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mercoledì 22 febbraio 2012

senso religioso7


Cristo
***
L'uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo deve, con la sua inquietudine e incertezza, con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo.

Noi crediamo in Cristo morto e risorto, in Cristo presente qui ed ora che solo può cambiare e cambia, trasfigurandoli l'uomo e il mondo.”

Giovanni Paolo II



 


Postato da: giacabi a 17:50 | link | commenti
gesù, giovanni paoloii, senso religioso


Il cuore
***
Tutti ricordiamo come incomincia “Alla ricerca del volto umano”: «Il supremo ostacolo al nostro cammino umano è la “trascuratezza dell’io”. Nel contrario di tale “trascuratezza”, cioè nell’interesse per il proprio io, sta il primo passo di un cammino veramente umano. Sembrerebbe ovvio che si abbia questo interesse, mentre non lo è per nulla: basta guardare quali grandi squarci di vuoto [cioè non essere presenti a noi stessi] si aprono nel tessuto quotidiano della nostra coscienza e quale sperdutezza di memoria».16
Ma questa trascuratezza dell’io – insiste sempre – ha a che vedere con la fede. Il motivo per cui la gente non crede più o crede senza credere (cioè riduce il credere a una partecipazione formale, ritualistica, a gesti oppure a moralismo) è perché non vive la propria umanità, non è impegnata con la propria umanità.
Che cosa vuol dire impegnarsi con la propria umanità? Impegnarsi con il proprio io così com’è, come mi è stato dato. L’io è l’avvenimento di un cuore, vale a dire di una realtà che si può descrivere nei suoi desideri e nelle sue esigenze, che si riferiscono, s’appoggiano tutti a un desiderio, a un’esigenza di fondo che non può essere realizzata, perché quanto più si approfondisce, tanto più il desiderio aumenta.
L’io umano è un avvenimento che ha come propria caratteristica quello che la Bibbia chiama cuore, un desiderio inesauribile di felicità e di compimento. Impegnarsi con la propria umanità è prendere sul serio questo cuore, questo desiderio inesauribile di felicità e di compimento.
Altro che riduzione del cuore a sentimento! È questo desiderio inesauribile, questa sproporzione strutturale che ci costituisce.
Perché impegnarsi con questo cuore? Perché questo cuore – dice don Giussani  – è il criterio fondamentale con cui affrontiamo le cose, è il criterio ultimo per scoprire la verità dell’uomo, per identificare il vero. Questo criterio, che è il cuore con cui noi siamo lanciati al paragone universale con tutto, ha due caratteristiche.

   a) È un criterio oggettivo. Leggo: «Il criterio fondamentale – dice Il senso religioso, primo capitolo – con cui si affrontano le cose è il criterio oggettivo con cui la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare»,17 cioè il cuore. Noi abbiamo sempre il sospetto che il cuore sia soggettivo. No, il cuore è questo criterio oggettivo, e la genialità di don Giussani è stata riconoscere questo. Perché è oggettivo? Perché ci è dato con la nostra natura; questa sproporzione che noi ci troviamo dentro, questo desiderio inesauribile di felicità e di compimento non ce lo diamo noi, non lo possiamo manipolare noi, ce lo troviamo addosso, ci piaccia o non ci piaccia: è oggettivo, dato. E la genialità di don Giussani consiste nel riconoscere questo criterio oggettivo all’interno del soggetto, ma, allo stesso tempo, nel riconoscere che tale criterio non è manipolabile dal soggetto. Questa è la modernità vera, bellissima, di don Giussani: affermare il soggetto, ma dentro il soggetto affermare un criterio dato, oggettivo.

   b) La seconda caratteristica è che questo criterio è infallibile. Sì, avete sentito bene, infallibile. Come criterio – dice don Giussani in “Si può (veramente?!) vivere così?”– le esigenze elementari sono infallibili.
Questo criterio è oggettivo e infallibile tanto è vero che svela in continuazione la falsità delle immagini che noi ci facciamo del cuore, perché quanto più noi ci impegniamo con il reale, qualsiasi sia l’immagine che noi ci facciamo, tanto più l’esperienza svela la falsità delle immagini.
Faccio un esempio. Conosco due fidanzati che stanno per sposarsi. Incominciano a prepararsi, parlano con una persona amica e questa li sfida, soprattutto il ragazzo: «Guardate bene se l’uno corrisponde veramente all’altro». Il ragazzo va via da quel primo dialogo arrabbiato nero, perché dice: «Ma come ti permetti? È da anni che aspettavo di avere questa ragazza: l’avevo conosciuta a scuola, poi ognuno aveva fatto il suo cammino. Adesso che ci siamo ritrovati tu ci fai questa domanda: ma sei matta?». Senza spaventarsi, all’incontro successivo le racconta questo e l’amica lo guarda in faccia e gli domanda ancora: «Ma ti corrisponde o no? È in grado di compiere questo desiderio inesauribile del tuo cuore?». «No», dice il ragazzo. Uno può arrabbiarsi fin che vuole per un’ immagine del cuore, di quello che corrisponde, ma quando uno lo verifica nell’esperienza si rende conto che c’è un criterio non manipolabile che gli fa capire che non gli corrisponde.
Un’altra persona mi scrive: «Per tanto tempo ho scambiato i desideri con i sogni. All’inizio ho percepito chiaramente che Cristo era la risposta al desiderio del mio cuore, ma poi, strada facendo, mi sono detta: a questo non può rispondere. E così ho messo a tacere i miei desideri. Quest’anno, ascoltando il richiamo sul cuore, mi sono reso conto che ho scambiato il desiderio del mio cuore con dei sogni e ora mi accorgo che quello che ci stiamo dicendo ha risvegliato il mio cuore, svelando la sua vera natura di attesa». Noi ci rendiamo conto di questa natura oggettiva e infallibile del cuore quando ci impegniamo veramente nel reale in quello che proviamo, non quando lo pensiamo al di fuori dell’esperienza. È nell’esperienza che si svela il cuore con questa oggettività e con questa infallibilità che ci fa uscire da qualsiasi sbaglio.

Di solito confondiamo il cuore come criterio (quello di cui sto parlando), che è infallibile (questa sproporzione strutturale è infallibile, non me la sono data io), e il cuore come giudizio, che tante volte il criterio si può applicare male, come – per fare un esempio banale – una formula matematica per certi tipi di problemi: è vera, ma si può applicarla male.
Per il fatto che io applichi male la formula, non vuol dire che la formula sia sbagliata, o che io debba introdurre un sospetto sulla formula; devo invece imparare ad usarla. Il cuore è oggettivo e infallibile come criterio, ma è fallibile come applicazione, come giudizio, può essere applicato male. Gli sbagli nell’applicazione non possono mettere in questione la validità della formula. Per questo, siccome questo è decisivo – dice don Giussani – per riconoscere Cristo, la prima cosa è che noi abbiamo quest’affezione al nostro cuore, al nostro io, questa tenerezza verso noi stessi. È una coscienza attenta, tenera e appassionata di me stesso, cioè del mio cuore, quello che mi può consentire di ammirare e riconoscere Cristo. Perciò è questa tenerezza verso me stesso che mi può aiutare a riconoscere Cristo.
«L’uomo – diceva – deve dire “io” con un po’ di quell’amore di Colui che l’ha creato, perché se l’uomo è fatto a immagine di Dio non c’è niente che lo renda più imitatore di Dio come l’amore a sé».18 E questo amore a sé non è a un sé astratto, ma al proprio io concreto, così come
siamo stati fatti. Il cuore è lo strumento fondamentale di un cammino umano. Per questo don Giussani, non a caso, lo introduce all’inizio del percorso umano (primo capitolo de Il senso religioso). Non usare il cuore come criterio di giudizio di tutto, per cui non giudichiamo niente, ci porta nella confusione totale in cui tante volte ci troviamo. Come dice Hannah Arendt: senza giudicare, «tutti i fatti possono essere cambiati e tutte le menzogne rese vere. [...] La realtà [...] è diventata un agglomerato di eventi in continuo mutamento e di slogan in cui una cosa può essere vera oggi e falsa domani. [...] Ciò in cui ci s’imbatte non è tanto l’indottrinamento, quanto l’incapacità o l’indisponibilità a distinguere tra fatti e opinioni».19
Senza usare il cuore, senza paragonare tutto con il cuore, avviene questa debolezza dell’io, questo annullamento della personalità dell’io, che ci fa ogni volta più fragili e più confusi davanti a tutto; la vita, che ci è data per l’avventura appassionante del conoscere ogni volta di più il significato di tutto, giudicando tutto con le esigenze del cuore, diventa ogni volta più confusa.
«Noi viviamo – dice Finkielkrautall’ora dei feelings: non esistono più né verità né menzogne, né stereotipi né invenzioni, né bellezza né bruttezza, ma una tavolozza infinita di piaceri, differenti ed    uguali».20
È il contrario di chi, abituato a usare il cuore come criterio di giudizio, incomincia a giudicare tutto, come descrive Guardini in modo geniale: «Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all’assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto... Non c’è nulla per cui valga la pena di esistere. Non c’è nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo».21 Noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito e per questo ci fermiamo, ci spaventiamo di questo, ma questo è solo il primo passo. Continua Guardini: «Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. [...] L’infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore. La malinconia è espressione del fatto che noi siamo creature limitate, ma viviamo a porta a porta con [...] l’“assoluto”; [...] viviamo a porta con Dio. Siamo chiamati da Dio, eletti ad accoglierlo nella nostra esistenza. La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo. La malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito».22
Anche Kafka riconosceva il criterio del cuore: un «centro di gravità», lo chiamava lui. «Anch’io – scrive –, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravità, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma, in un certo qual modo, non c’è più il corpo relativo».23 Pur non essendoci il corpo relativo, il centro di gravità c’è; mi rendo conto che non c’è il corpo relativo, perché c’è il centro di gravità.
Ma anche Kafka, che dice che non c’è il corpo relativo a questo centro di gravità, lo desidera. È micidiale! Non possiamo non continuare a desiderare, come ancora afferma negli Aforismi di Zürau: «Questa vita appare insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire; si chiede di essere portati dalla vecchia cella, che si odia, in una nuova, che presto si imparerà a odiare».24 È il meccanismo solito: cambiare la circostanza (da una cella a un’altra). Ma anche per Kafka, come per tutti noi, speriamo che durante il trasferimento il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: «Costui non rinchiudetelo più. Ora viene con me». A lui piacerebbe che ci fosse il «corpo relativo»: uno che tra una cella e l’altra si avvicina. Ora, il corpo relativo a questo centro di gravità c’è.
«Il cuore di Giovanni e Andrea «quel giorno, si era imbattuto in una presenza che corrispondeva inaspettatamente ed evidentemente al desiderio di verità, di bellezza, di giustizia che costituiva la loro umanità semplice e non presuntuosa. Da allora, seppur tradendolo e fraintendendo mille volte, non l’avrebbero più abbandonato, diventando “suoi”».25
C’è il corpo relativo a questo centro di gravità che costituisce il cuore, c’è. Perché c’è? Perché sono diventati per sempre “suoi”.

 

Postato da: giacabi a 17:20 | link | commenti
giussani, senso religioso

domenica, 02 settembre 2007

Bisogno di un Altro
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 “…Per quanto poco io sia, qui non c’è nessuno che abbia comprensione di me nel mio complesso. Oh possedere qualcuno che abbia questa comprensione, non so, una donna, vorrebbe dire essere sostenuto da ogni parte, avere Dio…”
Franz Kafka :Diari
 

Postato da: giacabi a 14:25 | link | commenti
kafka, senso religioso


Lo stupore della "presenza"
***
Innanzitutto, per farmi capire, provoco una immaginazione. Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all'età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l'assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una "presenza". Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente della parola "cosa". Le cose! Che "cosa"! Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola "essere". L'essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone.
Chi non crede in Dio è inescusabile, diceva San Paolo nella lettera ai Romani, perché deve rinnegare questo fenomeno originale, questa originale esperienza dell' "altro".
Il bambino la vive senza accorgersi, perché ancora non del tutto cosciente: ma l'adulto che non la vive o non la percepisce da uomo cosciente è meno che un bambino, è come atrofizzato.
Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe è all'origine del risveglio dell'umana coscienza.
Don Giussani Il senso religioso
bambina
 

Postato da: giacabi a 07:23 | link | commenti (1)
giussani, senso religioso

venerdì, 31 agosto 2007

Generalizzando
***
      Tutti riceviamo un dono.

      Poi, non ricordiamo più
      né da chi né che sia.
      Soltanto ne conserviamo

      – pungente e senza condono –
      la spina della nostalgia
.
Giorgio Caproni
 

Postato da: giacabi a 15:29 | link | commenti
caproni, senso religioso


Si è addormentato il mio cuore?
***


Si è addormentato il mio cuore?
Alveari dei miei sogni,
state in ozio? Manca l’acqua
alla noria della mente
e le secchie giran vuote,
sono piene solo d’ombra?

No, che non dorme il mio cuore.
È ben desto il cuore, è desto.
Non dorme né sogna: è intento,
aperti gli acuti occhi,
a lontani segni ascolta
agli orli del gran silenzio.
Antonio Machado
 

Postato da: giacabi a 14:01 | link | commenti
machado, senso religioso

martedì, 28 agosto 2007

L’aldilà
***

«Perché l'uomo, atomo miserabile, può credere nel suo orgoglio insensato che vi sia per lui un aldilà? ».
«lo non ci vedo nessun orgoglio né sano né insensato. Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d'eternità, e che senza questo tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c'è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. E' troppo facile affermare: «Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita. E quelli
che non se ne accontentano?
In fondo i sensuali sono più tristi dei mistici. lo vivo contento con i miei mistici.
L'ossessione della morte nasce dalla pienezza della vita; è perché sentiamo che la vita ci tra. scende che la vogliamo senza fine. I deboli si attaccano alla vita. lo voglio inculcare agli uomini la fede in un'altra vita personale. Amo tanto la vita che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no ». .
 M. De Unamuno RICORDI D'INFANZIA

 

Postato da: giacabi a 21:49 | link | commenti (5)
senso religioso, unamuno

martedì, 21 agosto 2007

LA VERITA' E' IL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI
***
 
discorso di Don Francesco Ventorino durante l'incontro "La verità è il destino per il quale siamo stati fatti"

Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, «esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale – l’avrei sentita definire poi da don Giussani – ad affermare il significato di tutto» .

1. Ma la vita ha un destino?
Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso.
L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.
A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione.
Dietro questa ostinata negazione di un senso, di una verità e di un destino della vita c’è una paura – l’ha rivelata da tempo Gianni Vattimo –, è la paura che «se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». Perché «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno?» .
Non ci sarebbe, dunque, altro fondamento delle leggi etiche e giuridiche se non il consenso sociale.
Oggi dietro la pretesa di equiparare le coppie di fatto, etero ed omo- sessuali, alla famiglia fondata sul matrimonio si nasconde la stessa paura: quella che si possa affermare la natura vera delle cose e la stessa diffidenza nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione voglia difendere «l’oggettività e la “datità” del vero».
Don Carrón agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione di quest’anno, come esempio di questa mentalità, citava Rorty, il quale afferma:
«
Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo, nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, nessuna argomentazione rigorosa che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni» .
Niente “dato”, dunque, – concludeva don Carrón – tutto “convenzione”.
Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.
«Proporvi, o imporvi, delle verità – scrivevano quest’anno degli insegnanti di un liceo della mia città, Catania, a degli alunni che avevano chiesto delle certezze per vivere per morire – è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica» .
Questa rinuncia della scuola pubblica, laica e democratica, a proporre delle verità non è recente. Ricordo che quand’ero giovane insegnante di Religione nello stesso Liceo mi sono dovuto opporre, provocando uno scandalo generale, ad un Consiglio di classe, che si era trovato unanime nella decisione di punire in modo esemplare un ragazzo e una ragazza che erano stati sorpresi a baciarsi sullo scalone della scuola, adducendo questa motivazione che chiedevo fosse messa a verbale: «La scuola prima insegna che la morale non è altro che una convenzione sociale e poi vuole punire dei ragazzi che muoiono dalla voglia di baciarsi e che non avrebbero dovuto farlo solo per rispettare una convenzione che domani potrebbe cambiare [come di fatto è accaduto], magari quando loro non ne avranno più né la voglia, né la capacità».
Il Preside, intelligente, avendo intuito che io volevo rovesciare le parti e accusare loro di corruzione di minorenni, ha subito sospeso la seduta, comminando ai quei ragazzi solo la minima sanzione disciplinare.
Non ci si strappi le vesti poi, quando ci si trova – come accade spesso ai nostri giorni – di fronte alla violenza dei giovani contro se stessi e contro gli altri, né ci si affanni ipocritamente a cercare spiegazioni altrove e a trovare affannosamente dei rimedi efficaci.
L’unico rimedio serio sarebbe quello di impedire la corruzione morale derivante da un simile argomentare, che si ammanta arbitrariamente della dignità del pensiero “laico”. Ma il pensiero veramente laico ha tutt’altra profondità e grandezza, come vedremo.
Ci troviamo di fronte ad una dissoluzione dell’uomo caparbiamente perpetrata – come diceva don Giussani – pur di non riconoscere che la sua ragione è strutturalmente apertura al Mistero, grido e domanda di significato e di verità, pur essendo questo «un cammino di ricerca, umanamente interminabile»

2. La domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo
«Ma non ha ragione, non ha ragione il nichilista!», ha gridato una volta don Giussani qui a Rimini agli universitari di Comunione e Liberazione, perché è grande – Dio come è grande! – l’uomo, il giovane, il ragazzo quando guarda la sua ragazza, mentre lei non lo vede, perché sta andando via, la guarda e sente il meglio di sé venire a galla: gli viene [...] un’adorazione. Giusto! Perché quel volto è il simbolo di Colui che ci ha fatti per Sé, cioè per la felicità, che è la bellezza come ha capito Leopardi nell’inno Alla sua donna, che è la verità» .
Perché non ha ragione, dunque, il nichilista? Perché egli andrebbe contro quel meglio di sé che gli viene su dal suo cuore, cioè da quel complesso di evidenze e di esigenze, che lo costituiscono strutturalmente e che gli impediscono di dire che la sua ragazza è un niente; anzi lo spingono ad una adorazione di quella misteriosa promessa che nella bellezza di lei si rende presente.
Il cuore è ciò che Pirandello, un vero laico e mio conterraneo, in Uno, nessuno e centomila, chiama quel “punto vivo” che è dentro di noi e che scatta quando qualcuno o qualcosa lo provoca. Vitangelo Moscarda, che è un banchiere, provocato dal suo amico, che proditoriamente lo accusa di essere un usuraio, e dalla risata cinica con cui sua moglie commenta questa accusa, reagisce così:

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento…: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; […] un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi» .
E più avanti dice:
«Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me… era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva più tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo». .

Don Giussani ha insistito per tutta la vita sull’importanza del cuore, di questo criterio oggettivo che abbiamo in noi:
«
la natura lancia l’uomo nell’universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli» .
Questo è il criterio della verità ed il fondamento della nostra libertà:
«Se non si afferma la verità del nostro cuore, siamo preda degli avvoltoi che dominano il mondo. Ogni uomo è avvoltoio verso l’altro, rapinatore dell’altro; non solo i potenti, ma anche il compagno può essere il rapinatore della tua anima, sfruttatore di te, può tentare di strumentalizzarti. Non possiamo impedire questo, possiamo fare una sola cosa: essere noi stessi, essere il nostro cuore» .

Benedetto XVI, quando era il professore Joseph Ratzinger, in una conferenza pubblicata nel 1972, citava una dichiarazione di Hitler che proclamava il suo proposito di distruggere il cuore di ogni uomo:
«Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale, e dalle pretese di una libertà a autodeterminazione personale, di cui ben pochi sono all’altezza» .
Così Ratzinger la commentava:
«
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. […] La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà»
Il nichilismo dunque, come negazione di questo criterio del vero e del bene, di cui siamo dotati, sarebbe il principio di una vita disumana e della legittimazione di ogni violenza dell’uomo sull’uomo.
Don Giussani, leggendo Nietzsche, ne ha mostrato tutta la contraddizione:
«“Un giorno un viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio...”. Questa è la scelta che ha fatto l’uomo contemporaneo: chiudere la porta alla speranza, all’impeto ideale che gli alita alle spalle, acquattato in fondo al suo cuore, trasmessogli da sua madre e da tutto ciò che lo anticipa nella storia: questo evidente desiderio del vero, del reale, del certo.
L’uomo moderno se ne sente perseguitato come da un aguzzino “tetro e appassionato”, e ad un tempo ammette di essere costituito dal desiderio della verità, mentre si
ribella alla natura del proprio cuore che è profezia di Dio» .
Dante ha stupendamente cantato nel Paradiso:
«
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra,
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’ al sommo pinge noi di collo in collo
» .
Descrive così stupendamente l’esperienza umanissima (“io veggio ben”) dell’esigenza costitutiva del nostro cuore della verità, cui tende in tutto ciò che conosce, con la speranza fondata che essa ci sia e che sia possibile trovarla (“e giugner puollo”), perché altrimenti il nostro desiderio sarebbe un desiderio vano (“se non, ciascun disio sarebbe frustra”).
E l’uomo sarebbe – come è stato detto da Sartre – «una passione inutile» .

3. L’avvenimento della verità
L’uomo è dunque domanda di verità. A questa domanda la realtà stessa si incarica di rispondere: la verità si lascia incontrare, accade: essa è l’imporsi della realtà nella sua evidente presenza!
«
La verità – diceva don Giussani – è come la faccia di una bella donna, non puoi non dire che è bella, non riesci! […] La verità è una cosa che si impone inevitabilmente. Uno ha una frazione di istante per cui il cuore si commuove»
Essa spalanca la coscienza e il cuore dell’uomo e gli fa ritrovare se stesso e la sua libertà. Essa semplicemente è.

Ancora Luigi Pirandello, questo autore che non finisce mai di sorprendermi per la sua apertura ad ogni aspetto dell’umano e per la sua capacità di raccontare l’umana esperienza, nella novella Ciaula scopre la luna narra di un garzone mezzo scemo, costretto a lavorare in una miniera di zolfo, che una notte, portando il suo carico sulle spalle all’esterno di essa, giunto allo stremo delle sue forze, perché «non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora», fece la “scoperta” della luna, della sua «chiaria», della sua bellezza e in quell’avvenimento ritrovò se stesso, la sua umanità.
«La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto. […]
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore» .

È una documentazione suggestiva di quanto scrive don Giussani ne Il senso religioso:
«Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine dell’umana coscienza» .

4. L’avvenimento cristiano.
Ma la persona umana, diceva ancora don Giussani, ha il potere di «fare i capricci di fronte all’essere».
«Il capriccio […] dell’uomo di fronte all’essere è un odio a se stesso e al proprio destino. […] Solo qui si rivela la cattiveria dell’uomo» .
La bellezza del mondo e la grandezza del nostro desiderio non vengono sempre accolti come una testimonianza convincente di Dio.
«È questa carenza atroce – diceva don Giussani – che si nota in voi, come giovani di oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità recettiva della bellezza. L’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi, così che ogni cosa che vi viene davanti è da usare per voi stessi, strumentalizzare» .
Incapaci, dunque di stupore, resistiamo all’estasi, cui tende a portarci la realtà.
Solo nell’esperienza di un grande amore diviene possibile superare questo capriccio di fronte all’essere, questo blocco nella reattività, che alla fine diviene odio a se stessi perché è odio al proprio destino. È in un rapporto, nel quale ci sentiamo affermati più di quanto non riusciamo a fare da noi stessi che rinasce l’amore e la stima per la realtà, a partire da quella per la nostra persona, e la certezza di un destino buono per la nostra vita e per il tutto.

L’uomo ha bisogno di rapporti nei quali il male proprio e quello del mondo non riesce ad insinuare il sospetto di poter essere fregato, perchè in essi si rende manifesta tutta la bontà della realtà e la sua convenienza. È un’esperienza che noi abbiamo fatto e che tutti desidereremmo fare, anche se pensiamo che sia impossibile e perciò vi abbiamo rinunciato.
Tommaso d’Aquino ha scritto pagine mirabili su questo argomento, quando ha affermato
che all’uomo, che tende a Dio come al proprio destino, fu necessario che Dio stesso si facesse uomo per indurlo ad amarlo. Infatti
«nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona: è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile» .

Quasi riprendendo queste parole, Benedetto XVI, rivolgendosi l’anno scorso a Verona a tutta la Chiesa italiana, ricordava come oggi è più che mai necessario che attraverso la testimonianza dei cristiani emerga «soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo».
Questa è la risposta della Chiesa allo scetticismo del mondo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità egli si accompagna a noi ed è possibile incontrarlo anche oggi.

L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! E l’uomo, quando l’incontra, può riconoscerla – come diceva don Giussani – per l’esperienza di corrispondenza con il proprio cuore, cioè di «soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra
» .
Per descrivere efficacemente questa esperienza di corrispondenza e di soddisfazione don Giussani in Perché la Chiesa si è servito della finale della grande opera di René Grousset, Bilancio della storia, la cui lettura consigliava già ai primi giessini.
Questo autore, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «
Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?».
«È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena constato che al di fuori della soluzione cristiana […] ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».

«Accettabile [commenta don Giussani] perché l’umanità intera è ricapitolata in Cristo, senza tagli arbitrari, senza censure e dimenticanze» .
Parlando nel 1983 ad una televisione svizzera, don Giussani era tornato su questo tema:
«
Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede».
Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva ancora il Papa a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene». Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda.

5. La bellezza cristiana è lo splendore della verità
«
L’uomo riconosce la verità di sé attraverso l’esperienza della bellezza, attraverso l’esperienza di gusto, attraverso l’esperienza di corrispondenza, attraverso l’esperienza di attrattiva che essa suscita, una attrattiva e una corrispondenza totale» .
È della bellezza cristiana, dunque, dell’attrattiva e dello splendore che la verità assume nell’incontro cristiano, che l’uomo di oggi ha più che mai bisogno perché, come affermava il Papa stesso, quand’era ancora il cardinale Ratzinger, nel suo messaggio per la XXIII edizione di questo Meeting,
«l
a bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo».
Ma riconosceva:
«La paura che […] la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera “realtà”, ha angosciato gli uomini del nostro tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori?» .
È necessaria, dunque, una bellezza che regga di fronte all’urlo di mia madre che chiede perché possa accadere che sua figlia muoia a trent’anni per dare la vita ad un figlio che a sua volta muore dopo pochi giorni. È necessaria una bellezza che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come l’uomo ne fa esperienza.
Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale.


Per questo nel suo messaggio Ratzinger poteva dire:
«
Nella passione di Cristo […] l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo [è la stessa parola che aveva usato don Giussani nell’83]. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è “vera”, bensì proprio la verità. […] Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo nell’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza» .
E ancora:
«
Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce» .
Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.
Noi ne sappiamo qualcosa: l’abbiamo vista nel volto di don Giussani
.

lunedì 20 agosto 2007 

Postato da: giacabi a 15:39 | link | commenti
pirandello, verità, senso religioso, ventorino


L’uomo attende Cristo
                     ***
«Non mi piace la vostra giustizia fredda e nell'occhio dei vostri giudici riluce sempre per me il boia con la sua spada gelida. Dite: dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi, dunque, l'amore che porta su di sé  non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe».
  F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi

 

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nietzsche, gesù, senso religioso

sabato, 18 agosto 2007

Il Desiderio
 ***
DON MIGUEL….. Ho trascinato l'Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte; fui traditore, bestemmiatore, carnefice; ho compiuto tutto quello che può fare un povero diavolo d'uomo, e vedete! Ho perduto Satana. Mangio l'erba amara dello scoglio della noia. Ho servito Venere con rabbia, poi con malizia e disgusto. Oggi le torcerei il collo sbadigliando. Certo, nella mia giovinezza, ho cercato anch'io, proprio come voi, la miserevole gioia, l'inquieta straniera che vi dona la sua vita e non vi dice il suo nome. Ma in me nacque presto il desiderio di inseguire ciò che voi non conoscerete mai: l'amore immenso, tenebroso e dolce. Più di una volta credetti di averlo afferrato: e non era che un fantasma di fiamma. L'abbracciavo, gli giuravo eterna tenerezza, esso mi bruciava le labbra e mi copriva il capo con la mia stessa cenere, e, quando riaprivo gli occhi, c'era il giorno orrendo della solitudine, il lungo, così lungo giorno della solitudine, con un povero cuore tra le mani, un povero, povero, dolce cuore leggero come il passerotto d'inverno. E una sera la lussuria dall'occhio vile, dalla fronte bassa, sedette sul mio giaciglio, e mi contemplò in silenzio, come si guardano i morti. Una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo, e nulla di più.

Ah! Come colmarlo, quest’abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai, come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale!
È un desiderio di abbracciare le infinite possibilità! ..”

Oscar Vladislas Milosz, Miguel Mañara, quadro I

 

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senso religioso, milosz

lunedì, 06 agosto 2007

Il  senso religioso
***
È un grido ripetuto da mille sentinelle, un ordine ritrasmesso da mille
portavoci, un faro acceso su mille fortezze, un suono di cacciatori
perduti in grandi boschi!
Perché, veramente, o Signore, è la migliore testimonianza che noi si
possa dare della nostra dignità questo singhiozzo ardente che passa
di secolo in secolo per morire ai piedi della tua eternità.
Baudelaire da: I fiori del male


 

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baudelaire, senso religioso

venerdì, 03 agosto 2007

Il senso religioso
***

“Già la sola idea costante ch'esista qualcosa di infinitamente più giusto e più felice di me, mi riempie tutto di smisurata tenerezza e di gloria, oh, chiunque io sia, qualunque cosa abbia fatto. All'uomo assai più indispensabile della propria felicità, è sapere e ad ogni momento credere che c'è in un certo luogo una felicità perfetta e calma, per tutti e per tutto... Tutta la legge della esistenza umana consiste solo in ciò: che l'uomo possa sempre inchinarsi dinanzi all'infinitamente grande. Se gli uomini venissero privati dell'infinitamente grande, essi non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperanza".
(F. Dostoevskij ) da:I demoni
 

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dostoevskij, senso religioso

giovedì, 02 agosto 2007

IL FINE DELLA VITA
***

Forse che fine della vita è vivere?
Forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra?
Non vivere, ma morire, e non digrossar la croce ma salirvi e dare in letizia ciò che abbiamo.
Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!
Paul  Claudel: L’Annuncio a Maria
 

Postato da: giacabi a 21:45 | link | commenti (1)
claudel, senso religioso

mercoledì, 01 agosto 2007

Il senso religioso
***

“Gli occhi mie vaghi delle cose belle
e l'alma insieme della suo salute
non hanno altra virtute
c'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.
Dalle più alte stelle
discende uno splendore
che 'l desir tira a quelle,
e qui si chiama amore.
Nè altro ha il gentil core
che l'innamori e arda, e che 'l consigli.
c'un volto che negli occhi lor somigli.


Michelangelo Buonarroti, da Rime

 

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michelangelo, senso religioso

venerdì, 27 luglio 2007


IL DOPO E’ GIA’ TUTTO NEL PRESENTE O NON E’
***

Dalla consapevolezza della morte nascono tutte le
domande dell’uomo. Ci salverà la bellezza di Cristo
di Francesco Ventorino da www.foglio.it  19.07.07

Scrive George Steiner, nella sua ultima
opera pubblicata in italiano, che
“la questione di Dio sembra essere propria
della sola specie umana… L’esistenza
e la morte, in quanto pertengono
a ‘Dio’, sono oggetti perenni del pensiero
umano… Astenersi da questo domandare,
censurarlo, sarebbe cancellare
la specifica condizione e dignitas della
nostra umanità” (George Steiner,
Dieci (possibili) ragioni della tristezza
del pensiero”, Garzanti, Milano 2007, pp.
80-83). Negli ultimi anni alcuni intellettuali
italiani si sono invece affaticati nel
dimostrare che la domanda su Dio è
una domanda senza senso. L’uomo non
sarebbe altro che un animale prodottosi
nel corso di un’evoluzione che non risponde
ad alcun disegno divino, né ad
alcuna finalità prestabilita. Ed è un animale
meno adattabile degli altri in
quanto dotato, per uno squilibrio del sistema
nervoso centrale, in esubero a
quanto necessario per sopravvivere,
della consapevolezza di morire.
Da questa consapevolezza deriverebbero
tutte le domande che riguardano
il senso della vita: “Perché vivo,
da dove vengo, dove vado, che ne è dopo
la morte”. A queste domande non ci
sarebbe risposta e quindi non ha senso
neanche porsele. Qualcuno con una
pretesa di sano umorismo ha detto: “Se
mi chiedi dove vai? Io rispondo: dove
stavi prima di venire al mondo. E dove
stavi? Nelle cellule dei miei antenati,
dici tu. Vai a finire in quelle dei tuoi
discendenti. Il patrimonio genetico
passa da un individuo all’altro come si
sale e si scende da un taxi”.
Queste, secondo il pensiero laico, o
meglio “laicista”, sarebbero le considerazioni
più “realistiche” sulla vita e sulla
morte. Al di là di queste la ragione
sarebbe soltanto preda di illusioni, dell’illusione
di un senso, di un significato
assoluto. Il ruolo della specie cui apparteniamo
non sarebbe superiore a
quello delle api o delle formiche o dei
passeri, cioè produrre e riprodursi. Le
domande sul significato dell’esistenza
sarebbero, dunque, semplicemente assurde.
E così si liquidano in maniera
semplicistica i più grandi pensatori e
poeti di tutta l’umanità considerati come
degli imbecilli che si sono cimentati
con domande che addirittura sono
contro la ragione.
Io mi fido di più del sano pensiero
“laico”, a partire da quello che mi è più
prossimo. Un grande mio conterraneo,
Luigi Pirandello ha scritto: “Spesso la
grandezza mia consiste nel sentirmi infinitamente
piccolo: ma piccola anche
per me la terra, e oltre i monti, oltre i
mari cerco per me qualche cosa che per
forza ha da esserci, altrimenti non mi
spiegherei quest’ansia che mi tiene, e mi
fa sospirar le stelle…” (Luigi Pirandello,
“Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo
me”, in “Novelle per un anno”, Mondadori,
Milano, 1985-1990, 3 voll., III).
In questa posizione della ragione di
fronte all’essere, in questa affermazione
di qualcosa che necessariamente ha
da esserci come compimento del mio
desiderio di un fondamento della
realtà (un desiderio che sostiene ogni
altro desiderio) c’è tutto il riconoscimento
della positività del reale e della
natura della ragione.
Un altro scrittore siciliano, Gesualdo
Bufalino, in una sorta di “diario-romanzo”,
fa gridare a uno dei suoi personaggi,
un certo Iaccarino, in un momento
di verità che il vino aveva favorito,
come suonando “verso i quattro
canti del cielo il suo debole corno di
postiglione”, in una specie di dialogo
con Dio nel quale “supplicava e sacramentava”:
Ehi tu, t’ho visto, non fare il
furbo, non fingere di non esistere!, Dio
esisti, ti prego! Esisti, te lo ordino!» (Gesualdo
Bufalino, “Argo il cieco, ovvero
I sogni della memoria”, Sellerio editore,
Palermo 1984, p. 197). Anche se fino

alla fine si è dichiarato agnostico, Bufalino
ha affermato in ogni sua opera
questa esigenza che Dio ci sia, cioè che
ci sia un’origine e un destino della nostra
vita, insieme al desiderio di conoscerne
il volto, esigenza legata a quella
che l’uomo ha di comprendere se stesso.
Solo conoscendo, infatti, la propria
origine e il proprio destino, l’uomo raggiunge
una conoscenza vera di sé.
In un altro romanzo, che ha per titolo
“Le menzogne della notte”, immagina
un carceriere, Consalvo De Ritis,
personaggio-chiave di questo “giallo
metafisico”, che per tutta la notte cerca
di carpire la verità da alcuni prigionieri
che l’indomani saranno processati, la
verità sul “Padreterno”: il “Padreterno”
sarebbe il capobanda e… il Padreterno.
Alla fine, afferrato dal dubbio di
essere stato sonoramente ingannato
proprio sul nome del “Padreterno”,
scrive al suo padrone: “Stravolto da me,
e dal commercio con costoro quasi corrotto,
allora mi chiedo: io, chi sono?
Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri,
siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri
increati, inesistenze parventi sul palcoscenico
d’una pantomima di cenere,
bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore
nemico? […] Ho visto un quadro
a Parigi, or è un anno. Rappresentava
una scimmia in un atelier, con tavolozza
e pennelli: Saremmo questo,
noi creature di lacrime? Gli scarabocchi
d’una scimmia pittrice?(Gesualdo
Bufalino, “Le menzogne della notte”,
Bompiani, Firenze 1988, p. 152).
Questo ci rassegneremmo a essere,
infatti, se sopprimessimo la domanda
sul nostro destino: frutto del caso o uno
sbaglio della natura. La questione del
“dopo” si colloca, dunque, dentro il solco
segnato da quelli che hanno scelto
per la ragionevolezza di questa domanda
e che, anzi, fanno consistere in essa
la grandezza dell’uomo.
Ma è possibile affrontare la questione
del “dopo” e tentare di risolverla se
non a partire dal presente, dall’esperienza
presente?
Se fosse possibile, tutte le risposte si
equivarrebbero perché non avrebbero
alcun fondamento. Il fondamento della
certezza, infatti, è nell’esperienza, quando
la realtà si impone a me nella sua innegabile
verità. Ma l’esperienza è sempre
di un “presente”.
La prima esperienza elementare
che facciamo nel presente, che è dentro
la grandezza stessa del nostro desiderio
– come ha bene evidenziato Pirandello
–, è quella di una “promessa”,
quasi di una “profezia”. E’ insopportabile,
infatti, per la ragione che questo
desiderio sia vano: io desidero qualcosa
che “per forza ha da esserci, altrimenti
non mi spiegherei quest’ansia
che mi tiene, e mi fa sospirar le stelle”.
I medievali dicevano: “Impossibile est
desiderium naturale esse inane”, e su
questa certezza hanno fondato tutta
una cultura, che nasceva da una concezione
positiva del reale.
La cultura contemporanea che si fonda
sul presupposto contrario, che l’uomo
cioè “è una passione inutile” (Jean-
Paul Sartre, “L’Essere e il Nulla”, Mondadori,
Milano 1958, p. 738), ha generato
il “nichilismo”. Il nichilismo è l’orizzonte
teorico in cui si colloca la “civiltà
dei consumi”, perché se la realtà non
offre una sua verità e neanche l’uomo
possiede un suo destino naturale, il consumare,
assecondando l’istinto del benessere,
è l’unico rapporto che l’uomo
può stabilire con il reale.
Da quest’atteggiamento che vale per
ogni rapporto nasce la concezione “consumistica”
per la quale le cose, il denaro,
il sesso e perfino l’amore diventano
una proprietà gestita secondo il modello
dell’“usa e getta”.
Ecco l’importanza della questione
del “dopo”! Essa coincide con la questione
del presente, della verità della
realtà presente: dalla sua impostazione
e dalla soluzione cui si perviene derivano
sempre il destino di una cultura e
il significato di una civiltà. Il “dopo” è
già, come in una penombra, nel presente,
nella grandezza del desiderio; ma anche
nella bellezza della realtà.
Immanuel Kant, dopo aver sottoposto
a critica serrata il processo della
conoscenza umana, ha dovuto ammettere
che rimangono sempre “due cose
che riempiono l’animo di ammirazione
e di reverenza sempre nuove e crescenti,
quanto più spesso e più a lungo
il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato
sopra di me e la legge morale in
me”. E aggiunge: “Queste due cose, non
ho da cercarle fuori della portata della
mia vista, avvolte in oscurità, e nel
trascendente; né devo, semplicemente,
presumerle: le vedo davanti a me, e le
connetto immediatamente con la coscienza
della mia esistenza” (Immanuel
Kant, “Critica della ragion pratica”,
Rusconi, Milano 1982, p. 387). Sono
queste a provocare nell’uomo quella
sorta di “fede razionale” che lo porta a
credere in Dio. Infatti “l’ordine sovrano,
la bellezza, la provvidenza che traspare
da ogni cosa naturale, sono da
sole sufficienti a suscitare la fede che
ci sia un sapiente e grande creatore
del mondo, fede che si diffonde nel
pubblico, perché riposa su fondamenti
razionali” (“Critica della ragion pura”,
Laterza, Bari 1965, I, p. 30).
Benedetto XVI, quand’era ancora il
cardinale Ratzinger, ha scritto: “La bellezza
ferisce, ma proprio così essa richiama
l’uomo al suo Destino ultimo.
[…] La vera conoscenza è essere colpiti
dal dardo della bellezza che ferisce
l’uomo, essere toccati dalla realtà. […]
Noi dobbiamo ritrovare questa forma di
conoscenza, è un’esigenza pressante del
nostro tempo. […] L’incontro con la bellezza
può diventare il colpo del dardo
che ferisce l’anima e in questo modo le
apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a
partire dall’esperienza, ha dei criteri di
giudizio ed è anche in grado di valutare
correttamente gli argomenti”. Ma puntualizzava:
“La paura che, alla fine, non
sia lo strale del bello a condurci alla verità,
ma che la menzogna, ciò che è brutto
e volgare costituiscano la vera
‘realtà’, ha angosciato gli uomini del nostro
tempo. Nel presente ha trovato
espressione nell’affermazione secondo
cui dopo Auschwitz non si sarebbe più
potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda:
dov’era finito Dio quando funzionavano
i forni crematori? Ora questa
obiezione, per la quale esistevano motivi
sufficienti ancora prima di Auschwitz,
in tutte le atrocità della storia,
indica in ogni caso che un concetto puramente
armonioso di bellezza non è
sufficiente. Non regge il confronto con
la gravità della messa in discussione di
Dio, della verità, della bellezza. Apollo,
che per il Socrate di Platone era il ‘Dio’
e il garante della imperturbata bellezza
come ‘il veramente divino’, non basta
assolutamente più” (Joseph Ratzinger,
“La bellezza. La Chiesa”, Itaca, Castel
Bolognese, 2005, pp. 16-22).
Theodor W. Adorno, infatti, proprio
dopo Auschwitz aveva scritto nella sua
Teoria Estetica che “l’arte promette ciò
che non c’è, annuncia obbiettivamente
(e per quanto manchevolmente) la pretesa
che tale non-esistente, in quanto si
mostra, debba ancora essere possibile.
L’inestinguibile anelito al bello […] è
l’anelito all’adempimento della promessa”.
Ma è la promessa di un non esistente
e quindi “niente garantisce che
l’arte mantenga la sua promessa obbiettiva.
[Nell’arte] vi è menzogna, nella
misura in cui essa manca di produrre la
possibilità da essa stessa prodotta come
apparenza, e la manca proprio per questo”
(Theodor W. Adorno, “Teoria Estetica”,
Einaudi, Torino 1975, p. 9). Anche
Sartre aveva parlato dell’arte come inganno:
L’opera d’arte crea un mondo
che ha un senso, da qui il suo fascino e
il ‘nauseato scoramento’ – che equivale,
secondo noi, alla tristezza dell’animo –
che attanaglia la coscienza che riprende
il contatto con l’esistenza senza senso”
(Jean-Paul Sartre, “Immagine e coscienza”,
Einaudi, Torino 1948, p. 297).
Per questo il cardinale Ratzinger faceva
notare che solo nel Volto del Crocifisso
appare l’autentica e credibile
bellezza: “Nella passione di Cristo l’estetica
greca, così degna di ammirazione
per il suo presentito contatto con il
divino, che pure le resta indicibile, non
viene rimossa, bensì superata. L’esperienza
del bello ha ricevuto una nuova
profondità, un nuovo realismo. Colui
che è la Bellezza stessa si è lasciato
colpire in volto, sputare addosso, incoronare
di spine – la Sacra Sindone di
Torino può farci immaginare tutto questo
in maniera toccante. Ma proprio in
questo Volto così sfigurato appare l’autentica,
estrema bellezza: la bellezza
dell’amore che arriva ‘sino alla fine’ e
che, appunto in questo, si rivela più
forte della menzogna e della violenza.
Chi ha percepito questa bellezza sa
che proprio la verità, e non la menzogna,
è l’ultima istanza del mondo. Non
la menzogna è ‘vera’, bensì proprio la
verità. E’ per così dire un nuovo trucco
della menzogna presentarsi come ‘verità’
e dirci: al di là di me non c’è in
fondo nulla, smettete di cercare la verità
o addirittura di amarla; così facendo
siete sulla strada sbagliata. L’icona
di Cristo crocifisso ci libera da questo
inganno oggi dilagante. Tuttavia essa
pone come condizione che noi ci lasciamo
ferire insieme a lui e crediamo
nell’Amore, che può rischiare di deporre
la bellezza esteriore per annunciare,
proprio in questo modo, la verità
della bellezza” (Joseph Ratzinger, “La
bellezza. La Chiesa”, cit., pp.23-24).
Sintomatico un richiamo a Dostoevskij,
che vuole essere al tempo stesso
una puntualizzazione: “Chi non ha conosciuto
la molto citata frase di Dostoevskij:
‘La bellezza ci salverà’? Ci si
dimentica però, nella maggior parte
dei casi, di ricordare che Dostoevskij
intende qui la bellezza redentrice di
Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo.
Se noi Lo conosciamo non più solo a
parole ma veniamo colpiti dallo strale
della sua paradossale bellezza, allora
facciamo veramente la Sua conoscenza
e sappiamo di Lui non solo per averne
sentito parlare da altri. Allora abbiamo
incontrato la bellezza della verità,

della verità redentrice. Nulla ci può
portare di più a contatto con la bellezza
di Cristo stesso che il mondo bello
creato dalla fede e la luce che risplende
sul volto dei santi, attraverso la quale
diventa visibile la Sua propria luce
(Ibid., pp. 25-26).
La domanda sul nostro destino, sul
“dopo”, trova risposta esauriente solo
nel volto di Cristo: la risposta a questa
domanda è, dunque, grazia. E’ quanto è
stato detto icasticamente dal poeta della
Commedia, quando parlando della
verità cui siamo destinati l’ha definita
come: “La sete natural che mai non sazia/
se non con l’acqua onde la femminetta/
samaritana domandò la grazia»
(Dante Alighieri, Commedia, Purgatorio,
XXI, vv. 1-3). E quando in modo unico
canterà l’esperienza della visione di
Dio, dirà che questa non accadde per le
proprie forze: “ma non eran da ciò le
proprie penne:/ se non che la mia mente
fu percossa/ da un fulgor in che sua
voglia venne” (Commedia, Paradiso,
XXXIII, vv. 139-41).
Questo “fulgore” anticipato nella storia
è la bellezza che la verità prende nel
mondo bello creato dalla fede e dalla
luce che risplende sul volto dei santi.
Questa esperienza annoto continuamente
nei miei “appunti per il dopo”.
Tratto da Il Foglio 19.07.07




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senso religioso

martedì, 24 luglio 2007

Il senso religioso

L’agave sullo scoglio
***
Sotto l’azzurro fitto del cielo
qualche uccello di mare se ne va
né sosta mai
perché tutte le immagini
portano scritto “più in là”.
E. Montale
 

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montale, senso religioso


In nessun luogo trovo più una pietra
***
Insaziabile anima
che mi trascini sempre più lontano
e ogni passo è una nausea più grande.
Ho cercato la pace di me stesso
 accordando il mio cuore
  col ritmo cieco delle cose mute.
Mi son dissolto nella forza vergine
del vento delle cime,
ma dopo il rapido oblio
mi son sentita l'anima ululare
 e dibattersi ancora,
 raffica ansiosa e anelante in eterno.
(...)
Sono tanto stremato.
Dal primo giorno ardente
che ho levata la fronte
 a cercare me stesso,
in nessun luogo più
ho trovata una pietra
 dove posare il capo.

Cesare Pavese

Da: in Prima di “Lavorare stanca" 1923-1930


 

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lunedì, 23 luglio 2007

Senso Religioso
 ***


«Quasi tutta la nostra vita è spesa in curiosità sciocche. In cambio ci son cose che dovrebbero eccitare al più alto grado la curiosità degli uomini e che, a giudicare dal corso ordinario della loro vita, non gliene ispirano alcuna. Dove sono i nostri amici morti? Perché siamo qui? Veniamo da qualche parte? Che cos'è la libertà? Può accordarsi la libertà con la legge provvidenziale?»
«Nulla esiste senza scopo: dunque questa esistenza ha uno scopo. Quale scopo? Lo ignoro. Dunque non l'ho stabilito io. Ma qualcuno più sapiente di me. Bisogna dunque pregare questo qualcuno d'illuminarci. E' il partito più saggio»
 «La vera civiltà non è nel gas o nel vapore, ma nel lavoro d'ogni giorno per diminuire le conseguenze del peccato originale».
«Avendo immaginato di sopprimere il peccato, i liberi pensatori hanno creduto ingegnoso sopprimere il giudice e abolire il castigo, e proprio questo chiamano progresso. Per loro, combattere l'ignoranza è ridurre Dio».
Baudelaire Diari intimi
 

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venerdì, 20 luglio 2007


IL DIO DI JACK KEROUAC
***
 Da: © La Civiltà Cattolica 2007 I 126-139         quaderno 3758

I diari di uno «strano solitario pazzo mistico cattolico»
ANTONIO SPADARO S.I.
«Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli. Sono stanco, Dio. Non riesco a scorgere il tuo volto in questa storia» (1): è la preghiera dello scrittore Jack Kerouac ventiseienne. Riecheggiano le parole del Salmo: «Non nascondermi il tuo volto…», che ritorneranno ancora, in interviste e saggi. Così dieci anni dopo: «Cosa sta cercando? mi chiedevano. Rispondevo che aspettavo che Dio mi rivelasse il suo volto» (2).
«Salmi» è il titolo di una sezione dei diari di Jean-Louis Lebris de Kerouac (1922-69), conosciuto come Jack Kerouac, una delle icone di culto della letteratura (3). Egli tenne nota delle sue vicende e dei suoi pensieri sin dal 1936, quando era ancora adolescente. Un mondo battuto dal vento raccoglie le pagine scritte tra il giugno del 1947 e il febbraio del 1954, cioè tra i 25 e i 32 anni, la fase più dinamicamente creativa della sua esistenza, che si concluderà a soli 47 anni. Questi diari sono stati pubblicati negli Stati Uniti nel 2004 ed escono adesso anche in Italia.
Il volume si divide in due parti: la prima è dedicata agli sforzi compiuti da Kerouac per scrivere e far pubblicare il suo primo romanzo La città e le metropoli; la seconda riguarda i diari intimi e di viaggio scritti nel corso della stesura di On the road. Non intendiamo qui illustrare la ricchezza di contenuti e suggestioni di cui i diari di Kerouac abbondano. Ci soffermiamo esclusivamente sui passaggi che meglio mettono a fuoco la radice religiosa fino a vette di espressione orante. Approfondiremo la riflessione con riferimento a interviste e ad altre fonti.
Il diario di un uomo in cammino
Kerouac è ormai ampiamente conosciuto, e le sue opere più note sono lette da un vasto pubblico, soprattutto il romanzo Sulla strada. Non sarà nostro compito riassumere la sua esperienza letteraria completa: la presentazione, infatti, prenderebbe necessariamente tutto lo spazio a nostra disposizione (4). Il nostro obiettivo è più semplice e limitato: dare un’idea della profonda sensibilità cattolica dello scrittore così come essa emerge a partire dai diari, allo scopo di far notare come essa sia viva, pulsante e ben presente alle radici della sua ispirazione. E questo è vero nonostante il carattere moralmente trasgressivo che caratterizza la sua produzione più nota.
Il percorso umano, artistico e religioso di Kerouac è, in realtà, complesso e dialettico. Non saremo qui alla ricerca di coerenze o di logiche troppo stringenti. Ma proprio attraverso le contraddizioni si potrà valutare in lui la forte permanenza dell’ispirazione e dell’immaginario cattolico, che gli deriva dalle sue stesse radici familiari e che lo accompagnerà fino alla fine. Addentrarsi nelle pagine dei suoi diari è un’esperienza viva e pulsante, capace di dare un contributo decisivo per comprendere meglio la sua opera e smontare eventuali falsi cliché accumulatisi nel tempo sullo scrittore. Tutto il cattolicesimo implicito ed esplicito presente nella sua opera trova nei diari espressione e forma, sia essa ortodossa sia essa inusuale e «selvaggia». Commenta il curatore, Douglas Brinkley: «È una ricerca religiosa senza tregua» (5). Senza di essa l’opera di Kerouac non sarebbe pienamente comprensibile.
La porzione di diario che va sotto il nome di Un mondo battuto dal vento è composta durante la stesura di La città e la metropoli e lascia trasparire tutto il suo desiderio di dare a questo romanzo-fiume un’impronta religiosa. Egli stesso scrive di tenere il Nuovo Testamento sempre con sé e di pregare prima di ogni sessione di lavoro. Qualcuno ha notato che gli eroi della cultura popolare americana, i maestri del buddismo zen, i personaggi «battuti e beati» descritti in tutta la sua opera vivono sullo stesso terreno dei santi cattolici. Un esempio: Neal Cassady, il suo buddy, l’amico fraterno, compagno di avventure e di sogni, di sregolatezze e di intuizioni, fonte di energia a getto continuo, che poi diventerà il personaggio Dean Moriarty in On the road, non è forse un misto tra il cowboy televisivo Hopalong Cassidy e san Francesco (6)? O meglio ancora, come Kerouac disse in una celebre intervista, egli «è l’uomo più intelligente che abbia mai incontrato nella mia vita. Neal Cassady. È un gesuita» (7). Anche Neal era di origini cattoliche e da bambino cantava nel coro della sua chiesa di Denver. Nella stessa intervista egli stesso si auto-definisce «Everardo Mercuriano, Generale dell’esercito dei gesuiti (General of the Jesuit Army)» (8). Kerouac è stato alunno della scuola dei gesuiti di Lowell, nel Massachusset, il paese in cui era nato. In un’autopresentazione nel 1960 egli riconosceva di aver ricevuto una «buona istruzione» (9). Ed essa deve aver lasciato anche una traccia significativa su di lui se gli ha permesso di ricordare persino il nome di colui che fu il quarto Generale dell’Ordine di sant’Ignazio, tra il 1573 e il 1580!
In ogni caso i suoi personaggi sono una parata di fuorilegge divini, angeli solitari, santi folli — un po’ «francescani» o un po’ «gesuiti» —, profeti sotterranei. Attraverso figure simili lo scrittore affrontò una delle questioni centrali della letteratura occidentale del dopoguerra, che riassunse in questa domanda, espressa in un linguaggio arcaico di stampo biblico-liturgico: Whither goest thou, America, in thy shiny car in the night? (Dove vai, tu, America, la notte, nella tua piccola macchina scintillante?) (10). Una sensibilità cattolica non può non riconoscere in questa domanda un appello di salvezza e «giustificazione» espressa in termini coerenti alla sensibilità e all’immaginario statunitensi. E proprio in quegli anni la grande scrittrice cattolica Flannery O’Connor ironicamente metteva in bocca al protagonista del romanzo La saggezza nel sangue l’espressione: Nobody with a good car needs to be justified, cioè «Nessuno con una buona macchina ha bisogno di essere giustificato». La simbolica della macchina e della strada è una simbolica di dannazione e redenzione che attraversa fino ad oggi l’ispirazione artistica statunitense, dalla musica di Bruce Springsteen al cinema di Terrence Malick. Ma gli esempi sarebbero innumerevoli.
«Gesù siede alla mia scrivania»
Dall’infanzia sino alla morte Kerouac scrisse lettere a Dio, preghiere rivolte a Gesù, poesie dedicate a san Paolo e invocazioni per la propria salvezza (11). «[…] se Gesù sedesse alla mia scrivania questa notte, guardando fuori dalla finestra, tutta quella gente che ride felice per l’inizio delle vacanze estive, forse sorriderebbe e ringrazierebbe suo Padre. Non lo so. La gente deve “vivere”, eppure so che soltanto Gesù conosce la risposta definitiva» (Mv, 62), scrive il 26 giugno del ’47. Il suo è un Gesù vicino, presente lì dove lo scrittore vive e scrive; è colui che guarda dalla finestra e che ha the only answer, la risposta, la chiave. Per Kerouac questa risposta non è opzionale: è fondante e coinvolge la stessa espressione artistica. L’opera d’arte infatti vive, come l’essere umano, di queste domande: «Che cos’è, da dove viene, dove sta andando, perché e quando e chi la conoscerà?» (ivi, 63). Lo spirito di Kerouac in questi anni è affine a quello di Pascal, autore che egli ha letto con interesse, prendendo appunti (12). L’inquietudine della domanda lo agita profondamente a livello intimo: «Interi universi di nuove idee vanno a sbattere contro i miei sentimenti (crashing into my feelings) senza fine. Perché penso?» (ivi, 65 s).
La persona di Gesù, con tutta la spinta ideale, si innesta per Kerouac in questo terreno di domande. Egli è the only soul, l’unica anima a cui far riferimento, e the only answer, cioè l’unica risposta (13): «Gli insegnamenti di Gesù Cristo sono stati una svolta, un modo per confrontarsi con il terribile enigma della vita umana e confondersi di fronte ad esso. Che cosa miracolosa! Quali pensieri deve aver avuto Gesù prima di “aprire la sua bocca” e iniziare il Discorso della montagna. Che pensieri profondi, oscuri e silenziosi (long dark silent thoughts)!» (ivi, 66). Così anche nelle «profondità desolate (desolate deeps)» brillano le stelle, «alte e luccicanti in un firmamento spirituale (high and sparkling in a spiritual firmament)» (ivi, 79). «Come mai non hai mai scritto di Gesù?» chiede Ted Berrigan a Kerouac in un’intervista realizzata un anno prima della sua morte. E Kerouac risponde ironicamente: «Io non avrei scritto nulla di Gesù? Non venirtene a casa mia a fare il pazzo bugiardo… e… tutto ciò su cui scrivo è Gesù» (14).
«Gesù, la tua è l’unica risposta per tutti gli esseri viventi!» (ivi, 71), esclama. Ancora una volta Gesù è the only answer, la sola risposta ai dilemmi e agli «impulsi» interiori, al desiderio di vita. L’anno successivo scriverà, e in maniera più concitata e visionaria, «Abbiamo bisogno di Gesù? Si sta avvicinando quel momento? E questo Agnello di Dio rivelerà (will reveal)? Rivelerà i segreti della gioia sulla terra e nella morte?» (ivi, 252). Qual è questa risposta? Cosa Cristo rivelerà? Perché Cristo è la risposta? Perché «Cristo è il primo uomo a essersi reso conto che l’amore è il principio della vita umana. Lui ora risplende sopra di noi più grande che mai e io sarei pronto a scommettere che nel prossimo secolo Cristo (e i pochi altri grandi uomini come lui) riempiranno le menti della gente come mai prima» (ivi, 197).
Il 2 giugno del 1949 nota che la sera precedente era andato a dormire leggendo il Nuovo Testamento. Annota: «Ben presto scriverò la mia personale interpretazione di Gesù Cristo». Quale il nucleo della sua visione? Essenzialmente che Gesù «è stato il primo, e forse l’ultimo, a riconoscere che affrontare il mistero ultimo della vita è l’unica attività importante a questo mondo». Ecco che cosa cattura l’attenzione di Kerouac: il mistero ultimo della vita intesa come una questione seria che richiede una vera e propria «resa dei conti». Egli fa appello a «un mondo che rispecchi fedelmente il Cristo. Il Re mite, che giunge in groppa a un Mulo» (ivi, 265). Troviamo qui tutto il senso di un atteggiamento umile nei confronti dell’esistenza, che spesso invece sarà in seguito storpiato in forme vanamente ribellistiche dai suoi emulatori.
Modello di scrittore e fratello di anima è allora Dostoevskij, vero scrittore proprio perché anima religiosa: «Dostoevskij è davvero un ambasciatore di Cristo e per me la sua opera è il moderno Vangelo. Il suo fervore religioso vede attraverso i fatti e i dettagli della nostra vita quotidiana, cosicché non deve concentrare la sua attenzione sui fiori e gli uccelli, come san Francesco, o sulle finanze, come Balzac, ma su qualsiasi dettaglio… sulle cose più ordinarie» (ivi, 346). Da qui maturerà la sua definizione preferita di letteratura e di romanzo, sconvolgente nella sua semplicità e originalità che leggiamo in Satori a Parigi (1966): una «storia raccontata per amicizia e per insegnare un che di religioso, di riverenza religiosa verso la vita reale, in questo mondo reale che la letteratura dovrebbe riflettere» (15).
La vita non è abbastanza
Riflettendo liberamente sulle parole di Cristo «Il mio regno non è di questo mondo», Kerouac scopre in sé un dualismo tra ciò che egli avverte come rigido (e tra questo anche una religione intesa come moralismo) e un ampio slancio vitale: «Il mondo si schiude di fronte a me come un luogo di cose potenti che mi danno nutrimento; i pensieri morali restrittivi svaniscono in un impeto ottobrino di eccitazione, fame, gioia ed entusiasmo, il disgusto di sé che proviene dall’introspezione solitaria si trasforma in desiderio di socievolezza e affabilità, un carburante così necessario per spingerci a partecipare alla vita» (Mv, 130). Lo scrittore si rende conto che la chiave della vita non è nella lonely introspection, che poi è la sterile introversione egocentrica e consolatoria, capace di generare in letteratura solamente «brodaglia psicotica (psychotic sloppiness)» (16). L’autoconoscenza per lui «è vanità» (ivi, 121). Invece vivere significa esporsi alle powerful things, al mondo e alla realtà che ha una potenza di apertura alla vita, e scrivere è «un’esplosione di interesse (explosion of interest)» (ivi, 130). Questa è per lui «scrittura sana (sane writing)».
Quando questa apertura, seppur di rado, si coniuga con una tensione orante, allora egli guadagna l’espressione di una radicale fiducia, di una confidenza estrema: «Sarò forte come l’acciaio, mio Signore, diventerò sempre più forte, il fuoco mi forgerà, mi renderà più deciso, più saldo, migliore, secondo la tua volontà o Dio perduto, secondo i tuoi comandamenti. Ora lascia che io Ti trovi, come una nuova gioia che invade la terra all’inizio del nuovo giorno, come il cavallo che, nel suo campo, al mattino, vede il padrone giungere verso di lui attraverso l’erba. Ora sono come l’acciaio, mio Signore, tu mi hai reso forte e pieno di speranza. Colpiscimi e risuonerò come una campana!» (ivi, 220).
Introspezione ed esuberanza, rigidezza e slancio, «non smetteranno mai di agitarsi dentro di me — riconosce Kerouac —, il che rappresenta un grande stimolo per farmi continuare a girovagare» (ivi, 68). Vive proprio di queste tensioni, in fondo, il celeberrimo romanzo On the road, di cui l’autore descrive le prime intuizioni nell’agosto del ’48: «Ho in mente un altro romanzo — Sulla strada — a cui continuo a pensare: parla di due ragazzi che fanno l’autostop fino in California, in cerca di qualcosa che non riescono a trovare veramente e si perdono lungo il cammino per poi tornare indietro sperando in qualcos’altro» (ivi, 186). Lo slancio fa sentire la vita come esplorazione, un’«avventura del cuore, della mente, dell’anima» (17) tesa tra «l’immortalità e i singoli istanti inconoscibili e a frantumi» (ivi, 166), proiettata verso qualcos’altro. Kerouac descrive giovani assetati di esperienza, ma questa esperienza non è fine a se stessa, non è puro «esperimento», ma una via per ottenere una nuova visione della vita, forse qualcosa d’altro ancora.
Life is not enough, annota Kerouac nell’agosto del ’49: «La vita non è abbastanza». Il clima rovente delle sue meditazioni lo conduce ad avvertire una forza centrifuga senza confini se non quello dell’eternità: «Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai, in nessuna oscura esistenza o qualunque altra cosa accada. E qual è questa decisione? Un qualche tipo di febbre della comprensione, un’illuminazione, un amore che andrà oltre, trascenderà questa vita verso nuove esistenze, una visione seria, finale e immutabile dell’universo. Questo è ciò che intendo quando dico che “voglio degli Occhi”. […] Perché dovrei volere tutto questo? Perché qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare» (ivi, 275). I confini del viaggio sono infranti.
Kerouac è teso alla «comunione finale fra tutte le cose, l’unione elettrica della vera eternità. È l’altro mondo, menzionato in principio come la Parola di Dio nelle Scritture e illustrato dal grande san Tommaso d’Aquino come un concetto che va oltre la nostra ragione ed è necessario per l’umanità. La prospettiva di quest’altro mondo, questa forma di comprensione che non abbiamo mai immaginato, va al di là della mia capacità di capire, ma sospetto che sia molto strana e che quando finalmente ci arriveremo, diremo tutti: “Certo, certo, sì, sì!”» (ivi, 277). Così anche, quando con la morte entreremo stupiti nell’aldilà grideremo con la nostra carne morente: «“Allora è questo ciò per cui sono stato creato! Gloria a Dio”» (ivi, 229). Questa conoscenza della vita e dell’eternità non è una follia (foolishness), protesta Kerouac, «è solo quel caro e intenso amore (warm dear love) che proviamo verso la nostra difficile condizione. Con la grazia di Dio Misterioso, alla fine dei tempi, forse soltanto in quel giorno essa verrà risolta e chiarita per tutti noi». E conclude drammaticamente e perentoriamente: «Altrimenti non posso vivere» (ivi). Senza eternità non si può vivere.
Scrivere dunque per Kerouac significa anche, in qualche modo, impegnarsi in una «personale salvezza attraverso le mie opere (my own personal salvation in works)» (ivi, 291). L’opera letteraria, come accade per tutti i grandi scrittori, qui non è gioco, intrattenimento ludico o di puro «gusto». Ha a che fare con la salvezza, in un modo o nell’altro. Quando la scrittura assorbe queste tensioni vitali, allora essa stessa diventa un dono ricevuto, come scrive dopo la composizione de La città e le metropoli: «Il lavoro del 1948 su C & M è stato un Dono di Dio, poiché prima di questo lavoro ero stato a lungo in ginocchio, come Haendel prima di comporre il Messia, e poi l’avevo Ricevuto. Ma grazie, Dio, di tutto. L’altra notte l’ho capito» (Mv, 266). Scrivere è rispondere a un dono, a una chiamata. E allora ecco la gratitudine profonda espressa in preghiera: «Grazie per le Visioni che Tu mi hai dato, per Te; e tutto è per Te; grazie, o mio Signore, per questo mondo e per Te. Riempi il mio cuore del calore del Tuo spirito per sempre» (ivi, 241).
Cattolico perché peccatore
A questo punto le alternative sono chiare. La prima è considerare le radici cattoliche di Kerouac una sovrastruttura pesante e bigotta, un retaggio faticoso da eliminare e di cui egli avrebbe voluto disfarsi. La seconda possibilità è comprendere come invece il cattolicesimo di Kerouac sia una delle fonti vive della sua ispirazione. Insomma: rimozione o ispirazione. Qui la critica si divide. Noi riteniamo, anche alla luce di ciò che leggiamo nei diari, che la seconda alternativa, quella che riconosce in un cristianesimo inquieto e dialettico una fonte vivace di intuizione creativa, sia quella che meglio rende giustizia alla personalità letteraria di Kerouac e ai percorsi della sua precarietà esistenziale e artistica.
Steve Turner, nella sua bella biografia illustrata dal titolo L’angelo caduto, ha potuto scrivere: «Il lato di Kerouac che più mi ha interessato è quello spirituale, che per anni è stato ignorato. Ma adesso i critici hanno finalmente riconosciuto quanto spazio abbia avuto la religione nella sua vita. Era questa, senza dubbio, la strada che aveva scelto di percorrere». Riconosce pure però che «le droghe e la ribellione sono da sempre un argomento per i giornali» (18) e che dunque hanno prevalso nella percezione comune della sua opera. E abbiamo ragione di credere che lo sia ancora anche per una parte della critica letteraria italiana su questo autore. A dire il vero, però, nessuno nega la «spiritualità» di Kerouac. Molti però riducono il suo cristianesimo a uno stantio bigottismo e ne mettono in evidenza o la diluizione o la radicale trasformazione nel buddismo Mahayana, col quale Kerouac venne decisamente a contatto intorno al 1953.
Perché Kerouac si è accostato al buddismo? Ce lo racconta in una intervista: dopo che si era conclusa una storia d’amore, descritta poi ne I sotterranei, lo scrittore stava male per il dolore della perdita. In quel tempo si trovò a leggere una biografia del Buddha, il quale — scrive Kerouac — «scoprì che la causa della sofferenza, del dolore, del decadimento e della morte è semplicemente il fatto di essere nati. Così scoprì anche che il mondo in realtà non esiste» (19). Il Kerouac buddista è convinto che noi soffriamo a causa di un «desiderio ignorante» e ci sentiamo soli perché non accettiamo il fatto che la realtà non esista. Così egli impara a meditare e si astiene dall’alcool e dal sesso, parte integrante della sua turbolenta vita affettiva, nel tentativo di rompere il legame della mente con l’«illusione». Questo è il suo buddismo.
Come giudicare questa fase? Kerouac era diventato veramente buddista? A suggerirci la risposta è la biografia dello scrittore, quella che poi si riflette nei suoi scritti. Noi crediamo che la fase buddista, in realtà, sia stata una vicenda dialetticamente interna al suo stesso cattolicesimo. Il cristianesimo gli diceva che c’è un mondo reale, fatto anche di santità e di peccato; il buddismo, così come da lui era percepito e vissuto, gli diceva che il mondo non era poi così «reale». Il Kerouac «cattolico» è ora gioioso ora triste; ora in preghiera, ora assorbito dal sesso; ora legato agli affetti familiari, ora spinto da una tensione alla fuga. È un Kerouac, per dirla cedendo ai cliché, «santo» e «peccatore», capace di vivere sulla propria pelle il piacere illusorio della trasgressione, ma anche la ferita del bisogno d’amore e dell’abbandono. Il Kerouac «buddista» è invece alla ricerca di un equilibrio stabile e neutro, temporaneamente astemio e casto, perso nelle suggestioni della «Mente Interna Trascendentale» (20), teso alla cancellazione del dolore e della realtà.
Ad allontanare di fatto Kerouac dal buddismo fu, paradossalmente, proprio l’esperienza della vita dissipata e sregolata: il «peccato», quel «diavolo» che, secondo la sua contemporanea Flannery O’Connor, spesso «getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace» (21). Nel 1956 comincia a scrivere Angeli della desolazione, opera che è specchio, nella sua seconda parte, della vita «selvaggia» di Kerouac: egli «non era più il buddista astemio, adesso era il cattolico preso in una catena di peccati e pentimenti» (22), commenta Turner. E così, fra l’altro, in un viaggio del 1957 sulle coste del Nord Africa, vediamo lo scrittore diviso tra la lettura del Nuovo Testamento e le facili prostitute di Tangeri.
Insomma, come racconta Philip Whalen in una testimonianza raccolta nella celebre biografia a più voci Jack’s Book, «il suo interesse per il buddismo era abbastanza letterario». E circa Gary Snyder, il suo amico poeta più radicalmente buddista, prosegue Whalen: «Lo sfiorava semplicemente e poi diceva: “Ah, bene. È fantastico, ma io in realtà credo nel dolce bambin Gesù”, oppure nell’“Agnello di Dio”» (23). Nello stesso volume John Clellon Holmes usa espressioni come: «Il terreno di Jack è sempre stato il cattolicesimo – il cristianesimo, cioè». Per quanto abbia «provato come un matto il buddismo», Jack «era ed è rimasto fino alla fine un cattolico – dal punto di vista dell’idea più alta della visione cattolica del mondo» (24). Giunto a Parigi, nel 1966, alla ricerca delle sue radici, lo stesso Kerouac non lascerà più dubbi scrivendo nel suo (purtroppo ormai introvabile in italiano) Satori a Parigi: «Ma io non sono un buddista, sono un cattolico che rivisita la terra ancestrale che ha lottato per difendere il cattolicesimo contro difficoltà insormontabili, e che eppure alla fine ha vinto» (25).
Certamente il cattolicesimo di Kerouac era debole, mal evoluto, forse infantile e fin troppo tormentato e dialettico. Tuttavia la spiritualità buddista mal si combinava con il suo approccio insieme esuberante e introverso alla vita. Certo, la visione del mondo espressa in On the Road sembrava superata da quella buddista, quando egli provò a eliminare le domande e ad agire come se nulla avesse importanza. Le «cose», invece, per lui avevano importanza, e «in seguito egli lasciò perdere il budddismo perché erano “solo parole”» (26). Nelle sue reazioni Kerouac era istintivamente cattolico. Anche il suo rigetto del materialismo e del liberalismo della classe media americana era emotivamente formato da una sensibilità cattolica (27). Egli stesso, in fondo, in una sua auto-presentazione scriveva di essere «non un “beat” ma uno strano solitario pazzo mistico cattolico (a strange solitary crazy Catholic mystic)» (28).
Il vero «beat»
Una migliore comprensione della visione della vita di Kerouac ci viene da alcune considerazioni sul termine beat, parola che individua un fenomeno generazionale di cui egli è capostipite e padre. Di per sé il termine ha molti significati: è la prima parte della parola beatitude, ma beaten significa anche abbattuto, scoraggiato, alla deriva. Beat è anche battito, ritmo, nel senso della musica jazz. I beat, o beatniks (come verranno chiamati coniugando le parole beat e sputnik) rinunciano al progetto di una vita tranquilla, dedita alla produzione e al consumo, rifiutano la fissa dimora e vivono, da soli o in gruppo, in ristretti e spesso disagiati luoghi urbani. Il beat dunque individua uno stile di vita senza regole e inquieto, dominato dall’incertezza, dall’ansia e da una certa tensione sempre insoddisfatta, che in seguito ha condotto ad atteggiamenti ribellistici e contestatari connotati politicamente.
A coniare il termine fu proprio Kerouac, che però ebbe qualcosa da dire e da ridire sul suo significato, ricordando le sue vere origini. L’origine della parola beat ci chiarisce il tipo di illuminazione e di rivelazione al quale lo scrittore tendeva veramente: «Fu da cattolico […] che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, Mass., e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola Beat significava beato… È domenica mattina e il prete sta facendo la predica, quando all’improvviso da una porta laterale della chiesa arriva un gruppo di personaggi della Beat Generation che indossano impermeabili legati con cinture come quelli dell’I.R.A. e vengono avanti in silenzio per “capire” (to dig) la religione… In quel momento mi fu chiaro» (29).
Beat è dunque una parola dalle radici religiose, compresa pienamente in una chiesa durante un momento di raccoglimento: quanto di più distante da un contesto fragorosamente ribellistico e contestatario. Kerouac dovrà però tristemente constatare il fatto che «un sacco di opportunisti, profittatori, comunisti saltarono sul carro. Ferlinghetti saltò sul carro e trasformò l’immagine della Beat Generation che originariamente rappresentava persone che amavano la vita e la dolcezza. Ai giornali parlò di ribellione beat, di insurrezione beat, parole che io non ho mai usato, essendo cattolico (being a Catholic)» (30). Conseguentemente, poco prima della sua morte, in un’intervista rilasciata al New York Times, egli così giungerà a concludere: I’m not a beatnik. I’m a Catholic: non sono un beatnik, sono un cattolico (31). Non è certo, questa frase, un rinnegamento del senso della propria parabola culturale, come potrebbe apparire superficialmente. Al contrario, forse questa dichiarazione è stata un’estrema lucida intuizione a difesa della propria identità artistica e umana, cioè quella mistica — cattolica sebbene «strana solitaria e pazza» — che ha nutrito la sua estetica.
Questa radice religiosa — ribadita dalle espressioni it was as a Catholic… being a Catholic… I’m a Catholic — non è affatto puramente occasionale o momentanea. Anzi, è addirittura monastica. In un articolo apparso nel 1957 Kerouac non fa mistero del fatto che i fenomeni come quello beat «esprimono una religiosità ancora più profonda, il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo (che non è il nostro regno), “in alto”, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero a spuntare come l’erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e indolenzita dopo le sue ultime gesta» (32). Dopo aver dipinto questa immagine solenne, l’anno successivo ripeté: «Non ho mai sentito parlare più di Dio, delle Ultime Cose, dell’anima, del dove-stiamo-andando, se non fra i giovani della mia generazione: e non solo i ragazzi più intellettuali, ma tutti» (33).
***
Come riassumere il senso della parabola di Kerouac? Probabilmente tenendo insieme, per quanto in maniera sempre instabile, due poli: una radice che desidera senza sosta accedere a tutti i nutrimenti terreni, e una forte tensione a ciò che è, come si è detto, soul, eternity, salvation. Insomma: la «carne» e l’«infinito». Mai l’una senza l’altro. Ringraziando Dio per la composizione del suo primo romanzo, nel 1950 Kerouac scrisse nei suoi diari un ultimo «salmo», di un’intensità straordinaria, che sembra riassumere in forma orante la sensibilità dello scrittore, svelandone l’anima inquieta e vagabonda: «Grazie, Signore, Dio degli Eserciti, Angelo dell’universo, Re della Luce e Creatore delle Tenebre per le Tue vie, le quali, se non fossero percorse, trasformerebbero gli uomini in ottusi danzatori di carne senza dolore, menti senza anima, dita senza nervi e piedi senza polvere». E infine però, folgorante, la richiesta: «Mantieni la mia carne nella Tua eternità» (Mv, 241) (34).

1 J. KEROUAC, Un mondo battuto dal vento. I diari di Jack Kerouack [sic!]: 1947-1954, Milano, Mondadori, 2006, 219. I testi citati sono tratti da questa edizione, ma in alcuni punti abbiamo preferito usare una nostra traduzione.
2 Id., «Agnello non leone (1958)», in Id., «Beati: le origini della Beat Generation», in Scrivere bop. Lezioni di scrittura creativa, Milano, Mondadori, 1996, 50. Cfr anche S. TURNER, L’angelo caduto. Vita di Jack Kerouac, Roma, Fazi, 1997, 173.
3 Il nome «Jack» nasce dall’errore di un sacerdote della sua parrocchia, la chiesa di Santa Giovanna d’Arco.
4 La nostra rivista si è già occupata della sua opera in generale con F. CASTELLI, «La desolata corsa di Jack Kerouac verso la morte», in Civ. Catt. 1971 I 34-47. Rinviamo a quell’articolo per un’analisi centrata sulla sua opera narrativa. Diamo qui solamente qualche rapido cenno biografico. Jack Kerouac nasce il 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts, da una famiglia franco-canadese di origine bretone. A undici anni scrive il suo primo racconto (The cop on the beat) e a 14 comincia a scrivere un diario. Al liceo si distingue per le sue doti di sportivo, che gli consentono di vincere una borsa di studio. Si iscrive alla Columbia University di New York. La stagione newyorkese della seconda metà degli anni Quaranta è una di quelle fortunate. Kerouac però non conclude gli studi: ha voglia di assaporare il mondo e la vita, un desiderio incontenibile che lo porta a scontrarsi con le realtà più dure. Si mantiene lavorando come muratore e apprendista metallurgico fino a quando nel 1942 decide di arruolarsi in marina. Viene presto congedato, ma il mare lo affascina, e decide di trascorrere qualche anno da marinaio su un cargo mercantile. Nel 1944, coinvolto in una vicenda di omicidio, viene arrestato e rinchiuso in carcere per favoreggiamento. Mentre si trova in galera sposa Edie Parker, che poco dopo pagherà la cauzione per lui. La coppia si scioglie pochi mesi dopo la libertà conquistata. Tra un viaggio e l’altro Kerouac frequenta William Burroughs, che gli presenta Allen Ginsberg, e fra i due nasce una profonda amicizia, che sarà l’inizio della cosiddetta beat generation. Kerouac si cimenta anche nella critica musicale e scrive alcuni articoli sul jazz, pubblicati sul giornale della Columbia University. In seguito legge in pubblico i suoi scritti con accompagnamento jazz, ispirando un grande interesse nelle collaborazioni jazz-poesia. Nel 1945 inizia a scrivere il suo primo romanzo La città e la metropoli, pubblicato nel 1950, mentre un anno dopo incontra Neal Cassady, che diventerà il suo più grande amico e il personaggio di molti suoi romanzi. Nel 1947 Kerouac inizia in autobus e autostop il viaggio coast to coast attraverso gli Stati Uniti. Nel 1951 scrive su un rotolo di carta da telescrivente Sulla strada. Kerouac continua a scrivere alternando la sua attività con lunghe pause a San Francisco, dove incontra i massimi esponenti della cosiddetta San Francisco Renaissance e scrive la sua prima raccolta di poesie. Muore il 21 ottobre 1969 per una emorragia epatica.
5 D. BRINKLEY, «Introduzione», in J. KEROUAC, Un mondo battuto..., cit., 16. D’ora in poi citeremo l’opera con la sigla Mv. L’edizione in lingua originale più recente è Windblown world. The Journals of Jack Kerouac: 1947-1954, London, Penguin, 2006.
6 Cfr D. BRINKLEY, «Introduzione», cit., 26.
7 J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», in Paris Review, n. 43, Summer 1968, 19.
8 Ivi, 28.
9 «Presentazione di Jack Kerouac», in J. KEROUAC, Romanzi, cit., 1.520.
10 Cfr D. BRINKLEY, «Introduzione»…, cit., 26.
11 Ivi.
12 I’m reading Blaise Pascal and taking notes on religion (J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», cit., 46).
13 Del resto, che cosa resterà del mondo, della «luccicante Babilonia che fuma sotto il sole»?, si chiede Kerouac. Soltanto «le cose plasmate dalle mani di Dio». Tutto a lui è chiamato a ritornare (Mv, 64).
14 J. KEROUAC, «The Art of Fiction No. 41», cit., 28. E qui fa venire in mente Giovanni Testori quando afferma che «il luogo del teatro è il corpo di Cristo» (G. TESTORI, La maestà della vita e altri scritti, Milano, Rizzoli, 1998, 149).
15 Id., Satori in Paris and Pic. Two Novels, New York, Grove Press, 1985, 10.
16 È tanto vero questo sentimento che lo ritroviamo più in là come criterio di valutazione di un’opera letteraria, in questo caso quella di James Joyce. Scrive Kerouac: «Credo nella scrittura sana anziché nella brodaglia psicotica di Joyce. Joyce è un uomo che ha semplicemente smesso di comunicare con gli altri esseri umani. Lo faccio anch’io quando sono tormentato e ubriaco di stanchezza, perciò so che non è così onesto, anzi è addirittura crudele uscirsene con associazioni di idee senza l’autentico sforzo umano di trovare e dare ai propri discorsi un’intelligenza significativa. È un tipo di idiozia sdegnosa» (Mv, 101). E su D. H. Lawrence il giudizio non cade più misericordioso: «È una pura masturbazione dell’io» (ivi, 346).
17 Mv, 86. Ma, in realtà, nulla di ciò ha a che fare con la reale dimensione faustiana del desiderio di vita e di conoscenza. Ciò è reso evidente dal giudizio sprezzante, quanto spiazzante, che egli dà nell’aprile del 1948 circa la vicinanza con amici quali Ginsberg e Burroughs: «Sono stanco di scrivere la satira di nevrotici senza importanza, ecco tutto ciò che è rimasto dei miei rapporti con loro. Vado a trovarli in uno stato d’animo felice e affettuoso e me ne vado via ogni volta confuso e disgustato. Questo non succede con gli altri miei amici, perciò dovrei seguire l’istinto e restar fedele ai miei simili. “Niente più urrà alla tolleranza”. Sono stanco di indagare su tutto quanto e di essere un folle “faustiano”, alla ricerca della “conoscenza assoluta”» (ivi, 124).
18 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 11. La versione originale di questa biografia è Angelheaded Hipster. A Life of Jack Kerouac, New York, Viking, 1996.
19 Intervista riportata in E. BEVILACQUA, Guida alla beat generation, Roma - Napoli, Theoria, 1994, 52.
20 J. KEROUAC, Mexico City Blues. Il manifesto poetico del padre della Beat Generation, Roma, Newton Compton, 1993, 167.
21 F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma - Napoli, Theoria, 1993, 80.
22 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 11 e 165.
23 B. GIFFORD - L. LEE, Jack’s Book. Una biografia narrata di Jack Kerouac, Roma, Fandango, 2001, 225 s.
24 Ivi, 227 s. «Quando la situazione si faceva difficile quello a cui lui si aggrappava veramente era il Piccolo Fiore di Gesù, Santa Teresa di Lisieux, e vari altri santi cattolici, e questo era quello in cui lui credeva veramente, quello da cui ricavava il massimo e quello a cui tornava sempre» (ivi, 225).
25 Id., Satori in Paris and Pic…, cit., 69.
26 S. TURNER, L’angelo caduto…, cit., 216.
27 Cfr M. FELLOWS, «The Apocalypse of Jack Kerouac: Meditations on the 30th Anniversary of his Death», in Culture Wars, November 1999
(letto in http://www.culturewars.com/CultureWars/1999/kerouac.html).
28 J. KEROUAC, «Presentazione di Kerouac», cit., 1.522. Per un confronto col «fratello maggiore» Thomas Merton cfr A. STUART, «Vision of Tom - Jack Kerouac’s monastic elder brother. A preliminar exploration», in
http://www.thomasmertonsociety.org/kerouac.htm
29 Id., «Beati: le origini della Beat Generation», in Scrivere bop…, cit., 68. Il verbo to dig nello slang beat significa gustare, apprezzare più che «capire» in maniera puramente intellettuale.
30 L’intervista, l’ultima prima della morte dello scrittore, realizzata da William F. Buckley all’interno del Firing Line Show nel 1968, si può seguire in What Happened to Kerouac?, cit.
31 J. LELYVELD, «Jack Kerouac, Novelist, Dead; Father of the Beat Generation», in The New York Times, 22 october 1969.
32 J. KEROUAC, «Sulla Beat Generation (1957)», in Scrivere bop… cit., 46.
33 Id., «Agnello, non leone (1958)», ivi, 50.
34 Keep my flesh in Thee everlasting.
© La Civiltà Cattolica 2007 I 126-139         quaderno 3758

 

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mercoledì, 18 luglio 2007

Il senso religioso
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L’uomo si distingue, si eleva, dal regno animale perché ha in più  l’insopprimibile  “istinto di Dio”.
giacabi


 

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senso religioso

lunedì, 16 luglio 2007

Il senso religioso
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 «Il mio cuore, dorme?/ No. Il mio cuore non dorme./ È sveglio, sveglio./ Non dorme né sogna, guarda,/ gli occhi chiari aperti,/ segni lontani e ascolta/ alla riva del grande silenzio».
Antonio Machado
 

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Il senso religioso
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 «Nulla di ciò che è umano mi è estraneo »
Terenzio  Il punitore di se stesso
 

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Il senso religioso
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« L’uomo civile, l’europeo moderno non è più l'uomo della decrepita antichità, l'uomo che ha udito Cristo e il suo messaggio. Dopo Copernico, dopo Kant è divenuto freddo ragionatore, realista, critico, guardingo dal pericolo di illusioni. Ciò che interessa ed occupa il suo pensiero non è il mondo delle realtà profonde, ma quello della superficie, il mondo dei fenomeni. Questo solo vede e considera l'uomo moderno. La questione intorno all'essenza più profonda di questo mondo fenomenico, intorno alla causa ultima di queste attività, intorno al senso profondo di questo essere sembra a lui inutile e sterile. La sua facoltà metafisica è atrofizzata. Platone direbbe che gli manca un occhio: l'occhio dell'invisibile. Così pure s'è indebolito in lui l'organo che percepisce il divino, il soprannaturale. Questo elemento, più ancora che il soprasensibile, sta profondamente nascosto nel seno della realtà.
Per questo, l'uomo moderno sente una segreta avversione contro tutto ciò che irrompe in questo mondo dei fenomeni come qualcosa di completamente nuovo, con la pretesa di essere immediatamente da Dio e assoluto. Mentre nella concezione degli antichi i miracoli e i segni erano, per così dire, il manto naturale della divinità, le prove visibili della presenza, per la mentalità moderna invece costituiscono uno scandalo.
Nel complesso di numeri e di misure, nell'insieme delle leggi del mondo fenomenico non v' è posto per forze soprannaturali. Il pensiero moderno in tutta la sua struttura si mantiene cordialmente indifferente, repulsivo se non ostile di fronte a un mondo soprasensibile, specialmente di fronte a un mondo soprannaturale, al mondo della fede.
 In questo sta un gravissimo pericolo per la fede in Cristo del mondo europeo ed occidentale: non solo i singoli pensatori, bensì il pensiero stesso, la mentalità è divenuta coscientemente lontana da Dio, atea: perfino la mentalità dei cristiani europei.
Noi tutti ci muoviamo entro correnti filosofiche che hanno senso solo nell'orbita di premesse puramente naturalistiche, in quanto sono fondamentalmente e coscientemente ristrette nel campo dell'esperienza sensibile. Chesterton dice: "Il naturale può essere per gli uomini ciò che vi è di più innaturale". Un pensiero che, coscientemente, si restringe solo ai dati naturali è effettivamente la cosa più innaturale, perché prende solo una piccola, la più piccola parte della realtà, come se fosse tutta la realtà; perché lascia in disparte o nega le più profonde radici di questa realtà, i rapporti intimi che legano le dimensioni di profondità e di estensione con l'invisibile, il sopraterreno, il divino.
Il nostro pensiero ormai non considera più la totalità dell'essere. il complesso di tutte le possibilità, perché s'è isolato dal pensiero creatore di Dio. L'ostacolo sta solo nella nostra cattiva volontà. Neppure, a dir vero, nella difficoltà dell'oggetto, nella misteriosa e paradossale essenza della rivelazione cristiana, quanto piuttosto nella disposizione fondamentale dell'uomo europeo. L'uomo moderno ha disimparato a vedere. Quali le conseguenze? Eccole. Per l'uomo moderno la questione del Cristo non è solo una questione che interessa l'intelligenza, ma tutto lo spirito umano. Se abbiamo perduto la fede nel Cristo, oppure l'abbiamo gravata da dubbi angosciosi, non bastano più certe conoscenze o certe argomentazioni. Ciò che soprattutto occorre è piuttosto un nuovo atteggiamento mentale di fronte al sopraterreno e al soprannaturale ».
(K. Adam, Gesù il Cristo, p. 24-26)


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Il senso religioso
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«Anche se tutti dicessero no, io ti riconoscerò per sempre; la gratitudine sulla terra non deve morire: ti sarò fedele. Conforto del mondo, vieni! Sgombro da ogni cosa, ti aspetto» Novalis Canti spirituali
 

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senso religioso


Il senso religioso
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«Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto, né l'altezza e la nobiltà dell'uomo, che il potere l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza: quando egli, considerando la pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo, che è minima parte di uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profonda- mente sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell' esistenza. Allora, con questo atto e con questo pensiero, egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e minimo essere, è potuta .pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contenere col pensiero questa immensità medesima dell'esistenza e delle cose»
Giacomo Leopardi -Zibaldone
 

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La religiosità
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 «Quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata, e o accetto questa umiliazione, la accetto e non cerco di sfuggire da questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata e umiliata: so di non sapere. Questo io chiamo la mia religiosità»
Norberto Bobbio –La Repubblica 30-04-2000
 

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senso religioso

domenica, 15 luglio 2007

Il senso religioso

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Il primo uomo
]acques Cormery, con gli occhi levati verso la lenta navigazione delle nubi nel cielo, tentava di cogliere, oltre il profumo dei fiori bagnati, l'odo- re di sale che veniva in quel momento dal mare distante e immobile, quando il tintinnio di un secchiello contro il marmo di una tomba lo scosse dal suo fantasticare. Fu in quell'istante che lesse sulla lapide la data di nascita del padre, scoprendo nello stesso tempo di averla sempre ignorata. Poi notò le due date -"1885-1914" -e fece un rapido calcolo: ventinove anni. Un pensiero lo colpì all'improvviso e lo scosse. Lui di anni ne aveva quaranta. L'uomo che giaceva sepolto sotto quella pietra, e che era stato suo padre, era più giovane di lui.
E l'ondata di tenerezza e di pietà che d'un tratto gli riempì il cuore non era quello slancio dell'anima che spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma la compassione e il turbamento di un uomo fatto davanti a un ragazzo ingiustamente assassinato -era una cosa fuori dell'ordine naturale, e in effetti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre. Intorno a lui, immobile, fra queste tombe che aveva smesso di vedere, si  spezzava persino la successione del tempo e gli anni avevano cessato di allinearsi in un grande i fiume che scorre verso la foce. Non erano ormai  che fragore, risacca e risucchio, ed era qui che si dibatteva ]acques Cormery, alle prese con l'angoscia e la pietà. Guardò le altre lapidi del settore e capì dalle date che quel terreno era costellato di ragazzi che erano stati i padri degli uomini brizzolati convinti di vivere in quel momento. Lui pure era convinto di vivere, si era fatto da solo, conosceva la propria forza, la propria energia, sapeva affrontare la vita, tener duro. Ma, nella strana vertigine che lo aveva colto in quel momento, quella statua che ogni uomo finisce per erigere e indurire al fuoco degli anni, insinuandosi in essa per attendervi lo sgretolamento finale, si stava screpolando in fretta, stava già per andare in pezzi. Non restava ormai che quel cuore angosciato, avido di vita, ribelle all'ordine mortale del mondo, che lo aveva accompagnato per quarant'anni e continuava a battere con la stessa forza contro il muro che lo separava dal segreto di ogni vita, con la volontà di andare più in là, di andare oltre, e di sapere, sapere prima di morire, sapere,' finalmente per essere, una sola volta, un solo secondo, ma per sempre.
Albert Camus
 

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Il senso religioso

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«Anch'io come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravità, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l'ho ancora questo centro di gravità, ma, in un certo qual modo, non c'è più il corpo relativo»!
 F.kafka
 

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Il senso religioso

«Quello che mi piace dell'esperienza [che è vivere qualsiasi cosa paragonandola col cuore] è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate [non bisogna spaventarsi]; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l'esperienza non sta cercando di ingannarvi. L'universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente»              C.S.Lewis  Sorpreso dalla gioia


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Il senso religioso

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Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.
C. Pavese Dialoghi con Leucò
 

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