correnti di cinismo o puro pragmatismo, era emersa la nostalgia di una religione compatibile con la nuova razionalità che nondimeno superasse le possibilità proprie della ragione. Così da una parte si va alla ricerca delle promesse dei culti misterici, che giungono dall’Oriente, dall’altra la fede giudaica appare come la risposta attesa. Qui, nella fede giudaica presentata nell’Antico Testamento, vi è infatti un collegamento fra Dio ed il mondo, fra razionalità e rivelazione, che rispondeva esattamente ai postulati della ragione ed al più profondo anelito religioso. Qui vi è il monoteismo, che non deriva da speculazione filosofica restando quindi religiosamente privo di efficacia, perché non si possono adorare le proprie ipotesi fìlosofiche. Questo monoteismo proviene da esperienze religiose originarie e conferma ora dall’alto, per così dire, ciò che il pensiero aveva cercato a tentoni. La religione di Israele deve aver avuto per i circoli più eletti della tarda antichità un fascino analogo a quello, che il mondo della Cina ebbe nel tempo dell’illuminismo per l’Europa occidentale, quando si pensava (a torto, come oggi sappiamo) di aver finalmente trovato una società senza rivelazione e misteri, una religione della morale e della ragione pura. Così si era formata in tutto il mondo antico una rete di cosiddetti timorati di Dio, che si appoggiavano alla Sinagoga ed al suo puro culto della Parola, consapevoli nell’appoggiarsi alla fede di Israele di essere in contatto con l’unico Dio. Questa rete di timorati di Dio secondo la fede di Israele divenuta greca fu il presupposto della missione cristiana: il cristianesimo fu quella figura del giudaismo allargatasi all’universale, nella quale era ora pienamente donato quanto l’Antico Testamento non era finora riuscito a dare.

5. Cristianesimo come sintesi di fede e ragione
La fede di Israele rappresentata nella Settanta manifestava la consonanza di Dio e mondo, di ragione e mistero. Dava indicazioni morali, ma nondimeno qualcosa mancava: il Dio universale era pur sempre legato ad un determinato popolo; la morale universale era collegata con forme di vita molto particolari, che non potevano affatto essere vissute al di fuori di Israele; il culto spirituale era pur sempre legato a rituali del tempio, che si potevano interpretare in modo simbolico, ma che in fondo erano stati superati dalla critica profetica e non erano più appropriabili per lo spirito critico. Un non giudeo poteva sempre solo collocarsi in un cerchio esterno di questa religione. Rimaneva «proselita», perché la piena appartenenza era collegata alla discendenza di sangue da Abramo, ad una comunità etnica. Restava anche il dilemma di quanto ora in realtà lo specifico giudaico era necessario per poter servire questo Dio correttamente ed a chi spettava tracciare i confini fra l’irrinunciabile e ciò che era storicamente accidentale o superato. Una piena universalità non era possibile, perché non era possibile una piena appartenenza. Solo il cristianesimo ha portato qui il superamento delle frontiere, ha «abbattuto il muro» (Ef 2,14), e questo in un triplice senso: i legami di sangue con il padre della stirpe non sono più necessari, perché l’unione con Gesù opera la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini devono essere ammessi e poter diventare il suo popolo. Gli ordinamenti particolari del diritto e della morale non obbligano più; sono divenuti una prefigurazione storica, perché nella persona di Gesù Cristo tutto è stato riassunto e chi lo segue, porta ed adempie in sé tutta l’essenza della legge. L’antico culto è decaduto e superato nell’autodonazione di Gesù a Dio e agli uomini, che ora si manifesta come il vero sacrificio, come il culto spirituale, nel quale Dio e uomo si abbracciano e vengono riconciliati, e per tutto ciò sta come reale ed in ogni tempo presente certezza la Cena del Signore, l’Eucaristia. Così il movimento spirituale, che era riconoscibile nel cammino di Israele, era giunto al suo scopo, la universalità senza limitazioni era ora possibilità pratica. Ragione e mistero si incontravano; proprio l’unificazione del tutto in un’unica persona aveva aperto le porte per tutti: a partire dall’unico Dio tutti gli uomini possono essere fratelli. Ed anche il tema della speranza e del presente assume una nuova forma: il presente va verso il risorto, verso un mondo, nel quale Dio sarà tutto in tutti. Ma proprio a partire di qui anche come presente esso diviene significativo e importante, perché esso ora è già impregnato della vicinanza del risorto e la morte non ha più l’ultima parola.
6. Alla ricerca di una nuova evidenza
Può questa evidenza, che allora colpì in modo così profondo e trasformò il mondo antico, essere nuovamente ripristinata? Oppure essa è irrimediabilmente perduta? Che cosa le è di ostacolo? Vi sono molte cause della sua attuale decadenza, ma direi che la più importante consiste nell’autolimitazione della ragione, che paradossalmente si fonda sui suoi successi: le norme metodologiche, che hanno permesso il suo successo, con la loro generalizzazione sono divenute una prigione. Le scienze della natura, che hanno costruito il nuovo mondo, si fondano su di una base filosofica, che ultimamente è da ricercare presso Platone [12]. Copernico, Galilei, anche Newton erano platonici. Il loro presupposto di fondo era che il mondo è strutturato matematicamente, spiritualmente e che lo si può decifrare e rendere comprensibile e utilizzabile nell’esperimento a partire da questo presupposto. La novità consiste nell’unione di platonismo ed empiria, di idea ed esperimento. L’esperimento si fonda su di una precedente idea interpretativa, che poi nella prova pratica viene esplorata, corretta e dischiusa per ulteriori problemi. Solo questa anticipazione matematica permette poi generalizzazioni, la conoscenza di leggi, che rendono possibile un’adeguata azione. Tutto il pensiero scientifico e tutte le applicazioni tecniche si fondano sul presupposto che il mondo è ordinato secondo leggi spirituali, porta in sé uno spirito, che può essere riprodotto dal nostro spirito. Ma nello stesso tempo la sua percezione è collegata alla verifica tramite l’esperienza. Ogni pensiero, che non tenesse conto di questa connessione, e considerasse resistenza di uno spirito in se stesso o che preesiste al mondo presente, contraddice la disciplina metodica della scienza ed è pertanto ostracizzato come forma di pensiero prescientifica, non scientifica. Il Logos, la sapienza, della quale da una parte i Greci, dall’altra Israele hanno parlato, è ridotta nel mondo materiale e non più rintracciabile al di fuori di esso. All’interno del cammino specifico della scienza della natura questa limitazione è giusta e necessaria. Se però essa viene proclamata come forma insuperabile del pensiero umano, il fondamento stesso della scienza diviene contraddittorio. Infatti essa allo stesso tempo afferma e nega lo spirito. Soprattutto però una ragione così autolimitantesi è una ragione amputata. Se l’uomo non può più interrogarsi ragionevolmente sulle cose essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo destino, su quello che deve e può fare, sulla vita e sulla morte, ma deve lasciare questi problemi decisivi ad un sentimento separato dalla ragione, allora egli non innalza la ragione, ma le toglie dignità. La disintegrazione dell’uomo, così introdotta, fa insorgere allo stesso tempo la patologia della religione e la patologia della scienza. Che oggi nella separazione della religione dalla responsabilità davanti alla ragione si producano in misura crescente forme patologiche di religione, è manifesto. Ma se si pensa a progetti scientifici spregiativi dell’uomo come la clonazione di uomini, la produzione di feti, cioè di esseri umani allo scopo di utilizzare gli organi per la produzione di prodotti farmaceutici o anche semplicemente per utilizzazioni commerciali o anche se ricordiamo la strumentalizzazione della scienza per la produzione di mezzi di distruzione dell’uomo e del mondo sempre più spaventosi, allora è evidente che esiste anche una scienza che è divenuta patologica: la scienza diviene patologica e pericolosa per la vita, laddove essa si distacca dal contesto dell’ordine morale dell’essere umano e riconosce soltanto ancora autonomamente le sue proprie possibilità come suo unico criterio ammissibile.

Questo vuol dire che il raggio della ragione deve di nuovo allargarsi. Dobbiamo nuovamente uscire dalla prigione che ci si è costruiti e riconoscere nuovamente altre forme di accertamento, nelle quali tutto l’uomo è in gioco. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa di analogo a quello che troviamo in Socrate: una disponibilità che attende, che si tiene aperta e guarda al di fuori di se stessi. Questa disponibilità ha a suo tempo unito insieme i due mondi culturali - Atene e Gerusalemme - ed ha reso possibile una nuova ora della storia. Abbiamo bisogno di una nuova disponibilità della ricerca ed anche l’umiltà, che si lascia trovare. Il rigore della disciplina metodologica non può essere solo volontà di risultati, essa deve essere anche volontà di verità, disponibilità per essa. Il rigore metodologico, continuamente necessario, nel sottomettersi a ciò che si va scoprendo e non nell’imporre i propri desideri, può formare una grande scuola dell’essere uomo e preparare uomini capaci di verità. L’umiltà, che si inchina alla scoperta e non la manipola, non può però divenire falsa modestia, che toglie il coraggio della verità. Tanto più essa deve contrapporsi alla ricerca di potere, che vuole soltanto dominare il mondo e non più scoprirne la logica interna propria, che pone limiti alla nostra volontà di dominio. Le catastrofi ecologiche potrebbero qui divenire un avvertimento per vedere dove la scienza non diviene più servizio alla verità, ma distruzione del mondo e dell’uomo. La capacità di mettersi in ascolto di tali avvertimenti, la volontà di lasciarsi purificare dalla verità, è indispensabile. E vorrei aggiungere: la capacità mistica dello spirito umano dovrebbe essere nuovamente rafforzata. La capacità di sapersi ritirare in se stessi, una maggiore apertura interiore, una disciplina, che si sottrae a ciò che è rumoroso ed appariscente, devono nuovamente apparirci come mete cui tendere, che appartengono alle nostre priorità. In Paolo si trova l’ammonizione secondo cui l’uomo interiore deve rafforzarsi (Ef 3,16). Dobbiamo essere onesti: esistono oggi una ipertrofia dell’uomo esteriore ed un preoccupante indebolimento della sua forza interiore.

Per non rimanere troppo astratto, vorrei a conclusione illustrare quanto sono venuto esponendo con una immagine, che è desunta da una esperienza storica. Papa Gregorio Magno (+ 604) racconta nei suoi dialoghi degli ultimi giorni di San Benedetto. Il fondatore dell’ordine benedettino si era coricato per dormire al piano superiore di una torre, alla quale conduceva dal basso «una scala diritta». Si era poi alzato prima del tempo della preghiera notturna, per un momento di veglia. «Stava alla finestra e supplicava Dio onnipotente. Mentre guardava fuori nel cuore della notte oscura, vide improvvisamente una luce, che si riversava dall’alto e dissipava tutta l’oscurità della notte... Qualcosa di meraviglioso si verificava in questa visione, come egli stesso più tardi raccontava: tutto quanto il mondo gli fu presentato davanti agli occhi, come raccolto in un unico raggio di sole»[13]. A questo racconto l’interlocutore di Gregorio fa obiezione, con la medesima domanda che si impone anche all’ascoltatore di oggi: «Ciò che tu hai detto, che Benedetto poté vedere avanti agli occhi tutto quanto il mondo raccolto in un unico raggio di sole, io non l’ho ancora mai sperimentato e non me lo posso neanche immaginare. Come infatti potrebbe mai un uomo vedere il mondo come un tutto?». La frase essenziale nella risposta del Papa suona: «Se egli... vide tutto quanto il mondo come unità davanti a sé, ciò non avvenne perché il cielo e la terra si erano ristretti, ma perché l’anima di colui che guardava si era dilatata...».[14]

In questa narrazione tutti i particolari sono significativi: la notte, la torre, la scala, la stanza al piano superiore, lo stare in piedi, la finestra. Tutto questo al di là della descrizione topografica e biografica ha una grande profondità simbolica: quest’uomo attraverso un cammino lungo e faticoso, che ebbe inizio in una grotta presso Subiaco, è salito sulla montagna e finalmente nella torre. La sua vita fu un’ascesa interiore, gradino dopo gradino sulla «scala diritta». Egli è giunto nella torre e più propriamente nella «stanza al piano superiore», che a partire dagli Atti degli Apostoli ha il valore di simbolo del raccoglimento verso l’alto, dell’uscire dal mondo dell’agire e del fare. Sta alla finestra - ha cercato il luogo per guardare fuori e lo ha trovato, ove il muro del mondo è rotto e lo sguardo si apre verso lo spazio aperto. Sta in piedi. Lo stare in piedi è nella tradizione monacale simbolo dell’uomo che si è raddrizzato dal suo ripiegamento, non più incurvato su se stesso può guardare solo per terra, ma ha recuperato la posizione eretta e così lo sguardo libero verso l’alto15. Così egli diventa un veggente. Non il mondo si restringe, ma la sua anima si dilata, perché egli non è più assorbito dal singolo oggetto, dagli alberi, che gli impediscono di vedere la foresta, ma ha acquisito lo sguardo verso la totalità. Ancor meglio: egli può vedere l’insieme, perché guarda dall’alto, ed a questo è giunto, perché si è dilatato interiormente. Sembra qui risuonare l’antica tradizione dell’uomo come microcosmo, che abbraccia il mondo intero. Ma l’essenziale è proprio questo: l’uomo deve imparare ad ascendere, egli deve dilatarsi. Egli deve stare in piedi davanti alla finestra. Egli deve cercare con gli occhi. E allora la luce di Dio può toccarlo, egli la può riconoscere e acquisire così il vero sguardo panoramico. Lo sguardo alla terra non può diventare così esclusivo, da divenire incapaci di ascendere, di assumere una posizione eretta. I grandi uomini, che con paziente ascesa e con sofferta purificazione della loro vita sono divenuti veggenti e quindi maestri di tutti i secoli, interessano anche noi oggi. Ci indicano come anche nella notte si può trovare la luce e come possiamo affrontare le minacce che salgono dall’abisso dell’esistenza umana e andare incontro con speranza al futuro.



Note
1. W. Heisenberg, Der Teil und das Ganze. Gespräche im Umkreis der Atomphysik, Műnchen 1969, p. 117
2. Ibid.,  p. 117
3. Ibid., p. 118, cf. p. 295
4. Loc. cit. pp. 288ss
5.Il carattere negativo di questa voce viene chiaramente sottolineato ad es. in Apologia 31d «foné tís  ghenoméne … aéi apotrépei … prostrépei de oudépote». Cf sulla configurazione di questa voce R. Guardini, Der Tod des Sokrates, Mainz-Paderborn 19875, pp. 87ss.
6. Fondamentale per la comprensione della letteratura sapienziale dell'Antico Testamento è ancora G. von Rad, Weisheit in Israel, Neukirchener Verlag 1970; cf anche L. Bouyer, Cosmos, Paris 1982, pp. 99-128
7. Loc. cit., 290
8. Una buona informazione sull'attuale dibattito du questo tema offre G. Beintrup, Das Leib-Seele-Problem. Eine Einführung, Stuttgart 1996. Cf anche O.B. Linke - M. Kurthen, Parallelität von Gehirn und Seele. Neurowissenschaft und Leib-Seele-Problem, Stuttgart 1998.
9. J. Monod, Zufall und Notwendigkeit. Philosphisce Fragen der modern Biologie (tradotto dal francese. Piper, Munchen 19735), p. 149; cf pp. 141s: «so folgtdaraus mit Notwendigkeit, daß einzig und allein der Zufall, jeglicher Neuerung, jeglicher Schopfung in der belebten Natur zugrunde liegt. Der Reine Zufall, nichts als der Zufall, die absolute, blinde Freiheit als Grundlage  des wunderbaren Gebäudes der Evolution - diese zentrale Erkenntnis der modernen Biologie ist heute nicht mehr nur eine unter möglichen oder wenigstens denkbaren Hypothesen; sie ist die einzig vorstellbare, da sie allein sich mit den Beobachtungs - und Erfahrungstatsachen deckt». Cf J. Ratzinger, Im Anfang schuf Gott, Einsiedeln - Freiburg 19962, pp. 53-59.
10. Su Giobbe si veda innanzitutto il grande Commentario, che approfondisce anche i mderni sviluppi filosofici e teologici di questa figura, di G. Ravasi, Giobbe. Traduzione e commento, Borla, Roma 19913.
11. Sul problema del rapporto fra canone ebraico e greco e sull'Antico Testamento dei Cristiani cf Chr.Dohmen, Der Biblische Kanon in der Diskussion, in  «Theol. Revue» 91 (1995) 451-460; A. Schenker, Septuaginta und christliche Bibel, ibidem 460-464.
12. Sull’origine platonica della scienza moderna cf N.Schiffers, Fragen der Physik an die Theologie, Düsseldorf 1968; W. Heinsenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 19597. Cf anche Monod, loc. cit. ad es. p. 133, ove egli presenta esplicitamente la moderna biologia come debitrice del platonismo: con le moderne scoperte, così egli dice, le speranze dei platonici più convinti furono più che realizzate. Una certa vicinanza della fisica moderna con le intuizioni di Platone e di Plotino riconosce anche B. D’Espagnat, La physique actuelle et la philosophie, in “Revue des sciences morales e politiques”, 1997, n. 3, pp. 29-45.
13. Gregorio Magno, Dialoghi II 35, 1-3. Utilizzo qui l’edizione latino-tedesca della conferenza degli abati di Salzburg: Gregor D. Gr. Der hl.Benedikt Buch II der Dialoge (St. Ottilien 1995). La mia interpretazione si basa largamente sull’eccellente introduzione, che ivi si trova, in particolare pp. 53-64.
14. II, 35, 5 e 7.
15. Cf l’interpretazione nel volume citato alla nota 16, in particolare pp. 60-63.


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sabato, 16 maggio 2009

La morale cosiddetta laica non è ragionevole
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Nel suo libro Fede, Verità, Tolleranza, l’allora cardinale Ratzinger riferisce un episodio – narrato da Werner Heisenberg – molto significativo, accaduto a Bruxelles nell’ambito di una discussione tra scienziati.

«Ci si trovò a discutere del fatto che Einstein parlava spesso di Dio e Max Planck sosteneva l’opinione che non ci sia alcuna contraddizione tra scienze della natura e religione [...]. Secondo Heisenberg, a fondamento di tale apertura [di Planck] stava la concezione che scienze naturali e religione sono due sfere totalmente diverse, che non sono in concorrenza reciproca: quel che conta nelle scienze naturali è l’alternativa tra vero e falso, nella religione l’alternativa tra bene e male, tra valore e disvalore. [...] “Le scienze naturali sono, in certo senso, il modo con cui andiamo incontro al lato oggettivo della realtà [...]. La fede religiosa,
viceversa, è l’espressione di una decisione soggettiva, con la
quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita”. [...] A questo punto Heisenberg aggiunge: “Devo ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione. Dubito che, alla lunga, delle comunità umane possano convivere con questa netta scissione tra sapere e credere”. A un certo punto interviene Wolfgang Pauli e rafforza
il dubbio di Heisenberg, addirittura lo eleva al grado di certezza: La separazione completa tra sapere e credere è soltanto un espediente d’emergenza per un tempo molto limitato. Per esempio, nell’ambito culturale occidentale, potrebbe venire in un futuro non troppo lontano il momento in cui le parabole e le immagini della religione qual è stata finora non possiederanno più alcuna forza di persuasione neppure per la gente semplice; allora, temo, anche l’etica finora vigente in breve tempo crollerà e accadranno cose di una atrocità che non ci possiamo neppure immaginare”».
Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 145-146.
don Carron
Da:  ESE R C I Z I D E L L A F R A T E R N I T À d i C O M U N I O N E E L I B E R A Z I O N E  2009


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giovedì, 30 aprile 2009

da Avvenire del 22 aprile 2009

L’uomo-macchina, idolo della scienza

di Pietro Barcellona
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Non c’è dubbio che oggi ci troviamo di fronte a un mutamento radicale del funzionamento mentale e della configurazione lessicale del mondo, che richiederebbe un approccio completamente nuovo alla strategia d’analisi della realtà e dei modi dell’apprendimento. Non riesco a parlare con un giovane immerso nella logica dell’istantaneità sui temi della tradizione storica, della lettura per successione di eventi. C’è uno scarto linguistico che rischia la rottura della comunicazione fra generazioni. In realtà noi non parliamo coi nostri figli perché essi vivono in un altro universo linguistico, perché la società si è disintegrata sotto l’azione dei mutamenti epocali che vengono rappresentati come globalizzazione e pensiero unico, ma che ancora non sono compresi in una adeguata rappresentazione del mondo. L’uomo ha dimenticato di essere un granello infinitesimale rispetto all’immensità sconosciuta dell’universo e si è arrogato il potere di creare la vita senza la vita.
Certo, i frutti del sapere razionale sono enormi e le tecnologie consentono prestazioni prima inimmaginabili. Il progresso scientifico è stato il traguardo di sforzi inauditi e in esso sono state riposte le speranze di un mondo migliore. Il prezzo pagato per questo vero e proprio delirio di onnipotenza è, però, che la razionalità si è trasformata in una macchina costruita secondo principi logico-matematici che consentono di calcolare funzioni e prestazioni producendo continuamente strutture idonee a operare secondo impulsi codificati in appositi programmi operazionali. Il mondo è sistema e gli uomini sono inclusi nella logica sistemica: macchine per sopravvivere senza vivere. La ragione ha disintegrato l’uomo e ne ha fatto oggetto di studio. La psicologia, l’economia, la politica e via via il cuore, il fegato, i polmoni, il pancreas, gli occhi, sono diventati oggetto di sapere, guidati dall’unico metodo scientifico che si conosce: il riconoscimento della stessa comunità degli scienziati. Umberto Veronesi, sul Corriere della Sera di qualche mese fa, ha scritto che nel giro di qualche generazione la differenza sessuale fra uomini e donne perderà ogni significato, che l’umanità si riprodurrà senza bisogno dell’accoppiamento di un uomo e di una donna, ma attraverso l’inseminazione artificiale e la clonazione, che l’evoluzione naturale della società ci porta oltre i confini dei tradizionali comportamenti sessuali e ci destina a nuove forme di relazioni interpersonali.
Così, in una qualsiasi pagina di giornale, viene annunciata senza alcun clamore la fine delle leggi che hanno fin qui governato il problema della riproduzione sociale, del ruolo della generazione, della responsabilità verso il futuro. Nel proclama di Veronesi, di una umanità senza differenze, è lo spazio, lo spazio della memoria e del sogno, che viene negato e distrutto. Nell’universo indifferente ciascuno vive per se stesso, per il proprio godimento immediato che è garantito dalle nuove possibilità offerte dalla scienza, dalle biotecnologie, dalla chimica, dalla fisica e dalle neuroscienze. Veronesi non annuncia il futuro della libertà umana, ma la morte dell’immagine dell’uomo che è stata faticosamente costruita nella storia dell’Occidente. L’indifferenza sessuale non è un progetto di umanizzazione della società e della natura, non è un progetto di sviluppo della consapevolezza del significato del nostro essere al mondo, ma la cancellazione di ogni spazio mentale, non riducibile a sinapsi e a neuroni, dove possa svilupparsi la domanda umana sul senso della vita, sul valore squisitamente umano del sogno di un futuro diverso, sulle speranze di un avvenire di salvezza dall’ingiustizia e dalla sofferenza.
Oggi la scienza e la filosofia non sopportano il mondo delle passioni e dei sentimenti (a meno che non si riducano a formule chimiche o a errori logici) perché esso ci porta dentro una dimensione che non riesce a conciliarsi con la loro pretesa di assoluto e di eternità: la temporalità caduca e divoratrice. Per la scienza come per tutti gli assoluti non esiste il tempo, il tempo della nascita né il tempo della morte, il tempo della gioia né il tempo del dolore. Ciò che accade, accade per caso o per necessità. Non è un problema di coscienza, né una questione che riguarda soltanto ogni singolo individuo, ma la stessa domanda del chi siamo e del perché viviamo. Non si tratta soltanto di rievocare le grandi storie che ci hanno appassionato e formato: le passioni terribili che hanno scatenato le guerre antiche e moderne, gli amori tragici di Paolo e Francesca, di Tristano e Isotta, di Giulietta e Romeo, ma l’intero clima culturale in cui si è venuto sviluppando nell’Occidente lo spazio specifico dell’essere umano combattuto fra le forze primordiali della natura, fra la implacabile legge dell’Eros senza limiti, e il bisogno di un ordine che sanzioni anche la responsabilità verso la progenie chiamata a raccogliere il testimone della vita. Gli dei greci, il Dio del cristianesimo, hanno reso possibile agli uomini istituire lo spazio mondano dell’interrogazione sulla verità come domanda sul senso della vita.
In questo spazio sono apparse "figure" che non hanno nulla a che fare col divino, né col naturale: la tenerezza dei corpi che si stringono, la bellezza di un neonato dalla pelle rosata, la coscienza del tramonto del vigore giovanile, la nostalgia e la memoria, il sapere e la speranza, la sofferenza e la gioia, l’estasi e il tormento. Attraverso di essi l’uomo ha cercato di sfuggire ad ogni statuto di necessità e di assumere sempre più la responsabilità della propria esistenza. Tutti sono bravi a descrivere la globalizzazione, i mercati finanziari, il problema delle borse, i nuovi orizzonti interculturali, la scoperta delle cause di tutte le malattie, ma nessuno è più capace di parlare a un bambino mutilato da una bomba americana caduta per caso su un villaggio pacifico o ai superstiti di un attentato kamikaze che ha stroncato la vita di giovani in festa in un piccolo centro israeliano. Perché abbiamo perduto il senso della vita, le domande tragiche che nascono dal dolore senza spiegazioni? Perché abbiamo confuso, forse intenzionalmente, la ragione con il pensiero e la conoscenza con la comprensione. Questa è un’epoca in cui la ragione ha distrutto il pensiero e la cognizione ha soppresso l’intesa affettiva.


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venerdì, 17 aprile 2009

 La scienza nasce dal Cristianesimo
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Mi spiace moltissimo perché non posso parlarvi nella vostra lingua, peraltro bellissima. Però ci sarà la traduzione man mano che procedo nella mia presentazione. Sono particolarmente lieto di essere qui oggi, insieme a tutti voi, per parlarvi di un argomento che secondo me ha un'estrema importanza, il rapporto tra la scienza e la fede. Molto spesso, nei libri di testo, si può leggere che c'è un conflitto tra la fede e la scienza. Questo è ciò che molte persone dicono. Quindi, la cosa più importante che devo dirvi oggi, in breve, è che c'è un rapporto di tipo organico tra la fede e la scienza, vale a dire che la fede costituisce la base di tantissime cose, però è anche alla base della scienza, quindi c'è un rapporto diretto tre fede e scienza. Questo in breve è il sunto di quello che voglio trasmettervi. 
    Quindi, se per un attimo pensiamo alle grandi civiltà che si sono succedete nella storia, se pensate per esempio alla civiltà di Babilonia, a quella degli Egizi, dei Greci, alla civiltà dell'India, della Cina, e poi alle civiltà americane - gli Atzechi, gli Incas, i Maya -, in quelle civiltà si vedono parecchi trionfi dello spirito umano.  Si vedono esempi di architettura splendida, si vede un'enorme capacità di lavorare il metallo, la ceramica, il legno, la pietra. In queste civiltà, soprattutto in quelle greche, si trovano grandi esperti di matematica e anche, in un certo qual modo, di fisica.
    Però
nessuna di queste civiltà ha una qualsiasi delle caratteristiche della scienza moderna. Quando parliamo di scienza moderna, occorre distinguere tra quella che io chiamo la scienza primitiva, vale a dire le conoscenze che si acquisiscono con strumenti empirici, e la scienza moderna, che invece si basa su una comprensione dettagliata, specifica, di come funziona la materia attraverso le equazioni differenziali. E praticamente questa è una scoperta unica nel suo genere, conseguita dalla nostra civiltà dell'Europa occidentale.
    Abbiamo visto questi dati storici e con voi, a questo punto, vorrei che ci soffermassimo un attimo sullo sviluppo della scienza nella nostra civiltà occidentale.
Quali sono le condizioni che servono a una civiltà perché si sviluppi una scienza? Possiamo vedere, mediante un lavoro di introspezione, molte delle condizioni necessarie per lo sviluppo della scienza. In primo luogo, occorre che la società sia sviluppata in modo che molti di noi, più fortunati, possano passare tempo a pensare a determinate cose senza preoccuparci se avremo o meno qualcosa da mangiare quel giorno. Poi, oltre a una struttura sociale sviluppata, abbiamo bisogno di un linguaggio, della scrittura, della matematica. Per elaborare le cose, abbiamo bisogno di strumenti, di metodi di comunicazione, la scrittura, quindi.
    Tutte queste cose sono quelle che io definisco i pre-requisiti materiali per la scienza. Se si pensa che tutte queste condizioni sono state presenti nelle civiltà antiche, allora non sono solo queste, quelle necessarie per lo sviluppo della scienza nelle civiltà occidentali. Manca ancora qualcosa a questa struttura. Cosa manca? Mancano convinzioni necessarie perché abbia inizio la scienza. Pensando  a queste convinzioni, a cosa bisogna credere per diventare uno scienziato? Che la materia sia bene e che valga la pena passare la vita, dal punto di vista dello scienziato, a capire la materia nella sua complessità. Dobbiamo anche credere che la materia sia ordinata, cioè si comporti in maniera costante, coerente. Quindi, che quello che arrivo a scoprire un giorno vale anche il giorno successivo e anche in altri luoghi. E che quello che altre persone possono scoprire in altri momenti e luoghi, tutto contribuisce a formare un unico corpus di conoscenze ordinate. In terzo luogo, dobbiamo anche ritenere che la materia sia accessibile alla mente umana, cioè bisogna cercare di comprendere la materia in un compito che abbia una qualche garanzia di successo. Magari, diverse persone cercano di fare esperimenti di laboratorio. Nella consapevolezza che qualcosa va sempre storto, bisogna perseverare per ottenere un risultato, anche buono. Quindi, bisogna essere convinti che l'impresa che si è incominciata valga la pena di essere portata a termine. Bisogna anche credere che le conoscenze che si ottengono dagli studi della materia siano valide per se stesse. Però, successivamente si può scoprire che queste conoscenze possono avere anche delle implicazioni pratiche utili. Questo è un fatto importante, perché se la scienza ha delle applicazioni utili allora tutta la società avrà una considerazione positiva della scienza e sarà disposta a sostenere gli scienziati nel loro lavoro. Tutte queste convinzioni sono necessarie - lo vediamo se svolgiamo questo lavoro di introspezione - perché si sviluppi la scienza. Guardando le antiche civiltà, si vede che molte di queste convinzioni, quasi tutte, non ci sono state. Ecco perché la scienza in queste antiche civiltà non si è sviluppata.
    Diamo ora uno sguardo alla storia dello sviluppo della scienza. In primo luogo, bisogna riconoscere
l'enorme contributo che è stato dato alla storia dello sviluppo della scienza dagli antichi greci e, prima di loro, anche dai babilonesi, che hanno effettuato importanti osservazioni astronomiche e calcoli matematici. In particolar modo, gli antichi greci hanno avuto degli importantissimi filosofi e il loro contributo è stato quello di porsi le domande giuste, vale a dire che per avere una risposta bisogna porsi la domanda giusta, e questa è stata la più grande conquista degli antichi greci. Si sono chiesti, per esempio: come possiamo comprendere il mondo che ci circonda? Forse tutto quello che vediamo è il risultato della combinazione di determinate particelle fondamentali di un tipo o dell'altro. E cercando di scoprire queste particelle, possiamo vedere come è nata la complessità del mondo. Quindi, hanno fatto determinate ipotesi e si sono domandati: esiste una realtà microscopica? Cioè, se continuo a tagliare una cosa in pezzi sempre più piccoli, mi posso fermare a un certo punto o no?
    Si sono posti le domande giuste senza ancora trovare una risposta definitiva. Aristotele, uno dei maggiori filosofi greci, riteneva semplicemente, pensando alle cose, di poter scoprire la loro natura, semplicemente pensandoci. Però, per esempio davanti a un triangolo in geometria, si conosce cos'è un triangolo, si possono calcolare le sue proprietà: quindi, è un oggetto aperto per la mente umana. Invece la materia non è un oggetto aperto alla mente umana, dobbiamo osservare attentamente le cose, condurre esperimenti e gradualmente cominciare a capirla. Aristotele ha utilizzato argomentazioni, dicendo che i pianeti e le stelle sembrano essere corpi incorruttibili che si muovono secondo una forma perfetta. La forma più perfetta è il cerchio, quindi si spostano in cerchio: e ha fatto una distinzione tra la materia celeste e quella terrestre, dove quest'ultima è soggetta al cambiamento e l'altra no. Pensava a un universo dove tutto avesse un fine, per esempio le pietre scendono verso il basso perché cercano il loro luogo naturale che è la terra, mentre il fuoco ha la tendenza ad andare verso l'alto. Abbiamo i quattro elementi che sono combinati in natura in diversi modi, secondo lui. La terra, al centro con i pianeti attorno, che si muovevano in cerchi perfetti. Era uno schema perfetto, questo, che seguiva molte intuizioni sensate e ragionevoli. Però purtroppo era un approccio sbagliato, quindi, malgrado tutta la gloria della scienza greca, questa non si è mai perpetuata nel tempo.
    Occorreva un nuovo inizio, un nuovo punto di partenza per allontanarsi da questi principi, da queste idee. E il nuovo inizio è avvenuto da una zona inattesa. C'erano i grandi imperi - Siria, Egitto, Babilonia -, però, tra questi grandissimi imperi c'era una tribù, quella degli israeliti, che migrava qui e là, e che praticamente era stata separata dai suoi vicini perché credeva in un Dio, mentre i vicini credevano in diverse divinità.
Gli israeliti hanno conservato il loro credo in un unico Dio, che aveva creato tutto, aveva creato tutto esattamente nel modo in cui voleva che fosse. E questo ha rappresentato l'inizio di idee che alla fine, nel corso di diversi secoli, hanno portato allo sviluppo della scienza. Essi ritenevano che la materia fosse buona e, nel primo capitolo della Genesi, leggiamo che "Dio vide ciò che aveva fatto ed era buono". Dio è un essere razionale, quindi tutto ciò che crea automaticamente è razionale, ne condivide la razionalità. Crediamo anche che il mondo sia aperto alla mente umana, perché sempre nel primo capitolo della Genesi all'uomo viene ordinato di riempire la terra e conquistarla: questo implica che l'uomo possa capire il mondo.
    Il mondo è prezioso e la sapienza, la conoscenza del mondo è più dell'oro e dell'argento. Si legge appunto che la sapienza più dell'oro e dell'argento dev'essere  liberamente condivisa, e poi Cristo ordina di dare da mangiare agli affamati e dare da bere agli assetati. Queste sono state le premesse della scienza, quello che ha portato al fondamento della scienza. Poi è arrivato l'evento centrale della storia, l'incarnazione di Cristo che ha ulteriormente nobilitato la materia perché si pensava che la materia fosse adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo. L'incarnazione di Cristo è stato un evento unico nel suo genere, che immediatamente ha spezzato, ha posto fine, a un'idea presente in tutte le antiche civiltà.
    Adesso è un po' difficile per noi capire come potessero crederci, ma
tutte le civiltà antiche, inclusi i greci, ritenevano che il tempo fosse ciclico, vale a dire che tutto quello che succede fosse già successo prima nel passato e che si ripeterà di nuovo nel futuro. Questa è, credo, una convinzione molto scoraggiante perché uno si chiede: se è già successo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che succederà? Però l'incarnazione di Cristo ha rotto questa credenza, e quindi ha spezzato l'idea che il tempo fosse ciclico, che ci fosse sempre l'inizio da un'alfa fino a un'omega. In questo modo, l'incarnazione di Cristo ha fornito ulteriori convinzioni per la scienza.
    All'inizio del Medioevo, nei primi anni della Chiesa, si è discusso molto sulla natura del Cristo e,  per esempio, molto spesso dovevano essere risolte delle controversie in atto su questo argomento. È stato convocato per esempio, nel 325, il Concilio di Nicea, che ha definito praticamente gli elementi essenziali della fede cattolica che poi vengono ripresi ogni domenica durante la Messa. Oltre ad aver fornito gli elementi fondamentali della fede, vengono anche definite diverse condizioni e convinzioni essenziali per la scienza, cioè che, praticamente, Dio creò tutto. All'inizio Dio ha creato tutto, in cielo e in terra, quindi la creazione è alla base di tutte le nostre convinzioni e credenze. Poi, un altro credo di Nicea è quello secondo cui solo Cristo fu generato, solo Cristo è della stessa sostanza del Padre, creato grazie a proprietà conferitegli da Dio. Questo è importante, perché ha eliminato il concetto del panteismo: la materia è creata e non generata, questo esclude il panteismo. Un altro credo è che tutto è creato attraverso Cristo. Questo credo esclude il dualismo che si trova in alcuni filosofi antichi: ci sono forze del bene e forze del male che si combattono. Invece, il credo di Nicea dice che tutto è creato attraverso Cristo, quindi tutto è bene. In questo modo, le convinzioni che vengono dagli ebrei nel Vecchio Testamento e da Cristo nel Nuovo Testamento rappresentano le convinzioni necessarie per lo sviluppo della scienza.
    Naturalmente c'è voluto tempo perché tutto ciò avvenisse, queste idee richiedono molto tempo per essere assorbite dalla coscienza umana e anche per diffondersi in tutta la società. All'inizio, i cristiani erano una minoranza oggetto di persecuzioni, quindi a quel tempo non si poteva avviare una vera e propria scienza, anche se c'erano molti filosofi, per esempio, che avevano cominciato già nel VI secolo a sviluppare idee che poi avrebbero portato importanti frutti. Soltanto nel Medioevo la società era permeata da credenze cristiane ed è stato solo in quel momento che la scienza ha potuto avere inizio. Gli insegnamenti, nel Medioevo, si basavano molto sugli insegnamenti dei filosofi greci Aristotele e Platone. Nuove università vennero fondate in Europa dalla Chiesa per facilitare la discussione e la diffusione della teologia e della filosofia. Le prime università sono state aperte qui in Italia, a Bologna e Padova, poi oltre le Alpi sono state fondate le università di Parigi e Praga, quindi molte altre, andando sempre più a Nord, tra le quali anche la mia di Oxford. Queste università erano centri di intensa discussione e argomentazione. L'insegnamento veniva fatto sulla base dei testi di Aristotele, elaborandoli, leggendoli, cercando di capirne il significato. Quando però Aristotele era in disaccordo coi principi cristiani, veniva abbandonato. Per esempio, Aristotele pensava che il mondo fosse eterno, noi invece sappiamo che è stato creato, quindi da questo punto di vista veniva lasciato perdere quello che diceva. C'è stato un importante filosofo parigino, Giovanni Buridano, che pensava ai problemi del moto e quindi ha avuto inizio la scienza, la fisica, con lo studio del moto. Buridano si è chiesto: perché se, per esempio, prendo su qualcosa da terra e lo getto, continua a muoversi? Secondo Aristotele, tutto ciò che viene mosso si muove perché c'è un elemento che lo muove.
Buridano si è chiesto: cos'è che permette all'oggetto di continuare a muoversi, una volta che ha lasciato la mia mano? I greci avevano avuto alcune ipotesi in questo senso, relativamente al movimento dell'aria che spingeva l'oggetto. Buridano ha pensato a questa cosa nel contesto della creazione: Dio, creando le cose, non le ha create in modo statico, ha creato le cose in movimento e quindi ha dato loro un impeto. Quindi, ha avuto questa idea dell'impeto secondo cui, una volta che noi gettiamo un oggetto, gli forniamo un impeto, che adesso è noto come movimento. Ha così formulato quella che poi sarebbe diventata la prima legge del moto di Newton: tutto quello che viene gettato continua a muoversi per propria forza interna.
    Quindi, gradualmente, secondo questo processo, sono state ipotizzate diverse cose e le idee di Aristotele che avevano impedito lo sviluppo di una vera e propria scienza per due millenni, sono state modificate e hanno aperto la strada al Rinascimento.
    Non soltanto a livello di scienza, ma anche ad altri livelli, il Medioevo ha dato un importante contributo. Per esempio, anche a livello di tecnologia, nonostante questo non sia sempre riconosciuto. La tecnologia è l'applicazione della scienza, con l'obiettivo di rendere più semplice il lavoro. I pionieri di tutto questo si ritrovano nei monasteri. Nei monasteri si trovano moltissime nuove idee dal punto di vista tecnologico, idee che provenivano da altre civiltà, alcune di esse dalla Cina; però nei
monasteri c'erano mulini ad acqua, a vento, c'erano sistemi per macinare il grano, per tagliare il legno. Per riuscire a conservare le ore di preghiera importanti per il monastero, e rispettarle, sono stati realizzati degli orologi meccanici, i primissimi orologi meccanici sono stati proprio realizzati nei monasteri. Nella bellissima mostra che dovete andare a visitare, vedrete immagini e riproduzioni di questi antichissimi orologi ritrovati nei monasteri. Dopodiché, gli orologi sono stati installati anche nel centro delle città per regolare il commercio, però l'idea è venuta proprio dai monasteri. Dunque, non soltanto la scienza, ma anche la tecnologia viene dalla rivoluzione che è stata portata avanti da queste convinzioni cristiane.
    Una volta spianata la strada, come dice il titolo di questa mostra, vediamo che nel Rinascimento si è incominciato a costruire sulle spalle dei giganti del Medioevo, rendendo possibile lo splendore della scienza nel Rinascimento grazie a Brahe, a Keplero e a Newton, che ha formulato le leggi del moto e ha avviato e portato a maturità tutta la scienza moderna. Queste sono le idee fondamentali che volevo trasmettervi oggi. Come vedrete, nella mostra che vi invito ad andare a visitare, le radici della nostra conoscenza scientifica, della tecnologia, sono da ricercarsi nella fede cristiana. Grazie.
Peter Hodgson

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martedì, 07 aprile 2009

L'inutilità nella sperimentazione
 delle cellule embrionali
***
 Dossier: «Cellule staminali adulte: applicazioni terapeutiche e prospettive di ricerca»

Angelo Vescovi: pronti per la sperimentazione umana contro la Sclerosi laterale amiotrofica

Vescovi Angelo Angelo Vescovi, 46 anni, docente di Biologia applicata alla Bicocca di Milano, è condirettore dell’Istituto di ricerca sulle cellule staminali al San Raffaele, direttore dell’Istituto di ingegneria dei tessuti e del progetto «Officina del cervello» all’ospedale Niguarda, direttore scientifico del Consorzio italiano per la ricerca sulle cellule staminali, coordinatore della Banca di staminali cerebrali a Terni e direttore scientifico della Fondazione Neurothon. Per la sua esperienza è consulente del governo italiano e della Camera dei Lords inglese. Pur essendo agnostico, si oppone da sempre all’impiego di embrioni nella ricerca.
Professor Vescovi, pare che il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, possa cambiare politica rispetto al suo predecessore e accordare il finanziamento federale alla ricerca sulle staminali embrionali. Secondo lei è un’ipotesi plausibile?
Anzitutto occorre chiarire che il cambiamento di politica potrebbe riguardare nello specifico la ricerca sugli embrioni umani. Detto questo, credo sia una risposta tardiva a un problema che non c’è più da almeno tre anni. Le tecniche messe a punto nel 2006 dallo scienziato giapponese Shinya Yamanaka, infatti, permettono di generare e addirittura clonare cellule staminali embrionali umane senza dover ricorrere agli embrioni, ma derivandole artificialmente da una cellula somatica adulta (si parla di Induced pluripotent stem cell, Ips). Il problema della sperimentazione sugli embrioni, dunque, è già stato risolto alla base. Le cellule Ips vengono ottenute trasferendo nelle cellule adulte, con appositi vettori virali, quattro geni normalmente associati alle staminali. Il problema è che uno di questi geni è risultato cancerogeno. Un mese fa, per fortuna, anche questo inconveniente è stato superato e le Ips sono ora del tutto sicure. Poiché pare che il nuovo Presidente Usa sia una persona intelligente, ritengo di poter dire che la sua è una dichiarazione “di facciata” e che sicuramente, al momento opportuno, valuterà con attenzione il problema. Fatta questa premessa, penso che possa essere ammissibile un uso regolato degli embrioni sovrannumerari già esistenti.
Lei dice che il problema non si pone più. Allora perché qualcuno continua a premere per fare sperimentazione con gli embrioni?
A questo punto credo che non si tratti più di una lobby di tipo politico-ideologico, ma economica. Per 15-20 anni, infatti, il mondo anglosassone ha investito in ricerche e tecnologie che, ovviamente, hanno portato alla registrazione di brevetti. La scoperta di Yamanaka, che consente di riprogrammare le staminali adulte portandole allo stadio embrionale, rischia di mandare in fumo i miliardi di euro investiti finora nella ricerca sugli embrioni. Credo che sia questo il problema di fondo. Comunque è bene riflettere su un altro dato: il governo giapponese ha fatto un investimento strategico sulla riprogrammazione delle cellule, manifestando lo stesso atteggiamento lungimirante avuto in passato con i microchip e l’elettronica.
Concetto di staminalita'
Quali risultati ha prodotto finora la ricerca sulle staminali embrionali?
Ha dato ottimi risultati in termini di conoscenze e informazioni scientifiche, almeno per quanto concerne la ricerca su modelli animali. Il problema è che raramente queste conoscenze sono state traslate all’uomo e, soprattutto, a fini terapeutici. Si tenga presente un fatto: per procedere a un trapianto di staminali embrionali autologo, che scongiuri cioè il rigetto, bisogna aver clonato l’embrione umano in origine. Questa operazione ha un’efficienza di uno su duecento e nessuno c’è ancora riuscito. La tecnica dell’Ips riesce, invece, a ottenere staminali embrionali autologhe tutti i giorni e in qualunque laboratorio del mondo. Viene veramente da chiedersi quale sia la logica dietro a certe pressioni... La ricerca sulle staminali embrionali, dunque, è la benvenuta purché sia fatta nel rispetto di un’etica, che è quella naturale della specie. E lo dico, come è ormai noto, da agnostico.
E riguardo alla ricerca sulle cellule staminali adulte, quali sono le speranze principali?
Ci sono numerose terapie che già vengono usate in clinica, soprattutto in ambito ematologico, per curare e guarire determinati tipi di leucemie e malattie rare. Ora grandi sforzi sono rivolti alle terapie cellulari ricostruttive che, al pari delle altre, avranno un utilizzo molto mirato e dunque non potranno essere usate su qualsiasi paziente. Si tratta, in generale, di pratiche estremamente complesse, volte a rigenerare tessuti in cui miliardi di cellule intrattengono tra loro numerose relazioni. Il meccanismo è molto complicato e dunque occorre tempo per comprenderlo e padroneggiarlo. Detto questo, grandi speranze giungono proprio dalla cronaca recente: mi riferisco al caso della donna di Barcellona, alla quale è stato praticato un trapianto di trachea da donatore, “ricolonizzata” con cellule staminali della stessa paziente; in questo modo è stato possibile evitare la somministrazione di farmaci antirigetto. Mi pare che i progressi fatti siano enormi, soprattutto a fronte di finanziamenti ridicoli rispetto ad altri settori (si pensi, ad esempio, agli armamenti).
Il 1° dicembre a Roma, l’associazione onlus Neurothon (dedicata alla ricerca sulle malattie neurodegenerative) ha organizzato un convegno internazionale per fare il punto sul possibile impiego delle cellule staminali per la cura della Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Quali opportunità terapeutiche esistono?
Nel giro di pochi mesi dovremmo poter partire all’ospedale Niguarda di Milano con la prima sperimentazione umana a livello europeo. Iniziamo con una decina di malati di Sla, selezionati da un’apposita Commissione clinica, che valuterà con attenzione i casi che garantiscono il massimo approccio etico e, allo stesso tempo, risultati misurabili. Poi dovremmo estendere lo studio ad altri tipi di malattie metaboliche. Ma bisogna vedere anzitutto come va con i primi. La certezza non ce l’ha nessuno.
Quando pensate di partire?
Dare un’indicazione esatta dei tempi è impossibile per una serie di ostacoli tecnico-burocratici: non sappiamo quando verrà concessa la certificazione Gmp [Good manifacturing practice, pre-requisito fondamentale per le attività di tipo farmaceutico, ndr] alla Banca di cellule staminali cerebrali di Terni, dove produrremo le cellule da utilizzare nella sperimentazione; inoltre dobbiamo ancora completare il protocollo clinico. Peraltro finora ho sempre dovuto spostare la data prevista anche per la mancanza di finanziamenti. Comunque ritengo che ormai si tratti di mesi e non più di anni. Stiamo preparando questa sperimentazione con la massima onestà intellettuale e secondo i criteri della scienza occidentale, dunque dobbiamo rispettare tutte le regole dalla prima all’ultima. Peraltro saremmo già qui a guardare i risultati, se ci fossero stati i soldi: avremmo potuto fare tutto in sei mesi e, invece, siamo in ballo da tre anni e mezzo. Però questa è la logica del nostro Paese. Ho voluto rimanere, ho voluto la bicicletta, e ora pedalo.
Ricercatore Candiolo3
Non a caso il gruppo di ricercatori che a Barcellona ha ottenuto il brillante risultato sulla trachea è guidato da un “cervello in fuga” italiano, Paolo Macchiarini...
Eh sì. E, purtroppo, come lui ce ne sono tanti altri. Ho un grande rispetto per loro. Io stesso ho lavorato per cinque anni in Canada e poi sono tornato. Forse ho sbagliato, ma ora sono qui e devo lavorare a queste condizioni. Fuori dall’Italia, onestamente, è tutto più facile: non si perde tempo in pratiche pletoriche e intoppi procedurali fantasiosi. Solo l’altro giorno scorrevo gli importi delle borse di studio che verso ai giovani del mio laboratorio. C’è poco da fare: il 45 per cento del compenso lordo va in tasse. Quindi il finanziamento per le borse di ricerca è, in realtà, già decurtato quasi della metà. Senza contare le sovvenzioni per i reagenti di laboratorio, che dobbiamo acquistare negli Stati Uniti e dunque ci costano tre volte di più. Credo che questo Paese debba smettere di guardare ai ricercatori come se fossero tutti ladri, per cui occorre controllare il singolo centesimo che hanno in tasca. Devono metterci nelle condizioni di lavorare e chiederci un rendiconto dei risultati dopo cinque anni: non possono fare le pulci ai bilanci ogni sei mesi, domandandoci cosa abbiamo fatto di ogni tranche di finanziamenti. Cosa volete che facciamo con 20 mila euro in sei mesi? Non bastano nemmeno per tre esperimenti.
I giovani ricercatori italiani continuano ad avere contratti a tempo determinato e a vivere in condizioni di assoluta precarietà fino a età relativamente “avanzata”...
L’ho detto in tempi non sospetti, prima cioè delle recenti proteste di piazza. Ed è uno dei motivi per cui oggi alcuni sostengono che io abbia un brutto carattere, mentre ho solo il temperamento di chi reagisce quando vede i soprusi. Il nostro sistema è pieno di nepotismi, angherie e violenze psicologiche contro i più giovani: è una totale e assoluta vergogna. L’ho denunciato già dieci anni fa e continuo farlo oggi. Non diamo ai ragazzi la possibilità né di imparare né di produrre. Così a un certo punto se ne vanno. E capisco bene quelli che non tornano. Perché più di una volta anche io, che tutto sommato ho avuto “fortuna”, ho pensato che non mi dispiacerebbe andare via. E le occasioni certo non mi mancano: l’ultima risale alla settimana scorsa. Poi resto qui perché comunque sono cresciuto e mi sono formato in questo Paese e desidero che vada avanti. Però tante cose devono cambiare. In ogni caso, credo che il sistema non possa essere risanato, ma vada rifondato ex abrupto, con un massiccio ricambio generazionale.

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lunedì, 09 marzo 2009

Scienza e Cristianesimo
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“Ci sono ancora persone che guardano con sospetto il suggerimento che la fede di un Newton o di
un C. Maxwell possa aver avuto un’influenza sui punti fondamentali della formazione delle loro
teorie scientifiche. Eppure, la storia del pensiero occidentale mostra che in realtà lo sviluppo della scienza naturale non si può separare da idee fondamentali che derivano dalla tradizione giudeocristiana.
C’è un’interazione più profonda tra la teologia e la scienza di quanto ci si renda conto di
solito”
T. Torrance, Senso divino e scienza moderna, LEV,

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sabato, 03 gennaio 2009

La materia è fatta di vuoto!
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G.B. -Fermiamoci su un fatto così sconcertante: il paradosso di una moltitudine di elementi che alla fine si risolvono nel vuoto, nell'inafferrabile. Per capire, supponiamo di voler contare tutti gli atomi contenuti in un granello di sale. E supponiamo anche di essere sufficientemente veloci da poterne contare un miliardo al secondo. Malgrado questa notevole prestazione, ci vorrebbero più di cinquanta secoli per effettuare il censimento completo della popolazione di atomi contenuti in questo minuscolo granello di sale. Vediamo un'altra immagine: se ogni atomo del nostro granello di sale fosse grande come la capocchia di uno spillo, l'insieme degli atomi che lo compongono ricoprirebbe tutta l'Europa di uno strato uniforme dello spessore di venti centimetri.   …….
J.B. -Tuttavia, un vuoto immenso regna tra le particelle elementari. Se rappresento il protone di un nucleo d'ossigeno con una capocchia di spillo qui sul tavolo davanti a me, allora l'elettrone che gli gravita intorno descrive una circonferenza che passa dall'Olanda, la Germania e la Spagna. È questa la ragione per cui se tutti gli atomi che compongono il mio corpo dovessero avvicinarsi fino a toccarsi, voi non mi vedreste più. Nessuno d'altra parte potrebbe vedermi a occhio nudo: misurerei solo qualche millesimo di millimetro, come una polvere finissima.
Jean Guitton, Grichka Bogdanov - Igor Bogdanov
da:Dio e la scienza ed. Bompiani


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giovedì, 18 dicembre 2008

Ascolta Dio
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Studia pure le cose di questo mondo, ma guardale con un occhio solo; con l’altro occhio guarda costantemente la luce eterna. Ascolta gli scienziati, ma ascoltali con un orecchio solo: l’altro sia sempre pronto ad ascoltare Dio
 A. M. Ampère, Lettera al figlio


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lunedì, 17 novembre 2008

La scienza
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Con Galilei nasce quella attività dell’intelletto cui diamo il nome di Scienza. E cioè lo studio della Logica del Creato ottenuta non limitandosi a riflettere e pensare, ma realizzando esperimenti. Nel corso dei dieci millenni che separano Galilei dall’alba della civiltà, l’intelletto di questa forma di materia vivente detta specie umana era riuscito a inventare il linguaggio scritto (da cui nasce la memoria collettiva permanente) e a scoprire la Logica.
La memoria collettiva affascinava Galilei. Con il linguaggio però è possibile dire tutto e il suo contrario. Nasce così — duemila anni prima di Galilei — il bisogno di capire su quali basi costruire strutture rigorose. Non discorsi che portano a conclusioni totalmente opposte. Mettiamoci d’accordo sulle verità da cui intendiamo partire. Ad esse diamo il nome di assiomi. Stabiliamo inoltre le regole con le quali, da quelle verità, è possibile dedurre determinate conclusioni. L’esempio più spettacolare di logica che affascinò i nostri antenati fu la geometria euclidea. Ci sono però tante logiche possibili. Qual è quella che regge il mondo in cui viviamo e di cui siamo parte? E’ possibile venirne a capo?
E’ qui che interviene il contributo straordinario di Galileo Galilei il quale dice: per scoprire la Logica del Creato c’è una sola strada, chiederlo all’Autore. Come? Non limitandosi a osservare le Stelle, come era stato fatto per migliaia e migliaia di anni, ma facendo, qui sulla Terra, esperimenti usando pietre, spaghi e legna. Bastava legare una pietra a uno spago, per scoprire le leggi del piano inclinato. Pendolo e piano inclinato li chiameremmo invenzioni tecnologiche. C’era bisogno di rigore per descrivere i risultati degli esperimenti. Galilei fu il primo uomo al mondo a usare la matematica per descrivere i risultati sperimentali.
Era anche necessario dare ai risultati un’interpretazione teorica. In termini moderni diremmo che Galilei era simultaneamente fisico sperimentale, teorico e inventore di nuove tecnologie. Uno strumento indispensabile per gli esperimenti galileiani era l’orologio. Esso era stato a portata di mano, da sempre. Ma da nessuno mai utilizzato. L’orologio che Galilei usò per realizzare i suoi esperimenti fu il ticchettio del suo polso. Spesso gli strumenti sono a portata di mano”
Antonino Zichichi

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domenica, 16 novembre 2008

Lo scienziato alla ricerca della verità
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Il compito dello scienziato è scoprire la verità nell'ambito del mondo realePremessa essenziale per questo compito è che egli possa fin dall'inizio poggiare saldamente su molte convinzioni fondamentali. Deve credere che esiste una verità da scoprire, che il mondo ha caratteristiche immutabili che sono le stesse in ogni tempo e in ogni luogo, o perlomeno che, se cambiano, lo fanno in modo regolare.  Deve inoltre credere di essere in grado di scoprire almeno parte della verità sulla natura. Queste convinzioni sono essenzialmente di carattere giudaico - cristiano e derivano dalla credenza fondamentale in un Dio che ha creato tutte le cose "in misura, numero e peso" (1) e conferendo ad esse caratteristiche proprie (2).

Potremmo porci innanzitutto la domanda di Pilato "che cos'è la verità?"  Pilato non si aspettava una risposta, ma si potrebbe definire vera una convinzione (credenza) che corrisponda alla realtà. Gli scienziati sono realisti. Gilson affermava: "Prima di tutto bisogna rendersi conto che l'uomo per sua natura è realista, secondo bisogna avere consapevolezza del fatto che per quanto egli si sforzi di pensare diversamente, non arriverà mai da nessuna parte; terzo, bisogna rendersi conto che quando l'uomo pensa diversamente, torna a pensare da realista non appena dimentica di recitare. La principale differenza tra l'idealista e il realista è che l'idealista pensa, mentre il realista conosce".
La verità oggi è minacciata da un una vasta gamma di pressioni politiche ed ideologiche. I mezzi di comunicazione sono saturi di propaganda disonesta che rende estremamente difficile capire quale sia la verità. Il postmodernismo e il costruttivismo sociale, affermando che la verità è relativa e socialmente condizionata, minano il concetto stesso di verità. La ragione è attaccata da quanti affermano che non esiste una verità oggettiva e che ciò in cui diciamo di credere non si basa sull’accettazione della realtà, ma deriva da un condizionamento sociale. La scienza ci può venire in aiuto, dimostrando che esiste una verità oggettiva e che dimenticare questo ha conseguenze disastrose. Si può ignorare la realtà per un po’, ma quanto più a lungo la si ignora tanto più tremenda sarà la resa dei conti. È nostra responsabilità combattere queste idee perverse. Solgenitsin, che ha avuto il coraggio di denunciare i mali del sistema sovietico, disse: “Il semplice atto di un uomo comune coraggioso è di non partecipare alla menzogna, non appoggiare azioni false. Una parola di verità pesa più del mondo intero”
Peter E. Hodgson


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sabato, 15 novembre 2008

 I positivisti
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"veramente io li ammiro, tutti questi grandi filosofi di quei sistemi nichilisti oggi così prosperi. Noialtri, pazienti scrutatori della natura, ricchi delle scoperte dei nostri predecessori muniti degli strumenti più delicati,armati del severo metodo sperimentale incespichiamo in ogni passo alla ricerca della verità, e ci accorgiamo che  il mondo materiale fin nella  sua minima manifestazione,è quasi sempre diverso da quelle che avevamo presentito. Ed essi, completamente in balia dello spirito del sistema, come fanno a sapere?”
L. Pasteur discorso per l’elezionae all’accademia di Francia

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 L’infinito bisogno di Dio
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Nelle mie scoperte scientifiche ho appreso più con il concorso della Divina Grazia che con i telescopi”.
 Galileo


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 L’infinito bisogno di Dio
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Si narra che l’illustre fisico inglese Farady, nelle lezioni che faceva all’Istituzione reale di Londra, non pronunciasse mai il nome di Dio, sebbene fosse profondamente religioso. Un giorno, eccezionalmente, questo nome gli sfuggì e improvvisamente si manifestò un movimento di simpatica approvazione. Accorgendosene Farady interruppe la lezione con queste parole: «Vi ho sorpreso pronunciando il nome di Dio. Se ciò non mi è ancora accaduto dipende dal fatto che io sono, mentre tengo queste lezioni, un rappresentante della scienza sperimentale. Ma la nozione e il rispetto di Dio arrivano al mio spirito attraverso vie tanto sicure quanto quelle che conducono alla verità dell’ordine fisico.
Il positivismo non pecca solo nel metodo… esso non tiene conto della più importante delle nozioni positive, quella dell’infinito. Al di là di questa volta stellata, che cosa c’è? Nuovi cieli stellati. Sia pure! E al di là ancora? Lo spirito umano, spinto da una forza irresistibile, non smetterà mai di chiedersi: che cosa c’è al di là? Vuole esso fermarsi, sia nel tempo, sia nello spazio?
Poiché il punto dove esso si ferma è solo una grandezza finita, soltanto più grande di tutte quelle che l’hanno preceduta, non appena egli comincia ad esaminarlo ritorna la domanda implacabile senza che egli possa far tacere il grido della sua curiosità. Non serve nulla rispondere: al di là ci sono degli spazi, dei tempi o delle grandezze senza limiti. Nessuno comprende queste parole.
Colui che proclama l’esistenza dell’infinito, e nessuno può sfuggirvi, accumula in questa affermazione più sovrannaturale di quanto non ce ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni… Io vedo ovunque l’inevitabile espressione della nozione dell’infinito nel mondo. Attraverso essa, il soprannaturale è in fondo a tutti i cuori.
L’idea di Dio è una forma dell’idea di infinito. La metafisica non fa che tradurre dentro di noi la nozione dominatrice dell’infinito. Dove sono le fonti genuine della dignità umana, della libertà e della democrazia, se non nella nozione di infinito di fronte alla quale gli uomini sono tutti uguali?».

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La bellezza del creato
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«Lo scienziato non studia la natura perché sia utile farlo. La studia perché ne ricava piacere, non fosse bella, non varrebbe la pena di sapere e la vita non sarebbe degna di essere vissuta. [...] Intendo riferirmi a quell'intima bellezza che deriva dall'ordine delle parti e che può essere colta da un'intelligenza pura. Proprio perché la semplicità e la verità sono belle noi cerchiamo di preferenza fatti semplici e fatti vasti; e troviamo piacere ora a guardare il corso immenso delle stelle ora dall'osservare al vastità, e ora dal ricercare nelle ere geologiche quei segni del passato che ci attraggono per la loro lontananza

Henri Poincaré


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mercoledì, 29 ottobre 2008

Scienza e religione
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«Credo che Planck ritenga religione e scienza del tutto compatibili perché si occupano di due aspetti diversi del reale. La scienza, studiando il mondo oggettivo e materiale, esige una grande accuratezza nelle affermazioni che facciamo sulla realtà oggettiva e nell’individuazione dei rapporti che intercorrono tra le diverse manifestazioni di questa realtà. La religione invece si occupa del mondo dei valori: tratta del mondo come dovrebbe essere, e non del mondo come è. La scienza si applica a distinguere il vero dal falso; la religione distingue invece il bene dal male, l’azione buona da quella cattiva. La scienza è il fondamento della tecnologia, la religione è la base dell’etica. In poche parole, mi sembra che il conflitto tra scienza e religione, che scoppia essenzialmente nel Settecento, nasca da un equivoco: o, più esattamente, dal fatto che si è voluto attribuire alle immagini e alle parabole della religione il valore di enunciati scientifici. È evidente che si tratta di un’operazione priva di senso. Io ho imparato dai miei genitori a distinguere tra aspetti soggettivi e aspetti oggettivi del mondo: degli uni si occupa la religione, degli altri la scienza. La scienza è per così dire il modo in cui affrontiamo e discutiamo il lato oggettivo del reale. La fede religiosa è invece l’espressione delle decisioni soggettive con cui scegliamo i criteri mediante i quali ci proponiamo di agire e di vivere. È vero che normalmente prendiamo queste decisioni a seconda degli atteggiamenti del gruppo — famiglia, nazione o cultura — cui apparteniamo. I fattori ambientali hanno dunque un peso decisivo, ma si tratta pur sempre di decisioni soggettive e dunque non rette dal criterio di ‘verità’ o ‘falsità’. Planck, mi pare, ha fatto uso di questa libertà finendo per schierarsi a fianco della tradizione cristiana. Ciò significa che i suoi pensieri e le sue azioni, che soprattutto attengono alla sfera delle scelte personali, s’inquadrano perfettamente nell’alveo di questa tradizione: nessuno si sogna di criticarlo, per questo. Planck, insomma, ritiene che l’aspetto soggettivo del reale sia nettamente distinto da quello oggettivo. In quanto a me, devo confessare che questa distinzione così rigida mi lascia perplesso: non credo che una distinzione così netta tra fede e conoscenza si possa mantenere anche sul piano del pensiero collettivo.»

W. Heisenberg Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965. Boringhieri, Torino 1984, pp. 92-103.
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lunedì, 27 ottobre 2008

Fede,ragione e scienza
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Giovanni Paolo II sottolinea invece l’importanza di coniugare fede e ragione nella loro reciproca relazione, pur nel rispetto della sfera di autonomia propria di ciascuna. Con questo magistero, la Chiesa si è fatta interprete di un'esigenza emergente nell'attuale contesto culturale. Ha voluto difendere la forza della ragione e la sua capacità di raggiungere la verità, presentando ancora una volta la fede come una peculiare forma di conoscenza, grazie alla quale ci si apre alla verità della Rivelazione (cfr Fides et ratio, 13). Si legge nell’Enciclica che bisogna avere fiducia nelle capacità della ragione umana e non prefiggersi mete troppo modeste: "È la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione" (n. 56). Lo scorrere del tempo, del resto, manifesta quali traguardi la ragione, mossa dalla passione per la verità, abbia saputo raggiungere. Chi potrebbe negare il contributo che i grandi sistemi filosofici hanno recato allo sviluppo dell’autoconsapevolezza dell’uomo e al progresso delle varie culture? Queste, peraltro, diventano feconde quando si aprono alla verità, permettendo a quanti ne partecipano di raggiungere obiettivi che rendono sempre più umano il vivere sociale. La ricerca della verità dà i suoi frutti soprattutto quanto è sostenuta dall'amore per la verità. Ha scritto Agostino: "Ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, ma nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente" (De diversis quaestionibus 35,2).
Non possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscere la natura si è poi trasformato nella volontà di riprodurla. Questo cambiamento non è stato indolore: l'evolversi dei concetti ha intaccato il rapporto tra la fides e la ratio con la conseguenza di portare l'una e l'altra a seguire strade diverse. La conquista scientifica e tecnologica, con cui la fides è sempre più provocata a confrontarsi, ha modificato l'antico concetto di ratio; in qualche modo, ha emarginato la ragione che ricercava la verità ultima delle cose per fare spazio ad una ragione paga di scoprire la verità contingente delle leggi della natura. La ricerca scientifica ha certamente il suo valore positivo. La scoperta e l'incremento delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e di quelle applicate sono frutto della ragione ed esprimono l'intelligenza con la quale l'uomo riesce a penetrare nelle profondità del creato. La fede, da parte sua, non teme il progresso della scienza e gli sviluppi a cui conducono le sue conquiste quando queste sono finalizzate all'uomo, al suo benessere e al progresso di tutta l'umanità. Come ricordava l'ignoto autore della Lettera a Diogneto: "Non l'albero della scienza uccide, ma la disobbedienza. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera" (XII, 2.4).
Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l'arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. E’ questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d'altronde, non è in grado di elaborare principi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie. La filosofia e la teologia diventano, in questo contesto, degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso, colmo di imprevisti e non privo di rischi. Ciò non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre strumenti di sviluppo; consiste, piuttosto, nel mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza, perché permanga nel solco del suo servizio all'uomo.
La lezione di sant’Agostino è sempre carica di significato anche nell'attuale contesto: "A che cosa perviene - si domanda il santo Vescovo di Ippona - chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione... Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente" (De vera religione, 39,72). Come dire: da qualsiasi parte avvenga la ricerca della verità, questa permane come dato che viene offerto e che può essere riconosciuto già presente nella natura. L'intelligibilità della creazione, infatti, non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente. "Il ragionamento non crea queste verità - continua nella sua riflessione sant'Agostino - ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e una volta scoperte ci rinnovano" (Ibid., 39,73). La ragione, insomma, deve compiere in pieno il suo percorso, forte della sua autonomia e della sua ricca tradizione di pensiero.
La ragione, peraltro, sente e scopre che, oltre a ciò che ha già raggiunto e conquistato, esiste una verità che non potrà mai scoprire partendo da se stessa, ma solo ricevere come dono gratuito. La verità della Rivelazione non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione; purifica piuttosto la ragione e la innalza, permettendole così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero stesso. La verità rivelata, nella "pienezza dei tempi" (Gal 4,4), ha assunto il volto di una persona, Gesù di Nazareth, che porta la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso di ogni uomo. La verità di Cristo, in quanto tocca ogni persona in cerca di gioia, di felicità e di senso, supera di gran lunga ogni altra verità che la ragione può trovare. E' intorno al mistero, pertanto, che la fides e la ratio trovano la possibilità reale di un percorso comune.
In questi giorni, si sta svolgendo il Sinodo dei Vescovi sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Come non vedere la provvidenziale coincidenza di questo momento con il vostro Congresso. La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell'uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di verità.
Benedetto XVI Da: Discorso ai partecipanti ad un Congresso Internazionale nel decimo anniversario della pubblicazione della Fides et ratio, Roma, 16 ottobre 2008


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giovedì, 11 settembre 2008

  LA PARTICELLA DI DIO
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CERN: ANCHE SUORA
A CACCIA DELLA ''PARTICELLA DI DIO'

(ASCA) - Roma, 10 set - E' uno dei primi risultati che ci si aspetta dal nuovo mega-acceleratore di particelle del Cern di Ginevra che ha funzionato oggi a pieno regime per la prima volta: la conferma dell'esistenza di quella che e' stata ribattezzata ''la particella di Dio' (gli scienziati, piu' sobriamente, la chiamano ''bosone di Higgs', dal nome del fisico che per primo ne teorizzo' l'esistenza). E nel progetto impegnato a scoprirla, lavora anche una suora, la domenicana suor Katarina Pajchel, fisico dell'universita' di Oslo, in Norvegia.

Il motivo di un soprannome cosi' altisonante per una particella subatomica sta nel fatto che
il bosone di Higgs e' la chiave di volta del modello standard della fisica contemporanea: ''serve', per cosi' dire, a conferire una massa a tutte le altre particelle del modello. Se la sua esistenza fosse confermata, con le caratteristiche che gli scienziati prevedono, tre delle quattro forze fondamentali che regolano la vita della natura sarebbero ricondotte sotto un'unica teoria scientifica e si sarebbe cosi' considerevolmente piu' vicini ad una ''teoria del tutto', in grado di spiegare il funzionamento dell'universo dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande.

''Ma - aggiunge suor Pajchel - speriamo anche di poter rispondere ad altre domande, ad esempio se esistono piu' di tre dimensioni nello spazio, o se possiamo meglio comprendere la piccola asimmetria tra materia e antimateria, che e' il motivo fondamentale per il quale esistiamo''.

Suor Pajchel ha spiegato al settimanale cattolico statunitense National Catholic Reporter che non c'e' nessuna contraddizione tra la sua fede e il suo lavoro scientifico.

''La nostra attuale comprensione dell'universo testimonia la potenza del pensiero, dell'immaginazione e della curiosita' umane.

Grazie ad esse, ci viene offerto di dare un'occhiata al piano creativo di Dio''. Sono le stesse leggi della natura, aggiunge, a parlare di un ordine, di una creativita' e di una bellezza stupefacente nell'universo.

Per quanto possano profonde le scoperte della scienza, suor Pajchel vede in esse non una minaccia ma ''una netta conferma dei veri misteri della fede, piu' chiara e piu' stimolante''.

''Entrare in contatto con la sobrieta' della scienza - conclude - ci rende meno vulnerabili e piu' equilibrati nell'incontrare quei moderni movimenti religiosi, come la New Age, che sono spesso quasi scientifici. Ci si puo' trovare nella situazione paradossale di difendere allo stesso tempo la ricerca scientifica razionale e i veri misteri della fede''.
grazie a:Blogger: StellaNuovastellanuova.

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domenica, 17 agosto 2008

Quando il genio crede in Dio
***
di Claudio Damioli
Stando a quel che dice il Papa, possono e devono coabitare: fede e ragione non si escludono a vicenda, l'una aiuta l'altra a conoscere la verità su Dio e sull'uomo. Il succo della recente Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Fides et ratio, può essere sintetizzato in questa semplice, profonda consapevolezza. Non tutti, ovviamente, concordano con il pensiero del Santo Padre. Non manca chi lo contesta, sostenendo che dove trionfa la ragione deve sloggiare la fede. Ma è la storia, sono i fatti innanzitutto a dar ragione al Papa. E questi fatti, bisogna conoscerli. Chi crede in Dio può star tranquillo. Da sempre, ininterrottamente fino ai nostri giorni, i più grandi "cervelli" dell'umanità dimoravano nel cranio di uomini di fede. Molti di coloro che sono universalmente riconosciuti come geni, credevano in Dio e pregavano il Creatore. Non risulta che abbiano mai riscontrato dissidi insuperabili tra la fede che professavano e la ragione che utilizzavano alla massima potenza. E tutto questo sia detto con buona pace degli scettici, pronti a sentenziare "aut fides aut ratio", o fede o ragione, certi che per far posto alla fede bisogna mettere a riposo la ragione. Tranquilli, cattolici: la storia, i fatti, l'esperienza, come vedremo, sono di tutt'altro parere. Troppo facile parlare dei filosofi. I più grandi credevano in Dio. Platone e Aristotele, due geni del pensiero, erano certi della sua esistenza, senza avere mai letto un solo rigo delle Sacre Scritture. Credenti, e santi, i sommi Agostino, Anselmo d'Aosta, Alberto Magno e Tommaso. Santo è anche Bonaventura. Pascal e Vico erano cattolici. E avevano fede pensatori del calibro di Cartesio e Leibniz, di Rosmini e Kierkegaard, di Bergson e Solovev, di Gilson e Del Noce. E anche Kant credeva in Dio (ma quanti errori in questo filosofo). Dalla filosofia alla scienza, il discorso non cambia. Anche in questo campo, il pensiero del Papa trova innumerevoli conferme nei fatti. Ed è un fatto innegabile che i più grandi scienziati di tutti i tempi erano, o sono impregnati di profonda religiosità. Gli esempi abbondano. Copernico era un religiosissimo canonico; Newton passava dagli studi sulla gravitazione universale alle pratiche di religione e di carità; saltava pasti e dormiva pochissimo, ma non tralasciava mai di pregare. Galileo Galilei era cattolico convinto, al punto di lasciar scritto che "in tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa". Keplero era credente; Boscovich, che era astronomo, fisico, matematico, architetto, storico e poeta, un vero genio universale, era anche gesuita. Credeva in Dio Ampere, e cosi Pasteur, il fondatore della microbiologia e della immunologia, che era una vera, autentica anima religiosa; Mendel, lo scopritore delle leggi che regolano l'ereditarietà dei caratteri, era frate agostiniano e sacerdote. I modernissimi Plank, Einstein e Bohr credevano in Dio. Il Nobel Rubbia, scienziato di prim'ordine e credente in Dio, ha dichiarato: "Noi [i Fisici] arriviamo a Dio, percorrendo la strada della ragione, altri seguono la strada dell'irrazionale". Non dimentichiamo, infine, un altro illustre italiano, Antonino Zichichi, uomo di fede e scienziato a tutto tondo. E questi sono soltanto una piccola parte Prendiamo dunque atto che l'idea che scienza e fede siano tra loro incompatibili, come per anni ci hanno insegnato a scuola, è totalmente falsa. Non dunque "aut fides aut ratio", ma "fides et ratio", come insegna il Papa nella sua ultima Enciclica. Ne era convinto anche il tedesco Max Plank (1858-1947), uno dei padri universalmente riconosciuti della fisica del nostro secolo, premio Nobel, che scriveva nel 1938: "Per quanto si voglia guardare, non troviamo da nessuna parte, tra religione e scienza, una contraddizione, ma precisamente, nei punti più decisivi, perfetta concordanza. La religione e le scienze naturali non si escludono a vicenda, come molti oggi credono o temono, ma si completano e si connettono reciprocamente". Gli fa eco, ai nostri giorni, un altro fisico di spessore internazionale, l'italiano Antonino Zichichi, direttore del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, di Erice, in Sicilia: "L'antitesi scienza-fede e la più grande mistificazione di tutti i tempi. La scienza studia l'immanente, le cose che si toccano. Come ha già detto Galilei, 1'immanente non entrerà mai in conflitto con il trascendente che appartiene alla fede. Mondo materiale e mondo spirituale hanno la stessa origine dal Creatore". Lo scrittore Vittorio Messori, dichiara nel suo Qualche ragione per credere (Mondadori,1997): "Bisogna stare attenti a non cascare nel trappolone che vorrebbe convincerci di un divorzio irreparabile e unanime tra scienza e fede, non appena si entra nell'epoca moderna. Prendi, ad esempio, uno dei simboli e dei fattori più potenti della "modernità": l'energia elettrica. Alessandro Volta era un uomo da messa e da rosario quotidiani; Andre-Marie Ampere scrisse addirittura delle Prove storiche della divinità del Cristianesimo; Michael Faraday alternava straordinarie invenzioni a predicazioni del vangelo sulle strade inglesi; Luigi Galvani era devoto terziario francescano; Galileo Ferraris un austero, esemplare cattolico praticante; Leon Foucault, il primo che calcolò la velocità della luce, un convertito.. Come vedi, mi sono limitato al campo "elettrico", ma potrei tediarti dandoti liste analoghe per ogni altra disciplina scientifica" . Certo, non tutti gli scienziati soprannominati erano, o sono cattolici. Ma tutti erano e sono convinti dell'esistenza di Dio, ed e quanto basta per dimostrare concretamente, contro chi lo nega, che Fides et ratio, fede e ragione possono convivere benissimo. A meno di voler ammettere una assurdità: e cioè che i summenzionati luminari, quando si occupavano di Dio, pensionavano la ragione. Dai geni della scienza a quelli della letteratura e della poesia, la storia non cambia. Il sommo Dante in testa a tutti, e poi Petrarca, ma anche Shakespeare, Milton, Dostojevski, Manzoni, il Nobel Grazia Deledda ("cattolica a tutte lettere", la definisce il gesuita Sommavilla) per arrivare a Claudel e poi Lewis, Bernanos, il Nobel Mauriac, Julien Green, Tolkien, Peguy, Chesterton, Elliot. Stessa musica nel campo dell'arte. Giotto, il Beato Angelico (era un frate), Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Bramante, Rembrandt, per citare solo alcuni tra i talenti più noti, non si spiegherebbero senza la fede. Tutto il loro genio è emerso in dipinti e sculture a sfondo religioso. Fede e ragione convivono, insegna la storia. A chi lo nega, vien bene suggerire quel che diceva Gustave Thibon, il francese autodidatta, un genio della umana saggezza: "Chi rifiuta di essere l'immagine di Dio, sarà in eterno la sua scimmia".


Postato da: giacabi a 07:48 | link | commenti (2)
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sabato, 14 giugno 2008

La religione
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Senza la religione l’umanità si troverebbe oggi ancora allo stato di barbarie...
 E’ stata la religione che ha permesso all’umanità di progredire in tutti i campi ".
"non ho trovato una parola migliore di religione per definire la fiducia nella natura razionale della realtà, per quanto sia accessibile alla ragione. Ogni volta che questo sentimento è assente, la scienza degenera in un piatto empirismo."

Einstein


Postato da: giacabi a 20:45 | link | commenti
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