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mercoledì 22 febbraio 2012

senso religioso10



L’INTELLIGENZA
DI FRONTE A DIO
di C. Tresmontant
Noi siamo, noi viviamo, ma la nostra esistenza, la nostra vita, appare a noi stessi come una sorpresa, come un fatto di cui non siamo capaci di rendere ragione. Anche l'universo tutto intero esiste come un fatto di cui né esso né noi sappiamo rendere ragione.
Noi possiamo studiare la struttura dell'universo, della materia, della vita, studiare il come del suo sviluppo e della sua evoluzione: ci manca sempre la risposta alla domanda dell'essere: l'universo esiste, con l'infinita ricchezza della sua struttura, della sua diversità, col suo sviluppo e la sua evoluzione. Ma questa esistenza appare come un fatto che richiede esso stesso spiegazione. Constatare l'esistenza dell'universo non ci basta: nasce un problema attorno a questa esistenza, struttura e sviluppo, in forma di domanda radicale sulla sorgente di questa esistenza.
E' questo uno pseudo-problema, uno di quei problemi che l'analisi concettuale oppure l'analisi psicologica riducono a nulla e svuotano come un brutto sogno? E' quanto dobbiamo vedere. Diciamo solamente, per ora, che ciò che manca, il desiderio di immortalità e di vita felice che ha portato l'uomo ad inventare le idee felici, il suo sentimento profondo di insufficienza, si ricapitolano, si sommano nella coscienza che l'esistenza e la vita sono per noi come un dono che ci è fatto, e che la condizione umana ci è imposta dal di fuori: noi non siamo gli autori della nostra esistenza, e tanto meno della nostra condizione mortale, sofferente, effimera. Se noi fossimo stati gli autori della condizione della nostra vita, ci saremmo fatti felici, immortali, come gli dei della mitologia. Tutto ciò che cosi crudelmente ci manca, ce lo saremmo concesso. Ma di fatto noi non siamo i nostri creatori. Sono stati gli dei, dicono le tradizioni dei padri, che ci hanno trattato cosi, gli dei gelosi che ci hanno fatto fragili e mortali conservando per se stessi l'immortalità della vita felice.
Qualunque significato abbiano queste antiche tradizioni, una cosa è certa; noi non ci siamo creati da noi. La nostra esistenza, la nostra natura, il nostro corpo, la nostra anima sono per noi una sorpresa e un oggetto inesauribile di stupore.
I biologi fanno l'analisi della struttura del nostro organismo e non siamo che alla prima scoperta di questo mistero, che è per noi il nostro organismo. La nostra anima, la nostra psicologia, le nostre tendenze sono per noi altrettanti misteri. Ci vorrà il lungo travaglio della scienza per scoprire a noi stessi chi siamo.
La nostra esistenza, il battito del nostro cuore, il chimismo della nostra responsabilità e questa boccata d'aria che noi inghiottiamo e che si trasforma in noi stessi, senza di noi, il nostro pensiero stesso che sgorga come una fontana e la cui sorgente rimane sconosciuta, tutto questo è per noi mistero. Noi siamo mistero a noi stessi. Noi siamo nelle nostre mani, come un bel giocattolo che è dato ad un bambino e che il bambino gira e rigira con stupore. Tutto è dato in noi: l'essere, la vita, il battito del nostro cuore e questo stesso pensiero che io penso e che mi viene da un luogo che io non conosco, da una profondità che non ho mai sondato.
lo è un altro, diceva il poeta. Il filosofo, il matematico, tutti possono dire: questo pensiero che mi viene e che è mio, mi viene, « sale al mio cuore », come dicono gli ebrei, ma io non posso dire legittimamente che io ne sono il creatore assoluto; il pensiero che mi viene è esso stesso un dono, un dono al quale io coopero, un dono che è frutto di me stesso concepito nel più profondo di me stesso, ma tuttavia un dono, come io stesso, perché di questo io, io non sono il creatore. lo sono un dono a me stesso. Tutto questo potere che è in me, questo movimento, questa forza, questa potenza d'agire e di concepire, non sono io che le ho messe in me. lo sono nato ed ho ricevuto. La vita, il pensiero, come il movimento e l'agire sono per l'uomo ricevuti.
L'essere, il vivere, il pensare, l'agire sono nostri, ma alla radice del nostro essere e della nostra vita, alla radice interiore del nostro agire e del nostro pensare c'è una energia di cui non siamo creatori.

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martedì, 06 febbraio 2007

IL SENTIMENTO RELIGIOSO
di A. Einstein
***
L'individuo è cosciente della vanità delle aspirazioni e dei desideri umani e, peraltro, riconosce l'impronta sublime e l'ordine mirabile che si rivelano nella natura e nel mondo del pensiero. L'esistenza individuale gli dà l'impressione di una prigione e vuoI vivere nella piena conoscenza dell'universo, della sua unità e del suo senso profondo. Già nei primi gradi di evoluzìone della religione, per esempìo in molti salmi dì David e in qualche Profeta, troviamo accenni a una religione cosmica. (...) In tutti i tempì, i grandì spiriti religìosi sono stati influenzati da questa religiosità cosmica che non conosce dogmi né dèi concepiti a immagine dell'uomo. Non vi può essere alcuna Chiesa che fondi su di essa la propria dottrina. E' perciò tra gli eretici di tutti ì tempi che noi troviamo uomini penetrati di questa superiore religiosità, e che assai spesso furono considerati dai loro contemporanei come ateì, ma sovente anche come santi.
Come può la religiosità cosmica comunicarsi da uomo a uomo se non dà origine a una precisa idea di Dio né ad alcuna teologia? Compito fondamentale dell'arte e della scienza è appunto, a mio avviso, quello di risvegliare e mantenere vivo questo sentimento tra coloro che si dimostrano capaci di accoglierlo.
Giungiamo così a una visione dei rapporti tra scienza e religione molto diversa da quella corrente. Da un punto di vista storico si è portati a ritenere scienza e religione come antagonisti irriducibili, e ciò per una ragione molto ovvia. L'uomo sinceramente convinto della portata universale della legge di causalità non può arrendersi all'idea di un Essere che interviene nelle vicende umane, e perciò la religione fondata sul timore, così come la religione sociale e morale, non hanno presso di lui alcun credito. Un Dio che ricompensa e punisce è per lui inconcepibile, perché l'uomo agisce sotto la spinta di leggi interiori ed esteriori e per conseguenza non potrebbe essere responsabile verso Dio più di quanto un oggetto inanimato lo sia dei movimenti ai quali è sottoposto. A torto si è rimproverato alla scienza di insidiare la morale. La condotta etica dell'uomo dovrebbe fondarsi sulla compassione, l'educazione e i vincoli sociali, senza dover ricorrere ad alcun principio religioso. Gli uomini sarebbero da compiangere se dovessero essere frenati dal timore della punizione o dalla speranza di una ricompensa dopo la morte.
D'altra parte io sostengo che la religiosità cosmica costituisce il più forte e nobile impulso alla ricerca scientifica. .
Soltanto chi può valutare gli sforzi e i sacrifici immani che sono necessari per giungere a quelle scoperte scientifiche che schiudono nuove vie, è in grado di rendersi conto della forza del sentimento che solo può suscitare una tale opera, sciolta da ogni vincolo con l'immediata vita pratica. Quale profonda fede nella razionalità dell'universo e quale ardente desiderio di conoscere, sia pure un debole riflesso dell'intelligenza che si rivela in questo mondo, devono aver avuto Keplero e Newton per dedicare anni di solitaria ricerca alla scoperta dei principi del meccanismo celeste. Soltanto colui che ha dedicato la propria vita a tale missione può formarsi un'immagine viva di ciò che ha ispirato questi uomini e dato loro la forza di restare fedeli, nonostante innumerevoli insuccessi, alla propria missione. E' la religiosità cosmica che dà all'uomo una simile forza. Giustamente un contemporaneo ha osservato che nella nostra epoca, votata in genere al materialismo, i soli uomini profondamente religiosi sono gli scienziati.
Voi troverete difficilmente uno spirito profondamente devoto alla scienza che non abbia un suo proprio sentimento religioso. Si tratta però di una religiosità diversa da quella dell'uomo semplice. Per quest'ultimo Dio è un essere di cui si cerca la bontà e si teme il castigo; la sublimazione di un sentimento simile a quello che nutre il bambino verso il padre; un essere col quale si stabilisce, per così dire, un rapporto personale, per quanto rispettoso esso sia.
Al contrario, lo scienziato è penetrato dal senso della causalità universale. Il futuro per lui è altrettanto necessario e determinato del passato, e la morale non ha nulla di divino, ma è un fatto puramente umano. Il suo sentimento religioso assume la forma dello stupore estatico di fronte all'armonia delle leggi della natura, rivelandogli un'intelligenza talmente superiore che, confrontato ad essa, tutto il pensiero e l'agire degli uomini  appare come un riflesso del tutto insignificante.
EINSTEIN

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einstein, senso religioso

lunedì, 05 febbraio 2007

IL SETTIMO SIGILLO
di I. Bergman
Cavaliere: Voglio parlarti più sinceramente che posso, ma il mio cuore è vuoto.
La Morte non risponde.
Cavaliere: Il vuoto è uno specchio rivolto verso il mio viso. In esso vedo me stesso, e mi sento pieno di timore e di disgusto.
La Morte non risponde.
Cavaliere: Per la mia indifferenza verso i miei simili mi sono isolato dalla loro compagnia. Ora vivo in un mondo di fantasmi. Sono prigioniero dei miei sogni e delle mie fantasie.
Morte: Eppure non vuoi morire.
 Cavaliere: Sì che voglio.
Morte: E che cosa aspetti?
Cavaliere: Voglio conoscere.
 Morte: Vuoi delle garanzie?
Cavaliere. Chiamale come vuoi. E' davvero così inconcepibile afferrare Dio coi sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e d'invisibili miracoli?
La Morte non risponde.
Cavaliere: Come possiamo aver fede in coloro che credono, se non possiamo aver fede in noi stessi? Che cosa accadrà a quelli di noi che vogliono credere ma non vi riescono? E che cosa ne sarà di coloro che non vogliono né possono credere?
Il cavaliere tace in attesa d'una risposta, ma nessuno risponde. Vi è un completo silenzio.
Cavaliere: Perché non posso uccidere Dio dentro di me? Perché egli continua a vivere in questo modo doloroso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparmelo dal cuore? Perché, nonostante tutto, egli è un'illusoria realtà ch'io non posso scuotere da me? Mi ascolti?
Morte: Ti ascolto.
Cavaliere: Io voglio la conoscenza, non la fede, non supposizioni, la conoscenza. Voglio che Dio
tenda la sua mano verso di me, si riveli e mi parli.
Morte: Ma egli rimane zitto.
Cavaliere: Lo chiamo nel buio, ma sembra come se non ci fosse nessuno.
Morte: Forse non c'è nessuno.
Cavaliere: Allora la vita è un atroce orrore. Nessuno può vivere in vista della morte, sapendo che tutto è nulla.
Morte: La maggior parte della gente non riflette mai né sulla morte né sulla futilità della vita.
Cavaliere.: Ma un giorno si troveranno di fronte all'ultimo momento della vita, e guarderanno
verso le tenebre.
 Morte: Quando arriva «quel» giorno ..
 Cavaliere: Nella nostra paura formiamo un'immagine, e questa immagine la chiamiamo Dio. Morte: Tu ti affanni '"
Cavaliere: La Morte mi ha visitato, questa mattina. Stiamo facendo una partita a scacchi. Questo rinvio mi permette di sistemare una questione urgente.
Morte: Di che questione si tratta?
Cavaliere: La mia vita è stata una futile impresa, un vagabondaggio, un mucchio di chiacchiere senza significato. Non ne ho rimpianto né rimorso, poiché la vita dei più è assai simile a questo.

la morte

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venerdì, 02 febbraio 2007

IL CUORE DELL’UOMO
***
"Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito”
 Immanuel Kant [Critica della ragion pratica, Conclusione, Laterza, Bari, 1974]

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bellezza, kant, senso religioso

giovedì, 01 febbraio 2007

PRIMA DEL VIAGGIO
***
Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le pernottazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano
le guide Hacchette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi:
prima del viaggio si informa
qualche amico o parente: si controllano
valige e passaporti, si completa
il corredo, si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dá un'occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla:
prima
del viaggio si é tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto é O.K. e tutto
é per il meglio e inutile
…………………………
E ora che ne sará
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l'ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto

é la sola speranza.
Ma mi dicono
ch'è una stoltezza dirselo
.
 Eugenio Montale

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mercoledì, 31 gennaio 2007

Il desiderio umano di Infinito
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere.
(…) Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere, appena è piacere, perché non si tratta di una piccola, ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono essere misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.
dallo Zibaldone,  di Leopardi


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leopardi, senso religioso


Il desiderio umano
di Felicità
***
Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo
e poi, più procedendo, desiderare uno augellino
e poi, più oltre, desiderare bel vestimento
e poi lo cavallo
e poi una donna
e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre.
 Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta dinanzi all'altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto dalla punta ver la base più si procede, maggiori apariscono li desiderabili
e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno appresso dell'altro.
Dante  Convivio

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lunedì, 29 gennaio 2007

L’istinto del Bello
***
È questo ammirevole, questo immortale istinto del Bello che ci fa considerare la terra e i suoi spettacoli come un’intuizione, come una corrispondenza del Cielo. La sete insaziabile di tutto quanto è al di là e che la vita svela, è la prova più viva della nostra immortalità. Allo stesso tempo è con la poesia e attraverso la poesia, con e attraverso la musica che l'anima intravede gli splendori situati dietro la tomba; e quando una squisita poesia fa salire le lacrime agli occhi, queste lacrime non sono la prova di un eccesso di godimento, quanto invece la testimonianza di una malinconia irritata, di un postulato dei nervi, di una natura esiliata nell'imperfetto e che vorrebbe impadronirsi immediatamente, su questa terra stessa, di un paradiso rivelato»
C.Baudelaire. Opere A. Mondatori Editore

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giovedì, 25 gennaio 2007


Il senso religioso
***
Appunto dell’11.6.1916
Che cosa so di Dio e del fine della vita?
So che questo mondo è.
Che io sto in esso come l’occhio nel suo campo visivo.
Che qualcosa in esso è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso.
Che questo senso non risiede in esso, ma al di fuori di esso.
Che la vita è il mondo.
Che la mia volontà compenetra il mondo.
Che la mia volontà è buona o cattiva.
Che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo.
Il senso della vita, cioè il senso del mondo possiamo chiamarlo Dio.
E collegare a ciò la similitudine di Dio come padre.
La preghiera è il pensiero sul senso del mondo.
Non posso volgere gli avvenimenti del mondo secondo la mia volontà; piuttosto sono completamente impotente.
Solo così posso rendermi indipendente dal mondo- e in un certo senso quindi dominarlo- rinunciando a un influsso sugli avvenimenti. [Wittgenstein, op. cit.,p.167]
 [Wittgenstein, Tractatus ]






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LA COSCIENZA ANGOSCIATA

«È una cosa eccellente, l'unica necessaria e chiarificante, questa che dice Lutero: "Tutta la dottrina (della Redenzione, e in fondo tutto il cristianesimo) deve essere messa in rapporto alla lotta della coscienza angosciata. Elimina la coscienza angosciata, e tu puoi anche chiudere le chiese e farne delle sale da ballo". La coscienza angosciata capisce il cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti davanti un pezzo di pane o una pietra, capisce che l'uno è da mangiare e l'altra no; a questo modo la coscienza angosciata capisce il cristianesimo».
Kierkegaard

 




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senso religioso, kierkeergaard

mercoledì, 24 gennaio 2007

L'ATTESA
«Sei tu colui che ha da venire o attenderemo un altro?» (Mt 11,3)
Un’affascinante riflessione di don Primo Mazzolari

La vita di ognuno è un'attesa. Il presente non basta a nessuno: l'occhio e il cuore sono sempre avanti, oltre la breve gioia, oltre il limite del nostro possesso, oltre le mete raggiunte con aspra fatica.
In un primo momento pare che ci manchi solo qualcosa: più tardi ci si accorge che ci manca Qualcuno.
E lo attendiamo.
Ogni popolo, come ogni cuore, è in stato messianico. La nostra epoca è forse l'epoca più messianica della storia.
Tale attesa, calma o disperata, silenziosa o urlante, è il disegno inconfondibile della nostra povertà e della nostra grandezza.
L'uomo non è mai tanto povero come quando si accorge che gli manca tutto: non è mai tanto grande come quando, da questa stessa povertà, tende le braccia e il cuore verso Qualcuno.

Cristo è questo Qualcuno.
Il profeta lo chiama «il Veniente».
Poiché egli è colui che viene, io sono colui che attende.
E l'inquietudine di chi attende si placa nella carità di chi viene: come l'incarnazione è l'inizio compiuto ed esemplare dell'incontro, il suo fermento.
La nostra attesa è così assetata, che spesso rivolgiamo male la nostra ricerca e ancor peggio collochiamo il nostro cuore.
Gli stessi eletti possono avere momenti di esitazione. Il fatto di Giovanni il Battista, secondo l'odierno Vangelo, insegna.
Egli aveva visto Gesù sulle rive del Giordano: l'aveva battezzato e indicato al popolo come «l'Agnello di Dio...». Poi, non l'aveva più incontrato. E, adesso, era in prigione a motivo di Erodiade...
Certe prove mettono in discussione tutte le nostre certezze.
Io l'ho provato qualche mese fa. Lo scoramento spirituale può prendere anche i santi e i profeti; solo coloro, che si dimenticano di ascoltare il cuore dell’uomo nel santo, ne fanno meraviglia.
La differenza tra noi e i santi è nella maniera con cui si fa fronte allo smarrimento.
Noi accogliamo il dubbio e ci lasciamo prendere dall'accidia...
Nella domanda che i discepoli di Giovanni portano a Cristo c'è già qualcosa di bruciante.
Senza fede non si vive.
Un naufrago si attacca a tutto: a una tavola, a una corda, a un filo d'erba.
L'uomo non può fare il naufrago per tutta la vita.
Purché sia uomo e non «una canna agitata dal vento»! I problemi dello spirito sono guardati seriamente e vissuti passionalmente soltanto dai veri uomini.
Le «canne agitate dal vento» (che non hanno nulla a che vedere con «le canne pensanti» di Pascal perché non pensano affatto) si credono libere perché servono tutti i padroni e deridono il profeta che, per servire uno solo, abbandona la propria testa sul piatto del festino
Tratto da Primo Mazzolari - ”La parola che salva”- Edb 1995

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sabato, 20 gennaio 2007

DIARIO DELLA AMICIZIA
di E. van Broeckoven         
***
Scoprire la realtà dell'amicizia della persona, non solamente in noi ma anche negli altri.
Profondità dell'intimità dell'uomo: il suo corpo, il suo temperamento, il suo carattere più profondamente ancora ...egli è «di Dio ».
L'amicizia è l'amore che cerca l'altro e può fare a meno di ciò che l'altro ha, perché essa non cerca ciò che egli ha, ma ciò che egli è: «di Dio ».
L'amicizia cerca ciò che in lui vi è di più intimo, cioè ciò per cui egli è di Dio, ciò per cui la sua intimità sta nell'intimità di Dio. In tal modo l'amicizia cerca di penetrare nel mistero di Dio che è Amore; se gli uomini comprendessero questo, cercherebbero Dio. (...)
Solamente quando l'amore si esprime in modo concreto mediante un impegno totale nella situazione di colui che si ama e nella misura in cui si cerca l'intimità concreta dell'altro, allora l'amore è veramente autentico, esistenziale, profondo, senza limiti, superando il tempo (eterno), e la materia (spirituale).
L'amore che non si esprime, non si esteriorizza concretamente,
-non è autentico: resta chimerico, astratto;
 -non è esistenziale: resta estraneo a ogni impegno personale.
-non è profondo: non tocca nemmeno la superficie.
-non è senza limiti: solamente l'amore che si è concretizzato può, incarnandosi, scoprire delle prospettive reali infinite.
-non è eterno: solamente un atto posto nel tempo della storia può influenzare l'insieme della realtà storica.
-non è spirituale: tutte le realtà spirituali di questo mondo devono essere calate in una realtà corporale concreta.
Nella misura in cui si impegna concretamente nell'azione effettiva di colui che si ama, l'amore è autentico..


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amicizia, senso religioso

mercoledì, 17 gennaio 2007

Per arrivare alla Verità
***
Per arrivare alla verità bisogna rinunciare alla propria aseità*, uscire da se stessi e questo ci è decisamente impossibile perché siamo carne. E allora come aggrapparsi alla colonna della verità? Sappiamo soltanto che tra le crepe del raziocinio umano si intravede l'azzurro dell'Eternità; è inattingibile, ma è così. Sappiamo anche che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e non il Dio dei filosofi» e dei dotti viene a noi, viene al nostro letto, ci prende per mano e ci guida in una maniera che non avremmo mai potuto prevedere. «Agli uomini questo è impossibile, ma tutto è possibile a Dio».
 P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità,
*L'"aseità" è la natura o la caratteristica di ciò che ha in sé la causa della del proprio essere. Il termine si contrappone ad "abalietà", che indica la natura o la caratteristica di cio che è ab alio, ossia di un essere, la cui esistenza dipende da un altro o comunque da qualcosa che è al di fuori di sé.
Se l'aseità indica un'esistenza totalmente indipendente, diviene attributo dell'Assoluto, di Dio
 P. Florenskij,

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verità, senso religioso, florenskij

mercoledì, 10 gennaio 2007

L’uomo:
attesa di essere redento
***
«Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (…) Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire (…) Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti».
L. Wittgenstein, Movimenti di pensiero. Diari 1930-32/1936-37


martedì, 09 gennaio 2007

La speranza dell’Infinito
***
«La speranza induce a esplorare il mondo alla ricerca di una piccola, minuscola crepa che potrebbero aver lasciato rapporti e legami; una fessura sia pur sottilissima   che aiuti a ordinare e centrare il mondo indefinito perché l'inatteso desiderato dovrà infine uscirne fuori come felicità definitiva. La speranza porta alla disperazione se la convinzione non fa trovare nessuna fessura, nessuna possibilità di essere felice. Questa è la situazione di Rahel* a ventiquattr'anni; non ha ancora vissuto nulla, in una vita che non ha ancora contenuto personale. "Sono sfortunata; non mi lascio convincere del contrario; il che ha un brutto effetto". La convinzione diventa definitiva; non si preoccupa del fatto che continui a sperare nella felicità per quasi tutta una vita; Rahel sa in segreto che in tutto quello che accadrà, la condizione della sua giovinezza aspetta solo di essere confermata». Hanna Arent

*intellettuale ebrea berlinese di epoca romantica


arendt, senso religioso

domenica, 31 dicembre 2006

Nulla, Signore, io sono
***
Nulla, Signore, io sono
su questa terra. Nulla è questa terra
nell'universo. Ed io non so di dove
vengo, né dove andrò: tenebra fonda
prima che il tuo voler qui mi chiamasse,
 cieca speranza nella tua clemente
misericordia, oltre il traguardo estremo.
 Unica realtà questo mio nulla
che avanza in solitudine su angusto
 ponte sospeso fra due sponde ignote:
e sotto ondeggia e rumoreggia il fiume
che non ha foce, e sopra ardon nei cieli
 parole incomprensibili di stelle.
Che vuoi da me? Qual dono
chiedi alla mia miseria, e di qual luce
folgorerai l'anima mia,
nel giorno ch 'ella in Te rivivrà?
Ma tu giammai
ti scopri. Ed è nel tuo pensiero occulto
ch 'io più ti cerco e imploro: è in quest 'angoscia
 di sapere da Te ciò che m'ascondi
ch 'io forza attingo per amarti -e il mio
 tormento è grande come il tuo silenzio.
Ada Negri

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negri, senso religioso

mercoledì, 08 novembre 2006




Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti… Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccato. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.

San Gregorio Nazianzeno




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senso religioso, gregorio nanzianzeno

mercoledì, 18 ottobre 2006

L'unica cosa che conta e' l'inquietudine divina delle anime inappagate

"Piu' si vive, piu' ci accosta a Pascal: l'unica
cosa che conta e' l'inquietudine divina delle anime inappagate. Oh, gli spiriti limitati, le persone sedute in cattedra, in tribuna, nelle loro poltrone, le persone soddisfatte, gli intellettuali, gli u-n-i-v-e-r-s-i-t-a-r-i! Vedi, e' assolutamente necessario che diamo un senso alla nostra vita. Non quello che gli altri vedono e ammirano, ma il tour de force che consiste nell'imprimervi il sigillo dell'infinito."
[12-01-1928, E. Mounier a M. Mounier

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malinconia, senso religioso, mounier

martedì, 10 ottobre 2006

Teologia solubile –
I - Premessa
C'è il caffè, e c'è il caffè solubile. C'è la Teologia, e ci sono queste note che vi infliggerò saltuariamente nei prossimi mesi in un tentativo vagamente masochistico di cercare di spiegare (in modo spero semplice) alcune delle verità del Cristianesimo. Poichè noto che spesso chi parla della Chiesa non ha la più pallida idea di cosa la Chiesa sia, partirò illustrando quella sequenza che la Chiesa stessa, da sedici e passa secoli, usa per identificare se stessa: il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, noto con l'affettuoso soprannome di Credo.
Mi perdonino gli amanti del caffè espresso.
Teologia vuol dire: parlare di Dio (Theo=Dio, Logia=parlare di). Corbezzoli. Roba grossa, difficile. Però...
Come uomini, noi desideriamo cose: una donna, un'auto, non essere tartassati, una giornata di sole. Ma se guardiamo bene, nessuna di queste cose ci soddisfa appieno. Vorremmo una donna che ci ama totalmente; una giustizia per il mondo; che tutto sia bello. Insomma L'Amore, LA Giustizia, LA Bellezza, LA Verità. Che non sono però di questa terra, evidentemente: sono come un Mistero a cui tendiamo ma a cui non riusciamo ad arrivare.
Il nome che diamo a questo Mistero, cioè alla Bellezza, all Giustizia, alla Verità, all'Amore, è Dio. Perciò quando parliamo in un certo modo della donna, dell'auto, di tutto, parliamo di Dio. Teologia, amici. Noi facciamo continuamente teologia.
La storia umana è un ininterrotto tentativo di conoscere questo Mistero dell’esistenza. Ma Dio, questo Mistero, non si può conoscere, se non per quello che Lui ci rivela.
Dio si è rivelato facendosi Uomo, duemila anni fa. E il metodo con cui questo Mistero si rivela nel mondo oggi è la Chiesa.
Così qui di seguito affronteremo parola per parola il fondamento che questa stessa Chiesa ha dato per identificarsi, per evidenziare quello che la distingue da tutti gli altri innumerevoli tentativi che l’Uomo ha fatto nei secoli per conoscere questo Mistero. Insomma, il Credo.
Ma la Chiesa è una vita, e come tale per comprenderla veramente, al di là delle parole, occorre viverla, parteciparvi. Occorre coinvolgersi con essa, così come per conoscere una persona bisogna viverci assieme. Solo così si riuscirà a dare un volto alle parole, si farà sì che non rimangano puro suono che non incide e svanisce. Capirle. Ed amarle. (segue...)


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chiesa, bellezza, senso religioso

lunedì, 25 settembre 2006

Tempi num.36 del 21/09/2006
Tirabaci tirapugni
Il 'Newton scorretto' che a scuola non si insegna
di Corradi Marina

Non avevamo mai letto, e nemmeno sentito parlare ai tempi del liceo - un liceo milanese di fine anni Settanta, rigorosamente di sinistra e democratico - del ventottesimo commento all'Ottica di Isaac Newton. Dunque l'uomo che elaborò la teoria della gravitazione universale, all'alba del Settecento, si chiedeva: «Che cosa c'è in luoghi quasi completamente vuoti di materia, e donde deriva che il sole e i pianeti gravitino gli uni verso gli altri, senza che vi sia tra loro nessuna materia densa? Donde viene che la Natura non fa nulla invano: e da dove trae origine tutto quell'ordine e tutta quella bellezza che vediamo nel mondo? A qual fine esistono le comete, e donde viene che i pianeti si muovano tutti in un unico e medesimo modo in orbite concentriche; e che cosa impedisce alle stelle di precipitare le une sulle altre? (.) È possibile che l'occhio sia stato costruito senza conoscenza d'ottica, e l'orecchio di acustica? (.) Donde viene l'istinto degli animali?».


 van-gogh-vincent-starry-night
Le domande di Newton paiono l'eco di quelle di Dio nel libro di Giobbe
. Chiedeva Dio a Giobbe: «Dov'eri tu, quando io fondavo la Terra? Chi fissò le sue dimensioni, che tu sappia, e chi distese sovr'essa la corda? Su cosa stanno fissi i suoi cardini, e chi gettò la sua pietra angolare, tra il concerto gioioso delle stelle del mattino? (.) Chi rinchiuse fra le porte il mare, quando erompendo dall'utero uscì? (.) Da che vivi, hai tu comandato al mattino, hai tu additato all'aurora il suo posto? (.) Sei giunto tu fino alle sorgenti del mare, o hai passeggiato nelle profondità dell'abisso? Forse ti furono aperte le porte della morte, e hai veduto le porte dell'ombra? (.) Qual è la via per cui si spande la nebbia, si diffonde lo scirocco sulla terra? Chi aprì all'inondazione i fiumi, e una strada ai nembi dell'uragano, per far piovere su contrade ove non vive l'uomo, su deserti in cui non abita alcuno, per abbeverare squallide solitudini e far germogliare la steppa? Ha forse un padre la pioggia, o chi generò le stille di rugiada? (.) Annodi tu i legami delle Pleiadi, o sciogli i vincoli di Orione? (.) Procuri tu la preda alla leonessa o sazi tu la fame dei leoncelli, quando s'accovacciano nelle tane o si appiattano in agguato nella macchia?».
Giobbe e Newton, oltre due millenni lo stesso sbalordimento davanti alla creazione. Concludeva Newton:
«
Non risulta con evidenza dai fenomeni che esiste un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente il quale vede intimamente le cose stesse e le capisce interamente in virtù della loro presenza immediata a se stesso?». Ecco perché di Newton in quel liceo si parlò solo nei libri di fisica. Newton era scorretto, era fuori linea in quella scuola pubblica, comunista di stretta osservanza. Nessuno dunque ci fece leggere le sue domande - le stesse che tutti si fanno, a sedici anni, come intuendo una risposta come nascosta appena dietro l'evidenza del creato. Positivismo, marxismo, esistenzialismo, quella, ci dissero, era l'unica modernità, e l'unico pensiero scientifico possibile. Su Giobbe e Newton, e la loro straordinaria simmetria, il silenzio.

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newton, senso religioso

mercoledì, 20 settembre 2006




Da Il Foglio 16 settembre 2006
La radice araba della parola ragione è incarcerare MA IL PAPA CI HA DETTO CHE È INCARCERATA ANCHE IN OCCIDENTE. L’UNIVERSITÀ CHE FA?
Giancarlo Cesana
Aderisco volentieri a inviare un contributo sul discorso del Papa a Ratisbona, innanzitutto per ringraziarlo, tanto più di fronte agli attacchi che sta subendo. Lo ringrazio della magnanimità e dell’acume con cui corregge, ovvero, letteralmente, regge per noi e insieme a noi una strada
tutt’altro che facile. Dietro il suo lieve sorriso c’è la forza dell’architrave che tiene su la cattedrale. C’è la capacità, caro direttore, di provocare un commento come il suo, che basterebbe da solo a documentare che non ci può essere fede senza ragione e che nessuna fede può andare contro le esigenze vere di un uomo, qualunque uomo, credente o non. Benedetto XVI comincia la sua relazione con la descrizione della sua “
vecchia università dei professori ordinari”. Lì, una volta ogni semestre, nel cosiddetto dies academicus, “tutti” i professori si radunavano davanti agli studenti a discutere di “tutto”, “del tutto”, che – nonostante “tutte le specializzazioni” – esploravano con l’“unica ragione”. Così, “nella comune responsabilità per il retto uso della ragione”,
l’uni-versitas – verso l’unicità della conoscenza
– “diventava esperienza viva”.

Bene, questa università non esiste più, almeno da noi; e non esiste più, non perché non ci siano più i baroni, che ci sono ancora, ma perché non esiste più la ragione che la fonda. Lo dico da professore ordinario e vado avanti con la mia storia di ciellino, su una conseguenza non minore, secondo me, dell’intervento del Papa.
Sono reduce dal Meeting di Rimini che, guarda caso, era dedicato alla ragione e alla sua esigenza di infinito. Secondo quanto riportato nel comunicato finale, l’acme culturale della manifestazione si è raggiunto inaspettatamente con la presentazione dell’edizione araba de “Il senso religioso” di don Luigi Giussani, da parte di due intellettuali mussulmani. Andando a cercare il significato etimologico della parola ragione nella lingua araba, il professor Wa’il Farouq dell’Università del Cairo ha scoperto che esso è “legare, incarcerare, chiudere dentro”.

 Ha compreso allora perché la “ragione sia sempre stata in eterno confronto con la religione fino all’accusa di apostasia dei fondamentalisti islamici verso gli intellettuali”.

Ha concluso che il libro di don Giussani gli aveva aperto “nuovi orizzonti” perché valorizzava in modo del tutto nuovo l’esperienza elementare dell’uomo, creando una reale tensione al dialogo. Il
comunicato del Meeting, per parte sua, concludeva che “come ricorda sempre Benedetto XVI”, vedi appunto Ratisbona, “la ragione è incarcerata anche in occidente” e si dava come titolo “Scarceriamo la ragione”. Don Luigi Giussani non era casualmente amico di Joseph Ratzinger e il perché di questa amicizia oggi mi interpella sempre di più. La considerazione da parte di don Giussani della esperienza elementare e della sua decisiva importanza nella educazione e nei rapporti proviene dalla certezza che l’uomo, per quanto fragile e cattivo, è fatto a immagine di Dio, cioè è “intelligente”; inoltre, Dio lo ama fino a farsi Egli stesso carne.

L’esperienza elementare, infatti, non è un semplice provare, ma un incontro che trasforma l’anonimato dell’esistenza in“io”, scoperta di essere amati e del valore positivo delle cose.
Così, la realtà – il cielo, la terra, gli altri – non è più arida o muta, ma parlante del grande mistero che la fa. Dio non rinnega certo l’avvenimento dell’esperienza umana, ma lo suscita e lo “segue” per convincere della sua presenza nella storia. Così provoca la ragione a estendersi, a uscire dalla prigione in cui è tentata continuamente di rinchiudersi. Anche gli universitari, gli scienziati, possono accorgersi con stupore di ciò che dice la Bibbia: “Ma tu (Jahvé) hai regolato ogni cosa in numero, peso e misura” (Sapienza 11, 20).
Ma, pensando ai miei quasi quarant’anni di università, capisco che il lavoro è appena cominciato. Come dice il Papa nell’ultima riga del suo discorso, ritrovare il “grande logos”, la “vastità della ragione” è il “grande compito” dell’università.
Perché se la ragione non c’è nelle università,è difficile che si diffonda da altre parti.
Non si tratta di essere intellettuali, ma realisti
.


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ragione, giussani, senso religioso

lunedì, 11 settembre 2006

kierkeergaard “Discorso Edificante”1844
(traduzione italiana inedita)

Aver bisogno di Dio
è la suprema perfezione dell’essere umano



Aver bisogno di Dio è la suprema perfezione dell’essere umano. Una circostanza, a tutti nota, sembra ricordare a ciascuno, almeno incidentalmente, che sia così, che l’aver bisogno di Dio sia una perfezione. Che cos’è un essere umano? È solo un ulteriore ornamento nell’ordine della creazione; oppure non ha alcun potere, non è capace di nulla da solo? E qual è allora questo potere, che cos’è la cosa suprema che può volere? Come suona la risposta a questa domanda, quando nel domandare l’audacia della giovinezza si unisce alla forza della virilità, quando questa magnifica unione è pronta a sacrificare tutto per compiere qualcosa di grande, quando l’ardente afferma infervorato: «Anche se nessuno al mondo c’è riuscito prima, io ci riuscirò; seppure milioni tralignarono dimenticando il compito, io combatterò - ma qual è la cosa suprema?». Ebbene, non vogliamo defraudare la cosa suprema del suo prezzo, non nascondiamo che è stata raggiunta di rado nel mondo, perché la cosa suprema è: che un essere umano si convinca fino in fondo di non essere capace di nulla da solo, assolutamente di nulla.
Certo, quando l’essere umano si volge all’esterno, sembra essere capace delle cose più sorprendenti, che gli darebbero ben altra soddisfazione, che sarebbero circondate da ammirazione e giubilo.
Invece, quella rara elevazione non serve all’ammirazione, non tenta l’essere umano carnale, al contrario essa condanna l’ammiratore come persona stolta che non conosce ciò che ammira, invitandola a tornarsene a casa; oppure come anima ingannatrice, invitandola a tornare in se stessa. Osservato dall’esterno, l’essere umano è la più magnifica delle creature, ma la sua gloria è però solo esterna e per l’esterno: con la sua freccia, l’occhio non mira forse all’esterno, ogni volta che la passione e il piacere tendono l’arco, la sua mano non è volta all’esterno, il suo braccio non è proteso, la sua ingegnosità non è conquistatrice?
Ma se non vuol essere un attrezzo di guerra al servizio di inesplicati istinti, sì, al servizio del mondo, perché il mondo stesso, oggetto della sua brama, desta l’istinto; se non vuol essere come uno strumento a corda nelle mani di oscuri stati d’animo o, meglio, nelle mani del mondo, perché il movimento della sua anima dipende da come il mondo tocca le sue corde; se non vuole essere come uno specchio con cui fissa il mondo o, meglio, in cui il mondo si specchia; se non vuole tutto questo, se, prima che l’occhio miri a qualcosa per conquistarlo, vuole acchiappare l’occhio, così che gli appartenga, e non lui all’occhio; se afferra la mano, prima che questa afferri qualcosa all’esterno, così che gli appartenga, e non lui alla mano, se vuole tutto ciò così seriamente da non temere di cavarsi l’occhio, di tagliarsi la mano, di chiudere le finestre dei sensi, se fosse necessario - sì, allora tutto è cambiato, il potere e la gloria gli sono tolti. Non combatte con il mondo, ma con se stesso.
Guardalo adesso, la sua figura possente è cinta da un’altra figura, e si tengono abbracciati così strettamente, parimenti agili e forti si serrano l’un l’altro, così che la lotta non può neppure iniziare, perché l’altra figura nello stesso istante lo sopraffarebbe; ma l’altra figura è lui stesso. Così non può fare assolutamente nulla; perfino la persona più debole, che non fosse provata da questa contesa, sarebbe capace di molto di più. E questa contesa non è solo spossante, ma anche tremenda (se però non è lui stesso che, seguendo una propria trovata, si è avventurato in essa, ché, se è così, non è messo alla prova nella contesa di cui parliamo), quando la vita, grazie alla guida di Dio, getta un essere umano in essa per rafforzarlo in questa nullificazione che non conosce raggiro, che non permette fuga, che non produce autoinganno (quasi che in altre circostanze sarebbe capace di fare di più); infatti, quando la persona lotta con se stessa le circostanze non influiscono sull’esito. Questa è la nullificazione di un essere umano, e la nullificazione è la verità di esso. Egli non deve riuscire a fuggire da questa conoscenza; ché egli stesso è il proprio testimone, il proprio accusatore, il proprio giudice, egli è l’unico capace di confortare se stesso, giacché comprende l’indigenza della nullificazione, è l’unico incapace di conforto, poiché è egli stesso lo strumento della nullificazione. Cogliere questa nullificazione è la cosa suprema di cui è capace un essere umano, vegliare su questa comprensione - perché è un bene affidatogli, ossia confidatogli da Dio dei cieli come il segreto della verità - è la cosa suprema e più difficile di cui un essere umano è capace; ché l’inganno e la falsificazione sono presto fatti, così che egli stesso divenga qualcosa, a spese della verità.
Questa è la cosa suprema e più difficile che un essere umano può, ma che dico?, neanche questo può un essere umano, può al massimo voler comprendere che questo incendio secco non fa che consumare, finché il fuoco dell’amore di Dio accende la fiamma in ciò che l’incendio secco non poteva consumare. Pertanto l’essere umano è una creatura indifesa; ogni altra comprensione, con cui esso comprenda di poter aiutare se stesso, è solo una mancata comprensione, seppure agli occhi del mondo sia ritenuta coraggio: il coraggio di restare in una mancata comprensione, cioè, il coraggio di non comprendere la verità.


-munch-l

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senso religioso, kierkeergaard

venerdì, 08 settembre 2006

IL SENSO RELIGIOSO
di HENRI MATISSE
Tratto da:  http://www.santamelania.it/arte_fede/matisse/matisse.htm#titre4

-
Questo mattino egli ha insistito sull'unità di sentimento in tutta la sua opera, sul sentimento religioso nel quale ha sempre dipinto. “Anche le odalische, ha detto.   Appunto del 29 dicembre 1949. Da Marie-Alain Couturier, Se garder libre , Paris, Editions du Cerf, 1962, ora in Henri Matisse, Ecrits et propos sur l'art , Hermann, Paris, 1972, p.270                   
CHAPELLE DU ROSAIRE
di Henri Matisse  a Vance (Francia)

Questa cappella è per me il compimento di tutta una vita di lavoro e la fioritura di uno sforzo enorme, sincero e difficile. Non è un lavoro che io ho scelto, ma un lavoro per il quale sono stato scelto dal destino sul finire della mia strada, che io continuo secondo le mie ricerche, visto che la cappella mi dà l'opportunità di fissarle riunendole. Io ho il presentimento che questo lavoro non sarà inutile e che potrà restare l'espressione di un'epoca dell'arte, forse superata - ma io non lo credo. E' impossibile saperlo oggi, prima che i nuovi movimenti abbiano trovato la loro realizzazione.
Gli errori che questa espressione del sentimento umano può contenere cadranno da soli, ma resterà una parte viva che potrà unire il passato con l'avvenire della tradizione plastica.
Mi auguro che questa parte, che io chiamo “le mie rivelazioni”, sia espressa con forza Se avessi messo tutti questi studi sotto forma di Via crucis, voi avreste quattordici piccole tavole, l'una a fianco dell'altra, senza continuità,
mentre la Via Crucis è un dramma dove tutto è concatenato. Le stazioni sono consequenziali le une alle altre, voi non potete separarle. Tutto è centrato sulla croce: “Gesù muore in croce”. E' per questo che io l'ho fatta più grande delle altre. E' il culmine principale.
Bisogna muoversi per seguire la Via crucis; così io l'ho fatta come un cammino che sale a serpentina. [38]
matisse via Crucis
H.Matisse, Via crucis
sufficiente da essere fertile e da tornare alla sua sorgente
Il p.Rayssiguier avrebbe voluto la Vergine vestita con abiti moderni, seduta con i due gomiti sulle ginocchia, il mento tra le mani. Matisse replicò: La Vergine sarà vestita come si ha l'abitudine di vederla ed avrà un bambino fra le braccia, perché senza il bambino ella non avrebbe ragione di essere... Per la Vergine voleva la purezza di una bambina. [39]
matisse la Vergine col Bambino
H.Matisse, La Vergine con il Bambino
Io considero (la Cappella di Vence), malgrado tutte le sue imperfezioni, come il mio capolavoro. Che l'avvenire voglia ben giustificare questo giudizio per un interesse crescente, al di là anche del significato superiore di questo monumento

Bisognava decorare l'altare in modo leggero… Questa leggerezza da il sentimento di liberazione, di affrancamento, così bene che la mia cappella non è: “Fratelli bisogna morire”. E', al contrario: “Fratelli bisogna vivere!
Una Chiesa piena di gaiezza – uno spazio che renda la gente felice... Che tutti coloro che visitano questo luogo lo lascino gioiosi e riposati
Io voglio che quelli che entreranno nella mia cappella si sentano purificati e scaricati dai loro pesi

Noi avremo una cappella nella quale tutti potranno sperare. Quale che sia il carico dei peccati, li si potrà lasciare alla porta, come i maomettani lasciano la polvere delle strade sulla suola dei loro sandali alla porta delle moschee.
Uscendo da Notre-Dame mi sono detto: “Eh bene! Di fronte a tutto questo cos'è la mia cappella?”… Allora mi sono detto: “E' un fiore. Non è che un fiore, ma è un fiore”.
Io medito e lascio penetrare in me ciò a cui do inizio. Io non so se ho o no la fede. Potrebbe darsi che io sia piuttosto buddista. L'essenziale è di lavorare in uno stato di spirito, prossimo a quello della preghiera
Ho detto, a Picasso: Sì, io faccio la mia preghiera, e voi anche, e voi lo sapete molto bene: quando tutto va male, noi ci gettiamo nella preghiera, per ritrovare il clima della nostra prima comunione. E voi lo fate. Voi anche. Non mi ha detto di no.
Quei disegni là, bisogna che vi escano dal cuore
In fondo, Picasso, non dobbiamo fare i maligni. Voi siete come me: ciò che noi tutti cerchiamo di ritrovare nell'arte, è il clima della nostra prima comunione.
Come è curioso. Si è condotti, non si conduce mica. Io non sono che un servitore [63].
Il mio lavoro consiste nell'imbevermi delle cose. E dopo, tutto questo rifluisce fuori [64].
Io sono fatto di tutto ciò che ho visto [65].
Questa opera mi ha domandato quattro anni di un lavoro esclusivo ed assiduo, ed essa è il risultato di tutta la mia vita attiva... Lo considero, malgrado tutte le sue imperfezioni, come il mio capolavoro… uno sforzo che è il risultato di tutta una vita consacrata alla ricerca della verità
Una domenica, Matisse mi telefonò per domandarmi se poteva venire alla cappella alle 17.00:
-Sì, mio signore, ma ci sarà la preghiera corale, la benedizione con il Santissimo, Sacramento, seguita dall'ufficio.
-Io vi disturbo?
-Per niente, l'ho detto per voi.
-Bene, allora io vengo.
Venne. Volle assistere alla preghiera corale, alla benedizione con il Santissimo e all'ufficio recitato dalle suore. Ogni tanto gli domandavo se preferiva uscire, ma mi faceva segno di no. Quel giorno se ne andò felice; aveva visto la cappella “in servizio”, la sua opera associata alla vita tal quale doveva essere da allora in avanti
.

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matisse, senso religioso

domenica, 27 agosto 2006


DISINTERESSE PER
IL SENSO DELLA VITA
Forse non è mai stato più forte il tentativo dell’uomo di proporsi come un fine a se stesso. E il nodo del problema è tutto qui. Milioni di esseri umani aspirano all’amore, ma la parola non viene pronunciata che nelle più sconce sedi della pubblicistica.
Giornali e libri, dépliants e almanacchi, visioni accampate su tela o su vetro, suoni messi insieme per darci un’impressione fisica motrice, dinamica, notizie e nozioni gettate su noi a piene mani costituiscono un vociferante abracadabra che dovrebbe dire all’uomo solo: Ci siamo anche noi, non sei solo.
Oggi gli individui – un’infinità – chiedono di rappresentarsi, di esistere, di esplodere individualmente, chiedono di vivere la propria vita sul piano che ad essi è possibile: quello delle emozioni e delle sensazioni. E su questo piano non sono possibili deleghe privilegiate: l’uomo qualunque ha gli stessi diritti dell’uomo di eccezione e può persino illudersi che la sua trivellazione della couche vitale sia più autentica di quella dell’uomo di studio. Ma all’uomo-massa corrisponde il male di massa, al quale nessuno di noi sfugge.
E il lato più pericoloso della vita attuale è il dissolversi del sentimento della responsabilità individuale. La solitudine di massa ha reso vana ogni differenza tra il dentro e il fuori.
Poiché il nostro tempo ha sostituito l’eccitazione alla contemplazione e il numero non è più il segreto delle leggi divine, bensì l’oggetto della statistica, non vedo perché non si debbano trarre le debite conclusioni dalle mutate condizioni di vita dell’uomo che fu detto sapiens e faber (e poi ludens ed ora è destruens) a vantaggio dell’immenso tutti-nessuno che stiamo avvicinandoci a formare.
Quel che avviene nel mondo cosiddetto civile a partire dalla fine dell’Illuminismo (ma ora in sempre più rapida escalation) è totale disinteresse per il senso della vita. Ciò non contrasta con il darsi da fare, anzi. Si riempie il vuoto con l’inutile. L’uomo non ha più molto interesse per l’umanità. L’uomo si annoia spaventosamente.”
Eugenio Montale, Nel nostro tempo.
munch rectrospective.
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montale, senso religioso

sabato, 29 luglio 2006

Oggi mi sono ricordato di questa bella poesia di   Clemente Rebora :

Sacchi a terra per gli occhi

Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda:
l’atto è un pretesto…….
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio.Matisse icaro

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rebora, senso religioso

mercoledì, 26 luglio 2006

Oggi vi propongo una bella poesia di Clemente Rebora
La Speranza
“Speravo in me stesso ma il nulla mi afferra.
Speravo nel tempo, ma passa trapassa;
in cosa creata: non basta, e ci lascia.
Speravo nel ben che verrà, sulla terra:
ma tutto finisce, travolto in ambascia.
Ho peccato, ho sofferto, cercato,
ascoltato la Voce d'Amore che chiama e non langue:
ed ecco la certa speranza: La Croce.
Ho trovato Chi prima mi ha amato,
e mi ama e mi lava , nel Sangue che è fuoco,
Gesù d’Ogni bene, L’Amore infinito
L’Amore che dona l’Amore,
l'Amore che vive ben dentro nel cuore

Amore di Cristo che già qui nel mondo
Comincia ed insegna il viver più buono:
Felice amore  di Spirito Santo
Che trasfigura in grazia e morte e pianto,
D’anima e corpo la miseria buia:
Eterna Trinità, dove alfin belli
-   Finendo il mondo – saran corpi e cuori
In seno al Padre con la dolce Madre
Per sempre in Cristo amandosi fratelli,
            Alleluia.


Da   Poesie religiose, 1936 - 1947
escher2-senza Cristo: la morte negli occhigesù la chiesa  

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