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mercoledì 22 febbraio 2012

senso religioso


L’uomo ricerca l’assoluto
***

 
Cosí anche la teoria della relatività, troppe volte male interpretata, non solo non sopprime l'assoluto, ma al contrario mette in evidenza in modo ancor piú netto che la fisica si fonda sempre su di un assoluto posto nel mondo esterno. Poiché se l'assoluto, come pretendono molti teorici della conoscenza, esistesse solo nell'esperienza vissuta di ognuno, dovrebbero esserci tante fisiche quanti sono i fisici, e non potremmo affatto comprendere come mai sia stato possibile, almeno fino a oggi, costruire una scienza fisica che è la stessa per le intelligenze di tutti gli scienziati, nonostante le differenze delle loro esperienze vissute. Non siamo noi che creiamo il mondo esterno perché ci fa comodo, ma è il mondo esterno che ci si impone con violenza elementare: ecco un punto su cui è necessario insistere, nel nostro tempo impregnato di positivismo. Quando, nello studio di ogni fenomeno naturale, procuriamo di passare da ciò che è particolare, convenzionale e casuale a ciò che è generale, obiettivo e necessario, non facciamo altro che cercare dietro il dipendente l'indipendente, dietro il relativo l'assoluto, dietro il transitorio il perenne. E, per quanto mi consta, questa tendenza non è rilevabile soltanto nella fisica, ma in ogni scienza, e non solo nel campo del sapere, ma anche in quello del buono e del bello
M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. di E. Persico e A. Gamba, Boringhieri, Torino, 1964, pagg. 172-174





Postato da: giacabi a 19:37 | link | commenti
dio, senso religioso, plank

sabato, 07 giugno 2008

Il caso?
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"Nel mondo non esiste solo la necessità, ma anche il caso, dice Monod. Come cristiani noi andremmo ancora un gradino più a fondo e diremmo: esiste anche la libertà. Ma ritorniamo a Monod. Egli ricorda che esistono in particolare due realtà, che non dovevano necessariamente esistere: potevano, ma non dovevano necessariamente esistere. Una delle due è la vita. Secondo le leggi fisiche, la vita poteva, e non doveva, aver origine. Anzi, egli aggiunge: era estremamente inverosimile che ciò si verificasse. La probabilità matematica in questo senso era pressoché nulla, per cui possiamo anche ritenere che la vita, questo evento estremamente improbabile, si sia verificata una sola volta sulla nostra terra.
La seconda realtà, che poteva ma non doveva necessariamente essere, è il misterioso essere uomo. Anche lui è così improbabile che Monod afferma in veste di scienziato: dato l’alto grado di improbabilità può darsi benissimo che solo una volta si sia verificato l’evento che ha dato origine a questo essere. Noi siamo un caso, conclude. Abbiamo estratto un numero fortunato alla lotteria, dobbiamo paragonarci a una persona che inaspettatamente ha vinto un miliardo alla lotteria.
 Nel suo linguaggio ateo egli non fa che ripetere quel che la fede dei secoli passati aveva chiamato la «contingenza» dell’uomo e quel che per la fede si era tramutato in preghiera: io non dovrei essere, ma sono, e tu, o Dio, mi hai voluto. Solo che al posto della volontà di Dio Monod mette il caso e la lotteria, che ci avrebbero dato origine. Se le cose stessero così, sarebbe davvero difficile affermare che si è trattato di un colpo di fortuna. Non molto tempo fa un taxista mi faceva osservare che un numero crescente di giovani spesso ripete: «Non mi è mai stato chiesto se volevo nascere». E un maestro mi riferiva: «Ho cercato di indurre un alunno ad essere grato ai genitori dicendogli: “Devi pur loro la vita!“. Ma egli mi ha risposto: “Di questo non sono proprio grato!”». Quel piccolo non vedeva alcuna fortuna nell’essere uomo. E in effetti, se siamo stati gettati dal caso cieco nel mare del nulla, abbiamo sufficienti motivi per ritenere questo fatto un colpo di sfortuna. Solo se sappiamo che esiste uno che non ha tirato ciecamente a sorte, che noi non siamo un caso, bensì siamo dalla libertà e dall’amore, allora noi, i non necessari, possiamo ringraziare per questa libertà e riconoscere con gratitudine che è un dono essere uomini."
Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra Riflessioni sulla creazione e il peccato, «I Pellicani» - religione, cristianesimo, spiritualità – Edizioni Lindau, Torino Ottobre 2006


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dio, benedettoxvi, senso religioso

sabato, 31 maggio 2008

Motivo dimenticato
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Piove su tutte le strade
e piove nel fondo al mio cuore:
non so, non so da dove
giunge questo languore
.
Sonoro bruir della piova
per le zolle, sopra le ardesie;
a un cuor che dolce s’accora
oh dolce bruir della piova!
Questo pianger da dove mi viene?
Inganno? E quale? Nessuno.
Eppure nel cuore che geme
da dove, da dove mi viene?
E come duole un dolore
senza radice alcuna.
Odio non c’è, non c’è amore:
e tanta è la pena del cuore
.
 Paul Verlaine


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verlaine, senso religioso

venerdì, 30 maggio 2008

Libertà nell'ambito religioso
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Le meraviglie della Sardegna e Corsica
«Un’altra liberazione si realizza infine nell’esperienza religiosa e nell’ambito religioso. Il termine religioso non ha qui ancora il significato cristiano, ma indica quel sentimento e quella condotta che diviene consapevole del divino, inteso in senso generale, del «numinoso» come, dopo Rudolf Otto, lo chiama la scienza delle religioni, cercando di stabilire un rapporto con esso.
Il motivo e la situazione della esperienza religiosa possono essere molto diversi. E’ una esperienza che può attuarsi davanti alla natura, sotto il cielo notturno, o nella quiete delle montagne; davanti alle opere della cultura, come nell’entrare in una cattedrale, o nell’udire un composizione musicale; davanti a persone che colpiscono per un loro particolare modo di essere; davanti ad avvenimenti storici che innalzano o scuotono; ma anche nelle vicende quotidiane ed infine anche senza un particolare motivo, in un qualsiasi momento, per una qualsiasi causa, semplicemente. L’intima profondità dell’uomo toccato da questa esperienza avverte qualcosa che è diverso dal mondo e dalla terrestrità qualcosa di straniero e misterioso e tuttavia familiare nel modo più profondo; qualcosa di non inseribile nel già noto, e nondimeno reale e possente; qualcosa certo di particolare che è essenziale per la vita personale e non può essere sostituito da nessun altra cosa.»
Romano Guardini, Libertà - Grazia - Destino, Morcelliana, 2000 (pagg.59-60)
 grazie a:Graciete

Postato da: giacabi a 22:32 | link | commenti
guardini, senso religioso

lunedì, 26 maggio 2008

La libertà dell’uomo di riconoscere Dio
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L’ateo dice: “Io non conosco Dio,non ho bisogno di questa nozione”. E’ come se un uomo che naviga in una barca sul mare dicesse che non conosce il mare e che non ha bisogno di averne la nozione. Quell’Infinito che ti circonda e su cui ti muovi,le leggi di questo Infinito ti parlano di Dio. Dire che non lo vedi è fare come lo struzzo.
L. Tolstoj

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tolstoj, senso religioso

domenica, 25 maggio 2008

Ricercare la Verità,
senso profondo dell’esistenza umana
(17 agosto 2005)
 ***

«Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella» (Mt 2,2)
Francesco Lambiasi, vescovo Assistente generale Azione Cattolica
Voglio trovare un senso a questa sera
anche se questa sera un senso non ce l’ha.
 Voglio trovare un senso a questa vita
anche se questa vita un senso non ce l’ha.
 Voglio trovare un senso a questa storia
anche se questa storia un senso non ce l’ha.
Queste parole – tratte da una canzone di Vasco Rossi – voi le conoscete e, forse, in parte vi ci riconoscete o perlomeno ci riconoscete il profilo di qualche vostro amico o amica. Queste parole dicono la nostalgia struggente di un senso, e quindi di un sapore, di un gusto, di una perfezione assoluta, di un cielo incontaminato, ma gridano pure l’angoscia disperata di un labirinto asfissiante e senza uscita. E’ questa la vita: una ingiusta, insopportabile condanna-a-morte? Veniamo dal nulla, viviamo di nulla, costretti a passare i nostri poveri giorni nella morsa a tenaglia tra una volontà irrinunciabile – “voglio trovare un senso a questa vita” – e una verità irraggiungibile – “anche se un senso non ce l’ha”? Siamo torturati da una sete cocente e nello stesso tempo in preda a un miraggio seducente e disperante? Siamo pacchi postali spediti dall’ostetricia all’obitorio?

1. Il vicolo cieco del Nulla?
 Tragico o assurdo quanto si vuole, ma è così. O meglio, sarebbe così secondo una delle posizioni che si possono recensire al riguardo. “In principio era il Non-Senso e il Non-Senso era presso Dio e il Non-Senso era Dio”, sentenziava il padre del nichilismo, F. Nietzsche. Non c’è alcun fine, non si va da nessuna parte, non c’è alcun valore, non esiste alcuna verità. Una parodia tragica del nichilismo nietzscheano è quella dello scrittore Ernest Hemingway: “O nulla nostro che sei nel nulla, sia nulla il tuo nome, nulla il regno tuo, e sia nulla la tua volontà, così in nulla come in nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano. Ave, nulla, pieno di nulla, il nulla sia con te”.
 Lo stesso filosofo del nulla scattava questa istantanea della nostra società di inizio Millennio, nel lontano 1888: “Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Tutta la cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa… Alla fine l’uomo osa una critica di tutti i valori in generale e non crede più in nessun valore: ecco il pathos, il nuovo brivido… Che significa nichilismo? Che i valori supremi si svalorizzano… che non ci sia una verità… che a ogni valore non corrisponda nessuna realtà”.
 Qualcuno potrebbe pensare che queste cose si trovino in pesanti, polverosi tomi di biblioteca. E invece continuano ad intossicare l’aria che respiriamo. Mi limito a qualche esemplificazione.
 Il messaggio del più noto romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, si condensa nelle ultime pagine con due citazioni, una in latino e una in tedesco.
 Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus: “L’antica rosa (Dio) esiste come nome, abbiamo soltanto puri nomi”. Cioè: abbiamo in mano soltanto nude parole, suoni vuoti, dietro cui c’è solo il nulla. La verità non esiste, “non è da nessuna parte”. Anche Dio è solo una bella parola, ma in realtà è un puro nulla: Gott ist ein lautes Nichts. Anche l’altro romanzo, L’isola del giorno prima, si conclude con il dissolvimento di Dio e dell’uomo “in questo grande vuoto del vuoto… composto dall’unico grande nulla, che è la Sostanza del tutto”.
Sullo stesso tasto batte José Saramago, il romanziere portoghese Nobel per la letteratura 1998. La storia è tutta una pazzia, governata com’è da un destino beffardo. Cos’è la vita? Un’apparizione situata tra il nulla e il nulla: il nulla dell’anagrafe e il nulla del cimitero. Tutti siamo “niente… diversi nomi dell’illusione”.
La ricaduta di questi segnali? Una società obesa e depressa, ingolfata e alienata, con un pesante, penoso deficit di speranza. Certo, ci manca la giustizia, sicuramente ci manca, e molto, l’amore, ma più ancora ci manca un senso: non-significato del lavoro, non-significato del piacere, non significato della sessualità. Ai tempi di Freud si parlava di frustrazione sessuale; oggi si deve parlare piuttosto di frustrazione esistenziale. Soffriamo di un vuoto abissale: che senso ha la nostra esistenza?
Se c’è un senso, è sopportabile anche il dolore; se non c’è un senso, il lavoro è inutile, perfino il piacere diventa noioso, e l’angoscia si fa intollerabile. Smarrita la luce della vita, si scolora il quotidiano. Ecco come A. Camus, nobel per la letteratura, già una cinquantina d’anni fa descriveva l’uomo moderno preso negli ingranaggi mortificanti della vita moderna: “Alzarsi, tram, quattro ore di lavoro, mangiare, tram, quattro ore di lavoro, riposo, dormire,  e lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì con lo stesso ritmo… a un tratto tutto crolla, l’assurdità e il vuoto di una simile esistenza si rivelano crudelmente. E allora l’interrogativo fondamentale: ma la vita merita di essere vissuta?”.
Prima di morire I. Montanelli confessava: “Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli. La mia è soltanto una dichiarazione di fallimento” (Corriere della Sera, 28 febbraio 1996).
Ma se la vita non merita d’essere vissuta, non resta che sprofondare nella noia, annegare nella droga, sfogare la disperazione nella violenza. Ma allora ci dobbiamo dire con chiarezza che non è vero che questa “cultura del nulla” non porti da nessuna parte. In verità porta… all’inferno. Non è una “bufala”. Proprio di “inferno” si parlava in una lettera-denuncia giunta al quotidiano Avvenire il 23 luglio u.s., a firma di Marzia Sgrevi, presidente della cooperativa che gestiva la ristorazione al campeggio di “Arezzo Wave”, il festival di musica rock tenutosi dal 12 al 17 luglio scorso. “Ho visto gente “farsi” davanti alla cassa del bar senza ritegno: tanto al campeggio nessuno ci fa caso, nessuno controlla. Fare sesso davanti a tutti oppure “farsi” durante l’atto sessuale per raggiungere il massimo dello sballo. Gente che arrivava al 118 allestita all’interno del campeggio ferita da coltelli. Gli accoltellamenti erano frequenti, e di solito legati a scontri tra spacciatori. Mille o forse più gli spacciatori presenti. Quest’anno c’erano pure tanti bambini all’interno del campeggio: alcuni, figli di tossicodipendenti, li ho visti in crisi di astinenza”.
Sono solo alcuni esiti estremi, questi, della cultura del non-senso? E i tanti giovani in depressione – in Italia uno su cinque! - a chi li mettiamo a carico?  Non ci dicono niente i miliardi di euro dedicati al gioco d’azzardo che in Italia sono aumentati di quasi la metà in quattro anni – cifre da manovra finaziaria?! Non ci dice niente il fatto che in Europa un giovane su quattro, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, muore a causa dell’alcool? che nella sola Milano nell’ultimo anno 136 giovani hanno tentato il suicidio, ma pare che il numero si debba moltiplicare almeno per 10? che in Italia i maghi sono numerosi come i medici: 1/2.900 abitanti? Smarrito il senso, trionfa la banalità, dilaga la disperazione; negata la verità, si afferma la superstizione; archiviato Dio, proliferano i demoni: vedi il satanismo.
Ma ora, senza continuare in questa lugubre litania, forse è più opportuno passare ad una lettura critica della cultura del nulla.
Ci dobbiamo porre, al riguardo, due domande: quella del prima e quella del dopo.
Cosa c’è prima del mio inizio? Le risposte possibili sono due: o alle mie spalle c’è un Altro che mi ha pensato e voluto, e allora non vengo dal nulla, vengo dall’Amore. Oppure alle mie spalle non c’è l’Amore, ma il nulla, ma allora resta da spiegare come mai io ci sia eppure non l’ho deciso io di iniziare ad esistere, non ho fatto io la domanda di poter venire al mondo e di venirci da uomo e non da cavallo, non mi sono fatto da me, a mio piacimento.  E poi se io venissi dal nulla, allora non avrei nulla da sperare, nulla da fare se non lasciarmi andare alla deriva del nulla. Senonché non è possibile volere il nulla e vivere di nulla. Di fatto ognuno sceglie un comportamento perché almeno implicitamente si pone un certo fine. Se invece tutto fosse uguale a zero, se nulla facesse la differenza tra l’onestà e la delinquenza, tra la bontà e la cattiveria, tra la tenerezza e la crudeltà, allora tutto sarebbe uguale al contrario di tutto: il bene sarebbe uguale al male, e alla fine i carnefici avrebbero l’ultima parola sulle vittime innocenti, Hitler sarebbe uguale a Massimiliano Kolbe, e Gandhi potrebbe andare a braccetto con Benladen.
In realtà la volontà del nulla deriva da un amore deluso: da un amore assoluto dell’essere, deluso dall’insufficienza di ciò che appare. Insomma ciò che si vuole veramente è che ci sia qualcosa di consistente, che ci sia l’Amore. Anche il suicida che sceglie di non essere più e quindi decide di uccidere la sua volontà di essere, sceglie di agire per l’unico bene che gli appare in quel momento: quello di far cessare il suo male e quindi paradossalmente grida la sua volontà più profonda, assetata di un Essere vero.  
 Legato a questo problema del “prima”, è il problema del “dopo”: se vengo da un Altro che mi ha pensato e voluto e quindi mi ha amato, non posso andare verso il nulla. Che Amore sarebbe infatti quello che mi avrebbe posto in essere  solo per farmi andare verso la distruzione totale del mio essere? Non è crudele e contraddittorio affermare che il Mistero d’amore che è all’origine della mia storia mi abbia messo in cammino solo per farmi cadere nell’abisso del nulla?
Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo -  confessava Montanelli - La nostra vita, il mondo, il creato, l’esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la mia ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove mente e ragione finiscono – e finiscono purtroppo presto – che per me comincia il grande mistero di Dio”.
Ora, il grande mistero di Dio è un mistero d’amore, che ha il volto e il nome di Padre-Abbà: questo ci ha rivelato Gesù. Ma se Dio è Abbà-Papà, allora sono al mondo su chiamata di Dio, allora c’è un disegno di amore previdente e provvidente sulla mia vita. Posso pensare che esista qualcosa di più giusto e utile per me dell’accettare di realizzare quel piano che è stato tracciato appositamente per me? Colui che fa funzionare l’universo non sarà in grado di far andare bene anche la mia vita? Quel Padre che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e che in una notte nera su una pietra nera vede una formica nera e se ne prende cura, non si prenderà cura di me?
 Questa è la bella notizia (il vangelo) di Gesù: siamo amati prima di ogni nostro bisogno d’amore; siamo attesi, oltre ogni nostro desiderio di attesa; siamo accolti, prima ancora di ogni nostro sogno di ospitalità.

2. La via infinita, senza meta?  
C’è un altro modo per affrontare (o non affrontare!) il problema della verità e del senso della vita: quello di ritenere che non esista una verità, ma che la verità abbia tanti volti e tante espressioni quanti sono gli uomini che ne parlano. Viviamo in un tempo in cui nulla è fisso, nulla è certo, tutto è sfuggente, mobile, inafferrabile. Siamo, dice Bauman, in una “società liquida”, nomadi sperduti in una società individualizzata, soli e spauriti nel grande mercato globale, abitato da sei miliardi di solitari.
 Viviamo nella cultura del frammento: non esiste più il progetto, la storia. Il tempo si frantuma in una miriade di istanti e di eventi che fluiscono senza ordine, senza direzione. Come lo zapping davanti alla TV, come le scorribande dei navigatori su internet, la vita si è fatta un guazzabuglio di immagini in cui si riflette la fantasmagoria della società contemporanea, febbricitante di stimoli e di esperienze.
 Il grande pericolo oggi è quello di teorizzare “la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità di raggiungere la meta della verità” (Giovanni Paolo II, Fides et Ratio 46).
 Ma occorre decidersi una buona volta per tutte. Non si può cercare all’infinito; non si può rimanere alla finestra a guardare. Bisogna fare come Zaccheo e scendere dall’albero… In una breve poesia E. Montale confessava: “Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. Ahimè non sono un rampicante e anche restando / in punta di piedi, non l’ho mai visto” (Diario, 1971). La posizione scelta da Montale è assai diffusa fra persone che si dichiarano intellettualmente oneste e moralmente esigenti. Si sceglie di stare in perpetua ricerca. Oggi la ricerca della verità viene da alcuni elevata a valore supremo, al di sopra della stessa verità. “Se Dio – aveva scritto l’illuminista G.E. Lessingtenesse stretta nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra soltanto l’aspirazione sempre viva della verità, fosse anche a condizione di dovermi sempre, eternamente sbagliare e mi dicesse: ‘Scegli!’, umilmente mi prostrerei verso la sua sinistra dicendo:Questa, Padre! La pura verità appartiene senz’altro a te”.
 E’ una posizione soggettivamente sincera, ma oggettivamente ambigua: con il pretesto di non voler essere mai “sicuri di sé”, questa posizione nasconde un orgoglio sottile: finché si è alla ricerca della verità, il protagonista è il ricercatore, non la verità. La “veracità”, cioè la sincerità della ricerca, l’onestà con se stessi, prende, in questo caso, il posto della verità. La Scrittura ci parla già di alcuni i quali sono “sempre in ricerca, ma senza mai giungere al riconoscimento della verità” (cfr 2Tm 3,7). E’ un tentativo sottile di condurre il gioco, di tenere in scacco Cristo. Di questo passo infatti l’uomo può passare la vita intera a fare ricerche su Cristo, senza mai farsi incontrare personalmente da lui.
 Finché restiamo “in punta di piedi”, in perpetua ricerca, o chiusi nella stanza degli specchi delle interpretazioni, o dondolanti sul ramo di un albero, riusciremo al più a soddisfare una curiosità, ma non a fare l’esperienza dell’incontro che salva. I magi invece non si sono accontentati di contemplare la stella; hanno lasciato casa e patria e sono andati alla ricerca del neonato “re dei Giudei”.

3. La via della stella
Ciò che colpisce nel racconto dei Magi è un particolare tutt’altro che secondario: appena hanno intravisto la stella, subito si sono messi in cammino: “Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo”. Vedere e partire: i Magi non si sono messi a calcolare rischi e pericoli, non si sono fatti prendere dalla nostalgia dell’ambiente che stavano per lasciare, hanno affrontato rinunce e disagi e così, solo così, hanno potuto trovare il re dei Giudei.
Questa capacità di distaccarsi dall’ambiente di tutti i giorni, di prendere le distanze dai luoghi comuni, di liberarsi dalla schiavitù degli idoli più seducenti mi pare una premessa indispensabile per trovare la verità che salva la nostra vita dal non-senso.
Vorrei accennare qui ad alcuni idoli dominanti nella cultura occidentale.
Il primo è l’idolo del piacere.Se vuoi essere felice, cerca di godere finché  puoi, più che puoi”. La cultura edonistica celebra i suoi trionfi soprattutto nel campo della sessualità, dove l’unico criterio sembra essere l’esaltazione del libero godimento, in nome dell’autonomia da ogni “repressione”. Di fatto non si può misconoscere il mare di sofferenze che derivano dalla disgregazione della famiglia, dai sentimenti calpestati, dai coniugi abbandonati, dai figli contesi o lasciati soli, dalla dignità della persona umana umiliata, dall’abbrutimento della pornografia, dall’abominio della pedofilia e della prostituzione infantile.
Il secondo idolo è quello dell’immagine; la sua ideologia si potrebbe formulare così: “Se sei bravo, avrai successo; se avrai successo, sarai felice”. Viviamo, si dice, in una società “meritocratica”, ma è proprio vero? E’ proprio vero che arriva al successo chi è davvero bravo, competente e capace? E’ questo che avviene, ad esempio, nel mondo dello sport o dello spettacolo, o invece per “sfondare”, occorrono bustarelle, spinte, sgambetti? Non dico che avvenga sempre così, che cioè il successo sia sempre comprato; ma se non è sempre così, allora non si può considerare un dogma quella che è solo una (rara) possibilità, e cioè che se sei bravo, puoi arrivare al successo, ma non è detto che ci riesca. E comunque è ancora meno vero che se si raggiunge il successo, si ottiene la felicità. E’ proprio sicuro che le persone più felici si trovano nel settore dei V.I.P.?
Il terzo idolo è quello della libertà. Ma qui bisogna spiegarsi. La libertà, di per sé, è un grande dono di Dio, e il fatto che la società occidentale si sia costruita sul principio del rispetto della persona e dei diritti umani è una grande conquista positiva, indiscutibile e irrinunciabile. Ma tale principio “impazzito” può portare all’individualismo eretto a idolatria (“io mi faccio i cavoli miei”), anche perché sganciato da ogni esigenza di solidarietà e responsabilità. Una libertà selvaggia, “legge a se stessa”, porta inevitabilmente a soggiacere all’istinto, al capriccio, e quindi a smarrire ogni logica del bene comune, ogni doveroso rispetto dei diritti altrui, ogni generosa apertura ai bisogni dei più poveri e dei più deboli.
Occorre una cambiamento di rotta; mettersi in cammino al seguito della stella di Cristo Gesù. Come hanno fatto i magi. Come fece Francesco d’Assisi. Immaginiamo di incontrare il figlio di Pietro di Bernardone in una delle tante feste da lui organizzate: è un giovane che scoppia di vita e di sogni. E ha anche i mezzi per realizzarli. Ricco, intelligente, simpatico, alquanto esibizionista, con una voglia matta di stare sempre al centro dell’attenzione, sembra il tipo del “giovane lupo” che addenta la vita con avidità. Il suo avvenire è senza problemi: soldi, belle compagnie, notti folli e “casinare”: cosa gli manca? Ecco come lo ricorderanno tre dei suoi primi compagni: “Non era spendaccione soltanto in pranzi o in divertimenti, ma passava ogni limite anche nel vestirsi. Si faceva confezionare abiti più sontuosi di quanto non convenisse alla sua condizione sociale, e nella smania dell’anticonformismo, arrivava a far cucire insieme nello stesso vestito stoffe preziose e toppe di panno grezzo” (Legenda dei tre compagni, I,2). C’è però una cosa che Francesco cerca e non trova: la felicità. Di questo passo non la troverà mai, perché scambia la gioia con il piacere ( “a me mi piace”), la libertà con la voglia (“a me mi va”), la verità con l’opinione (“a me mi pare”).
Francesco non è nato santo: lo è diventato. Le fonti francescane ricostruiscono in modo dettagliato e convergente il processo della sua conversione: dopo varie delusioni e sconfitte, il giovane Francesco viene toccato dalla grazia di Dio e vi si arrende, disarmato e  disponibile. Finora non ha vissuto  una vita dissoluta; ha semplicemente immaginato di poter servire Dio e gli idoli del suo tempo: la gloria militare, il piacere di festini e corteggi, il sogno di essere il primo, sempre e in tutto. Ora si ritrova distrutto, ma dopo varie esperienze, finalmente – leggiamo nella stessa Legenda – Francescosmise di adorare se stesso”.
Questa è la conversione più radicale: è la rinuncia al padre di tutti gli idoli, il nostro Io, per far posto a Dio; è “allontanarsi dagli idoli per servire al Dio vivo e vero” (cfr 1Ts 1,9b).
 Storia di altri tempi? Leggiamo allora una pagina ancora in corso, quella di Alessandra Borghese, vaticanista di Panorama. Ripensando alla confessione che ha dato una “svolta” alla sua giovane vita e le ha fatto guardare a Dio Con occhi nuovi – è il titolo del suo libro - racconta: “Avevo scoperto con una gioia che non riesco neanche pienamente a descrivere, che Dio era lì per me, per accogliermi e offrirmi il suo aiuto. Provai un sollievo enorme, mi sentii come rinata”.Cari giovani, vi auguro in questi giorni di poter vedere o rivedere la stella del vangelo. Riprendete la via che essa vi indica. Lasciate le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli correnti: il successo a tutti i costi, la bella figura sempre e comunque, il piacere a prezzi stracciati. “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”, ha ripetuto papa Benedetto, ricordando il grande e indimenticabile Giovanni Paolo II. Oggi, anch’io vi ripeto: “Non abbiate paura di Cristo!”. Lui non è venuto per togliervi la vita, per spegnere la vostra voglia di felicità, per espropriarvi della vostra libertà. Beati voi se crederete al suo amore e gli direte sì..


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sfrancesco, senso religioso

sabato, 24 maggio 2008

 La fede è una grazia da mendicare
***

 Indro Montanelli, Corriere della Sera, 28 febbraio1996

 Io ho sempre sentito la mancanza di fede e la sento come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza avere saputo di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli. La mia è soltanto una dichiarazione di fallimento….Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. La nostra vita, il Mondo, il Creato, l'Esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove la mente e la ragione finiscono, e finiscono purtroppo presto, che per me comincia il grande Mistero di DioSo che morrò senza avere trovato risposta alle tre più importanti domande della nostra vita :di dove vengo, dove vado e che cosa sono venuto a fare: il che mi da quando ci penso, e ci penso sempre più spesso, un senso di disperazione. Ma non posso giocare a rimpiattino con me stesso, tanto meno con Dio, fingendo una fede che non ho."

Postato da: giacabi a 21:44 | link | commenti
fede, montanelli, senso religioso


Il coraggio di andare oltre
 ***
 
Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
 per vedere il Signore se mai passi.
 Ahimè non sono un rampicante e anche restando
 in punta di piedi, non l’ho mai visto”.
E.Montale diario del 71
                                  ***
Nessuno vede Gesù senza uno po’ di fatica
nessuno riesce a vedere Gesu se resta
attaccato alla terra”.
S. Ambrogio In LucamVIII,81

Postato da: giacabi a 18:43 | link | commenti (1)
montale, sambrogio, senso religioso

venerdì, 23 maggio 2008


Il senso religioso
***
" Considero la scienza una parte essenziale del nostro sforzo di rispondere a quel grande problema filosofico che comprende tutti gli altri [...] : chi siamo noi? E di più; considero questo non soltanto uno degli scopi, ma lo scopo della scienza, quello solo che conta “
Erwin Schrödinger  premio nobel per la fisica 1933

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senso religioso, scienza - articoli

venerdì, 16 maggio 2008

Il senso religioso
***
Ma com'è bello il mondo e com'è grande Dio,
“M'illumino d'immenso” perchè ci sono anch'io.
Ci son con la Ragione, che si chiede: perchè?
Che centrano le stelle, con tutto quel che c'é?
Partire da se stessi, è prima condizione
se no si corre il rischio, di fare confusione.
Confondersi le idee, e credere perfetti
solo delle opinioni, solo dei Preconcetti.
Sorprenditi in Azione, in tutto quel che fai
ti costerà fatica, ma certo capirai.
Impegnati con Tutto, non essere parziale
non trascurare nulla, se no ci resti male.
Impegnati anzitutto, con la tua Tradizione
verifica se é vera, col cuor fai paragone.
E parti dal Presente, ricco di tanti segni
non essere distratto, capisce chi s'impegna.
E scoprirai che tu, non sei sol quel che appari
sei molto, molto più, sei un tipo Eccezionale.
E lo sei sol perché, ti poni la Domanda
non dici “signor sì”, a quello che comanda.
Perchè chi ti comanda, tarparti vuol le ali
ma al Cuor non si comanda, rimanigli leale.
Rimanigli fedele, anche se fa un po' male
e la Tristezza c'è!, sei mica un'animale!?
E la tristezza c'è, quand'è tutto finito
ti dico io il perché: sei Sete d'Infinito.
E anche se al dì festivo, non ascolti la Messa
il cuor sempre ti dice: la vita è una Promessa.
Promessa di trovare, un giorno all'improvviso
qualcosa d'Imprevisto, che illumini il tuo viso.
Speranza d'incontrare, la vera novità
Qualcuno che ti doni, la sua Felicità.


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senso religioso


Il senso religioso
***
Testo canzone "Vita tranquilla" di Tricarico

Ho sempre pensato
Quando avrò questo sarò saziato
Ma poi avevo questo…ed era lo stesso
Ho sempre pensato
Troverò il mare e sarò bagnato
Il mare ho trovato… ma nulla è cambiato… nulla
Che cos’è… che io aspetto…
Io… voglio una vita tranquilla
Perché è da quando sono nato
Che sono spericolato
Io… voglio una vita serena
Perché è da quando sono nato… che è
Disperata… spericolata…
Però libera… verd’è sconfinata
Io dovrei… non dovrei
Ho sempre pensato
Quando avrò il cielo sarò stellato
Divenni una stella… ma ero lo stesso
Sempre lo stesso
Ho sempre pensato
Troverò lei e sarò rinato
Lei ho trovato… qualcosa è cambiato
Qualcosa è cambiato
L’ultima illusione non è svanita
Io libero per sempre
Io… voglio una vita tranquilla
Perché è da quando son nato che sono spericolato
Io… voglio una vita serena
Perché è da quando son nato… che è
Disperata… spericolata…
Però libera… verd’è sconfinata
Io dovrei… non dovrei
Io… voglio una vita tranquilla
Perché è da quando son nato che sono spericolato
Io… voglio una vita tranquilla
Perché è da quando son nato… che è
Disperata… spericolata…
Però libera… verd’è sconfinata
Io dovrei… non dovrei

 

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canti, senso religioso

martedì, 13 maggio 2008

Abbiamo bisogno di Cristo
***
Alle volte è dentro di noi qualcosa che tu sai bene,
qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita:
un pianto eterno,
una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime..

 Pier Paolo Pasolini

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pasolini, senso religioso

lunedì, 12 maggio 2008

Abbiamo bisogno di Cristo
***
 

 E' FINITA L'ESTATE
E' fuggita l'estate,
più nulla rimane.
Si sta bene al sole.
Eppur questo non basta.
Quel che poteva essere
una foglia dalle cinque punte
mi si è posata sulla mano.
Eppur questo non basta.
Ne' il bene ne' il male
sono passati invano,
tutto era chiaro e luminoso.
Eppur questo non basta.
La vita mi prendeva,
sotto l'ala mi proteggeva,
mi salvava, ero davvero fortunato.
Eppur questo non basta.
Non sono bruciate le foglie,
non si sono spezzati i rami...
Il giorno è terso come cristallo.
Eppur questo non basta.
Arsenij Tarkovskij

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tarkovskij, senso religioso

domenica, 11 maggio 2008

Se amerai il creato scoprirai il Mistero Divino
***
 
« Fratelli,non abbiate paura dei peccati degli uomini,amate l’uomo
anche col suo peccato,perché questo riflesso dell’amore divino è
appunto il culmine dell’amore sulla terra. Amate tutta la creazione divina,nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni foglia, ogni raggio di luce! Amate gli animali,amate le piante,amate tutte le cose! Se amerai tutte le cose,scoprirai in esse il mistero divino.
Una volta che lo avrai scoperto,comincerai a conoscerlo sempre meglio,ogni giorno più a fondo. E alla fine amerai tutto l’universo di un amore totale,completo. Amate gli animali: Dio ha dato loro    un principio di pensiero e una gioia senza inquietudine. Non li turbate,non li tormentate,non togliete loro la gioia,non andate contro l’intenzione di Dio. Uomo,non ti esaltare al di sopra degli animali: essi sono senza peccato,mentre tu,con tutta la tua grandezza, insudici la terra al tuo apparire,lasci dietro di te la tua sudicia traccia, e questo,purtroppo,è vero quasi per ognuno di noi! Amate specialmente i bambini,perché anche loro sono senza peccato,come gli angeli,e vivono per purificare e commuovere i nostri cuori,sono per noi come un monito. Guai a colui che offende un fanciullo!
Quanto a me,è stato padre Anfìm che mi ha insegnato ad amare i
bambini: nei nostri pellegrinaggi,con i soldini che gli regalavano,
quest’uomo  caro  e  silenzioso  comprava spesso dei  piccoli  panpepati e dello zucchero candito per distribuirlo   ai   bambini,   e    non    poteva passare accanto a loro senza commuoversi,è un uomo fatto così.
Certe volte ti sentirai perplesso,specialmente vedendo i peccati degli uomini,e ti chiederai: “Devo ricorrere alla forza oppure all’umiltà e all’amore?”. Decidi sempre per l’umiltà e per l’amore. Se prenderai questa decisione una volta per sempre, potrai soggiogare anche tutto il mondo. L’umiltà e l’amore uniti insieme sono una forza formidabile,la più grande forza che ci sia,non ce n’è un’altra uguale.
Ogni giorno, ogni ora,ogni minuto osserva te stesso e sorvegliati, bada che la tua figura sia bella. ».
Dostoevskij I fratelli Karamazov

                                                                      a M.


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dostoevskij, senso religioso

mercoledì, 30 aprile 2008

Mostrami il tuo  Dio . Io ti risponderò: Mostrami il tuo uomo
***
Un elegante discorso e un porgere ricercato arrecano diletto e lode ai miseri mortali, che hanno l’animo traviato per una gloria vana; l’amante del vero non va dietro a discorsi imbellettati, ma investiga che cosa e quali essi siano.
Poiché, o caro, mi hai ingombrato la mente con vuote ciance, gloriandoti nei tuoi dèi di legno, di marmo , scolpiti e fusi e plasmati e dipinti, i quali non vedono ne odono ( poiché sono figure e opere di mano d’uomini).
Poiché, inoltre tu mi dici cristiano come se      portassi un nome ignominioso, io dichiaro apertamente di essere cristiano e porto tal nome, grato a Dio, con la speranza di essergli utile. Perché non è , come supponi tu, tal nome sgradito a Dio, ma essendo tu inutile a Dio, così ragioni intorno a lui.
Che se poi tu mi obbietterai: Mostrami il tuo  Dio . Io ti risponderò: Mostrami il tuo uomo .E io ti mostrerò il  mio Dio.
Fammi constatare se gli occhi della tua anima sono  capaci di sentire. Poiché come coloro che guardano con gli occhi del corpo percepiscono le cose della vita materiale, e osservano i contrasti, la luce o le tenebre, il bianco o il nero, il brutto o il bello, l’ordinato e il commensurabile, o il disordinato e l’incommensurabile, il proporzionato e lo sproporzionato, ciò ch’è mutilo o abbondante nelle sue parti; e altrettanto si può dire di ciò ch’è percepito dall’udito , dei suoni gravi e acuti o sgradevoli, così le orecchie del cuore e gli occhi dell’anima hanno la possibilità d’intendere Dio.
Poiché Iddio è visto da coloro che possono comprenderlo, perché hanno aperti gli occhi dell’animo . Tutti hanno gli occhi, ma alcuni cosparsi di caligine e non scorgono la luce del sole; e non perchè ciechi non possono percepire la luce splendente del sole, essa non esiste, ma essi devono farne risalire la causa a loro stessi e ai loro occhi . Così anche tu hai gli occhi del tuo animo offuscati da caligine, per le nefandezze e i  peccati tuoi.
L’uomo deve mantenere l’anima pura come terso specchio. Quando la ruggine si posa su uno specchio in esso non si può rispecchiare l’immagine dell’uomo; così il peccato quando si radica nell’animo dell’uomo; egli non può avere la visione di Dio.
Teofilo di Antiochia da: primo libro ad Autolico

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perle, dio, senso religioso

lunedì, 14 aprile 2008


La poesia
***
 Qualunque vera e motivata poesia tende a ricostruire un universo perduto: anche se non lo sa, fa questo; e si tende e si modella a questa aspirazione, a quel fine per la maggior parte inconscio. Le immagini e il ritmo, e la metrica, il verso collaborano alla costituzione di un ordine che riflette il misterioso ordine perduto e percepito come mancante; in ogni poesia c’è questo senso di vacanza, questo senso non di immobilità su sé stessa, ma di movimento per il rimpianto e verso qualcosa che le manca. E questa mancanza è simultaneamente causa di rimpianto e di attesa…”.
 Mario Luzi  da : Vero e Verso (Garzanti 2002):

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luzi, senso religioso

domenica, 06 aprile 2008

 Il senso religioso 2a parte
***

Per questo il senso religioso porta sempre inevitabilmente con sé il senso del peccato. C'è il peccato anche per l'ateo, teorico o pratico. Per un marxista convinto, cui il partito è tutto, è peccato ogni deviazione o tradimento, ogni atteggiamento che non serva i suoi programmi;-per uno, a cui la salute è tutto, sarà peccato qualunque cosa che in qualche modo non salvi quel quid cui come a idolo dà totale devozione.
Più apertamente peccato si dice nella storia della religiosità quell'incoerenza per cui un individuo teoricamente afferma un determinato quid come senso ultimo del reale, e poi nella vita pratica, di fatto, senza che se lo dica, imposta l'azione secondo un altro riferimento ultimo;-imposta cioè la sua azione in modo che, se letta attentamente, implichi come quid ultimo da cui è dominata un quid diverso da quello affermato teoricamente: è, per usare termini tradizionali, l'incoerenza tra la fede e le opere.
Proprio per sua natura il senso religioso è un fattore ineliminabile, è -come si suol dire la dimensione di ogni gesto, di ogni minuto di esistenza. Se qualcosa sfuggisse a quello che noi identifichiamo col dio-comunque lo si intenda, come il Partito guida o il Progresso della Scienza oppure il Dio cristiano, non sarebbe più dio, perché ci sarebbe qualcosa di più profondo di esso implicato da noi, intrinseco al nostro modo di agire. Il senso religioso quindi coincide con quel senso di originale, totale dipendenza che è l'evidenza più grande e suggestiva per l'uomo di tutti i tempi,- comunque sia stata tradotta, nella fantasia primitiva o nella coscienza più evoluta e pacata dell'uomo civile. Il dio è il determinante di tutto, è il fattore da cui non si può sfuggire mai. È come se dentro di noi ci fosse un'esigenza che ci spinga a una totale devozione verso qualcosa da cui tutto dipende. Ed è proprio questo qualcosa che si chiama, nella tradizione religiosa, esplicitamente Dio.
E poiché nella tradizione religiosa nel senso stretto della parola l'umanità ha preso coscienza della soggezione e della devozione ad un ultimo da cui tutto dipende, noi riferiremo il senso religioso a qualunque forma di questa consapevolezza;-mentre la religiosità solo implicita di umane teorie e di pratiche di vita- come abbiamo descritto prima -è riguardata da noi come documento di quella esigenza naturale, o sarà da noi sorpresa come corruzione di essa. Tale energica inclinazione è, come abbiamo visto prima, proprio dentro la nostra struttura è-si dice- una capacità del nostro essere.
Si tratta come di una energia che protende il fondo delle nostre azioni in una determinata direzione. Gli antichi filosofi scolastici chiamavano tale dote o disposizione viva della nostra persona una vis appetitiva -forza di aspirazione,
Il senso religioso è quindi una dote caratteristica della nostra natura, che dispone l'anima ad aspirare verso Dio, quasi la protende nel tentativo di afferrare Dio, in qualche modo. Fra tutte le capacità della nostra natura, quella del senso religioso è evidentemente la fondamentale perché tutte le altre si rivolgono a dei beni particolari, mentre questa si rivolge al bene finale e conclusivo. In un certo senso, perciò, la capacità naturale che è il senso religioso riassume tutti gli scopi delle altre capacità della nostra persona.
Per questo nella sua pastorale della Quaresima 1957 l'allora Sua Ecc, Mons, Montini definiva il senso religioso come «sintesi dello spirito»,
Evidentemente la capacità del senso religioso non ce la formiamo da soli, ce la troviamo dentro la nostra natura. Questa nativa aspirazione è come suscitata, destata in noi da un potere superiore a noi; essa è come provocata indipendentemente dalla nostra volontà, prima ancora che intervenga il nostro parere. Noi siamo come di fronte ad una voce che chiama. Potremo rispondervi o no, ma non possiamo impedire che essa chiami. Il senso religioso è una vocazione,. esso è la vocazione della vita.
Il senso religioso è quindi qualcosa che fa parte del dono dell'essere; è un elemento della struttura stessa della nostra natura. Il senso religioso è l'iniziativa di Dio che ci crea. Non possiamo evitarla, anche se possiamo insipientemente  cercare di rifiutarla o contraddirla.
 Luigi Giussani Il senso religioso Jaca Book 1968

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martedì, 01 aprile 2008

Desiderio di infinito
***

                            Desiderio!
ti ho trascinato per le strade,
ti ho desolato nei campi,
ti ho ubriacato nelle città,
ti ho ubriacato senza dissetarti,
ti ho bagnato nelle notti piene di luna,
ti ho portato in giro ovunque,
ti ho cullato sulle onde,
ho voluto addormentarti sui flutti,
desiderio, desiderio che farti?
Che vuoi dunque?
Quando ti stancherai?
André Gide, les Nourritures terrestres

Désir !
je t’ai traîné sur les routes ,
 je t’ai désolé dans les champs ,
je t’ai soûlé dans les grand’villes ,
je t’ai soûlé sans te désaltérer ,
je t’ai baigné dans les nuits pleines de lune ,
je t’ai promené partout ,
 je t’ai bercé sur les vagues ,
 j’ai voulu t’endormir sur les flots…
Désir ! Désir ! que te ferai-je ?
que veux-tu donc ?
Est-ce que tu ne te lasseras pas ?
André Gide, les Nourritures terrestres


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gide, senso religioso

venerdì, 28 marzo 2008

Pellegrinaggio di un’anima
***
In attesa
Scruto l’anima come un dannato.
Forse è meglio non cercare, non riflettere, vivere senza problemi, senza la tortura di questi eterni quesiti che non hanno risposta: meglio vivere da bestia soddisfatta.
Ho l’anima lacerata dall’incertezza. Posso chiamare bianco il nero, ridermi delle cose sacre, prenderle in ridicolo: nulla me lo impedisce. Mi compiaccio di questi cattivi pensieri e vorrei possedere la purezza di un bambino. Quale tormento non sapere a chi chiedere, dove trovare un medico per l’intelligenza e per il cuore!
Sciocchezze. La vita è un gioco da prendere sorridendo. Ecco il solo mezzo per non disperare.
Che cosa sono la felicità, questo nostro bambino che cresce? Gran belle cose, senz’altro: ci aiutano e ci danno forza. Ma perché non mi danno tanta forza di modo che possa scacciare questa crudele inquietudine e questo problema che continuamente mi tormenta? Perché Vivo?
Non accade nulla: nulla che mi interessi. Vivo nell’attesa. Da sempre, la mia vita è attesa di qualcosa, d’una catastrofe, d’una gioia, di qualcosa che sia grande e belloNon ho avuto l’ambizione o il desiderio di occupare una carica, un posto di responsabilità. Vivo per qualcosa d’altro. Non so che cosa sia quest’altro, ma vivo nell’attesa di qualcosa.
Ho visto diversi amici, ho parlato con persone di cultura, ma non ho imparato nulla. Io cerco le verità fondamentali e queste persone invece accettano la vita in modo passivo.
Chi sono io? Io e tutti gli altri che, mai soddisfatti come me, spingiamo sogni e desideri verso mondi sconosciuti? Cerchiamo forse qualcosa che abbiamo perduto?
Perché non mi accontento di quanto sta davanti a me, vero, palpabile, reale? Perché il mio spirito invoca l’Infinito, l’Eternità? È stupido cercare una risposta, si perde tempo. Ma perché allora questi problemi mi assalgono furiosi come una tempesta?
La nostra vita non dura più di un attimo, portiamo nel cuore la tempesta selvaggia delle passioni, siamo torturati dai desideri e dalla speranza, vogliamo raggiungere l’impossibile e tenerlo ben fermo tra le mani. Interroghiamo il passato, leggiamo quello che gli uomini hanno scritto, ma non comprendiamo. Interroghiamo la terra,  il cielo, gli astri, gli abissi dello spazio e gli abissi dell’anima; piangiamo di nostalgia e di compassione davanti ad ogni cosa bella, compiamo gesti di passione ardente e poi, all’improvviso, restiamo freddi, immobili. Più nulla, più nulla…
Tutte le strade sono mie, ma sento in me l’incertezza. Contemplo questa tragica bellezza di creatura abbandonata, mi accorgo di vivere come un re in esilio cosciente della sua forza e della sua debolezza, tremo di estasi e di spavento quando guardo la Via Lattea, nutro la mia disperazione con la certezza che non potrà mai liberarmi dalla materia che mi tiene prigioniero, e tremo.
Dove troverà la terra promessa della felicità e della pace?
Una lama di luce                                                                        Ho visitato Notre-Dame: è tutta bella. Belli i portali pieni di ombra, le torri potenti, la nobile magnificenza delle proporzioni armoniose e audaci, la gravità di sapersi casa di Dio. Ogni forma architettonica racchiude un’idea: ho capito in questa chiesa che cosa è la dirittura interiore, il legame tra bontà visibile e mondo spirituale… Non c’era nessuno nella chiesa. Dall’alto degli archi, già nascosti dall’ombra, scendeva sulla mia anima inquieta una stranissima pace.
Ora sono solo: mi siedo e penso. Non capisco nulla della vita. Se Dio non esiste, se l’idea di Dio è stata creata dall’uomo per il bisogno di vincere la solitudine, ripudiare e calpestare le gioie della vita è ridicolo e assurdo. Ma qui, in questo convento, trovo tranquillità e pace, sento che i pensieri si volgono all’anima, capisco che la mia vita e quella di uomini come me è un’esistenza caotica, cieca e senza meta: qui capisco che fino ad oggi sono vissuto per cose effimere, che mi sono accontentato di ciò che passa.
Le parole non bastano a descrivere quello che ho provato e quanto ancora brucia in me di luce forte e dolce. Ho intravisto un abisso, un vortice luminoso e accecante. Penso alla fede e capisco che essa è nemica del dubbio e delle questioni inutili. Mi pare di udire una voce: tieni in alto i pensieri e sii pronto. La luce può manifestarsi nel momento più buio della disperazione e perciò conquistarci sull’orlo della felicità. Sii vigilante.
Ho paura; il palazzo della mia gioia trema dalle fondamenta: questa mia emozione non è forse frutto della bellezza? Non mi sono forse lasciato commuovere da un magnifico poema? E se queste mie parole non fossero altro che il vestito esteriore di un sogno bello ma vano e inutile?
Questo mio spirito ha sete di certezza, vuole una realtà che lo soddisfi in tutto. Potrà Iddio appagarmi?…
Dio è il desiderio che l’uomo ha dell’infinito, del bello, del sublime. Dio esiste soltanto nella mente dei sognatori e delle anime semplici. Ma perché allora sentiamo la nostalgia di vette inaccessibili? Perché questo interrogativo ci tortura? Chi ha posto nel nostro spirito questa domanda, chi ci fa sentire il desiderio inderogabile d’una risposta? Se il mondo è materia, di dove hanno origine l’intelligenza e questa furiosa ricerca di una soluzione?
Mi fanno impressione la gioia e il rispetto con cui nostro figlio entra in chiesa. I suoi occhi di fanciullo si posano su tutto e vogliono la spiegazione di ogni particolare. Qualche giorno fa mi disse: « Papà, perché noi non ci inginocchiamo mai? ».
Ciò che non è Dio non dà gioia all’uomo: è passatempo, superficialità, menzogna; non accontenta il nostro sentimento né il nostro desiderio di Bellezza.
Ho conosciuto in questo albergo una strana signora non più giovane: viene dall’America e una sera, seduta al mio tavolo, m’ha raccontato la sua vita. Non ha amici né parenti… ma si, un amico lo possiede, ben prezioso, e me lo mostra: il libretto degli assegni. Dice di annoiarsi… Viaggia senza meta, spinta dall’inquietudine, senza gioia.
Ecco perché ho speranza
Non penso al denaro, non desidero essere riverito, non bramo il piacere. Che cosa voglio dunque? Il lavoro, la bellezza e quelle ore di calma durante le quali, come bambino spaurito, cerco il significato del mondo: sono le uniche realtà che fanno tacere la mia inquietudine. Talvolta mi sento abbagliato da una luce improvvisa. Ecco perché ho speranza.
Mi pare di contemplare l’anima in uno specchio e di camminare oltre questa porta, verso l’eternità divina. Il mio cuore è un incendio, soffro, eppure provo una grande gioia: il pensiero corre ai miei morti, scruta la terra, la vita, gli spazi infiniti; l’inquietudine si placa, posseggo per un attimo la certezza, ho fiducia, mi sento vicino all’Assoluto.
Chi ha ragione? Queste donne che hanno rinunziato a quanto noi stimiamo indispensabile -amore, libertà, figli, gloria -, che si sono consacrate a Dio, che allontanano il desiderio che sempre rinasce, che pregano e cantano la gloria dell’Essere invisibile? Oppure noi che nella dispersione di ogni giorno gridiamo con pianto disperato, noi che attendiamo nel domani il compiersi della nostra speranza, che soffochiamo l’angoscia con gioie raffinate, che ci accechiamo alla luce cruenta del mondo visibile?
Alcuni giorni orsono, mentre ero nella. chiesa delle Benedettine, ho sentito un tuffo al cuore: Dio esiste, immenso, eterno, principio e fine di ogni cosa; in quel momento avevo la certezza che un giorno tutto sarà armonia, sentivo fiducia e gioia.
La vita è buia e impenetrabile. Non posso liberarmi dal tormento che distrugge la certezza, eppure sento che la forza della fede cattolica s’impadronisce del mio cuore. Questa fede mi fa vedere Dio, mi libera dalla materia, rompe le mie catene, porta lo spirito come aquila verso la luce. Dio mio, non è possibile che tutto sia inutile, che la vita sia un sogno della nostra fantasia: si, Dio esiste, Dio è il centro del mondo.
Voglio trovare Dio oltre le parole.
Mi piacciono gli uomini che cercano, quelli che indagano, gli uomini che non si accontentano delle cose comuni, che gridano verso Dio.
So che cos’è questa follia di grandezza. Non mi accontento della vita di tutti i giorni. Io voglio Dio.
Ecco la salvezza: credere che la vita ha un senso, credere che è basata su di un solido fondamento. Colui che vive nel raccoglimento e che non si lascia stordire dalle cose e dagli uomini, colui che guarda al di là delle apparenze deve convincersi dell’esistenza di un Principio, deve accettare l’ordine, la presenza dello Spirito di Dio. Io ho provato la calma di questi momenti di certezza; sento, sulle rovine del cuore, il grido di questa indistruttibile speranza.
Quanto deve essere profonda la gioia di colui che, all’improvviso, dopo aver camminato a lungo e cercato la pace inutilmente, capisce che lui pure è figlio di un Padre che lo conosce e che lo ama, e non un atomo sperduto nell’immensità dello spazio! Quest’uomo camminava disperato nel vuoto, e ora la coscienza gli dice con parole di fuoco che la sua vita non è inutile, che Dio lo vede, che Gesù lo ama, che la sua angoscia è compresa e amorevolmente seguita da una mano divina.
Accetto. Voglio la verità. Il mio spirito è conquistato da queste cose meravigliose. Come uomo non capisco, ma l’anima sente. Mi abbandono a Dio.
Mi pare di destarmi da un sogno: dopo lungo errare attraverso la notte vuota e oscura, ho ritrovato l’anima. Recito il Pater, e al suo confronto tutta la scienza dell’uomo mi pare vuota e assurda. L’anima ha fame, e la semplice preghiera insegnata da Gesù ha il potere di saziarla. Traccio il segno di Croce, e sento in me la pace. Non capisco, non so spiegare, ma questa è la realtà. Mi sento infinitamente debole e immensamente grande. Ero arido al pari della terra bruciata, ed ecco che la pioggia benefica mi irrora. Che cosa ho fatto per meritare questo dono? Perché è stato concesso a me e alla mia famiglia e non ad altri? Ho cercato a lungo una risposta ai problemi e non ho capito questa semplice verità: basta mettersi in ginocchio, offrire il cuore a Dio e ogni mistero si fa luminoso come il sole.
Tutto è mutato in me. Quello che prima giudicavo degno di grande attenzione ora non mi interessa più. Ripenso al tempo passato e non mi riconosco: ero io l’infelice, l’inquieto che cercava con ansia e che giocava con la sua angoscia perché non trovava pace? Ero io l’ignorante che tentava di saziare la sua fame di Dio con cibi terreni e che ingannava se stesso con menzogne nutrite d’orgoglio? Si, ero proprio io. La disperazione mi faceva sanguinare, gli uomini che incontravo mi davano la sensazione del caos, eppure giudicavo la religione come il sogno fatuo, sorpassato e inutile, di uomini fuori tempo, e mi credevo generoso e sapiente perché ero disposto ad accordare diritto di cittadinanza a tutte le idee. Ero ridicolo e cieco. Ora invece vedo. Sono in ginocchio e inizio così la mia nuova vita.
PIETER VAN DER MEER (1880-1970) è stato una delle più forti figure della rinascita cattolica olandese contemporanea. Dopo una giovinezza scettica, ma nella costante ricerca di valori autentici, l’ansia di superare le sue inquietudini e il desiderio di una completa certezza lo spinsero alla fede cattolica e alla conversione. La sua straordinaria avventura spirituale è proposta in intense pagine di arnore e di fede che costituiscono la nurnerosa raccolta dei suoi scritti, tra,i quali sono stati pubblicati dalle Edizioni Paoline: La verità vi renderà liberi (1973); Diario di un convertito (1975), dal quale vengono estratti i seguenti brani; Uomini e Dio (1975); Il paradiso bianco (1975 ); Tutto è amore (1974′); La Terra e il Regno (1975).


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senso religioso, van der meer

mercoledì, 26 marzo 2008

Il senso religioso
 
 
***
«A che livello della nostra dinamica interiore, a che livello del nostro sentimento e pensiero si colloca il senso religioso?
Ci sono domande che s'attaccano alla radice stessa del nostro moto umano:            per che cosa vale la pena che io viva?  quale e il significato della realtà?   che senso ha l'esistenza?
Leopardi ha creato un simbolo di questo strato profondo della nostra vitalità nella figura del «pastore errante» che parla alla «luna»:
«Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;.
 dico tra me pensando: a che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren?
 Che vuol dir questa solitudine immensa?
Ed io che sono? Così meco ragiono...».
Il senso religioso e esattamente al livello di quelle domande più precisamente il senso religioso sorge con l'emergenza in quelle domande di un aggettivo (o avverbio) molto importante: qual e il senso esauriente dell'esistenza? qual è il significato ultimo della realtà? per che cosa in fondo vale la pena vivere?
Il  contenuto del senso religioso coincide con queste domande e con qualunque risposta a queste domande. Occorre notare che queste domande sono espressioni di tutti, anche di coloro che ne negano il valore teoretico e filosofico.
Cordialmente ne richiama l'ineluttabilità il grande romanziere Thomas Mann quando parla «dell'uomo, di questo essere enigmatico che racchiude in se la nostra esistenza per natura gioconda, ma oltre natura misera e dolorosa. È ben comprensibile che il suo mistero formi l'alfa e l'omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema»
Si tratta dunque di domande a un livello inevitabile, implicito in qualunque posizione umana. Per ciò stesso che uno vive cinque minuti afferma l'esistenza di un qualcosa per cui ultimamente vale la pena vivere in quei cinque minuti; per ciò stesso che uno prolunga la sua esistenza, afferma l'esistenza di un quid che sia ultimamente il senso per cui vive. II contenuto del senso religioso è una implicazione inevitabile: come uno aprendo gli occhi vede i colori e le forme, così uno per ciò stesso che vive implica quello. E la natura stessa della ragione, del nostro pensiero, della nostra coscienza che si pone come senso religioso.
Perciò l'atteggiamento religioso e nel marxista convinto come nel cattolico;-non esiste ateo che possa scrollarsi d'addosso questa implicazione. Qualunque principio o valore si ponga come risposta a quelle domande, è una religiosità che si esprime ed è un dio che si afferma: e infatti a quel principio, qualunque esso sia, l'uomo da incondizionata devozione. E non c'e assolutamente bisogno che sia teorizzato, non c'e assolutamente bisogno che sia espresso in sistema mentale: -può essere una implicazione in una banalissima pratica di vita. Può essere la propria ragazza, gli amici, il lavoro, la carriera, i soldi, il potere, la politica, la scienza: ma qualunque sia l'implicazione ultima che la coscienza umana realizza di fatto vivendo,-è una religiosità che si esprime e un dio che si afferma. Magari il dio di un istante, di una ora, di un periodo. »
Luigi Giussani Il senso religioso Jaca Book 1968
 


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giussani, senso religioso

domenica, 02 marzo 2008

Il cuore è inquieto finché non riposi in te
***
7.12. Che follia non saper amare gli uomini come uomini! E sciocco l'uomo che non ha misura, insofferente dei limiti umani. L'uomo che allora ero: tutto furori e sospiri e pianti e turbamenti, senza pace e senza equilibrio. E mi portavo dietro l'anima mutilata e sanguinante, che ormai non ne poteva più di farsi trascinare in giro, e non trovavo modo di metterla giù, da qualche parte. No, non trovava pace: non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell'eleganza delle feste, non nei piaceri dell'amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia. Tutto mi faceva orrore, perfino la luce, e qualunque cosa non fosse lui era opprimente e odiosa oltre ogni sfogo di pianto: l'unica cosa in cui l'anima trovava un po' di requie. Ma quando la si distoglieva da quello, subito mi schiacciava sotto il peso della tristezza. Verso di te, signore, avrei dovuto sollevarla per curarla: lo sapevo, ma non volevo e non ce la facevo, tanto più in quanto se pensavo a te non mi eri niente di solido e fermo. Perché non eri tu, era un vuoto fantasma, era il mio errore il mio Dio. E se tentavo di appoggiarla lì, l'anima, per farla riposare, scivolava nel vuoto e di nuovo mi crollava addosso, e per me io restavo un luogo gramo, dove non potevo stare e da cui non potevo allontanarmi. Dove, via dal mio cuore, poteva fuggire il mio cuore? Dove fuggire io, via da me stesso? Dove non esser braccato da me stesso? Dal mio paese sì, però, riuscii a fuggire. I miei occhi l'avrebbero cercato meno, dove non eran soliti vederlo: e così dal borgo di Tagaste me ne venni a Cartagine.


[Il dolore, il tempo, l'amicizia]

8.13. Non passa invano il tempo e non gira a vuoto sui nostri sentimenti: ha strani effetti sull'anima. E venivano i giorni e passavano uno dopo l'altro, e venendo e passando mi insinuavano dentro altre speranze, altri ricordi: e a poco a poco mi restituivano agli antichi piaceri, e a questi il mio dolore ormai cedeva il passo. Ma gli succedevano, se non altri dolori, altre cause di dolore. E del resto perché quello era penetrato in me tanto facilmente e tanto in profondità, se non perché avevo fondato l'anima sulla sabbia, affezionandomi a un uomo destinato a morte come se non dovesse mai morire.
Soprattutto mi aiutava a riprendermi il conforto di altri amici: con loro amavo ciò che amavo in vece tua, cioè una sterminata favola e una lunga bugia, che con le sue lusinghe e seduzioni ci solleticava le orecchie e ci corrompeva la mente
. E quella favola non mi moriva: era sopravvissuta alla morte di uno dei miei amici. Altre erano le cose che sempre più mi stringevano a loro: il riso e il conversare insieme, e le reciproche affettuose cortesie, e il fascino dei libri letti insieme, gli scherzi e i nobili svaghi comuni, e il dissentire a volte, ma senza rancore, come succede con se stessi, e con questi rarissimi dissensi fare più intenso il gusto dei molti consensi, e l'insegnare e l'imparare a turno, la nostalgia impaziente per chi manca, le festose accoglienze a chi ritorna: son questi o simili, i segni che dal cuore di chi ama ed è riamato giungono tramite il volto, la bocca, gli occhi e mille graziosissimi gesti, quasi ad alimentare il fuoco che divampa e fonde molte anime in una.

9.14. Questo è ciò che si ama negli amici, e lo si ama al punto che la coscienza rimorde se non si ama quando si è riamati o se non si ricambia l'amore di un altro, senza altro chiedere al suo corpo che qualche indizio di affetto. Di qui viene il cordoglio per l'amico che muore, e il buio della tristezza e il cuore madido di una dolcezza mutata in amaro: e la vita perduta dei morti che si fa morte dei vivi. Beato chi ama te e ha te per amico e nemici per te. Il solo che non perde chi gli è caro è quello al quale tutti sono cari, in Uno che non si perde. E questo chi è se non il nostro Dio, che fece il cielo e la terra e li riempie, e riempiendoli li crea. Nessuno perde te a meno che ti lasci, e dove va, dove fugge, se non dal tuo sorriso al tuo furore. Dovunque in fondo alla sua pena troverà la tua legge. E la tua legge è verità, e la verità sei tu.
».
SANT'AGOSTINO CONFESSIONI 4 -7,12



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agostino, senso religioso

sabato, 01 marzo 2008

Madeleine Delbrêl 1904-1964

                                    ***
Testo che la Delbrêl scrisse all’età di 17 anni,  prima della conversione
DIO È MORTO… VIVA LA MORTE(1922)
Si è detto “ Dio è morto ”.
Poiché è vero, bisogna avere l’onestà di non vivere più come se vivesse. Si è regolata la questione con lui: resta da regolarla con noi.
Ora siamo fissati. Se non conosciamo la misura esatta della nostra vita, sappiamo che sarà piccola, che sarà una vita piccolissima. Per alcuni l’infelicità ne occuperà tutto il posto. Per altri la felicità ne occuperà più o meno. Non sarà mai una grande infelicità o una grande felicità, perché sarà tutta contenuta nella nostra piccolissima vita.
L’infelicità grande, indiscutibile, ragionevole, è la morte. È davanti ad essa che bisogna diventare realisti, positivi, pratici. Dico “ diventare ”. Io sono stupita dalla generale mancanza di buon senso. E' vero che non ho che diciassette anni e che mi resta ancora molta gente da incontrare.
I rivoluzionari m’interessano, hanno però capito male il problema: essi possono ordinare il mondo al meglio… ma occorrerà sgomberare!
Gli scienziati sono un po’ bambini: credono sempre di uccidere la morte: invece uccidono soltanto i modi di morire, la rabbia, il vaiolo. La morte, lei, sta benissimo.
Ho molta simpatia per i pacifisti, ma sono deboli in calcolo. Se nel 1914 fossero riusciti a mettere la museruola alla guerra, tutti coloro che la guerra non avrebbe ucciso, nel 1998 sarebbero stati definitivamente sistemati nei loro cimiteri personali.
La gente perbene mi sbalordisce per la sua sicurezza: manca di modestia. Sono sicuri di lavorare per la felicità degli altri. È almeno discutibile: più la vita è buona, più è duro morire. La prova: la gente si ammazza da sé quando viene ammazzata la loro ragione di vivere.
Gli innamorati sono radicalmente illogici e restii a ragionare: "Ti amerò per sempre…". Non vogliono prendere coscienza del fatto che saranno infedeli per forza; e che questa infedeltà si avvicina ogni giorno di più…, senza contare la vecchiaia, questa morte a rate. Io non vorrei restare accanto all’uomo che dovessi amare: egli vedrebbe i miei denti cadere, piegarsi la mia schiena, il mio corpo mutarsi in un otre o in un fico secco... Se amerò, sarà come in istantanea, come in un attimo di tregua, in fretta e furia.
Le madri, poverette, fanno fatica a non dire, a non fare follie: "Il mio bambino, vorrei tanto che fosse felice…". Sarebbero capaci d’inventare la felicità pur di poterla donare al loro piccolo. Ci sono quelle che non vogliono fare della carne da cannone – ma andate a raccontare loro che faranno sempre carne da morte… Io non voglio avere bambini. Mi basta seguire tutti i giorni in anticipo i funerali dei miei genitori.
I più logici sono forse i muratori, i falegnami, i fotografi, gli artisti, i poeti. Fanno delle cose che durano e fanno durare qualcosa della gente. I re sono morti, le loro poltrone restano nei musei. Avere la propria fotografia in qualche luogo, è un modo di esistere. I monumenti tengono bene. La Gioconda non avrebbe più la sua testa da parecchio tempo se non gliene avessero fatto il ritratto. Quando in classe si recita una favola di La Fontaine, quel che lui pensava continua un poco a vivere.
Poi ci sono coloro che si divertono, che ammazzano il tempo aspettando che il tempo ammazzi loro… Io sono una di questi. Le persone serie ci disprezzano in nome delle loro occupazioni serie.
Ah! Ma intanto non è stata liquidata la successione di Dio. Ha lasciato dappertutto delle ipoteche di eternità, di potenza, di anima… E chi ne è stato l’erede? La morte… Egli durava: non c’è più che lei a durare; egli poteva tutto, a capo di tutto e di tutti viene lei. Egli era spirito - non so troppo che cos'è - ma lei è dappertutto, invisibile, efficace; dà un colpetto e toc! L’amore cessa di amare, il pensiero di pensare, un bimbo di ridere… e non c’è più nulla.
Una volta qualcuno ha detto: “ noi danziamo su un vulcano ”. Va bene, io danzo. Ma voglio sapere che è sopra un vulcano. Vicino ai vulcani ci sono ville e capanne, giovani e vecchi, genii e imbecilli, malati e campioni; bene-amati e mal-amati; quando il vulcano erutta non c’è più che fuoco: come diciamo, non si vede più che del fuoco.
Siamo tutti vicinissimi alla sola vera sventura: abbiamo o non abbiamo il fegato di dircelo? Dirlo? E con che? Anche le parole Dio ha schiantato… Si può dire a un morente senza mancare di tatto: “ Buongiorno ” o “ Buonasera ”? Allora gli si dice “Arrivederci ” o “ Addio ”…finché non avremo imparato come dire “ A nessun luogo ”…“ Al niente assoluto ”…
 

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senso religioso, delbrel


Il grido del cuore
***
E' verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d'una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l'astio che sono qui chiusa a scontare.
Italo Calvino,"Il cavaliere Inesistente", Trilogia degli Antenati Mondadori, 2000)
***

"Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l'intenzione di significare qualcosa... Le occasioni di questo genere non sono certo frequenti, ma prima o poi dovranno pur presentarsi: basta aspettare che si verifichi una di quelle fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante e il signor Palomar si trovi a passare lì in mezzo. Ossia, il signor Palomar non deve nemmeno aspettare, perchè queste cose accadono soltanto quando meno ci s'aspetta".
Italo Calvino da:Palomar   Mondadori

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calvino, senso religioso

martedì, 26 febbraio 2008

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«La crisi del nostro tempo mostra il cuore della vita umana, il disorientamento dell’uomo che è rimasto senza punto di riferimento, di una vita che si svolge senza alcuna meta, che non trova giustificazione… Ogni crisi  storica ci mette davanti al conflitto ultimo, radicale: un “si può o non si può”….la domanda rinasce sempre: “E’ possibile essere uomo? E come?” e a questa domanda “E’ possibile essere uomo?” L’unico modo di rispondere affermativamente non è dicendo un sì astratto, ma offendo una forma di vita»
Maria Zambrano


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senso religioso, zambrano

domenica, 24 febbraio 2008

Film. A PIEDI VERSO L'ALASKA IN CERCA DELLA FELICITA'
***

 
Un film di Sean Penn racconta la storia tragica e vera di un ragazzo
che, dopo la laurea, abbandona la famiglia e si mette in viaggio per
«trovare» se stesso


Luca Doninelli

Il Giornale martedì 29 gennaio 2008

Vado al cinema da solo, oggi - saranno vent'anni che non lo faccio -
perché Into the Wild di Sean Penn mi attira al di là e nonostante le recensioni, le stelline o i quadratini sui giornali, i commenti cosìcompostamente «culturali» che lo accompagnano. Disturbano come sempre la mitologia («mito americano», «mito della vita selvaggia», «mito della forza e del coraggio fisico» ecc.), che è un modo come un altro di non confrontarsi con niente.
Sean Penn, che per certi è solo un De Niro mal riuscito, è in realtà
il più anticulturale degli attori e dei cineasti, all'opposto del suo
presunto modello. È per questo che mi piace.Into the wild racconta la storia tragica e vera - tratta dal romanzo di Jon Krakauer Nelle terre estreme (Corbaccio, pagg. 267, euro 16.60)
- di Chris McCandless, studente modello e lettore vorace, che dopo la
laurea decide di abbandonare la famiglia - che odia - per cercare un
rapporto solitario e totalizzante con la natura.
La sua preferenza per autori come Jack London, Lev Tolstoj e Henry
David Thoreau è un segno preciso, e già preoccupante, della sua
chiarezza d'idee - troppo chiare, quelle idee, come se un guasto
d'origine facesse crescere troppo la pianta per poi impedirle di
maturare.
Chris, che si ribattezza Alex Supertramp («supervagabondo»), ha in
mente una destinazione finale dei suoi viaggi: l'Alaska. Prima, però,
vuole prepararsi all'impresa, vincere le paure ataviche - quella
dell'acqua, per esempio -, fortificarsi nel fisico, e al tempo stesso
far perdere le proprie tracce, non soltanto ai genitori, ma alla
società intera.

I suoi scrittori di riferimento, sia pure in modi diversi, hanno un
punto in comune: l'opposizione tra natura e società. E devono perciò
tutti e tre qualcosa a Rousseau.
La società - di cui gli sgangherati
genitori di Chris sono la concrezione estrema e maligna - ha un solo scopo:
quello di creare risposte finte alle domande dell'uomo.
Perciò l'uomo, se vuole sapere veramente chi è, deve allontanarsi dalla società e rifugiarsi nella natura.
L'Alaska è il luogo destinato di Chris perché lì, forse, è ancora
possibile una fuga.
La società ha invaso la natura, perfino il Grand
Canyon è regolato come la City di Manhattan. Gli uomini buoni
finiscono in galera, oppure vivono di ricordi. La società li taglia
fuori come tanti rami secchi.

Chris ha la possibilità di vivere con alcune persone buone, ma non accetta di condividere la loro sorte di sconfitti. Ha ventitré anni, e splende in lui una giovinezza che non ammette sconfitte, una giovinezza vittoriosa proprio perché giovinezza.

Inizia così lo splendido fallimento della sua spedizione in Alaska.
Nemmeno l'amore di una bella ragazza hippy lo ferma. Né l'amore né tantomeno il sesso rispondono infatti alla domanda, all'incessante «I want!, I want!» che urla dentro, come scriveva Saul Bellow. E allora non ci si può fermare, non si può amare, non si può procreare per non dare inizio a nuove catene di mostruosità e di mostri.

A dispetto di tutte le notizie orribili che apprendiamo sul loro
conto, i genitori di Chris ci appaiono attraverso l'occhio del
regista, che li guarda con pietà.
I venti secondi in cui il padre
(William Hurt), uscito disperato di casa, cammina furiosamente fino
alla strada per poi sedersi lì, nel mezzo, sono forse la cosa più
bella del film. Lì, forse, questo sciocco borghese comincia a capire
la vera tragedia di suo figlio. La capisce perché la scopre dentro di
sé.

Thoreau, London, Tolstoj, il buon selvaggio, la fuga dalla società, il contatto diretto con la natura sono tutte menzogne, tutti (al più) pretesti, chiacchiere giustificative per dare un'apparenza discorsiva, dialettica, etica a ciò che non conosce parola né discorso né morale, a questa malattia cieca per la quale un individuo, perlopiù un giovane, comincia a vedere il proprio futuro come un imbuto sempre più stretto, e la vita come la lenta esecuzione di una condanna a morte.

La fuga di Chris ha questo di particolare, che è come tutte le altre:
come quelli che muoiono per droga.
Succede alzandosi una mattina, oppure assistendo per strada a un
fatterello in apparenza insignificante che fa da detonatore per una
bomba nascosta in noi chissà da quanto tempo.

Ma altre volte l'inizio si trova prima ancora, al tempo delle sciocche lacrime notturne infantili, o delle prime congetture su «cosa farò da grande».

La colpa non è della società né dei genitori. C'è chi, più avveduto, si tiene adistanza da una voragine che c'è, dentro la vita, e chi non riesce a
evitarla.

Questa voragine non si spiega. Esiste, e basta. È quello scandalo di
cui tutta la storia dell'umanità ha parlato.
Qual è l'origine del
male? Perché non esisterà mai un mondo perfetto? Perché il bene che vogliamo fare ci si corrompe tra le mani? Imagine, cantava John Lennon. Poveretto. Chiamatela società, chiamatela capitalismo, chiamatela semplicemente peccato originale, che è la definizione meno ipocrita e più concreta. È quella cosa lì.

Chris pensa di poter dominare la natura dell'Alaska. Ha un fucile, è
fisicamente fortissimo, ma come si fa a non sapere che in certi
periodi dell'anno gli animali sembrano scomparire, e che in quei
periodi un fucile non serve a niente?
La sua Alaska immaginaria va in frantumi sotto i colpi di quella reale, di cui gli manca la chiave di lettura: uccide un alce ma i vermi e le mosche glielo portano via, poi, in preda alla fame, scambia una patata velenosa per una commestibile.

Il vero si rivela, alla fine, e come sempre non porta soltanto dolore.
La fine di Chris è quasi una guarigione.

Come Ivan Ilic' del racconto

di Tolstoj muore gridando «non c'è più la morte», così Chris prima della fine fa in tempo ad annotare queste parole
: «Non esiste felicità se non è condivisa». La sua non è la morte di un testardo malato, ma di un uomo sano.

Il Novecento e l'Ottocento si allontanano da noi, ma non abbastanza da toglierci di dosso una delle loro maledizioni: quella di essersi vergognati della verità e della realtà (ivi inclusa quella del male) al punto da sostituirle con un discorso pieno (psicologia, sociologia) di comprensione e di dubbio, da una strategia di addomesticamento.
La sorte di Chris appare come una specie di drammatica salvezza da tutta questa menzogna. Alla fine, almeno l'io si salva. Il male dei secoli è sconfitto.



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felicità, senso religioso

sabato, 23 febbraio 2008

La ricerca di Dio
***
Chi cerca Dio è come un bambino che non sa se c’è del pane da qualche parte, ma che grida di avere fame. Il pericolo consiste non nel fatto che l’anima dubiti se c’è il pane o no, ma il pericolo sta nel fatto che si persuada con una menzogna di non avere fame. Può persuadersene solamente con una menzogna, perché la realtà della sua fame non è una credenza, ma una certezza. Può dubitare di Dio, ma non del fatto che lui abbia fame di Dio
 Simone Weil



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senso religioso, weil


Il Significato dell’agire
***
 “Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.  In prima, si, mi sembra che molti l'abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po' addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s'aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m'ingiurierebbero o m'aggredirebbero. No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C'è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest'oltre baleni negli occhi d'un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate. Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là. - No, caro, grazie: non posso! - Ah si, davvero? Beato te! Debbo scappare... - Alle undici, la colazione.
- Il giornale, la borsa, l'ufficio, la scuola... - Bel tempo, peccato! Ma gli affari... Chi passa? Ah, un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato. - La bottega, la fabbrica, il tribunale... Nessuno ha tempo o modo d'arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopratutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo”.
Pirandello da: Quaderni di Serafino Gubbio operatore



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pirandello, senso religioso

giovedì, 21 febbraio 2008

Il bene perduto
***
Il bene perduto:
un breve razzo in lacrime caduto.
Ciò che avevo afferrato bramosa,
nella mano stretta si sfece,
come a sera la rosa
sotto la volta dell’eternità.
Tutto impallidì, si tacque,
perse colore e sapore,
(e più quel che più mi piacque).
Però. Atterrita dalla  paura
di riperdere il dono che non dura,
feci rinuncia alla felicità.
Ma una felicità
pur mi resta da chiederti, Signore,
una cui miri
Tu per gli eletti del Tuo amore:
quella - si – di cantare dei martiri.
O. Mazzoni Noi peccatori : liriche1883-1936-Zanichelli          a  P.

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martedì, 12 febbraio 2008


NORBERTO BOBBIO
***
Perché non riesco a credere
IO NON sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità.
Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell'uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all'immensità dell'universo. L'unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione - perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio - è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all'uomo di ragione che all' uomo di fede. Con la differenza che l'uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall'alto, e di cui non riesco a convincermi.
Resta però fondamentale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità.
La mia è una religiosità del dubbio, anziché delle risposte certe. Io accetto solo ciò che è nei limiti della stretta ragione, e sono limiti davvero angusti: la mia ragione si ferma dopo pochi passi mentre, volendo percorrere la strada che penetra nel mistero, la strada non ha fine. Più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere. Qualsiasi scienziato ti dirà che più sa e più scopre di non sapere.
Credevano di sapere di più gli antichi, che non sapevano niente al confronto di quello che sappiamo noi.
Abbiamo allargato enormemente lo spazio della nostra conoscenza, ma più lo allarghiamo più ci rendiamo conto che questo spazio è grande.
Cos' è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il passaggio dal nulla all'essere?
È una domanda tradizionale, ma io non ho la risposta: perché l'essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima, se non per fede. Secondo Severino l'essere è infinito, l'essere c'è. Ma non è che così siamo in grado di capire cosa c'era prima. È impossibile. E di fronte alle domande cui è impossibile dare una risposta - perché di questo sono certo: non posso dare una riposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato progressi enormi - mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole. Probabilmente dipende dalla mia incapacità di andare al di là.
Ma quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata - e umiliata. So di non sapere.
Questo io chiamo "la mia religiosità". Non so se è giusto, ma in fondo coincide con quello che pensano le persone religiose di fronte al mistero. Certo, probabilmente non si riesce a resistere a questo dubitare continuo, a questo continuo non sapere, e allora ci si affida alle credenze, come quella nella immortalità dell'anima.
Io però, il fondo religioso della mia persona continuo a intenderlo come questo non sapere. Ed è un fondo religioso che mi assilla, mi agita, mi tormenta.
Un giorno al cardinal Martini ho detto: per me la differenza non è tra il credente e il non credente (cosa vuol dire poi credere? In che cosa?), ma tra chi prende sul serio questi problemi e chi non li prende sul serio: c'è il credente che si accontenta di risposte facili (e anche il non credente, sia chiaro, che delle risposte facili si accontenta!).
Qualcuno dice: "sono ateo", ma io non sono sicuro di sapere cosa significa. Penso che la vera differenza sia tra chi, per dare un senso alla propria vita, si pone con serietà e impegno queste domande, e cerca la risposta, anche se non la trova, e colui cui non importa nulla, a cui basta ripetere ciò che gli è stato detto fin da bambino………………..
…. Qualche volta, pensando alla morte di una persona particolarmente cara - mio padre, ad esempio - so che quella persona che ho amato ora non c'è più. E che ci sia qualche cosa di lui in un altro luogo - che non so dove sia - a me non importa assolutamente nulla.
La persona che ho amato era quel particolare modo di sorridere, di farci giocare, di raggiungerci in campagna alla fine della settimana quando eravamo in vacanza, la nostra attesa sul cancello della casa per aspettarlo e poi salutarlo festosamente: questo so per certo che non c'è più.
Ho continuato a riflettere sui grandi temi dell'esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha mai convinto. Però,
nello stesso tempo, neppure io sono riuscito a dare delle risposte. E dunque, di nuovo, dico che ho un senso religioso della vita proprio per questa consapevolezza di un mistero che è impenetrabile. Impenetrabile!
 Norberto Bobbio  da: Repubblica 30 APRILE 2000

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bobbio, senso religioso

venerdì, 08 febbraio 2008

Il senso religioso
***
e ci troviamo ancora al punto che
si gira in macchina il mattino alle tre
alla ricerca di qualcosa che poi
cos'è non lo sappiamo nemmeno noi”
Max Pezzali  da : Con Un Deca

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canti, senso religioso

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