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sabato 25 febbraio 2012

testimonianza4


Lettera di Vicky, sieropositiva accolta al Meeting Point di Kampala,
letta  da don Julián Carrón alla giornata d'inizio anno di CL a Roma
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Mi chiamo Vicky, ho 42 anni e vengo dalla regione orientale dell’Uganda. Voglio ringraziare voi e Dio per la vita preziosa che mi ha dato. Nel 1992, quando rimasi incinta del mio ultimo figlio, Brian, mio marito mi pose davanti alla scelta se rimanere sua moglie, rinunciando alla gravidanza, o separarmi da lui se volevo tenere il bambino. A quell’epoca avevo solo due figli, e decisi di portare avanti la gravidanza, cosa che segnò la fine della mia relazione con lui. Davvero non capivo perché lui fosse così crudele e intransigente. Poi nel 1997 persi il lavoro a causa della malattia, e nello stesso tempo il mio bambino, Brian, manifestò sintomi di tubercolosi, ed ebbi i primi sospetti. L’anno seguente mi aggravai e nell’ospedale di Nsambiya fui visitata e sottoposta al test Hiv, che risultò positivo. Fu allora che ricordai e capii perché mio marito non aveva voluto la gravidanza di Brian: perché all’epoca anche lui era sieropositivo.
La vita in casa con i miei tre bambini si fece difficile. I due ragazzi erano sani, ma non avevamo i soldi per la scuola; non avevamo da mangiare, né soldi per le medicine, e peggio di tutto non avevamo amore da nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero. Nel 2001, qualcuno mi ha indirizzato
al Meeting Point International, dove ho incontrato donne che facevo fatica a credere potessero vivere in quel modo pur essendo malate anche loro di Aids, tale era la gioia che portavano sul viso; ballavano ed erano liete, e io mi chiedevo come uno che aveva questa malattia potesse cantare e ballare. Al Meeting Point vi accolgono con musiche e canzoni di popoli differenti, africani, europei, indiani, ho persino trovato qualcuno della mia stessa tribù. Dopo lungo tempo ho cominciato a vedere una luce far capolino nel mio essere a pezzi, così ho preso a stare con loro.
Una cosa importante, che non ho mai dimenticato, è il giorno in cui qualcuno mi ha guardato con uno sguardo che aveva in sé i raggi della speranza e dell’amore.
In tutto questo tempo io ero costretta a letto, e tutti i miei amici, i parenti, persino i vicini guardavano con rifiuto e disprezzo me e i miei bambini. Con questo sguardo di amore e speranza che qualcuno mi ha rivolto, mi ha mostrato qualcosa che ha portato la vita nel mio spirito e nel mio corpo a pezzi. Mi ha detto: “Vicky! Tu hai un valore, e il tuo valore è più grande del peso della tua malattia e della morte”.
Nel 2002 iniziai a comprare farmaci per il mio bambino che stava per morire, dopo averlo tolto dalla scuola per il marchio di discriminazione con cui era bollato: lo avevano soprannominato “scheletro”. Nel 2003 cominciai a comprare farmaci anche per me. Allora pesavo 45 chili, oggi ne peso 75. Brian adesso è davvero sano e ha ripreso la scuola secondaria. Il mio ragazzo più grande è all’università, il secondo fa la quarta superiore.
Dov’è il potere della morte? È nella perdita della speranza e nella mancanza d’amore. Ora sono volontaria al Meeting Point, e ogni volta che ricevo delle persone dico loro che il valore della vita è più grande di quello del virus che portano dentro di sé. Questa affermazione nutre la speranza di una persona che soffre e sta per morire, e la riporta alla vita. Tutti i miei risultati sono stati possibili perché mi sono rivestita di qualcosa oltre la morte, e in particolare d’amore. Grazie a tutte le persone che ci hanno educato anche se non li abbiamo visti in faccia; ma oggi, nel nome di Giussani, Carrón è venuto fra noi che eravamo poveri e dimenticati: chi è più ricco di noi adesso? Siamo i più ricchi del mondo, perché qualcuno ha recato un sorriso almeno sul volto di una persona. Ringrazia tutti loro che ci sono cari, e dì loro che li amiamo.»
 a P.

foto Vicky al Meeting Point:


Postato da: giacabi a 19:34 | link | commenti
testimonianza, cristianesimo

giovedì, 08 novembre 2007

Steensen, Niels (1638 - 1686)

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Francesco Abbona

I. Cenni biografici - II. I contributi scientifici - III. Il metodo di studio - IV. La personalità e le convinzioni - V. Il pensiero filosofico - VI. Il rapporto scienza-fede.

Nel panorama scientifico del Seicento Niels Steensen occupa una posizione secondaria rispetto ai grandi nomi di Keplero, Galilei, Newton, Cartesio, Pascal, eppure è una personalità non meno geniale e certo delle più affascinanti di quel secolo così decisivo per la storia della cultura. «È uno dei grandi spiriti della sua epoca» (Gohau, 1990, p. 32). A renderlo tale non sono solo le sue scoperte fondamentali in anatomia ed in altre discipline, che lui stesso inaugura come paleontologia, geologia e cristallografia, ma soprattutto le sue qualità: spirito di ricerca, rigore di metodo, unità di pensiero e di azione, onestà e integrità di vita.
In un'epoca in cui si stavano consolidando i nazionalismi, egli percorse l'Europa con autentico spirito universale, che non ignora il paese d'origine, ma sa integrarlo in una sintesi culturale di più ampio respiro. Per questo è anche una delle personalità più rappresentative ed interessanti dell'Europa del suo tempo, di attualità anche per l'Europa di oggi.

I. Cenni biografici

Niels Steensen, in latino Nicolaus Stenonis, in italiano Niccolò Stenone, nacque il 1° gennaio 1638 (calendario giuliano) a Copenhagen da Steen Pedersen, discendente di una famiglia di pastori luterani, orafo e fornitore della casa reale, e da Anne Nielsdatte. Niels rimase orfano di padre all'età di 6 anni; la madre si risposò successivamente altre due volte, sempre con orafi. Di salute cagionevole, il piccolo Niels trascorse l'infanzia in compagnia di adulti, di cui seguì con curiosità le conversazioni serie e gravi, ispirate ad un luteranesimo praticato con fede e devozione. All'età di dieci anni fu avviato agli studi primari nella scuola di Notre Dame. Qui sotto la guida di appassionati insegnanti ricevette una buona educazione umanistica e letteraria, apprendendo anche nozioni di matematica e scienze naturali. La posizione della famiglia gli consentì di frequentare famiglie illustri, tra cui quella di Simon Paulli, professore di anatomia e medico personale del re. L'ambiente era austero, come suggeriscono le massime sapienziali di casa Paulli: «Uomo, ricordati dell'eternità! L'occhio di Dio è posato su di te». «Vivi pensando alla morte, il tempo passa, noi non siamo che ombre». Frequentava il laboratorio paterno, dove assisteva e spesso partecipava alle operazioni che vi si svolgevano: misura di volumi, saggi chimici, molatura di lenti, osservazioni al microscopio, costruzione di macchine idrauliche.
La vita era dura e precaria: nel 1648 era finita la guerra dei trent'anni e di lì a poco, nel 1657, sarebbe scoppiata la guerra con la Svezia. Nel 1654 la peste portò via un terzo della popolazione di Copenhagen e metà dei compagni di Stenone, ma le pratiche della carità cristiana erano vive: anche Stenone si era prodigato nella sepoltura dei compagni.
A diciott'anni si iscrisse all'Università di Copenhagen, scegliendo come campo di studi medicina e scienze naturali, mentre avrebbe preferito matematica e geometria. Tra i professori ebbe i fratelli Thomas e Rasmus Bartholin: il primo era un famoso anatomo; il secondo, allievo di Cartesio, coltivava la geometria cartesiana e le scienze naturali. Le personalità che più ebbero influenza furono però Ole Borch e Simon Paulli, entrambi cultori di scienze naturali e della sperimentazione. Il periodo era tutt'altro che favorevole agli studi: il 9 agosto 1658 Copenhagen venne posta in stato d'assedio dalle truppe del re svedese Carlo X Gustavo, per cui gli studi furono interrotti. Stenone, arruolato nella difesa della città, si dedicò nei momenti liberi alla lettura nella Biblioteca dell'Università ed in altre private. Dopo che l'assedio venne respinto (11 febbraio 1659), Stenone volle fare il punto sullo stato delle sue conoscenze e più in generale della sua vita, e stese tra l'8 marzo e il 3 luglio 1659 una specie di diario, che intitolò Chaos, testimone prezioso per comprendere la formazione e la personalità dello Stenone.
Nel 1659, terminato il triennio di studi all'Università di Copenhagen, passò a completare i suoi studi in Olanda, allora all'apogeo della potenza ed in pieno rigoglio intellettuale e culturale, con cui la Danimarca intratteneva stretti rapporti commerciali e culturali. Scelse come sede Amsterdam, dove poco dopo il suo arrivo (Pasqua del 1660) fece la prima scoperta in anatomia: il dotto che porterà il suo nome, che trasferisce la saliva dalla parotide alla cavità orale. Questa scoperta fu causa di una controversia tra lui e il suo professore, Blasius, che cercò di appropriarsene; essa si concluse solo nel 1663, con il riconoscimento della paternità a Stenone. L'esperienza di Amsterdam lo deluse, cosicché dopo aver sostenuto una dissertazione sulle acque termali, De Thermis, nel luglio dello stesso anno si trasferì a Leida, sede di una celebre Università. Qui trovò un ambiente stimolante e favorevole alle ricerche anatomiche, dove insegnavano valenti studiosi, tra cui Francesco de la Boe (Sylvius) e Jan van Horne. Nel giro di tre anni conseguì risultati ragguardevoli, consegnati in quattro dissertazioni (Observationes anatomicae), che lo imposero all'attenzione dell'Europa scientifica. Per questi meriti fu nominato dottore in medicina in absentia (4.12.1664).
Il soggiorno a Leida rappresentò un momento fondamentale anche sotto un altro aspetto. L'ambiente intellettualmente vivo e tollerante, dove gli interessi scientifici si intrecciavano con quelli filosofici e teologici, e la frequentazione di Baruch Spinoza (1632-1677) furono all'origine di un profondo ripensamento delle convinzioni religiose. La riflessione sulle sue esperienze in anatomia gli consentì di superare la crisi e di rinsaldarsi nella fede dei padri. Nella primavera del 1664 ragioni familiari lo costrinsero a ritornare a Copenhagen. Qui pubblicò tre dissertazioni, tra cui una De musculis et glandulis in cui riassunse i risultati delle sue ricerche. La mancata nomina a professore di anatomia e la morte della madre lo indussero a lasciare la città nell’agosto del 1664.
Si portò quindi a Parigi dove si trovavano alcuni suoi amici. Qui la fama di anatomo gli aprì le porte del circolo di Melchisedec Thévenot, un mecenate umanista, che raccoglieva l'aristocrazia intellettuale e scientifica di Parigi. Eseguì alcuni lavori di embriologia e numerose dissezioni, che lo fecero altamente apprezzare, e tenne una celebre conferenza sul cervello (Discours sur l'anatomie du cerveau). Anche in questo soggiorno si manifestarono i vasti interessi di Stenone, in particolare quelli religiosi, suscitati dal contatto con persone ed istituzioni cattoliche. Importanti furono i colloqui con Maria Perriquet, cugina di Thévenot, alla cui azione egli attribuì un ruolo decisivo nella sua evoluzione religiosa.
Verso la fine dell'estate del 1665 lasciò Parigi per un lungo viaggio in Francia, che lo portò tra l'altro a Montpellier. Qui conobbe W. Croone, J. Ray e M. Lister, naturalisti inglesi interessati alla  geologia, che saranno fondatori o membri della Royal Society. Saranno questi studiosi a far conoscere le opere di Stenone in Inghilterra. Nel febbraio del 1666 si trasferì in Italia. Prima fu a Pisa, poi a Roma, dove conobbe Kircher e Malpighi, e quindi a Firenze, ospite del Granduca Ferdinando II, che lo nominò anatomo dell'ospedale di Santa Maria Novella. Iniziava il fecondo periodo fiorentino di Stenone, da cui usciranno notevoli scoperte ed anche profondi cambiamenti sia nella ricerca sia nella vita. L'accoglienza fiorentina fu così cordiale che Stenone definirà Firenze «la mia seconda casa». Entrò in rapporto con le menti più brillanti, che ruotavano intorno all'Accademia del Cimento e all'Accademia della Crusca: Viviani, Redi, Magalotti. A Firenze poté continuare nel 1667 gli studi anatomici e completare il secondo grande trattato sui muscoli (Elementorum Myologiae Specimen). È di questo periodo la scoperta di nuovi campi di indagine, la geologia e la mineralogia, in cui Stenone si lanciò con passione e metodo. Compì numerose escursioni geologiche, percorrendo montagne e colline della Toscana, visitando saline e miniere, dovunque raccogliendo materiale di studio. Nel bel mezzo di queste indagini, l'8 dicembre 1667, ricevette dal re Federico III l'invito a rientrare in Danimarca. Decise di raccogliere rapidamente i risultati e le riflessioni in un piccolo trattato, in previsione di uno più ampio (che non apparirà mai): De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus (1669), solitamente indicato come Prodromus.
In quello stesso periodo si verificò un avvenimento decisivo per la sua vita spirituale. Il 2 novembre 1667, dopo lunghe approfondite riflessioni, decise di abbracciare la fede cattolica. Il passaggio al cattolicesimo non modificò il suo stile di vita né le sue ricerche, ma suscitò ripercussioni negative in ambito protestante. Di fronte a critiche spesso ingenerose, Stenone intervenne più volte con scritti ora apologetici ora polemici. Furono probabilmente queste reazioni a far sì che egli lasciasse cadere l'invito del suo re a rientrare in patria, cui peraltro rimase sempre profondamente legato.
Nell'autunno del 1668 intraprese un lungo viaggio per l'Europa. Prima visitò Roma e Napoli, quindi risalì a Bologna, dove compì studi anatomici con Malpighi; fu poi a Innsbruck, dove le ricerche anatomiche (De vitulo hydrocephalo) si accompagnarono ad escursioni mineralogiche e geologiche in Tirolo e dintorni. Fu a Vienna. Visitò le famose miniere di Scemnitz e Kremnitz, donde inviò minerali a Firenze. Da Praga si portò in Olanda, dove rimase fortemente impressionato dalle condizioni di indifferenza, se non di  ateismo, di molti studiosi. Questo soggiorno fu all'origine dell'accresciuto interesse per gli aspetti più propriamente religiosi. Nel luglio del 1670, dopo tre mesi di soggiorno olandese, rientrò a Firenze. Fu incaricato dal nuovo granduca, Cosimo III, della catalogazione dei minerali delle collezioni toscane (Indice di cose naturali). Nel contempo proseguì gli studi geologici con la visita di grotte nei pressi dei laghi di Garda e Como, ma più abbondante fu la produzione di carattere religioso e filosofico. È di questo periodo la lettera sulla Vera Philosophia indirizzata a Spinoza, reformator novae philosophiae, che però non gli risponderà. Dopo alcune esitazioni, decise di accettare l'invito del nuovo re di Danimarca, Cristiano V, e rientrò in patria.
Nel luglio 1672, dopo otto anni di assenza, rimise piede a Copenhagen. Pur essendo anatomicus regius, le sue lezioni e dissezioni si svolsero tuttavia in case private. Una sola fu la dissezione pubblica, di cui fu pubblicato nel 1673 il Prooemium. Durante il soggiorno si occupò anche del sistema muscolare degli animali e pubblicò la prima grande monografia di zoologia: Historia Musculorum Aquilae (1673), che fu anche l'ultimo lavoro scientifico di Stenone. Lo stato di incertezza personale, alcuni attacchi da parte protestante, il restringimento della libertà religiosa lo convinsero ad abbandonare la Danimarca per rientrare a Firenze, dove Cosimo III lo attendeva.
Nel Natale del 1674 lo troviamo a Firenze, dove fu nominato precettore del principe ereditario, per il quale scrisse: Trattato di morale per un principe. L'interesse religioso si concretò nella scelta del sacerdozio: il 13 aprile del 1675, giorno di Pasqua, fu ordinato sacerdote. Da questa data fino alla morte (1686), Stenone non si occupò più direttamente di scienza per dedicarsi interamente agli impegni del suo ministero sacerdotale. Furono dodici anni di vita condotta nel più puro spirito evangelico di povertà, dedizione agli altri e ascesi «per amor di Dio». Furono anni molto duri, per le difficoltà obiettive dell'ambiente in cui fu inviato ad operare, la Germania del Nord, e per le incomprensioni che gli vennero anche dalla comunità cattolica. Pur mite di carattere, si dimostrò inflessibile in un caso di simonia e comandò ai missionari di tenere linguaggio e comportamento evangelici nella polemica contro i protestanti.
Il 26 settembre 1677, su richiesta del duca di Hannover, il cattolico Giovanni Federico, Stenone fu nominato vescovo di Hannover; qui strinse relazione con  G.W. Leibniz (1646-1716), bibliotecario dello stesso duca. Quando, nel 1679, a Federico successe il fratello protestante, Stenone fu chiamato a Münster, dove rimase tre anni. L'intensa esperienza pastorale in cui si prodigò senza risparmio gli suggerì il libretto: Parochum hoc age (I doveri del pastore), che uscì nel 1684. Fu quindi inviato ad Amburgo come vicario apostolico per il Nord Europa e per l'ultima volta visitò Copenhagen. Chiamato dal duca di Schwerin a dirigere la piccola comunità cattolica di quella città, vi si trasferì. Qui trascorse l'ultimo anno di vita: morì il 25 novembre 1686 dopo dolorosa malattia. La salma riposa nella chiesa di s. Lorenzo, a Firenze, dove fu trasportata nell'ottobre del 1687 per disposizione del granduca Cosimo III. Niels Steensen fu proclamato beato da Giovanni Paolo II il 23 ottobre 1988. Un passaggio dell'omelia pronunciata in quell'occasione ne ritrae sinteticamente la vita: «Ricercatore appassionato, scienziato di primo piano, non soddisfatto mai delle pure ipotesi e sempre alla ricerca della piena certezza, Steensen tuttavia fu mosso soprattutto dall'anelito verso la scoperta della ragione ultima di ogni cosa: Dio».

II. I contributi scientifici

Fu detto che Stenone era come il re Mida: ogni cosa che toccasse, la trasformava in oro, nell'oro della conoscenza. E difatti in tutti i settori disciplinari che affrontò, lasciò una traccia duratura: anatomia, geologia, paleontologia, cristallografia. Gli scritti si distaccano nettamente da quelli dei suoi contemporanei per chiarezza, concisione, forza di argomentazione, rifiuto di vane speculazioni, evidente riflesso di un pensiero geniale, dalle idee chiare e distinte. Riepiloghiamo quindi, in modo schematico, alcuni dei risultati più significativi.
Impareggiabile anatomo, era di una grandissima abilità manuale e di eccezionale chiarezza espositiva: «la cosa più straordinaria in lui è che egli fa tutto in modo così evidente che uno è costretto a convincersi, e fa meraviglia che le stesse cose siano sfuggite a tutti i precedenti anatomi» (Journal des Sçavans, 1665). Appena ventiduenne, scopre il dotto parotideo (che da lui prende nome), e nel giro dei tre anni successivi compie una serie di importanti scoperte sulle ghiandole, da lui definite un «capolavoro del Creatore», che farà dire a H. Moe, storico della medicina: «rivoluziona le idee sulle ghiandole e ne fonda la scienza». A lui spetta il merito di avere distinto tra ghiandole secernenti e ghiandole linfatiche e di aver dato la corretta interpretazione della funzione secretiva ghiandolare. Rettifica l'interpretazione data da Cartesio circa la formazione delle lacrime e spiega la continuità della lacrimazione rispetto al pianto.
Anche sul cuore i suoi apporti sono decisivi: dimostra che il  cuore non è la fonte del calore innato, né sede dell'  anima e dello spiritus vitale, ma è vere musculus; fornisce la prima illustrazione dell'architettura muscolare di quest'organo; descrive per primo le malformazioni anatomiche della tetralogia di Fallot, riscoperta duecento anni dopo. Il libro De Musculis et Glandulis Observationum Specimen del 1664 sarà definito «aureus libellus» (Haller, 1760), mentre il lavoro Elementorum Myologiae Specimen, dal sottotitolo rivelatore: seu musculi descriptio geometrica (1667), sarà considerato «una svolta nella storia della fisiologia muscolare» (E. Bastholm, History of Muscle Physiology, Copenhagen 1950). Stenone tenta infatti di applicare la matematica alla soluzione di problemi fisiologici (concezione biomeccanica).
Anche il cervello «principale organo dell'anima» è oggetto delle sue ricerche ed è al centro di una celebre lezione tenuta a Parigi, pubblicata con il titolo Discours sul l'anatomie du cerveau (1669). Definita come «un raggio di luce nell'oscurità» (O.J. Rafaelsen, in Poulsen et al., 1986), quest’opera «è il vero punto di partenza dei moderni studi sul cervello» (Darenburg, 1870, in Poulsen et al., p. 27); contiene una lucida denuncia della radicale insufficienza delle conoscenze e delle idee preconcette sul cervello ed è altresì un testo fondamentale per la metodologia di studio del cervello e per le prime descrizioni di anatomia comparata. Interpreta le circonvoluzioni cerebrali come sede delle funzioni superiori, contrariamente a Cartesio, che attaccato allo schema interno-esterno non vi vedeva che una specie di imballaggio o involucro. Stenone si occupa anche dell' organo riproduttivo femminile. Comparando gli organi sessuali di animali e di esseri umani, scopre che gli organi detti «testes muliebres» sono ovaie, destinate a produrre uova, trasportate nell'utero lungo le trombe uterine (tube di Falloppio). Non mancano altri studi anatomici, tra cui indagini sull'embriologia del pulcino; studio della muscolatura di un'aquila; anatomia dei selacei.
Il trattato Elementorum Myologiae Specimen del 1667 contiene due appendici Canis carchariae dissectum caput e Dissectus piscis ex canum genere, dove la dissezione di una testa di squalo lo porta quasi insensibilmente a ricerche prima paleontologiche e poi geologiche. Dalla rassomiglianza dei denti di squalo attuali con le glossopietre, oggetti duri di forma triangolare presenti in certi terreni, in particolare a Malta, egli perviene ad una corretta interpretazione della natura dei fossili, resti di animali marini vissuti in epoche precedenti. Già altri, tra cui Leonardo da Vinci (1452-1519) e Fabio Colonna (1567-1640), si erano espressi in tal senso. Il merito di Stenone è di averne dato una chiara dimostrazione e soprattutto di aver saputo cogliere il significato della loro presenza collegandola ai sedimenti che li includono. Per questi lavori Stenone è considerato il fondatore della paleontologia. «I princìpi della ricerca così eccellentemente stabiliti da Stenone nel 1669 sono quelli che sin da allora, consciamente o inconsciamente, hanno guidato le ricerche in paleontologia» (T. Huxley, The Rise and Progress of Paleontology, 1881, cit. in Poulsen et al., 1986, p. 187).
Dai fossili Stenone passa quindi ad occuparsi dell'ambiente del loro ritrovamento, cioè dei sedimenti. I risultati delle sue ulteriori ricerche e le considerazioni che ne trae sono consegnate nel Prodromus del 1669. In questo breve, rivoluzionario trattato egli enuncia i princìpi della geologia stratigrafica tuttora validi (il principio della sovrapposizione degli strati; della orizzontalità iniziale e della continuità laterale) e pone così le basi per la costruzione della scala del tempo geologico. Nelle sue osservazioni applica implicitamente il principio dell'attualismo, formulato oltre cent'anni più tardi da Hutton (1795). Studia l'erosione; si occupa del problema dell'origine delle montagne e ricostruisce le vicende geologiche della Toscana. Per questi contributi è considerato Geologiae Fundator (come scolpito sul monumento di fronte alla biblioteca universitaria di Copenhagen). Dall’osservazione dei cristalli di quarzo e di ematite deduce la prima legge della cristallografia — la costanza degli angoli diedri — generalizzata nel 1783 da Romé de l'Isle. Respinge come fantasiose le spiegazioni correnti sulla formazione dei cristalli e dimostra che essi crescono per deposito di materia sulle facce, demolendo così l'idea diffusa che si formino come le piante. Propone il corretto meccanismo di crescita delle facce dei cristalli per strati e osserva il carattere anisotropo della crescita. Per questo è considerato anche fondatore della cristallografia. Per Schack A. Krogh, premio Nobel 1920 per la medicina, il Prodromus e i trattati del 1667 sono gli esempi più belli di come si origina e si sviluppa un’idea scientifica fino alla sua conferma attraverso prove irrefutabili. E lo storico contemporaneo, Gohau (1990), annota: «la geologia gli deve molto, anche se ci mise molto tempo per accorgersene, e non si sia finito di riconoscere il suo merito».

III. Il metodo di studio

La frequentazione del laboratorio paterno, la sviluppata cultura tecnica del suo paese, la diffusione del metodo cartesiano spiegano l'importanza data da Stenone all'esperimento ed all'osservazione come strumenti privilegiati di conoscenza nell'indagine dei fenomeni naturali. In questo applicava l'insegnamento di uno dei suoi primi maestri, Ole Borch: «L'esperienza è la vera via regale che conduce alla conoscenza della verità». Non che sottovalutasse l'importanza della teoria, anzi riconosce esplicitamente la necessità di princìpi. Si legge nel manoscritto dell'opera di Stenone, Chaos: «Nel campo delle scienze naturali noi non sappiamo nulla se non attraverso esperimenti ed osservazioni, insieme con tutto quello che può essere dedotto con i principi metafisici e meccanici». Sono le teorie allora in vigore a suscitare le sue riserve perché non ancorate all'osservazione: «In questioni di scienze naturali è bene non legarsi ad alcuna teoria, ma classificare con ordine tutte le osservazioni, cercando di arrivare con la propria iniziativa ad un risultato».
Il suo punto di partenza è l'assioma di  Cartesio: De omnibus dubitandum est. Scrive infatti nel Discorso sul cervello: «Io cerco di seguire le leggi della filosofia che ci insegna a cercare la verità dubitando della sua certezza, e a non accontentarci prima che si sia raggiunta conferma attraverso la dimostrazione». Questo principio lo porta a contestare affermazioni dello stesso Cartesio. A questi ed ai suoi seguaci, che sostenevano che gli animali non hanno anima né sensazioni, replica: «Debbo confessare che non senza orrore sottopongo animali a così lunghe torture (cioè alla vivisezione). I Cartesiani si vantano della certezza della loro filosofia. Vorrei che rendessero anche me così certo, come essi sono, del fatto che gli animali non hanno anima... » (cfr. Moe, 1994, p. 67). La critica di certe posizioni contenute nel De Homine di Cartesio (pubblicato postumo nel 1662) è vigorosa. A proposito della ghiandola pineale, luogo di incontro dell'anima e del corpo, annota: «Quanto più teste apro, tanto meno — così mi sembra  — l'ingegnoso organismo ideato da Cartesio si accorda con le creature stesse» (cfr. Moe, 1994, p. 69). Già da giovane mostrava indipendenza di giudizio, al punto da commentare con ironia nel suo diario Chaos la fine del pur amato Cartesio: «Quando in Svezia, colpito dalla febbre, volle curarsi secondo i princìpi della sua filosofia, morì per continua ingestione d'acqua».
La verità rimane l'obiettivo della ricerca. Nello studio di fenomeni complessi, quali ad esempio il cervello, riconosce che si rende necessaria l'azione di più competenze ed invita gli studiosi ad unire gli sforzi «per conseguire qualche conoscenza della verità, e questo dovrebbe invero essere il grande scopo per coloro che pensano e studiano con onestà e serietà». Stenone è conscio della necessità di una visione globale: «poiché la ricerca scientifica di più aree comporta che uno non possa mantenere le varie aree isolate le une dalle altre, ma è obbligato a prenderne molte in considerazione allo stesso tempo. E quanto più a lungo uno è occupato con il particolare, maggiore è il numero degli elementi di cui manca nell'insieme» (cfr. Poulsen et al., 1986, p. 116). Il lavoro dello studioso è duro e deve mirare ad una conoscenza certa. Scrive Stenone nel Prooemio (1673): «[…] cercherò di combinare esperienza e ragionamento in modo tale che se non tutti, almeno molti fatti, quando tutto sia preso in considerazione, raggiungano la certezza della prova» (cfr. Moe, 1994, p. 138). Tuttavia ammette che l'impresa non è facile soprattutto a causa dei condizionamenti personali: «Poiché nulla è più difficile che metter da parte i pregiudizi, anche opere moderne, sebbene sia stata applicata la più grande cura, non risultano così indenni da non contenere traccia di idee preconcette; e se io volessi fare eccezione a me stesso, meriterei la censura per il mio sfrontato orgoglio» (ibidem). Il principio di studio degli oggetti naturali è formulato chiaramente: «Dato un corpo dotato di una figura e prodotto secondo le leggi della natura [qui si riferisce ai cristalli naturali], trovare nel corpo stesso la spiegazione del modo e del luogo della produzione» (De solido... prodromus, 1669).
Il giudizio sulla  medicina del suo tempo è severo. Leggiamo in Chaos: «In medicina non impariamo che a pronunciare alcune parole, il cui significato preso separatamente non è talvolta irragionevole, ma prese insieme non hanno senso utile». E ancora: «Quale grande beneficio i nostri predecessori avrebbero lasciato a noi e all'umanità, se solo tutti gli anatomi che spendono la loro vita nel fare dissezioni avessero trasmesso ai successori solo risultati certi! La nostra conoscenza sarebbe meno estesa, ma certo meno dannosa. La medicina che si basa su certi princìpi potrebbe non avere successo nell'alleviare i dolori del malato, ma almeno non ne aggiungerebbe» (cit. in “Stenoniana” (1991), p. 98). Un posto particolare è riservato alla matematica, disciplina della massima certezza, regno delle idee chiare e distinte. Nel lavoro sui muscoli egli dichiara: «L'idea base della mia trattazione è di fare della miologia una parte della matematica, come lo sono l'astronomia, la geografia, l'ottica» (cfr. Moe, 1994, p. 98). Con questa impostazione riduttivistica dà l'avvio alla biomeccanica.
Conscio della complessità dei fenomeni naturali e della possibilità di più interpretazioni, onestamente dichiara: «Mentre dimostro la plausibilità del mio punto di vista, non intendo accusare di disonestà coloro che sostengono tesi opposte. Lo stesso fenomeno può essere spiegato in vari modi, invero la natura nei suoi processi persegue lo stesso fine con mezzi diversi» (cfr. ibidem, p. 108). Fu sempre ammirato per la sua modestia, che spesso era una “dotta ignoranza”. A proposito delle prime dissezioni della testa di squalo: «Non sono ancora arrivato ad un conoscenza abbastanza solida in questo settore per poter presentare il mio giudizio». Dopo anni di indagini sul cervello, inizia la sua famosa lezione a Parigi (1665) confessando: «Signori, invece di promettervi di soddisfare la vostra curiosità a proposito dell'anatomia del cervello, vi confesso onestamente e francamente che non ne so nulla». Ma nello stesso tempo demolisce tutte le supposte conoscenze di cui dimostra l'inconsistenza, espone le conoscenze sicure, frutto di osservazione, e pone le basi per un nuovo metodo di indagine del cervello. Acutissimo ed ancora attuale è il suo giudizio su questo organo: «È cosa certa che il cervello è il principale organo della nostra anima e lo strumento con cui essa compie cose meravigliose; essa crede di avere penetrato ciò che è al di fuori di sé al punto che non c'è nulla al mondo che possa limitare la sua conoscenza: eppure, quando rientra in casa sua, non saprebbe descriverla e non vi si riconosce più» (OP, p. 3;  MENTE-CORPO, RAPPORTO).
Anche quando tratta di religione, Stenone applica lo stesso spirito critico. Dibattuto tra confessione luterana e cattolica, si documentò non sulle traduzioni latine, ma sui testi originali scritti in ebraico e greco, lingue che aveva appreso in gioventù. E nel confronto tra le confessioni religiose, utilizza un criterio che è ancora “sperimentale”: Doctrinae veritatem vitae sanctimonia demonstrat (la santità della vita dimostra la verità della dottrina, Lettera a Leibniz, 1675).

IV. La personalità e le convinzioni

Ad un primo rapido sguardo, la vita di Stenone appare segnata da instabilità e provvisorietà. Certo essa fu movimentata, come risulta dai numerosi viaggi che compì per l'Europa — si calcola che abbia percorso poco meno di 30000 Km, visite pastorali escluse, in circa 27 viaggi — al punto da essere definito dal Redi «pellegrino del mondo per nativa curiosità». Fu per le sue ricerche in Danimarca, Olanda, Francia, Italia, Germania, Austria, ma non sostò in nessuna sede per più di tre anni, se si eccettua Firenze. Fu, come quasi tutti gli studiosi del suo tempo, uomo di molteplici interessi: scientifici, filosofici, religiosi. La sua ricerca scientifica fu occasionale e molto differenziata, spaziando dall'anatomia alla geologia. Un evento mutò radicalmente la sua vita: non tanto il passaggio al cattolicesimo, quanto l'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1675, e due anni più tardi l'elezione a vescovo. Questi eventi significarono l'abbandono della ricerca scientifica a motivo della sua dedizione all'attività pastorale.
Il radicale cambiamento di vita diede luogo ad un dibattito sulle sue motivazioni, sorto già dopo il suo passaggio al cattolicesimo nel 1667. Ci fu chi vide opportunismo, inganno, ingenuità. Leibniz ironicamente gli chiese se aveva trovato la fede cattolica «nel midollo delle ossa» e sentenziò: «Da grande naturalista è diventato un mediocre teologo», ma dirà di lui: «Io lo stimo oltre misura, ... e riconosco in lui zelo ispirato da vero amore per il prossimo». Nel 1881 Capellini, al congresso internazionale di Geologia a Bologna, espresse il suo interrogativo in forma rude «che desse un addio alle scienze naturali e si facesse frate, non so perdonarglielo, né so rendermi ragione come un tale addio non dovesse costargli grandissimo sacrificio», ma si fece promotore di una lapide sulla tomba di Stenone a Firenze. Più recentemente fu avanzata un'altra interpretazione: «negli anni della maturità abbandonò la scienza per una carriera nella Chiesa» (J.G. Burke, Origins of the Science of Crystals, Berkeley 1966). Per altri «abbandona le attività scientifiche per l'abito talare forse perché non riesce a conciliare opere scientifiche con convinzioni religiose» (Y. Gayrard-Valy, I fossili, orme di mondi scomparsi, Torino 1992) e dello stesso avviso sembra Morello (1979). Secondo altri, invece, è «una scelta consapevole dell'impossibilità di conciliare due missioni, che non potevano essere svolte altro che con una completa dedizione» (Cipriani, 1986).
Eppure, se c’è una personalità fortemente unitaria, è proprio quella di Stenone: modo di pensare, convinzioni religiose, metodo di studio, attività di ricerca, comportamento personale sono così strettamente intrecciati da una logica interna, conseguente ad un’unica ispirazione di fondo, che se questa non viene colta, il senso dell'agire risulta incomprensibile o per lo meno ambiguo. Ciò è dovuto anche al fatto che Stenone espose il suo pensiero in modo non sistematico, ma occasionale, cosicché possiamo ricostruirlo solo a partire dall'insieme dei suoi scritti.
Un'opera fondamentale per comprenderne la personalità giovanile e gli sviluppi della maturità è un manoscritto, redatto a 21 anni, che intitolò Chaos, con l'intestazione, significativa, «In nomine Jesu». È un documento di grande interesse, in cui egli riporta citazioni, commenti, idee di esperimenti, progetti di vita. Dimostra di avere letto un centinaio di opere scientifiche di 80 autori diversi, tra cui Keplero, Galileo, Cartesio, Gassendi. Manifesta la sua adesione al metodo cartesiano e alle teorie di  Copernico, più che a quelle del connazionale Ticho Brahe. Troviamo in questo scritto quella che sarà la convinzione pressoché costante di tutta la sua vita: «Dio vede e provvede. Ogni cosa proviene da Lui ed è per la gloria del Suo nome». E ancora: «Affidiamo tutto alla provvidenza di Dio, non preoccupiamoci del domani, non diffidiamo del Suo aiuto. Evitiamo la superstizione e guadagnamoci con il lavoro l'alimento per noi e per i poveri. Accogliamo i doni di Dio senza farne cattivo uso». Questa fede non è passività e abbandono, ma impegna il cristiano a indagare la natura per scoprirvi i segni della grandezza del Creatore, anzi è da riprovare chi non fa uso della ragione a questo scopo. Leggiamo ancora nella stessa opera: «Peccano contro la maestà di Dio coloro che non intendono studiare le opere della natura, ma si accontentano di leggere le opere altrui; in tale modo formano per sé nozioni immaginarie e, non solo si privano della gioia di guardare le meraviglie di Dio, ma pure perdono il loro tempo che dovrebbe essere speso per le necessità e a beneficio del prossimo, e affermano molte cose indegne di Dio... D'ora in poi spenderò il mio tempo non in speculazioni, ma esclusivamente nell'investigazione, in esperimenti ... ».
Queste convinzioni, formatesi nel pio ambiente famigliare, conosceranno una forte crisi durante il soggiorno olandese, che egli riuscirà a sormontare grazie ai risultati delle sue osservazioni anatomiche. Superato lo scoglio di un razionalismo pretenzioso, gli fu più chiaro il senso del ricercare. Così si esprimerà nel Prooemio (1673): «Questo è il vero scopo dell'anatomia, che attraverso l'ingegnosa struttura del corpo gli spettatori siano portati a cogliere la dignità dell'anima e di conseguenza attraverso le meraviglie del corpo e dell'anima, imparino a conoscere ed amare il Creatore […]. Pertanto la ragione è sollevata dalla contemplazione delle singole parti e dal confronto di queste tra loro, a cercare il Creatore di così grandi meraviglie» (OP, vol. II, p. 242).
Alcuni tratti della sua personalità sono propri della cultura danese in cui si era formato: profondo senso religioso, inquietudine spirituale, spirito di concretezza, senso di lealtà, valorizzazione della tecnica e della sperimentazione. Altri sono suoi specifici: trasparenza di carattere, tensione verso unità di pensiero e di vita, acutezza di giudizio, onestà intellettuale, spirito critico, indipendenza di giudizio, sensibilità d'animo, affabilità di tratto. Un elemento molto importante, che forse ereditò dall'ambiente di lavoro paterno, fu il senso della  bellezza: bellezza dei diamanti, delle perle, dei fiori, della mano, del corpo umano, la cui contemplazione lo riempiva di gioia e meraviglia. Scrive nel Prooemio del 1673: «Se un singolo tratto del viso umano è già così bello, e attira tanto l'osservatore, quale bellezza non vedremmo, quale gioia non proveremmo se potessimo osservare a fondo la meravigliosa costruzione del corpo e di lì arrivare all'anima... ». Non è un caso che proprio in quella occasione, nella dissezione del cadavere di una donna giustiziata, «orrenda maschera della morte», abbia pronunciato le famose parole «Pulchra sunt quae videntur, pulchriora quae sciuntur, longe pulcherrima quae ignorantur (Belle sono le cose che si vedono, più belle quelle che si conoscono, bellissime quelle che si ignorano)» (OP, vol. II, p. 254).
Una caratteristica costante della sua vita furono la ricerca della certezza e della verità, e la coerenza. Riconobbe che oltre la certezza matematica esiste la certezza morale, e che anch’essa ha il suo fondamento nella ragione. Oltre queste esiste una certezza divina, che è il punto di incontro della ricerca dell'uomo e del dono di Dio. Tra le due certezze c'è continuità. Scrive a Leibniz: «Mi sembra che Dio nella sua provvidenza mi abbia dato le conoscenze e le scoperte di naturalista come una specie di grazia naturale, affinchè io fossi preparato a ricevere la grazia sovrannaturale». Ma ammette: «Sed divina certitudo nemini nisi eum experienti demonstrari potest (ma la certezza divina non può essere dimostrata a nessuno se non a colui che ne fa esperienza)» (E, n. 73). Pervenuto a questa certezza, ne trae con logica coerenza le conseguenze: «mi sento spinto dal profondo del cuore ad offrire a Dio ciò che ho di meglio, e il meglio possibile». Decise di offrire i giorni restanti della sua vita. «Dio... ti ha fatto vedere nella natura ciò che era necessario per confutare errori di filosofi e medici... ti ha fatto tanti doni... non arrestarti a questi doni, ma volgiti verso il Donatore! ... Egli ha convertito la tua anima e ha messo in te l'ardente desiderio dell'eternità presso di Lui. Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? (cfr. Sal 116,12)» (De actionum perfectione in generali). Si orientò verso il sacerdozio «per poter presentare le azioni di grazie per i benefici ricevuti, l'espiazione per i peccati commessi e ogni offerta che possa piacere a Dio» (lettera a Kircher).
È doveroso qui accennare ai rapporti di Stenone con il mondo protestante. Oggetto di critiche ed attacchi anche pesanti, rispose sempre con decisione in numerosi scritti, non transigendo sui principi — era convinto della verità della dottrina cattolica —, ma sempre rispettando l'interlocutore. Intervenne sempre e talora duramente contro i giudizi ingenerosi e le intemperanze da parte cattolica. Vescovo ad Hannover, seppe conquistarsi la stima dell'ambiente protestante e attirarsi la simpatia, ricambiata, del vescovo luterano, di cui ammirava la pietà e la carità. C'erano speranze di un riavvicinamento delle Chiese, e molti operavano in tal senso. Il più illustre promotore era Leibniz, che più volte ne discusse con Stenone. Ma le posizioni e le mentalità dei due erano troppo distanti. Stenone concluse avvertendo Leibniz, propenso a soluzioni sincretistiche, che «chi asserisce di poter trovare la vera fede in quasi tutte le religioni, stia attento a non ritrovarsi escluso da tutte […]. Non è in alcun luogo, chi vuole essere dovunque» (Angeli, 1996, p. 244). E fu di fronte a cattolici e protestanti che la sera del 24 novembre 1686, prima di spirare, fece pubblicamente la sua ultima confessione.
La scienza e il sacerdozio furono per lui due modi di realizzare la stessa profonda aspirazione della sua vita, quale si era già delineata nel suo diario Chaos. Come si era dato all'una («Il dovere di fare delle ricerche che ci insegnano la verità richiede un uomo tutto dedito, che non abbia che quello da fare», Discorso sul cervello), così si dà tutto all'altra, dove aveva trovato verità e pienezza di vita.

V. Il pensiero filosofico

Stenone occupa un posto singolare nel contesto filosofico del suo tempo. Letture fin dal periodo della stesura di Chaos e contatti successivi, soprattutto nei soggiorni di Leida, Parigi e Firenze, lo avevano messo al corrente dei principali filoni di pensiero dell'epoca. Come appassionato cultore di geometria e matematica, avrebbe potuto essere attratto dalle idee neoplatoniche e pitagoriche che dominavano soprattutto in ambito italiano, come studioso di cristalli avrebbe potuto aderire all'atomismo che sembrava la dottrina più adatta per spiegare i fenomeni da lui osservati. Stenone invece volle mantenere separata la ricerca scientifica da passeggere idee filosofiche o sistemi preconcetti e pervenire piuttosto a leggi ed osservazioni comunque valide.
La riserva nei riguardi della filosofia trova una ragione nella sua esperienza personale. Stenone era stato così affascinato dalla filosofia razionalista di Spinoza, per cui conta solo il sapere che trova la certezza nella ragione, che sembra abbia pensato di aderirvi e di lasciare nel contempo la medicina per la geometria, in quanto strumento di solida conoscenza. Riuscì a superare il pericolo di «idolatrare il pensiero umano» grazie alle sue scoperte, fatte proprio in quel periodo: «In un modo meraviglioso, contro ogni attesa, Dio mi ha fatto comprendere e riconoscere la vera composizione del cuore e dei muscoli. Così le loro [dei cartesiani] ingegnose costruzioni sono state rovesciate senza una sola parola, semplicemente da preparazioni anatomiche» (E, n. 72). Riconobbe che la sua fede aveva corso un grosso rischio, ma ne era stato salvato «perchè Dio con le scoperte anatomiche mi fece rinunciare alla presunzione filosofica e mi ricondusse poco a poco a ricevere l'amore dell'umiltà cristiana, che è il più degno amore dell'anima ragionevole» (E, n. 143). Già vescovo, Steensen scriverà a Leibniz nel 1677: «Se questi signori, che quasi tutti gli studiosi adorano, hanno ritenuto come dimostrazioni infallibili ciò che io in un'ora di tempo posso far preparare da un giovinetto di dieci anni al punto che, senza alcuna parola, la sola vista fa crollare i più ingegnosi sistemi di questi grandi spiriti, quale sicurezza posso avere delle altre sottigliezze di cui si vantano? Voglio dire, se costoro nelle cose materiali esposte ai sensi si sono talmente ingannati, quale sicurezza mi daranno di non ingannarsi allo stesso modo, quando trattano di Dio e dell'anima?» (ibidem).
Era l'applicazione coerente del metodo cartesiano da lui seguito a fornirgli argomentazioni contro le pretese degli stessi cartesiani. Però precisa: «Io non critico il metodo di Cartesio, ma il cattivo uso che egli ne fa. Io debbo al metodo la luce sulle mie idee preconcette; il suo cattivo uso avrebbe potuto allontanarmi dallo studio della religione, ciò di cui si hanno molti esempi» (OT, vol. I, p. 390). Stenone aveva infatti constatato che «molti si lasciano trascinare verso ciò che è ancor peggio del cartesianesimo e, anche se non si allontanano dal cristianesimo, lasciano che svanisca […]. Questo si vede bene in Spinoza e seguaci, che dicono di aver spinto la filosofia cartesiana ancora più lontano, ma in realtà l'hanno rovesciata con il risultato di essere diventati perfetti materialisti […]. E poiché al modo di Cartesio non vogliono confessare la loro ignoranza sui rapporti tra anima e corpo, tra ciò che è pensiero e ciò che è estensione, sono caduti nel più grave degli errori pretendendo che pensiero ed estensione siano attributi della stessa sostanza […]. Non conoscendo che la materia, essi erigono a dio la somma di tutte le cose e permettono tutti i godimenti dei sensi. Non essendoci libero arbitrio, la preghiera è vana, perchè la morte non è seguita né da sanzione, né da ricompensa» (ibidem, p. 388).
La riserva nei riguardi della filosofia non significa però che egli escluda princìpi interpretativi a priori. Quando disseziona la testa dello squalo, enuncia un criterio importantissimo che gli consentirà di individuare la natura dei fossili: «Con riguardo alla forma dei corpi […], poichè questa corrisponde perfettamente a parti di animali, la somiglianza delle forme sembra suggerire una somiglianza di origine» (GP, p. 110). E a proposito degli esperimenti fatti in laboratorio: «io non dubito che la Natura operi in modo simile nel seno della Terra» (p. 112).
I criteri gnoseologici sembrano ispirarsi ad un realismo di tipo empirico. Dal Prooemio (1673): «C'è chi accusa i sensi di non mostrare le cose come stanno in sé e di darci una falsa o incerta impressione di ogni cosa […]. Ma i sensi non sono intesi a presentarci le cose come sono o a darci un giudizio su di esse; essi sono intesi a trasmettere per l'investigazione della ragione quanto del carattere esterno delle cose è adeguato per raggiungere una conoscenza delle cose che corrisponda alle necessità dell'uomo» (cfr. Moe, 1994, p. 136). È sempre viva in lui la preoccupazione di una conoscenza ben fondata. Sempre dal Prooemio: «allo scopo di evitare errori, io non mi atterrò alla sola esperienza, né presenterò esclusivamente argomenti di ragione, ma cercherò di raggiungere una combinazione di entrambi i punti di vista, cosicché se non tutto, almeno molto di quello che dirò, possa contenere una certezza dimostrabile» (cfr. Poulsen et al., 1986, p. 132).
Egli si avvicina dunque alla natura senza preconcetti di tipo magico-numerico, e mutua da Cartesio e  Gassendi il concetto di «particelle impercettibili» come costituenti dei corpi solidi e liquidi. Tuttavia si rifiuta di entrare nel merito della costituzione ultima della  materia e si limita ad enumerare una serie di opinioni circa la questione «se la materia consista di atomi, o di particelle che possono cambiare forma in mille modi, o di quattro elementi, o di tanti elementi chimici quanti sono necessari per spiegare la varietà di opinioni dei chimici» (GP, p. 146). L'importante è aver trovato una legge, o una relazione comunque valida: «Quello che io ho proposto circa il movimento [delle particelle nei fluidi] si accorda con ogni movente, sia che lo si chiami forma, o proprietà emanante dalla forma, o Idea, o materia sottile comune o materia sottile speciale, o anima particolare, o influenza immediata di Dio» (ibidem).

VI. Il rapporto scienza-fede

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, appare evidente che non ci fu conflitto in Stenone tra fede religiosa e sapere scientifico. Se tensione ci fu, fu tra visione religiosa e concezioni filosofiche. Come la grande maggioranza degli studiosi del Seicento, Stenone era cresciuto in un contesto culturale ove vigeva una triplice fede: in Dio, nella intelligibilità del reale e nelle capacità della ragione umana di raggiungere la  verità. I fermenti filosofici dovuti a Cartesio e soprattutto a Spinoza avevano iniziato a mettere in dubbio quelle convinzioni. Furono i risultati delle ricerche scientifiche a dimostrare a Stenone l'inanità di certe speculazioni filosofiche e a riportarlo alla fede in Dio. Si potrebbe pensare a lui come ad uno dei precursori della teologia naturale, che si affermerà nel Settecento. La  natura è opera di Dio, e lo scienziato non fa che scoprire le meraviglie di questa opera, meraviglie nascoste all'uomo comune. Nelle Observationes anatomicae (1662) mette in risalto «con quale cura il saggio Creatore degli esseri viventi abbia disposto affinchè nulla inquini la testa, trono regale del corpo. Le cavità delle orecchie, gli occhi e il naso debbono essere mantenuti umidi, e non c'è nulla di superfluo in naso, occhio o bocca, quando uno vive secondo l'ordine della natura».
Commentando le varie modalità di inserimento dei vasi linfatici nella vena cava, annota, riferendosi al determinismo di Spinoza, che sosteneva la necessità del tutto: «Da questa eccezionale varietà negli individui della stessa specie è facile dedurre che, tra gli attributi della Divinità che noi possiamo conoscere attraverso lo studio dei corpi, Dio creatore ha voluto proporci anche questi due: che Egli non è trascinato dal caso, perchè segue una regola generale, e che nello stesso tempo Egli non è costretto da alcuna necessità, perchè in ciascun individuo cambia liberamente le condizioni particolari» (OP, vol. I, p. 142).
I risultati delle ricerche geologiche sono inseriti nella concezione biblica del suo tempo (  GEOLOGIA, IV-V). È interessante però osservare — e questa è una novità — che il punto di partenza non è il racconto biblico, ma l'osservazione della natura. La conclusione è che non solo non c'è disaccordo con il racconto biblico, ma questo trova una conferma dall'indagine dei fenomeni geologici. Anzi: «De prima terrae facie in eo Scriptura et Natura consentiunt, quod aquis omnia tecta fuerint; quomoda vero, et quando coeperit, et quanto tempore talis exstiterit, Natura silet, Scriptura loquitur (Circa la prima forma della Terra la Scrittura e la Natura concordano che tutto fu sommerso dalle acque; in quale modo, quando iniziò e per quanto tempo rimase, la Natura tace, la Scrittura parla)» (GP, p. 204). Creazione e Diluvio sono eventi storici, ma solo del secondo è possibile rinvenire tracce sicure sulla superficie terrestre. Egli riconosce però che localmente possono essersi ripetuti fenomeni alluvionali, come in Toscana, dove individua ben sei periodi alternatisi di deposizione ed erosione. Ammette nel Prodromus che «le montagne oggi esistenti non furono così all'inizio»: la Terra ha subito un'evoluzione da quando si è formata, che continua tuttora.
Pur avendo il grande merito di avere introdotto i fondamentali concetti di  tempo e di  evoluzione in geologia, Stenone non ha elementi per mettere in dubbio la datazione, ritenuta al suo tempo in accordo con la narrazione biblica, secondo cui la Terra avrebbe avuto un'età di circa 6000 anni. Difatti scrive: «Quanto ai movimenti della terra, alle eruzioni di fuoco dalla terra ed alle alluvioni fluviali e marine, si può facilmente mostrare che numerosi e vari cambiamenti occorsero in 4000 anni» (GP, p. 211). Lo storico della geologia Adams sostiene che Stenone, in certe conclusioni, specie geologiche, fu influenzato dall'autorità ecclesiastica. L'affermazione non ha trovato finora riscontro, né rende onore all'onestà intellettuale sempre mostrata dallo scienziato danese, che ben conosceva il pensiero di Galileo e si era espresso fin da giovane a favore delle teorie copernicane. Sapeva cioè distinguere il contenuto delle verità di fede da quello delle verità scientifiche.
Come profonda era la sua passione per la scienza, altrettanto intensa era la sua fede. Sono frequenti nei suoi scritti anche scientifici le note vibranti della sua personale preghiera. Già le prime annotazioni giovanili, riportate nel manoscritto Chaos, rivelano uno spirito profondamente religioso: «Conducimi, o Signore, per la gloria del tuo nome. Dammi di poter fare qualcosa di buono con ordine e costanza». «Dio mio, concedimi la forza di astenermi da ogni peccato, soprattutto da ogni giudizio troppo affrettato e sconsiderato, e da affermazioni su cose a me sconosciute o non perfettamente note». «Oggi ho fatto ben poco di buono. Perdona, o Dio... Fa' che abbia sempre davanti agli occhi l'idea della morte, e sulle labbra le parole: memento mori». E ancora: «Sii presente, Gesù, con la tua grazia!».
La ricerca scientifica porta elementi di contemplazione al suo spirito riflessivo e la spiritualità si affina. Già prima del passaggio alla confessione cattolica, a 25 anni, redige la preghiera che porterà sempre con sè: «Tu, senza il cui cenno non cade capello dal capo, foglia dall'albero, uccello dall'aria, né viene un pensiero alla mente, una parola alla lingua, un movimento alla mano, Tu mi hai condotto finora su vie a me sconosciute. Guidami ora, veggente o cieco, sul sentiero della Grazia. A Te è certamente più facile accompagnarmi là, dove Tu vuoi che io vada, che a me tenermi lontano da ciò, cui il mio ardente desiderio mi sospinge» (OT, p. 387).
La meraviglia di fronte alle bellezze della natura che egli stesso ha contribuito a scoprire lascia il posto ad una meraviglia più profonda che si trasforma in gioia quando si sente oggetto dell'attenzione speciale di Dio: «La grazia divina mi riempie di una tale felicità che i miei amici possono vedere la mia gioia interiore da segni esterni. Ma questa certezza divina non vale che per chi la esperimenta» (E, n. 73). Johann von Rose testimoniò che «erano evidenti la sua gioia e la sua esaltazione, quando parlava della gloria di Dio e del bene delle anime, e lo faceva con tanta grazia che anche gli eretici restavano catturati dal suo fascino, e spesso si convertivano parlando con lui» (cit. in “Stenoniana” (1991), p. 103). Al tempo del suo apostolato missionario in Germania scrive: «Quanto meno l'umana speculazione si aspetta in materia divina, tanto più chiaro emerge alla luce del giorno il disegno della Provvidenza. […] In questioni apostoliche uno deve agire in modo apostolico, afferrando le occasioni come vengono e lasciando l'esito alla clemenza divina» (ibidem, p. 107).
Viene l'ora della sofferenza fisica. Sul letto di morte confessa: «Soffro dolori indicibili e spero, mio Dio, che essi Ti inducano a perdonarmi, se non penso costantemente a Te. Non Ti chiedo di liberarmi da questi dolori, bensì di concedermi la grazia di saperli sopportare con santa pazienza. Se dalla Tua mano abbiamo accettato il bene, perchè non dovremmo accettare anche il male? Sia che Tu ora voglia che io continui a vivere oppure che io muoia, io voglio solo ciò che Tu vuoi, mio Dio. Sii lodato in eterno, e sia fatta la Tua volontà!» (J. von Rose, La vie et la mort de Sténon, cit. in Moe, 1994, p. 166). Il giorno prima di morire si preoccupa dell'estinzione di un debito di 300 talleri e acutamente descrive i sintomi del suo male. Chiude l'esistenza terrena con l'invocazione giovanile: «Jesu, sihi mihi Jesus!Gesù, sii sempre per me Gesù».
 Francesco Abbona





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sabato, 03 novembre 2007

Grazie Don Benzi!

Un mendicante d'anime sui viali della riviera romagnola

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L'editoriale (03 novembre 2007)

di Marina Corradi
«Se chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero di cellulare di don Oreste». La scritta in caratteri grossi, neri, dietro la scrivania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’alba livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio – sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazione seppellisse il principio di una sparuta speranza.
Il vecchio prete morto nel suo letto, nel sonno, tra la notte dei Santi e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una statura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si aveva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chisciotte. Le ragazze dei viali guardavano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che prometteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bolge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rumene o nigeriane diciottenni. Credevi che quelle ragazze sarebbero scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vivere così, guarda che puoi ricominciare tutto da capo. E sotto il trucco pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, dopo tanto tempo, nel sentirsi guardare come qualcosa di prezioso.
Cinquecento donne hanno cambiato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’anime sui viali della riviera romagnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, allungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai.
Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora interiore. Baricentro costante e silenzioso. Era strano vedere un sacerdote in tonaca nera fra la folla vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli accanto – a 80 anni, alle due di notte don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a disagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio contemplazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incontro».
È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a riconoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa attendono e non trovano, nell’ebbrezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchiere. In mezzo agli uomini, tra di loro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – eppure sempre con quella mano aperta e tesa.
Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protettori. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole consunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.
***
 Il commento al brano biblico di Giobbe (19,1.23-27) scritto da don Benzi per venerdì 2 novembre, Commemorazione di tutti i fedeli defunti, e giorno in cui lui è tornato al Padre

Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia.
Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all'infinito di Dio.
Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la Sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l'uomo immortale, per l'immortalità, secondo la sua natura l'ha creato.
Dentro di noi, quindi, c'è già l'immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell'abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura.
(da Pane Quotidiano novembre-dicembre 2007)



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 GRAZIE DON BENZI !
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n. 260 del 2007-11-03
 È morto Don Benzi il prete di strada che aiutava i disperati
di Andrea Tornielli
Stroncato a 82 anni da un infarto, ha speso una vita dalla parte dei giovani, gli emarginati e le prostitute. La testimonianza di Alina, 23 anni: "Don Oreste mi ha strappato dalla schiavitù"
da Milano
Le ultime parole le aveva preparate per la liturgia di ieri, per commemorazione dei defunti: «La morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio». Don Oreste Benzi, il prete fondatore dell’Associazione Comunità Giovanni XXIII che ha speso la sua vita per aiutare poveri, abbandonati, bambini senza famiglia e disadattati, prostitute schiavizzate, non poteva immaginare, mentre vergava quelle parole, che il momento di chiudere per sempre gli occhi in questo mondo sarebbe arrivato così presto.
Il sacerdote si è spento l’altra notte presso la parrocchia della Resurrezione di Rimini dove abitava, stroncato da un infarto. Due sere prima era a parlare ai giovani all’entrata di una discoteca di Cattolica, mentre poche ore prima di morire aveva espresso il suo dolore per la morte di Giovanna Reggiani, la donna assalita e massacrata da un giovane romeno a Roma. Ma aveva anche ricordato le parole dei funzionari della polizia di Bucarest: «Noi collaboriamo con loro per far rimpatriare le ragazze che salviamo dalla strada. E ci dicono: “Siete voi italiani che foraggiate e mantenete i criminali romeni, sfruttando 30mila ragazze del nostro Paese che vengono portate sui vostri marciapiedi ancora bambine!”».
Mancherà soprattutto a loro, alle ragazze salvate dalla prostituzione, ai bambini senza famiglia che grazie a lui e alla sua associazione sono tornati a sorridere. Nato il 7 settembre 1925 a San Clemente, un piccolo paese dell’entroterra romagnolo, settimo di nove figli in una famiglia di operai, Oreste era entrato in seminario all’età di dodici anni grazie al lavoro straordinario che la madre si era sobbarcata per mantenerlo. Ordinato prete nel 1949, l’anno successivo è chiamato nel seminario di Rimini come insegnante e quindi diventa vice-assistente della Gioventù Cattolica. Inizia allora a maturare in lui la convinzione dell’importanza di aiutare gli adolescenti e di realizzare attività che favoriscano «un incontro simpatico con Cristo».
Don Benzi fa per molti anni il professore nelle scuole pubbliche di Rimini e nel ’68 fonda l’associazione Giovanni XXIII. Si batte per trovare una famiglia ai bambini gravemente handicappati che vengono abbandonati, poi si concentra sui tossicodipendenti, apre case di accoglienza nella sua parrocchia di Grottarossa, una frazione del comune di Rimini. È un prete tutto d’un pezzo, che non si toglie mai la tonaca e il colletto romano di plastica. In tonaca don Oreste va per le strade di notte, accompagnato dai suoi volontari, per cercare di convincere le prostitute a cambiare vita, offrendo loro un rifugio e una possibilità concreta di riscatto. Quella tonaca diventa sempre più lisa e rattoppata. Con addosso quell’abito nel 2003 Benzi ha accompagnato al cospetto di un commosso Papa Wojtyla un’ex prostituta nigeriana ammalata di Aids.
Un’altra delle sue battaglie e quella contro l’aborto. Anche la sera prima di morire aveva organizzato veglie di preghiera davanti ai cimiteri per i «bambini mai nati», richiamando l’attenzione su questo fenomeno e sulla necessità di permettere la presenza di operatori volontari nei consultori per cercare di convincere le donne a non abortire. Don Oreste Benzi, il vecchio sacerdote romagnolo con la tonaca lisa, lascia duecento case famiglia in Italia, sei case preghiera, sette case di fraternità, quindici cooperative sociali per inserire persone svantaggiate, sei centri diurni per valorizzare persone con handicap gravi, trentadue comunità terapeutiche. La sua associazione, riconosciuta dalla Santa Sede, è presente in Albania, Australia, Bangladesh, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Croazia, India, Kenya, Romania, Russia, Tanzania, Venezuela e Zambia. 

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santi, testimonianza, don benzi

giovedì, 25 ottobre 2007

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 a P.
Grazie Claudio!
 
Claudio Chieffo
 


 

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testimonianza, chieffo

domenica, 21 ottobre 2007

Protagonisti
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Se abbiamo coscienza dell'avvenimento che ci è accaduto e che c'è tra noi siamo protagonisti, indipendentemente dalla capacità con cui sappiamo parlare e agire; altrimenti non siamo nessuno, cioè siamo obbligati a mutuare dagli altri il motivo per cui facciamo le cose, i criteri e il modo di comportarci con gli altri, con la donna, nella società, coi compagni e i professori, con il "dopo università", con se stessi.
O protagonisti o nessuno: e
protagonisti non vuole dire avere la genialità o la spiritualità di alcuni, ma avere il proprio volto che è, in tutta la storia e l'eternità, unico e irripetibile.
Don Giussani


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testimonianza, giussani, avvenimento

sabato, 20 ottobre 2007

La giovinezza
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- La giovinezza non è un periodo della vita, e uno stato d’animo, che consiste una certa forma della volontà. In una disposizione dell’immaginazione, in una forza emotiva nel prevalere dell’audacia sulla timidezza, della sete dell’avventura, sull’amore per le comodità. Non si invecchia per il semplice fatto di aver vissuto un certo numero di anni, ma solo quando si abbandonano i propri ideali. Se gli anni tracciano i loro solchi sul corpo, le rinunce all’entusiasmo li traccia sull’anima. Essere giovane significa conservare a sessanta, a settant’anni, l’amore del meraviglioso, lo stupore per le cose sfavillanti e i pensieri luminosi, le sfide intrepide lanciate agli avvenimenti, il desiderio insaziabile del fanciullo per tutto ciò che è nuovo, il senso del lato piacevole e lieto dell’esistenza. Resterete giovani finché il vostro cuore saprà riceve i messaggi di bellezza, di audacia, di coraggio, di grandezza, di forza che vi giungono dalla terra da un uomo o dall’infinito. Quando tutte le fibre del vostro cuore saranno spezzate e su di esso si saranno accumulate le nevi del pessimismo e il ghiaccio del cinismo e' solo allora che diverrete vecchi e possa Iddio aver pietà della vostra anima.
Vero benefattore dell'umanità Oltre a creare il vaccino contro la poliomielite, rinunciò a brevettarlo, consentendone la diffusione anche fra i poveri: senza speculazioni economiche. Oggi, grazie a Sabin, la polio può considerarsi debellata. Lui restò giovane.


Albert Sabin, un papà dallo sguardo rassicurante
(1906 - 1993)




a P.

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vita, bellezza, testimonianza

venerdì, 19 ottobre 2007


Testimoni di Cristo

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 da:http://www.giovaniemissione.it/pacennmani/suorRachele.htm
Roma, 10 settembre 2003

Testimonianza di sr. Rachele Missionaria Comboniana 

in Uganda

  

Sono qui a raccontare la tragedia immensa della mia gente, della nostra gente. Ieri sera mi sono messa a scrivere ma mi son detta: “Come faccio a spiegare questa lunga storia in poco tempo?”. Non mi sentivo in grado. Questa mattina, appena alzata, ho guardato il crocefisso e mi ha dato pace e ho pensato: “Devo portarLo con me perché è Lui la Pace.”. Quello che il Signore mi dona questa sera di poter condividere con voi  è dono Suo. Vorrei che gli occhi nostri e vostri fossero su di Lui non su di me… perché è troppo quello che mi presto a condividere, quello che ho dentro e quello che condivido profondamente dentro di me ho paura di rovinarlo, e ho paura anche dell’orgoglio, della soddisfazione personale… siamo persone umane.

Gli occhi siano su di Lui perché quello che mi ha donato di vivere in Uganda è dono Suo.

Prima di tutto vorrei chiedere perdono a Te e a voi perché io sono arrivata in Uganda nel 1982  e la tragedia immensa per la nostra gente del nord Uganda, per i bambini, per le famiglie,  è iniziata nel 1988… io nell’88 non mi sono mossa, non ho fatto niente per la mia gente. Ho visto soffrire. I bambini venivano portati via dai ribelli (L.R.A. -Lord Resistance Army-, ndr.).

E’ stato poi nell’89 che il Signore è entrato nella mia vita in una maniera incredibile, violenta: quando i ribelli, un centinaio di questi ribelli, sono entrati nella nostra scuola e hanno portato via 10 delle nostre ragazze, 32 seminaristi del seminario vicino e una sessantina di persone del villaggio. Il Signore mi ha aiutato, con due insegnanti, a seguirli per liberare le ragazze. Io devo ringraziarti o Signore perché ho camminato con Te, in sentieri molto aspri; perché sono comboniana e tante volte ho sentito e detto fare causa comune mentre camminavo in cerca delle mie bambine. Ad un certo punto, mentre con i maestri inseguivamo i ribelli abbiamo visto cinque persone uccise ai lati della strada e centinaia di case bruciate una desolazione che non vi so raccontare. Mentre ero lì, dentro di me dentro sono sgorgate queste parole: “Sono qui per fare causa comune con voi!”. Sono diventata comboniana là, il 22 Marzo 1989, ma non sono riuscita a liberare le mie ragazze, loro sono riusciti a scapparci. Allora sono tornata a casa e abbiamo cominciato a bussare alle porte del presidente, dei militari, dell’arcivescovo, del cardinale, delle ambasciate che si occupano di tutta la “sicurezza” della nostra zona. Allora ci hanno dato i militari per proteggere la scuola. Con i militari noi ci siamo sentite tranquille, ma a Gulu, Kitgum e in altre zone continuavano a portare via  bambini, a bruciare case, a tagliare le labbra, a tagliare le orecchie, a fare cose incredibili… Ma noi ci sentivamo abbastanza tranquilli, perché avevamo i militari fra di noi, e questo dall’89 fino al 1996.

L’8 Ottobre del 1996, ci hanno trasferiti per alcuni giorni, c’erano notizie terribili: i ribelli erano a Lira, molto vicini.  Abbiamo cercato aiuto, ma il mattino del 10 Ottobre1996, un centinaio di questi ribelli, di notte alle 2,15 a.m. sono entrati nella scuola e ci hanno portato via 152 bambine, centocinquantadue! Son venuti di notte, hanno sfondato il muro dei dormitori, distrutto una finestra e portato via le ragazze. Li ho seguiti e con un insegnante li abbiamo incontrati con le nostre ragazze ed altri bambini e persone che avevano rapito. Abbiamo camminato con loro per quaranta chilometri, giungendo così alla loro base. Io camminavo con il rosario in mano e anche loro avevano il rosario! Ad un certo punto mi rivolgo al capo implorandolo: “Dammi le bambine”;  mi rispose: “Sì, non temere che te le do.” Arrivati alla loro base mi disse che me ne dava 109 e ne teneva 30. Non posso descrivere quello che ho provato là….ma là, in quel momento io sono diventata madre, Pia Madre della Nigrizia perché quando lui disse, e lo scrisse per terra, “ne lascio 109 e ne tengo 30”, sotto gli occhi di tutte le bambine mi sono inginocchiata davanti a lui e ho detto: “Dammele tutte e tieni me!”. E in quel momento per me sono diventate vere le parole del Vangelo quando il Signore dice che non c’è nulla di più grande che dare la vita. In quel momento ho capito queste parole. Lui non ha accettato che rimanessi lì, e sono dovuta venire via con le 109 promesse ma prima di andarmene lui mi disse di prendere anche un’altra bambina che non apparteneva al gruppo della mia scuola. Ma io avevo chiesto solo la liberazione delle bambine della nostra scuola e non  altri bambini fuori dal nostro gruppo… 

Mentre mi sto ascoltando mi scuso perché non so se con le parole posso descrivere quanto ho sentito, vissuto, visto…

La bambina di dieci anni non l’ho chiesta… ma è stata portata via anche lei… e lui questo capo dei ribelli, che era uno dei più crudeli, mi disse: “portati via anche lei.”

Lì per lì non capii. Più tardi, nel 1998, mi hanno chiesto di fare una testimonianza a Milano e lì ho capito: in ogni cuore anche in quello del più crudele c’è qualcosa che tu Signore hai messo dentro, in ogni cuore…

Ho dovuto lasciare là 30 ragazze e non vi posso descrivere nulla di quel momento…no… è stato il dolore più grande della mia vita. Ho perso mio fratello gemello nel 85 e pensavo di morire; è morto mio papà: un dolore grande… ma lasciare là quelle trenta ragazze nelle mani dei ribelli è stato il dolore più grande! Sono tornata con le 109. Dovrei stare qui tutta la notte per descrivervi tutto, ma non sarebbe sufficiente. Mentre con i miei piedi camminavo, Suor Alba, la preside della scuola, ed alcuni direttori hanno formato il gruppo genitori per lavorare per la liberazione dei bambini. Abbiamo incominciato a bussare a tutte le porte: quindici volte o sedici sono andata dal presidente Museweni , tre o quattro nelle varie ambasciate, abbiamo incontrato Kofi Annan, Mandela, Gheddafi in Libia, siamo andate a Brusselles, per incontrare l’incaricata dei diritti umani Mary Robinson, Angelina, la mamma di una delle nostre bambine che sono ancora là, è andata a Washington e a New York e quando Clinton è venuto in Uganda abbiamo incontrato la signora Clinton, quando Powell è venuto in Uganda abbiamo incontrato la signora Powell… ho scritto qui tutte le persone che abbiamo incontrato e a tutte abbiamo chiesto una cosa sola: “Aiutateci a liberare tutti i nostri bambini”. Una mamma disse: ”Ma tu, tu lavori per le tue ragazze”. No! Alle mamme abbiamo detto che noi lavoriamo per tutti i bambini dell’Uganda, circa 20.000, che in tutti questi anni sono stati portati via. Sono diventati tutti nostri figli.

Mi chiederete, come ti hanno ascoltato tutti quei grandi da cui sei andata? Quando andavo da questi grandi mi veniva in mente subito Comboni. Quante volte questa vita che ho vissuto mi ha fatto diventare vera comboniana, ha fatto diventare vivo il mio fondatore. Quando io andavo, mi sentivo così piccola, eppure entravo così come sono, perché non ho altro. Vedete, non so parlare, non ho quel dono, ne ho tanti ma questo no e dicevo: “Vi chiedo una cosa sola: la liberazione dei bambini”. E tutti mi accoglievano bene, veramente e tutti mi hanno promesso. Quando sono andata in Libia, Gheddafi mi ha promesso che lui avrebbe dato tutti gli aerei per trasportare i nostri migliaia di bambini ma… Kofi Annan ha detto che avrebbe parlato al Security Council. Nel 2000, se non erro, l’Italia doveva diventare membro del Security Council, ma è subentrata la Norvegia allora è venuta una rappresentante della Norvegia in Uganda, ha voluto incontrare la presidente del Comitato dei Genitori, Angelina, e me, e siamo andate da questa signora. Ci accolse e ci chiese: “Cosa posso fare per voi?”, noi con Angelina ci siamo guardate e le abbiamo detto: “Ora lei è membro del Security Council. Le chiediamo semplicemente che se ha l’occasione di avere i contatti con i ribelli, di dir loro che si ricordino delle loro madri e se incontra il presidente, le domandi cosa farebbe se tra i tanti bambini rapiti ci fosse pure suo figlio. Noi gli chiediamo di fare quello che lui farebbe se suo figlio o sua figlia fossero come i nostri bambini”.

E continuammo a bussare a molte porte. Le mie ragazze erano a scuola! In prima, seconda e terza “liceo” dai tredici ai sedici anni, 152 bambine che studiavano, e alle quali insegnavo  Biologia. Sapete, me le vedo ancora davanti… Charlot mi guardava con occhi grandi. Così la trovai nel  bosco. Ha già partorito due figli da quei ribelli. Me le vedo qui. Una di loro era chiara di pelle e Koni il capo dei ribelli se l’è presa subito perché l’ha scambiata per la figlia di Museweni, (è chiaro di pelle).

Queste bambine erano a scuola, cosa ne hanno fatto dei nostri bambini? Di questi bambini che portano via cosa ne fanno questi ribelli? Gli insegnano a uccidere, a massacrare la gente, a bruciare, a rubare. Le ragazze vengono violentate; alcuni se ne prendono due, altri dieci, quindici. Omona ha preso tutte le nostre ragazze tra cui Luisa ed Angela. Luisa era in prima, tredici anni, Angela era in terza, quindici anni. Omona è morto nel '98 di AIDS.

Vi rendete conto di questa tragedia dell’Uganda?

Sono andata anche da Mandela. C’è stata una conferenza stampa ma i referenti non arrivarono e allora mi hanno chiesto una testimonianza (mai come in quella circostanza mi sono sentita strumentalizzata) ed io per le mie bambine vado ovunque a piedi. Durante la testimonianza arriva uno e mi domanda: “Ma tu, tu stai parlando dei bambini soldato, delle tue bambine, dell’Uganda, ma tu hai mai parlato dei bambini della Sierra Leone?!”. Ho detto: “Ti prego scusami, io non ho fatto niente per i bambini della Sierra Leone, e tu hai fatto qualcosa per loro?”. Tante porte, tante occasioni, tante parole, tante promesse e grandi speranze. Pensate che nel 98 sembrava dovessero venire qui a Roma; mi sembrava un sogno: finalmente liberate. Avevano già preparato le culle perché qualcuna sarebbe venuta con i bambini. Ma invece non arrivarono mai. Sono venuti là in tantissimi a fare dei documentari, articoli per i giornali… le mie bambine, le ragazze, le mie figlie sono ancora nelle mani di quei ribelli. Una di loro è stata massacrata. Molto probabilmente perché aveva voluti difendere i più piccoli: era Judie. Quando ho dovuto lasciarle là le ho detto: “Judie, ti lascio il rosario” e mi rispose: “Suora non si preoccupi, le proteggo io le più piccole”. Nel 97 Judie con una bambina di Gulu, Katerin, sono state picchiate dalle altre bambine. Quando i ribelli picchiano e puniscono lo fanno fare ai bambini. Capite? Voi capite che questi ragazzi, che sono stati portati via, che sono nelle mani di questi ribelli, li trasformano in macchine per uccidere. Judie… Della sua morte siamo state informate da Agnes, una bambina che è scappata dai campi dei ribelli del Sudan nel Luglio del 99, ed è arrivata in Uganda nel 2000. Era incinta di sette mesi, due ragazzi sono riusciti a scappare con lei, il bambino le è morto dentro e questi due ragazzi la hanno aiutata a tirarlo fuori… ma vi rendete conto? Agnes ora ha ripreso la scuola e vuole diventare medico. Con lei vi sono altre ragazze che sono riuscite a fuggire e che stanno recuperando, e le altre?

E pensate a Davide, un ragazzo che ho incontrato in uno di questi due centri di Gulu per la riabilitazione dei bambini. Venne portato via da una scuola di Gulu all’età di sedici anni, rimase due anni con questi ribelli e a diciotto riuscì a scappare. Un giornalista gli chiese che cosa faceva con i ribelli e Davide rispose: “Io mi curavo di quelli che scappavano. Quando tornavano li punivamo. Penso di aver ucciso 120 persone.” Ci pensate? Cosa avrà dentro quel ragazzo? Come fare per recuperarlo? E’ una tragedia immensa che incredibilmente ha cambiato anche me. E’ stato il Signore ha cambiarmi.  Pensate, io per natura sarei abbastanza violenta dentro, eppure in quella tragedia non ho mai avuto per nessuno, perché qui, la responsabilità di questa tragedia, ce l’abbiamo tutti. Ce l’ha il governo ugandese, ce l’ha la nostra gente, ce l’ha la comunità internazionale, ma soprattutto ce l’ho io.

Quello che il Signore mi ha donato di fare è stato questo: di avere nel cuore il desiderio di voler contattare tutti e così abbiamo contattato anche i ribelli. Abbiamo avuto il dono di andare nei campi dei ribelli in Sud Sudan per trattare le bambine. Erano là e una bambina di dodici anni mi prese in disparte e mi disse: “Le tue figlie sono qui”. Appena abbiamo lasciato il campo, l’hanno uccisa.

Ci sono momenti in cui mi chiedo se Kofi Annan si ricorda il peso delle parole che mi ha detto allo Sheraton Hotel di Kampala. E Gheddafi se le ricorda? Museweni se le ricorda?

A tutti loro ho scritto una lettera nella quale dicevo:

”Il Signore ti faccia strumento di Pace”.


Per concludere questo momento, ho portato con me un pezzettino del cranio di p. Raffaele di  Bari che è stato bruciato vivo. Lo porto sempre con me, perché mi fa memoria, mi ricorda la mia e la nostra vocazione. Il dono più grande che il Signore ci può fare veramente è dare la vita ed è un frutto di questa tragedia immensa che non riesco neanche a trasmettervi, scusate se balbetto un po’. Vi chiedo di ringraziare il Signore con me e che il Signore ci metta nel cuore il desiderio di dare la vita per i fratelli che è il dono più grande.

Grazie Padre nostro, il dono è la vita che hai dato; tu non hai mai accusato nessuno. Avevi le braccia aperte per tutti, militari, ribelli… per tutti! E non c’è dono più grande di dare la nostra vita.

Signore grazie e grazie a voi.





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santi, testimonianza

mercoledì, 04 luglio 2007

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4 luglio 2007

Il poeta libanese Gibran diceva che “Il desiderio è metà della vita; l’indifferenza è metà della morte”. Indifferenza. È ciò che abbiamo registrato in questi giorni. Indifferenza per la sorte di padre Giancarlo Bossi, il missionario italiano rapito lo scorso 10 giugno nelle Filippine. Indifferenza verso la manifestazione promossa da Magdi Allam contro l’esodo e la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e a favore della libertà religiosa nel mondo.
Ho aderito a questa iniziativa e sono convinto che il 4 luglio rappresenterà un momento importante per il nostro Paese. Ho aderito da cristiano laico impegnato in politica perché credo che il tema della libertà religiosa nel mondo non possa rimanere argomento per dotte dissertazioni tra professori e esponenti ecclesiali. Ho aderito perché credo che il diritto di professare il proprio credo liberamente, senza costrizioni, sia una conquista di civiltà.
Purtroppo in numerose parti del mondo non è così e il rapimento di padre Bossi ne è una testimonianza concreta. Spiace che, di fronte a fatti di questo tipo, la reazione di buona parte del mondo della politica sia un imbarazzato silenzio. Tacciono i difensori dei diritti. E tacciono, ahimè, coloro che in questi mesi sono sempre scesi in piazza per chiedere la liberazione dei nostri ostaggi. Da Gabriele Torsello a Giuliana Sgrena, dalle due Simone a Daniele Mastrogiacomo, fino al mediatore di Emergency (che ostaggio non era) Hanefi. Sembra quasi che esistano ostaggi di serie A e ostaggi di serie B.
Forse, semplicemente, padre Bossi è un ostaggio scomodo. Come sono scomodi i milioni di cristiani che, negli stati arabi, musulmani e altrove nel mondo, sono costretti a fuggire abbandonando le loro case e le terre in cui sono nati. Sia chiaro, la manifestazione del 4 luglio, non è un modo per chiedere un ghetto protetto all’interno dei quali i cristiani possano vivere senza essere perseguitati. I cristiani non sono e non devono essere considerati come una minoranza etnica.
Scendere in piazza per salvare i cristiani significa scendere in piazza per la vita, la pace, la dignità della persona. E questo vale per tutti al di là degli steccati ideologici, delle appartenenze di partito, delle diversità religiose. Credo che mercoledì sera piazza Santi Apostoli sarà un esempio concreto di cosa significa essere laici. Spero solo che il muro di indifferenza che finora ci ha circondato cada presto.

On. Maurizio Lupi


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testimonianza, croce, cristianesimo

martedì, 10 aprile 2007

Il Bisogno di una vera compagnia
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“Si può passare la giovinezza, nomadi, nelle camere d'albergo, in attesa dell' ignoto, alla ricerca dell'impossibile, in agguato della bella sconosciuta: ci si può inebriare a tutti i profumi stordire a tutte le musiche... Ma giungendo al passaggio a livello della maturità si sente il bisogno di piantare dei chiodi nelle pareti di una piccola casa nostra, si pensa con desiderio a un sano profumo di caffé tostato e alla musica di una macchina da cucire. Si può aver ripetuto, con Strindberg, che la famiglia è un insieme di persone che si detestano, ma quando si imbiancano le tempie, si rivolge il pensiero alla memoria dei padri e si desidera un bimbo.”
Pitigrilli da:La piscina di Siloe   ed. Bompiani

“Dino Segre, in arte Pitigrilli, nacque a Torino nel 1893 da madre cattolica e da padre ebreo. Divenne subito famoso, nel primo dopoguerra, con una serie di romanzi "appartenenti " (come fu osservato) " non tanto al dominio della letteratura erotica, quanto a quello della propaganda libertina ed atea". Ebbero grandissima diffusione anche all'estero, specialmente nella Russia sovietica, dove furono introdotti e diffusi dallo stesso governo bolscevico…. per due interi decenni (i Venti e i Trenta) sono stati i libri italiani più venduti e più tradotti. Comunque, la vita dello scrittore (e, soprattutto, dell'uomo) era stata come spezzata in due tronconi proprio dalla pubblicazione, nel 1948, del libro che qui è ripubblicato. È la testimonianza di una conversione al cristianesimo, anzi al cattolicesimo, che sorprese i benevoli, scandalizzò gli agnostici ed eccitò il sarcasmo degli avversari. Anche costoro, peraltro, dovettero ammettere che i quasi trent'anni che trascorsero tra la morte e quell'ingresso in una Chiesa sino ad allora non solo mai frequentata, ma volterrianamente sospettata e irrisa, confermarono che si trattava di "cosa seria». Dopo questa Piscina di Siloe, Pitigrilli fu nella vita un cattolico lontano sì da ogni clericalismo e unzione, ma esemplarmente praticante. E la sua fluviale produzione letteraria rifuggì, ovviamente, da ogni devozionalismo, ma fu improntata a una sicura prospettiva cristiana della vita. Tanto che, per una sorte di eterogenesi dei fini, lo scrittore un tempo scandaloso e libertino fu apprezzato titolare di rubriche su periodici come il Messaggero di Sant'Antonio... Del Pitigrilli "cattolico" si potrebbero fare antologie, che confermerebbero come la svolta del secondo dopoguerra sia stata profonda e definitiva……”
dalla prefazione di V.Messori

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testimonianza, pitigrilli

venerdì, 22 dicembre 2006

LETTERA AI CRISTIANI D'OCCIDENTE
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Pubblichiamo qui la famosa "Lettera ai cristiani d'Occidente" scritta nel 1970 da Zverina, in una versione "migliorata" rispetto a quella normalmente diffusa.
Fratelli, voi avete la presunzione di portare utilità al Regno di Dio assumendo quanto più possibile il saeculum, la sua vita, le sue parole, i suoi slogan, il suo modo di pensare. Ma riflettete, vi prego, cosa significa accettare il saeculum. Forse significa che vi siete lentamente perduti in essa? Purtroppo sembra che facciate proprio così. E' ormai difficile ritrovarvi in questo strano mondo e distinguervi da esso. Probabilmente vi riconosciamo ancora perchè è un processo lento, perchè vi assimilate al mondo, adagio o in fretta, ma sempre in ritardo. Vi ringraziamo di molto, anzi quasi di tutto, ma in qualcosa dobbiamo dissentire. Abbiamo molti motivi per ammirarvi, per questo possiamo e dobbiamo indirizzarvi questo ammonimento. "E non vogliate conformarvi a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, affinché possiate distinguere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli è gradito, ciò che è perfetto" (Rm 12,2). Non conformatevi! Me suskhematizesthe! Come è ben mostrata in questa parola la radice verbale: schema. Per dirla in breve, è vacuo ogni schema, ogni modello esteriore. Dobbiamo volere di più, l'apostolo ci impone: Tras-formare il proprio modo di pensare - metamorfousthe te anakainosei tou nous. Com'è espressiva e plastica la lingua greca di Paolo! A differenza dello skhema della morphe - forma permanente - c'è la metamorphe, il cambiamento della creatura. Non si cambia secondo un qualsiasi modello che è comunque sempre fuori moda, ma è qualcosa di completamente nuovo, ricco di tutta la sua novità (anakainosis). Non cambia il lessico, ma il significato (nous). Quindi non contestazione, desacralizzazione, secolarizzazione, perchè questo è sempre poco di fronte alla anakainosis cristiana. Riflettete su queste parole e vi abbandonerà la vostra ingenua ammirazione per la rivoluzione, il maoismo, la violenza (di cui comunque non siete capaci). Il vostro entusiasmo critico e profetico ha già dato buoni frutti e noi, in questo, non vi possiamo indiscriminatamente condannare. Solo ci accorgiamo, e ve lo diciamo sinceramente, che teniamo in maggior stima il calmo e discriminante interrogativo di Paolo: "Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede, fate la prova di voi medesimi. O non conoscete forse neppure che è in voi Gesù Cristo?" (2 Cor 13,5). Non possiamo imitare il mondo proprio perchè dobbiamo giudicarlo, non con orgoglio e superiorità, ma con amore, così come il Padre ha amato il mondo (Gv 3,16) e per questo sui di esso ha pronunciato il suo giudizio. Non phronein (pensare) e, di conseguenza hyperphronein (arzigogolare), ma sophronein, pensare con saggezza (cfr. Rm 12,3). Essere saggi al punto di discernere quali sono i segni della volontà di Dio e dei tempi. Non ciò che è parola d'ordine del momento, ma ciò che è buono, onesto, perfetto. Scriviamo come gente non saggia a voi saggi, come deboli a voi forti, come miseri a voi ancor più miseri! E questo perchè certamente fra di voi vi sono uomini e donne eccellenti. Ma proprio perchè vi è qualcuno occorre scrivere stoltamente, come ha insegnato l'apostolo Paolo quando ha ripreso le parole di Cristo, che il Padre ha nascosto la saggezza coloro che molto sanno di questo (Lc 10,21).
Fonte: J. Zverina, L'esperienza della Chiesa - Scritti per una "Chiesa della compassione", Jaca Book 1971. Cfr. J. Zverina, Pet cest k radosti, Zvon 1999.

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testimonianza, zverina

domenica, 10 dicembre 2006


Gesù Cristo
è la reale
salvezza dell’uomo
Così Madre Teresa descrive l'inizio della sua opera di carità:
«"Un giorno, mentre ero nei quartieri poveri di Calcutta e stavo per ritornare nella mia stanza, ho visto una donna che giaceva sul marciapiede. Era debole, sottile e magrissima si vedeva che era molto malata e l'odore del suo corpo era così forte che stavo per vomitare  anche se le stavo solo passando vicino".
Madre Teresa si alza dalla sedia, va alla finestra, guarda fuori e continua:
"Sono andata avanti e ho visto dei grossi topi che mordevano il suo corpo senza speranza e  mi sono detto: questa è la cosa peggiore che hai visto in tutta la tua vita".
Madre Teresa si volta, mi guarda negli occhi e mi dice con fermezza:
"Tutto quello che volevo in quel momento, era di andarmene via il più presto e dimenticare quello che avevo visto e non ricordarlo mai più. E ho cominciato a correre, come se correre  potesse aiutare quel desiderio di fuggire che mi riempiva con tanta forza".
Madre Teresa lascia uscire un sospiro, e ci sono delle lacrime nei suoi occhi:
"Ma prima che avessi raggiunto l'angolo successivo della strada, una luce interiore mi ha fermata. E sono rimasta lì, sul marciapiede del quartiere povero di Calcutta, che ora conosco  così bene, e ho visto che quella non era l'unica donna che vi giaceva, e che veniva mangiata dai topi. Ho visto anche che era Cristo stesso a soffrire su quel marciapiede".
La mano di Madre Teresa è occupata con il rosario. Guarda la croce e il Crocifisso, e dice dolcemente:
"Mi sono voltata e sono tornata indietro da quella donna, ho cacciato via i topi, l'ho sollevata e portata al più vicino ospedale. Ma non volevano prenderla -ci hanno detto di andarcene via. Abbiamo cercato con un altro ospedale, con lo stesso risultato, e con un altro ancora finché non abbiamo trovato una camera privata per lei, e io stessa  l'ho curata. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Da quel giorno il mio progetto è stato chiaro: avrei dovuto vivere con il più povero dei poveri su questa terra, dovunque l'avessi trovato"».
(Madre Teresa, Preghiera, Piemme)
        
Solo Gesù di Nazareth
.
.
 salva realmente l’uomo..

«Caro don Giussani,
le scrivo chiamandola caro anche se non la conosco, non l'ho mai vista, nè mai sentita parlare. Anzi, a dire il vero posso dire che la conosco in quanto, se ho capito qualcosa del Senso religioso e di quello che mi dice Ziba, la conosco per fede e, aggiungo io, ora grazie alla fede. Le scrivo solamente per dirle grazie: grazie del fatto di aver dato un senso a questa mia arida vita.
Sono un compagno delle superiori di Ziba con il quale ho sempre tenuto un rapporto di amicizia in quanto, pur non condividendo la sua posizione, mi ha sempre colpito la sua umanità e la sua disponibilità disinteressata. Di questa travagliata vita penso di essere arrivato al  capolinea portato da quel treno che si chiama Aids e che non lascia tregua a nessuno. Adesso dire questa cosa non mi fa più paura. Ziba mi diceva sempre che l'importante nella vita è avere un interesse vero e seguirlo. Questo interesse io l'ho inseguito tante volte, ma non era mai quello vero. Ora quello vero l'ho visto, lo vedo, l'ho incontrato e incomincio a conoscerlo e a chiamarlo per nome: si chiama Cristo. Non so neanche cosa vuoI dire e come posso dire queste cose, ma quando vedo il volto del mio amico o leggo il Senso religioso che mi sta accompagnando e penso a lei o alle cose che di lei mi racconta Ziba, tutto mi sembra più chiaro, tutto, anche il mio male e il mio dolore.
La mia vita ormai appiattita e resa sterile, resa come una pietra liscia dove tutto scorre via come l'acqua, ha un sussulto di senso e significato che spazza via i pensieri cattivi e i dolori, anzi li abbraccia e rende veri rendendo il mio corpo larvoso e putrido segno della Sua presenza. Grazie don Giussani, grazie poiché mi ha comunicato questa fede o, come lei lo chiama, questo avvenimento. Adesso mi sento in pace, libero e in pace.
Quando Ziba recitava l'Angelus davanti a me che gli bestemmiavo in faccia, lo odiavo e gli dicevo che era un codardo, perché l'unica cosa che sapeva fare era dire quelle stupide preghiere davanti a me. Ora, quando balbettando tento di dirlo con lui, capisco che il codardo ero io, perché non vedevo neppure a un palmo dal naso la verità che mi stava di fronte.
Grazie don Giussani, è l'unica cosa che un uomo come me può dirle. Grazie, perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello ho una grande paura di morire , ma perché ora so che c'è qualcuno che mi vuole bene e anch'io forse mi posso salvare e posso anch 'io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato. Così mi sento utile; [...] io che ho buttato via la vita posso fare del bene solamente dicendo l'Angelus. E impressionante, ma anche se fosse un 'illusione, questa cosa è troppo umana e ragionevole, come lei dice nel Senso religioso, per non essere vera. Ziba mi ha attaccato sul letto la frase di san Tommaso: "La vita dell'uomo consiste nell' affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione". Penso che : la mia più grande soddisfazione sia quella di averla conosciuta scrivendole questa lettera, ma la più grande ancora è che nella misericordia di Dio, se Lui vorrà, la conoscerò là dove tutto  sarà nuovo, buono e vero. Nuovo, buono e vero come l'amicizia che lei ha portato nella vita di molte persone e della quale posso dire "anch'io c'ero", anch'io in questa sozza vita ho visto e partecipato di questo avvenimento nuovo, buono e vero.  Preghi per me; io continuerò a sentirmi utile per il tempo che mi rimane pregando per lei ed il movimento.
 L'abbraccio. Andrea, Milano».
(Dal mensile «Litterae Communionis -Tracce», n, 12, 1994)


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testimonianza, madre teresa, ziba

sabato, 09 dicembre 2006

La palpebra di Carlo e la leucemia di mia figlia Lucilla
Eutanasia - sab 9 dic
di Luigi Amicone

Tratto da Il Foglio del 8 dicembre 2006

Io non parlerò di Carlo Marongiu, il pompiere sardo malato di sla che non riesce nemmeno a batter ciglio, il cerotto gli tiene la palpebra aperta, non può spiegare alla moglie che ha un prurito dietro la schiena.

Un bel verso di Goethe però ci sprona. “Non dite nulla a metà/ completare, che fatica!”. Nonostante il respiro gli manchi ogni otto secondi, Carlo resta il capo di famiglia e ogni decisione di casa passa al suo vaglio. Al vaglio di quel mucchietto di carne scadente? Non ne ha anche lei abbastanza di stare attaccata con funi, con tutta quell’anima addosso che gli scalcia dentro come un bimbo nell’utero di una madre morta, inchiodata al palcoscenico del mondo? Sì, anche Carlo ne ha abbastanza. Ma non per questo consente alle nostre mareggiate di pietà e compassione di scambiare la tempesta dei sentimenti per la pietra, il vero, la cosa. Non parlerò dell’uomo di Narbolìa, Oristano, che al nostro Emanuele Boffi, due settimane orsono, ci mise tre ore a occhieggiare una frase, una frase scema, secondo voi (“Dio mi ha detto che ha grandi progetti su di me”). E non starò qui a spiegare neanche il perché e il percome quest’uomo gigantesco ha suscitato intorno a sé un gigantesco movimento di popolo da quando, anno 1998, giacendo allettato notte e giorno, chiede alla moglie di tenere ben chiusa la porta di casa; non per paura dei ladri, ma perché notte e giorno è bello sentir bussare.

Non parlerò neanche della moglie di Carlo, Mirella, che da otto anni la sua vita è questa: ore 9-14 ufficio. Ore 14-15 pasto e rassetto della casa. Ore 15-6 del mattino del giorno seguente, inchiodata a una seggiola, davanti al capezzale del marito, a leggere pizzini, lettere, giornali, libri, riviste, con un occhio alle lettere, l’orecchio all’allarme della spina del respiratore artificiale, sbrigando criticità che, di riffa o di raffa, di punto in bianco, capitano quando meno te l’aspetti. E il volto di Carlo prende il tipico colorito bluastro dell’asfissia. Non parlerò di questo santuario del dolore e della gioia, di questa università sintesi di tutti i saperi, dove vanno e vengono studenti di ogni estrazione, poveri in canna e illustri notabili, madri disperate e vecchi carcerati, ricchi e bisognosi (mentre la signora dorme tre ore a notte, con la sveglia che squilla ogni trenta minuti, sperando che la macchina non si inceppi proprio in quel dormiveglia).

Io non mi avventurerò sui sentieri della letteratura della cognizione del dolore, né nelle raccomandazioni biblico-agostiniane. Vi racconterò semplicemente quel poco che so dall’esperienza.

E’ la tarda mattinata del 19 dicembre 2005, sono in redazione, squilla il telefono, è mia moglie Annalena. Mia figlia Lucilla era andata a sciare e la mattina del lunedì si era svegliata dolorante in tutte le ossa. “Sarà influenza”. Però è pallida come un cencio. Era seguito il viaggio al pronto soccorso, poi il responso dei medici dell’ospedale pubblico San Gerardo di Monza. “Leucemia grave, signora, molto grave”. E più tardi in corsia. “Signora non sappiamo, se sopravvive alla prima chemio, forse…”. Sono circa le sei del pomeriggio quando mi presento all’ospedale. Lucilla è seduta sul suo lettino, cameretta singola, pallida, avvolta nella sua camicia da notte come in un sudario di morte. “Come va, Lalla?”. “Uno schifo, pa’”. Lei che ti biascica altre cose e tu che non pensi ad altro altro che tua figlia è nelle mani dichissacosa (scusate, permettetemi di averlo chiamato Dio, lì per lì). “Vedi papà…” e piange. “Vedi, non me ne frega niente della morte, è che proprio adesso doveva capitare! Proprio adesso che c’è Natale e noi dovevamo stare tutti insieme nella nostra bella famiglia (sì, disse così, Lucilla: “bella”, e io faccio ancora così fatica a crederci! ndr), adesso che dovevo andare in vacanza con i miei amici di Gs! Ma perché Gesù mi fa questo! Non poteva aspettare almeno la fine delle vacanze!?” E poi, stringendo i denti e i pugni, “E’ un pirla!”. Un pirla? Chi è un pirla Luci? “Gesùùùù!!!!!”. Beh, dico io, adesso calma. Poi la guardo e so soltanto che gli devo una risposta. “Neanche un po’” dico. “Neanche un po’ cosa?” “Dico che Gesù non è neanche un po’ pirla”. “E allora perché mi fa questo? Ti sembra giusto che Gesù faccia queste cose?”. Dentro di me dico: so forse qualcosa più di questa bambina, io? No, non so niente, non capisco un accidente, so soltanto che il nemico dice nel corpo di mia figlia: “Presente”! Stai davanti a questa realtà mi dico. Non scappare, non tirare in ballo Dio, né i santi, né la Madonna. Mi viene un primo pensiero mentre affondo lo sguardo dentro gli occhi umidi e il naso colante di mia figlia. Mi viene in mente la fitta che ha dentro mamma Annalena, il suo pianto al telefono, il suo dolore di madre. “Senti Lalla, tu sai che io e mamma vorremmo essere al posto tuo, lo sai, vero?” “Lo so” “Però non possiamo essere al posto tuo. Perciò quello che ti sto dicendo è vero. Ma non è del tutto vero” “Cioè?” “Cioè il fatto che io e tua madre vorremmo essere al posto tuo, non è una risposta. La realtà è diversa. Il posto è tuo, e nessuno te lo può togliere. Nessun bene del mondo, neanche quello di tuo padre e di tua madre” “Già, bella scoperta”. Avanti, mi dico, rispondi, ti sta spaccando la faccia. E chissà come mi ripassa davanti agli occhi la scena di 19 anni fa quando una sera Annalena torna a casa, il viso scuro, neanche mi saluta, corre in camera… un lamento soffocato. “Cosa c’è, Annalena?”.“C’è che questa figlia morirà, ho la toxoplasmosi”. E giù a piangere. Non so che fare se non abbracciarla, stringerla, sussurrarle “Annalena, questa figlia è un dono, la vita non è nostra, fidiamoci”. “Ecco – dico a Lucilla rivangando quella storia – quella figlia che non doveva nascere sei tu. Invece sei nata, ci sei. Ecco la verità intera: non a noi, ma a un Altro appartiene l’essere”. Lucilla rimane silenziosa, poi dice niente, annuisce con la testa, dice il suo “sì, è così”. E’ cambiato qualcosa della sua malattia? Niente. Ma come è cambiata lei, in quel nanosecondo che ha detto il suo “sì” all’evidente! Dalla disperazione più nera, alla determinazione ad andare in guerra. Dalla lamentazione sulle possibilità negate del Natale e della vacanza, al punto di fuga dell’adesione alla realtà così come è. Da allora non se ne è parlato più, né del Natale perduto, né delle vacanze sfumate. Presenza, solo presenza al presente, combattendo come un leone, disfacendosi nel corpo e sette volte rinascendo più bella di prima, più bella fuori e dentro, anche se in certi momenti avrebbe voluto morire. Come in effetti sarebbe potuta morire, come quel ragazzino della stanza accanto.

Ripensandoci, le situazioni più tragiche sono quelle più semplici. Perché si può, si deve, solo accettare. Perché dall’accettare viene l’imparare. Riflettendoci, non è che la nostra pietà e la nostra compassione e il nostro amore siano falsi. E’ che non completano mai niente, è che per quanto buoni e sensibili e amorevoli e compassionevoli e pietosi possiamo essere, non siamo capaci, direbbe Ibsen, di un solo atto completo di virtù in tutta la nostra vita. Ci vuol niente a insegnare a disperare. Ma insegnare a vivere, questa sì che è un’impresa degna anche dell’ultimo malato terminale.

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eutanasia, testimonianza

martedì, 24 ottobre 2006

GRANDE ORIANA!

E così Oriana Fallaci ha lasciato il segno, ha fatto parlare di sè anche dopo la sua morte. Con un gesto per certi versi clamoroso: ha donato alcune centinaia dei suoi libri più belli, quelli cha amava di più (come ha testimoniato suo nipote) all'Università Lateranense. E insieme ad essi anche il suo mitico zaino usato in Vietnam.
Ho letto con interesse i suoi ultimi best seller, quelli che avevano il sapore della crociata, e devo dire che, pur avendovi trovato molte verità, non mi convincevano gli argomenti, non mi piaceva il livore, insomma, il tono generale. Non starò dunque qui a farne una santa e a scriverne un'agiografia, perchè sarebbe un tradire o travisare il personaggio. Ma è anche vero che, pur non essendosi mai convertita alla religione cattolica, la grande Oriana era riuscita a trovare un valido interlocutore in Joseph Ratzinger.
Cosa si saranno detti nel loro colloquio di qualche tempo fa? Avranno parlato solo di Islam o anche di quel senso della vita sul quale Oriana si è sempre interrogata, pur non trovando risposte convincenti? E questo gesto inaspettato, questo dono di parte di sè alla biblioteca di uno Stato estero e per giunta confessionale, è forse un ringraziamento, un modo di testimoniare la propria affezione?
Certo è che la laicissima Oriana Fallaci, con tutte le sue spigolosità, le sue manie, le sue ostinazioni, è stata un esempio significativo della possibilità di incontro e di dialogo tra chi possiede una fede forte e radicata e chi, invece, non riesce a credere fino in fondo.
Ed è quanto meno stupefacente la figura di questa anticlericale che lascia alla Santa Romana Chiesa cattolica i suoi libri e i suoi oggetti più cari. Misteri delle coscienze! Oriana Fallaci non è stata la prima nè sarà l'ultima. La sua vicenda mi dice che non è mai possibile dire una parola definitiva sul cuore dell'uomo, la cui insondabile profondità è un segreto che possiede solo chi l'ha fatto.
Gianluca Zappa 

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fallaci, testimonianza

martedì, 29 agosto 2006


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Il venerabile Matteo  Talbot

Ex alcolizzato cronico

Da:  http://www.preghiereagesuemaria.it/bambini/strade%20nuove%20con%20la%20mamma.htm

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Dublino, inizio della seconda metà del secolo XIX. La famiglia Talbot, dal padre ai figli, era «consacrata» a bere. Il padre, Charles Talbot, 33-enne, basso di statura, gran lavoratore del por­to, beveva molto, almeno nel fine-settimana, me­glio ancora tutti i giorni.
I figli, 12, nei primi vent'anni di matrimonio di Charles con Elizabeth Bagnall, quelli che riusci­rono a crescere e a farsi adulti, furono gran lavo­ratori, ed insieme bevitori potenti, implacabili.
Solo John e la madre facevano eccezione. La mam­ma, Elisabeth, era una donna meravigliosa, fer­vente cristiana, capace di sacrificarsi come una martire antica, ricca dell'indomabile forza che è la preghiera.
Da quella famiglia, meglio sarebbe dire: dà quella tribù irlandese, nacque il sabato 3 maggio 1856 Matteo Talbot. Nella sua famiglia poté trova­re quel che abbiamo detto: povertà, lavoro, vino, ubriacature solenni... e la fede della madre.
Un loro conoscente diceva:
«Questionavano sempre. Al sabato, quando avevano strabevuto, era un cozzare di contrasti». Una famiglia di spugne assorbenti vino e poi ancora vino.
Bacco dominava incontrastato. Schiavo del bicchiere
Andare a scuola non era obbligato. Le scuole nazionali erano anticattoliche. Perciò molti catto­lici non mandavano a scuola i loro rampolli. Esi­stevano però della scuolette per ragazzi poveri.
Matteo - detto Matt, familiarmente - crebbe libero e vagabondo fino a undici anni. Il 6 maggio 1867 fu mandato a scuola: vi imparò a leggere e a scrivere, un po' di grammatica e di aritmetica, eb­be istruzione religiosa e fu preparato a ricevere i sacramenti.
Cominciata la scuola a maggio, Matt imparò la prima poesia: era dedicata alla Madonna e dice­va così:
O Madre di bontà, di giorno in giorno di più col cuore mio ti voglio amare, tu spargi i doni tutto a me dintorno come la sabbia in riva al nostro mar. Anche se povertà, fatiche, affanni faran pesar la vita su di me, chi non lo sa che fra i peggiori danni il buio è la luce per chi ama Te?
Matt cantava con amore gli inni della Madon­na, specialmente quando i ragazzini si radunavano insieme al suono dell'Angelus a mezzogiorno. La mamma gli aveva insegnato ad amare Maria. Ma nel resto non si impegnava. Il maestro, sul regi­stro, scrisse una nota triste: «A Mitcher» cioè «poltrone».
Cresciuto libero e selvaggio fino a undici anni, preferiva marinare la scuola. C'era più gusto. Là dentro, in fondo, era una prigione.
L'anno dopo fu mandato a lavorare, piccolo incauto dodicenne. Il padre lo impiegò in un ma­gazzino di vini e di birra. Dopo poco tempo, Matt sentiva una voglia pazzesca di bere. E cominciò a bere allegramente.
A 16 anni, Matt era un alcoolizzato cronico che non si interessava più di nulla, né di feste, né di giochi o balli: solo il bere era per lui inte­ressante.
Lavorava senza risparmiarsi. Guadagnava di­scretamente, ma «beveva» quasi tutto. Anzi faceva debiti per bere. Vendette persino scarpe e cami­cia, pur di avere soldi per bere. Tuttavia aveva an­cora un certo senso della dignità personale: non era volgare, era ancora affettuoso e delicato con mamma e sorelle.
A suo modo, continuava ad essere devoto del­la Madonna: di tanto in tanto qualche Ave Maria, e alla domenica, la Messa, anche se ormai era di­ventato il povero schiavo del bicchiere di vino.
La mamma però non disperava di recuperare quel ragazzo. La gente del luogo diceva: «Povero Matt, va diritto al diavolo». La mamma gli sbarra­va la strada con una siepe di Rosari, sempre più spessa.
Eppure Matt fu un ubriacone fino a 28 anni. Un sabato del 1884 non aveva avuto lavoro quella settimana.
Era senza soldi: Sperava che gli amici lo invitassero a bere. Il bar era di fronte a lui, seducente. Ma nes­suno dei suoi amici si fermò per farlo bere. Lo de­ridevano allegramente: «Toh, vedilo, l'ubriaco, og­gi a bocca asciutta! ».
Matt andò barcollante fino al parapetto del ponte sul fiume. Provava vergogna di se stesso. Guardò un po' l'acqua che scorreva: veloce e scura del fiume Liffey. Tentato suicidio? Nessuno può dirlo... Si allontanò dal fiume e andò a casa, facendo gesti da rivoluzionario. Era ora di finirla con quel­la vita disumana. Si sarebbe tolto a viva forza, ce l'avrebbe fatta sarebbe riuscito ad essere un uomo normale.
Giunto a casa, la mamma rimase stupitissima: per la prima volta non era ubriaco: «Già qui, ra­gazzo mio?» gli disse. «Sì, mamma» - rispose. Ri­mase in casa anche dopo pranzo, poi disse alla ma­dre: «Vado a fare voto di non bere più».
Si recò da Padre Keane, docente del seminario di Dublino. Si confessò e chiese di fare il voto. Lo fece per tre mesi, come prova. La domenica suc­cessiva, Matt andò a Messa e fece, dopo tanti anni, la Comunione: «O Gesù, ti offro il desiderio bru­ciante di non più offenderti, di cominciare una vi­ta nuova con la tua grazia».
Potevano sembrare parole. Come resistere al­la voglia di bere?
La mattina dopo, il lunedì, era alla Messa del­le cinque, per essere sul lavoro alle sei. Da allora fece sempre così, tutti i giorni. Dopo il lavoro, per fuggire le cattive compagnie, andava in una chiesa lontana, a pregare fino all'ora di tornare a casa prima di notte.
La sorella Susanna diceva: «Matt è diventato un altro! ».
La mamma, trasecolata di gioia, continuava a dire Rosari, perché Maria lo sostenesse in quella lotta senza quartiere contro l'alcool e la bestialità. Matt conserverà sempre il ricordo vivissimo che la sua conversione era dovuta ai Rosari sgranati da sua madre, e che era avvenuta di sabato dedica­to alla Madonna.
Maria, la Madre di Cristo, e la sua mamma si erano accordate per ridargli la vita, quella vera.

Una vita completamente diversa

Ora era un convertito. D'accordo, ma quanta voglia di bere aveva ancora in corpo! Una voglia strana da strozzarlo. Eppure resisteva con una forza di volontà da far paura. Non si sentiva solo in quella lotta impari. Quando provava « sete », fug­giva dai bar come dalla peste, correva verso la chiesa, vi entrava, andava a mettersi ai piedi del Crocifisso, pregava: «O Maria, mia buona mamma... ».
I suoi compagni di bevute erano stupiti. Matt era diventato un altro, non solo perché non beveva più, ma perché voleva liberare gli amici dal vizio dell'alcool. Un giorno un amico, Pat Doyle, andò a cercarlo per portarlo al bar. Rifiutò e lo accompagnò, quasi furiosamente, presso una chiesa e lo af­fidò ad un sacerdote.
Pat si confessò di tutto il suo brutto passato, poi scappò via veloce. Anche lui aveva fatto voto di non bere piu!
Da parte sua, Matt capiva che ora doveva co­struire la sua vita in modo completamente nuovo. La sua istruzione era molto elementare, sapeva la­vorare duro, era irascibile, insomma sembrava un «masso di pietra» grezzo e spigoloso, ancora tutto da scolpire. Come avrebbe fatto a «sgrossarsi»?
Come prima e più di prima, continuò a lavora­re in modo deciso e costante, senza risparmiarsi. Poi riempì le sue giornate di letture spirituali, per istruirsi a fondo nella fede, di preghiera quasi ininterrotta, di penitenza, come un antico eremita. Il cuore, con il passare del tempo, gli ardeva di un amore fortissimo al Cristo e a Sua Madre. Questo amore lo trasformava dentro e fuori.
Dal maggio del 1884 aveva un lavoro fisso, a cui fu così fedele da meritarsi il titolo del «miglio­re lavoratore di Dublino». La sua giornata, piena di lavoro, si apriva alle 5, prima dello spuntare del sole, con la Messa e la Comunione. Prima aveva già pregato due ore a casa sua. Al ritorno dal lavo­ro, consumato un pasto frugale, ritornava a prega­re, a leggere cose spirituali.
Il sabato pomeriggio e la domenica, libero dal lavoro, li trascorreva inginocchiato, davanti al tabernacolo, in lunghe, interminabili ore di preghie­ra eucaristica. A volte, nei primi tempi, la sua vo­glia di bere ruggiva in petto. Fu tentato fortemen­te di rompere il voto, ma resistette, ed allora rinnovò il voto per altri sei mesi, poi per un anno, infine per tutta la vita.
La mamma, felice perché quel suo figlio «che era morto, ora era tornato in vita», lo sosteneva a resistere e lo affidava continuamente alla Madonna.
Dopo la sua conversione, andò ad abitare in una stanza da solo, vicino alla sorella Maria. La buona sorella testimonierà un giorno che Matt dormiva su un tavolaccio con ún tronco per guan­ciale. E che pregava sempre, quando era in casa. Voleva essere povero come Gesù. Nella stanza poverissima, non c'era che un letto di ferro, un ta­volo, una sedia, un Crocifisso. Si disfece di tutto. Si privò anche del fumo, oltre che del vino e della birra: e questo per lo stomaco di ex-alcoolizzato è un vero prodigio.
Dentro di lui cresceva l'amore verso il Cristo ed è questo che conta. Si mortificava per amare di più, per essere più libero per il suo Dio, per rasso­migliare di più al suo Signore Crocifisso.
Penitenza per liberarsi dal vino e da ogni lega­me con il negativo o il superfluo. Un tempo ebbro di vino, ora «ebbro di Dio», per il quale incatenava il suo corpo e trovava la libertà più vera. A noi non è chiesto di imitare la sua mortificazione se que­sta non è la nostra vocazione, ma a tutti è dato di imitare il suo amore al Cristo e la sua devozione filiale alla Madonna Santissima.
E Matt visse così per anni, passando di luce in luce...

Burlone e amico di tutti

Severo con se stesso, si scioglieva in tenerezza con gli altri. Tra i suoi compagni di lavoro, non so­lo era gentile, pronto sempre ad aiutare chiunque in qualsiasi difficoltà, ma aveva sempre la barzel­letta pronta, la battuta allegra per incoraggiare o sbloccare una situazione difficile e aspra.
Era sempre felice, di un'intima gioia. Parlava con schiettezza, teneva fede, e pretendeva che lo facessero con lui, alla parola data. Prestava dena­ro, voleva che gli fosse restituito... per poterlo do­nare con generosità, perché lui era fin troppo ric­co di Dio!
Nel 1909 cambiò lavoro e passò presso i Mar­tin, commercianti di legnami da costruzione, per­ché con il loro orario aveva più tempo per leggere, pregare, vivere la sua unione con Dio. Era diventa­to popolarissimo tra gli altri lavoratori che, ben­ché rudi, lo stimavano per la sua laboriosità, il buono umore, la vita santa che conduceva.
Alla sera, quando il lavoro cessava, accompa­gnava a casa i suoi compagni di lavoro e, durante il percorso, li invitava ad una visita in chiesa, per pregare Gesù nell'Eucarestia, e la «sua» Regina, la Madonna. Quegli uomini, dalle mani callose e dal­le parole «grosse», a volte volgari, lo rispettavano e lo seguivano; Matt aveva per loro l'autorevolezza della fede, dell'amicizia con Dio, della carità verso tutti.
Per conto suo era un eremita; con gli altri era migliore di un fratello.

Laico «consacrato»

Ancora giovane ebbe una proposta di fidanza­mento. Una ragazza che lo stimava, piuttosto ric­ca, gli propose il matrimonio: sarebbe stata felice con lui. Matt volle riflettere e fece una novena alla Madonna per essere illuminato sul suo futuro. Aveva allora solo trent'anni ed era molto equili­brato rispetto alla vita sregolata condotta prima.
Alla buona ragazza, disse di no: era stata la Vergine a dirgli di non sposarsi. Non avrebbe po­tuto congiungere la vita matrimoniale con lo stile che lui voleva vivere. E così disse ancora di no ad altre offerte di matrimonio. Non disprezzava cer­to il matrimonio, ma cercava per se stesso la «vo­lontà di Dio».
Il 18 ottobre 1891 entrò nel Terz'Ordine di S. Francesco, prendendo il nome di «Fra Giusep­pe». Si iscrisse pure all'Associazione di Maria Im­macolata e cercava di portarvi anche altri. Pro­prio presso l'associazione mariana, parlava in quegli anni il Padre gesuita Toni Murphy sui gran­di problemi della fede. Matt ne era entusiasta e s'industriava di portare i suoi amici ad ascoltare la parola di quel grande uomo.
Un'attività notevole come la sua, non poteva certo reggersi sul nulla. Gli era necessaria una vi­ta interiore ricchissima e insieme anche una pre­parazione culturale, religiosa, cristiana, capace di attrezzarlo ad essere un valido testimone di Cristo.
Matt diventò per questo un formidabile ed acuto divoratore di libri.
Leggeva assiduamente la Bibbia, meditandola nel suo cuore. Con la Bibbia tra le mani, pregava con fervore per comprendere la Parola di Dio e tradurla in pratica nella sua vita. Prediligeva il Deuteronomio e il Vangelo di Matteo, di cui porta­va il nome. Sui margini, diventavano sempre più fitti i segni ai passi che più lo avevano colpito.
Lesse altresì molti libri di spiritualità di otti­mi autori e libri di teologia, così da apparire esperto in questioni religiose. Approfondì le que­stioni della società e del lavoro nel suo tempo. Molti compagni lo consultavano e ne ricevevano risposte esaurienti. Un giorno un compagno gli pose un problema difficile... e Matt si procurò un li­bro facendolo arrivare da New York, spendendo lo stipendio di una settimana, pur di poter rispon­dere con competenza.
Appassionato dalla santità, desideroso di arri­varci, lesse numerose vite di santi, tra i quali si sentiva «a casa sua».
Nel mondo del lavoro, seppe essere vicino ai compagni, condividendo problemi e fatiche. Di lo­ro, del loro benessere, si interessava con un senso vivissimo dell'amicizia.
Un giorno, uno dei direttori dell'azienda gli domandò: «Il tale è arrivato in ritardo?». Gli rispo­se Matt: «Non desidero di ricevere di queste do­mande!» Poi andò a cercare l'amico e gli spiegò: «Non voglio mentire per coprirti».
Un'altra volta una signora vide nella tasca di Matt «un catechismo socialista del lavoro». Lo ac­cusò di essere marxista. Matt le rispose con parole di fuoco e la signora capì che quell'uomo era fede­lissimo alla Chiesa e nel medesimo tempo ai lavo­ratori.
Un collega parlò con lui di uno dei proprietari chiamandolo «padrone». Matt ribattè: «Non è il mio padrone, è solo un datore di lavoro. Io ho sol­tanto un Padrone in cielo».
Nel 1900 gli operai scioperarono, per una cau­sa che Matt ritenne giusta. E partecipò allo sciope­ro, senza ritornare al lavoro, fino a quando pensò bene farlo. Di nuovo scioperò nel 1913. Non bada­va al proprio interesse: i suoi colleghi gli misero tra le mani l'indennizzo di sciopero, ma egli lo pas­sò ai lavoratori più poveri.
E nelle vertenze di lavoro andava davanti al Tabernacolo a perorare i diritti dei lavoratori.
«Il cuor ch'elli ebbe»
Alla morte di due fratelli, bevitori incorreggi­bili, Matt pagò lui le spese per i funerali. Un gior­no, prima di convertirsi, aveva rubato il violino ad un mendicante. Pentito, andò a ricercarlo per re­stituirgli tutto. Il pover'uomo, nel frattempo, era morto e Matt fece celebrare per lui delle Messe.
Nel 1899 gli morì il padre. Matt andò ad abita­re con la mamma che diventò la testimone della sua profonda conversione. Quando la mamma mo­rì, Matt la pianse e ne suffragò l'anima con lar­ghezza riconoscente.
Ad alcuni compagni di lavoro, volle pagare un giorno un buon paio di scarpe per ciascuno: ne avevano bisogno. Prestava volentieri il suo dena­ro, ma non accettava più la restituzione. Venne una volta un religioso a far «la questua» nella dit­ta dei legnami dove lavorava e Matt gli diede tutto lo stipendio.
Aiutava i missionari, anzi fece studiare a sue spese alcuni aspiranti alla vita missionaria. Vole­va bene ai ragazzi. Thomas O'Kelly che diventò due volte Presidente dell'Irlanda, da ragazzo, tra gli otto e i quindici anni conobbe Matt Talbot, quando faceva il chierichetto. Scrive: «Gli parlai più volte. Ci conosceva e ci chiamava per nome. Ci dava buoni consigli. Certi ragazzi lo burlavano, ma non se la prendeva mai. Mai lo vidi adirato, era sempre calmo, sereno».
Ed amava la sua patria, l'Irlanda, pregava per la sua libertà, ricordava nella preghiera i suoi ca­duti e di essi conservava le foto ritagliate dai giornali.
Era diventato l'uomo dell'amore.
La sua capacità di amare gli veniva dalla pre­ghiera, intensa, fervorosissima, prolungata. Tutto il suo tempo libero lo passava in preghiera.
Scrive il Presidente O'Kelly: «L'ho visto fare la Via Crucis. Più di una volta lo vidi pregare con le braccia spalancate, ad alta voce, gli occhi rivolti al Crocifisso. Sembrava in estasi».
Sul lavoro, nei momenti di requie, estraeva di tasca il suo Rosario e pregava la Madonna. Arrivò ad alzarsi alle due del mattino, per poter pregare fino all'ora di Messa. Sulla porta della chiesa, an­cora a volte chiusa, si inginocchiava e pregava, qualunque tempo facesse.
La sua chiesa era «S. Francesco Saverio», ma di domenica frequentava diverse chiese, per parte­cipare a tante Messe, ognuna secondo un'intenzione diversa. Il suo secondo direttore spirituale, P. Michael Hickey, un prete straordinario, lo aiutò a trasformare tutta la sua vita in preghiera.
Si lasciava guidare: per questo non fu mai strano nelle sue manifestazioni. Un uomo tutto di Dio, ma sempre gentile, cortese, profondamente umano.
«La mia buona Regina»
Per tutta la vita Matt si ritenne un «privilegia­to» di Maria. Non era stata lei la buona Mamma che l'aveva aiutato a strapparsi al bere e l'aveva avviato sulla strada della conversione al Cristo? Dunque, con Maria, occorreva continuare il cammino.
La mamma, mentre negli ultimi anni della sua vita, abitava con lui, si alzava di notte per vedere il «suo bambino» che pregava la Madonna. Con la corona del Rosario tra le mani, Matt parlava con la Madonna.
Un giorno Matt disse alla sua mamma: «Nes­suno sa che buona Regina è Maria per me». Ogni gesto della sua vita, la preghiera, il digiu­no, gli atti di carità, il lavoro, tutto doveva essere ringraziamento per la conversione che Maria gli aveva donato. Gli sembrava di non poter mai fare abbastanza per quell'intervento della Madonna nella sua vita.
Al sabato digiunava in onore della Madonna. Ogni giorno diceva il Rosario intero di quindici de­cine alla Madonna. Lo testimonia anche il Presi­dente O'Kelly, che da ragazzo, vedeva spesso Matt in ginocchio sugli scalini della chiesa, col Rosario tra le mani, oppure all'altare della Madonna. Allo stesso modo raccomandava ai ragazzi di dire tutti i giorni il Rosario.
Parlava della Madonna ai suoi compagni di la­voro. Recitava tutti i giorni l'Angelus. Viveva uni­to alla Madonna la sua «vita con Maria»: ne rivive­va i sentimenti, la fede, l'adorazione umile a Dio, il servizio agli uomini.
«O beata Madre, ottienimi da Gesù di parteci­pare alla sua follia» - era questa la invocazione prediletta.
E alla sera si addormentava con una statuina di Maria col Bambino Gesù sul cuore.
Maria lo condusse a vivere un lungo ininter­rotto «a tu per tu» con Cristo. Per Lui voleva esse­re limpido, puro, senza macchia, come l'Immaco­lata. Aveva una fame senza limiti di Gesù, Pane della vita, che voleva ricevere ogni giorno nella Comunione.
Le ore libere del lavoro, le trascorreva davanti al Tabernacolo: sempre davanti al Cristo, con sua Madre, come per una cura di sole che lo penetras­se tutto e lo riempisse di amore. Arrivò a trascorre­re sette ore della giornata davanti al Tabernacolo.
Discorreva un giorno con una signora. Costei le confidò che era sola e desolata perché suo fra­tello era andato in America. Matt le rispose: «So­la?! Come può sentirsi sola con Gesù nel Taber­nacolo?».
Gesù-Eucarestia era divenuto il centro vivo della sua esistenza.

Sulla vetta

Nel 1921 la sua salute si indebolì. Aveva 64 an­ni. Fu ricoverato al Mater Hospital. Il dottor Moo­re capì che stava curando un santo. Matt si riprese e ricominciò la scalata verso la santità. La vetta non era più lontana.
Nel 1923 fu due volte all'ospedale. Si riprese ancora. Un'altra ricaduta nel 1925, ma la sua fine sembrava ancora lontana. Lavorava ancora. Il 17 giugno, domenica, festa della Trinità, partecipò al­la Messa delle otto e fece la Comunione. Tornò a casa pallido, ma volle uscire di nuovo per parteci­pare ad un'altra Messa.
Stramazzò al suolo, colpito da infarto. Nella zona nessuno lo conosceva. Lo portarono all'ospe­dale. Morì quella sera, solo, poverissimo, scono­sciuto. All'indomani la sorella Susanna, non ritrovandolo, andò all'ospedale e riconobbe la salma. Sui fianchi aveva una catena che gli stringeva le carni.
Il manovale di Dublino ora vedeva il volto di Dio e della sua Mamma, felice.
Il giovedì seguente, - solennità del Corpus Do­mini, si svolsero i funerali. Lo vestirono con il suo abito da Terziario francescano. Seguirono la sua bara i suoi amici operai, i suoi poveri che lui aveva aiutato di nascosto, perché solo Dio sapesse.
In breve tempo tutta l'Irlanda ne parlava. In soli sei mesi furono venduti centoventimila esem­plari della biografia.
I leaders sindacali irlandesi si dissero orgo­gliosi di porre una lapide commemorativa dove Matt era vissuto e lo considerarono uno dei fonda­tori del loro movimento, anzi «un faro di luce» per tutti i lavoratori.
Dopo i processi diocesani per sondare la sua fama di santità, iniziati nel 1931, e quelli apostoli­ci a Roma, Papa Paolo VI lo proclamo «Venerabi­le», cioè eroico nella sua vita cristiana. Lo stesso Paolo VI disse ad alcuni pellegrini di Dublino: «Ho letto la vita di Matteo Talbot; ne sono commosso. È tempo che venga canonizzato. Farò del mio meglio».
Matt Talbot, un povero facchino di Dublino, che Maria trasformò in un eroe del Cristo.

MATTEO TALBOT


Postato da: giacabi a 13:56 | link | commenti
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