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sabato 25 febbraio 2012

testimonianza3


Il testimone

***

A volte la nostra luce si smorza ma poi la fiamma viene ravvivata da un altro essere umano. Ciascuno di noi è debitore dei più profondi ringraziamenti a coloro che hanno riacceso questa luce.
Albert Schweitzer



Postato da: giacabi a 10:12 | link | commenti
testimonianza, schweitzer


giovedì, 14 agosto 2008

 presente qui e ora.
***

foto: particolare da quì
Andrea (Andrés) Aziani Samek-Lodovici
“Prima di nessun’altra parola, come segno di un metodo tutto impostato sulla precedenza data a quello che Cristo fa in mezzo a noi, al «prima» di qualsiasi nostra mossa, noi non desideriamo altro che seguire quello che Lui fa in mezzo a noi.”

grazie a :

Postato da: giacabi a 14:23 | link | commenti
testimonianza, aziani

venerdì, 08 agosto 2008

Andrea Aziani
***
IL RE DEI CIELI E’ FRA NOI…
 E I MASS MEDIA PARLANO D’ALTRO (PERLOPIU’ DI STRONZATE)

Da “Libero”, 7 agosto 2008
I mass media parlano solo di politica, pettegolezzi, porcate, idiozie. Come la gente di duemila anni fa. E noi non ci accorgiamo che intanto nel mondo c’è Lui, con i suoi amici…

E’ un milanese l’uomo che ha affascinato il cuore di uno dei paesi più poveri del Sud America, il Perù. Soprattutto nelle baraccopoli più misere di Lima, “Andrés” era considerato un angelo. Mercoledì scorso il suo cuore ancora giovane (55 anni) - che ardeva per questa gente – si è spezzato. E sabato, in una grande basilica di Lima affacciata sull’Oceano Pacifico, davanti a migliaia di persone in lacrime, si è celebrata la sua “nascita al cielo”. Nella stessa mattina di sabato, commosso, il cardinal Cipriani, arcivescovo di Lima, ha parlato di lui alla radio nazionale.

Ma in Italia uomini come Andrea Aziani restano sconosciuti. Instancabile e radioso, Andrés, in quella megalopoli sull’oceano che è la capitale peruviana, viveva da 20 anni, mandato da don Giussani. Lo conoscevano tutti: dal presidente della Repubblica fino al venditore ambulante di “emolliente” che è venuto a dargli l’ultimo saluto in chiesa e fra la folla ripeteva piangendo: “gli volevo tanto bene”.

Poteva discutere nella sua università con i ministri o con i maggiori intellettuali del Paese e subito dopo trascorrere ore nei pueblos più malfamati ad aiutare la povera gente delle baracche, a giocare con i bambini nella polvere delle strade, insegnando loro dei canti o delle preghiere. O portando loro di che vivere
. Ce n’era una folla sabato in chiesa di questi suoi “figli”, di cui spesso era “padrino” di battesimo o della comunione o della cresima. Sebastiana é una di queste bambine. Giovedì sera, dopo la veglia, alcuni amici di Andrés, di Comunione e liberazione, sono andati ad accommpagnarla a “casa”. Hanno scoperto che vive in una poverissima capanna in cima a una collina di casupole. La fanciulla ha mostrato loro una cappellina mezza costruita fra le baracche: “il mio padrino ha aiutato tanto a farla...”. Ed è facile immaginare – per chi conosceva Andrés – che il suo è stato anche un aiuto materiale, da muratore improvvisato o manovale. Perché quella povera gente sentisse che Gesù è fra di loro.

Pochi, anche fra i suoi amici, sapevano della gran quantità di persone che aiutava. Il cardinal Cipriani, andando a benedire il corpo, giovedì, lo ha detto: “vi accorgerete con il tempo di tutto il bene che umilmente faceva quest’uomo. Lui mi cercava per ripetermi che lui e il movimento di CL volevano servire la Chiesa e mi chiedeva sempre di dargli una missione”.

Era uno dei figli di don Giussani. La sua è una storia da film: la storia di una compagnia di giovani che è la vera “meglio gioventù”, quella su cui nessuno farà un film. Andrea aveva partecipato alla nascita di Comunione e liberazione nelle università di Milano. Alla Statale, dove si iscrisse nel 1972 (facoltà di Filosofia), diventò presto il responsabile. Erano anni durissimi. Aggressioni, odio e calunnie dei giornali contro i ciellini che erano gli unici a esserci con una identità cristiana, come agnelli in mezzo ai lupi di ogni estremismo.

Anche Andrea si sentiva dare del “fascista” lui che era cresciuto con un nonno, Emanuele Samek Lodovici, che era stato discriminato dal fascismo perché militante del Partito popolare di Sturzo e poi perseguitato a causa delle leggi razziali perché ebreo. Lui era di quella tempra lì. Malmenati nelle università i ciellini erano cacciati anche dai seminari perché i vescovi progressisti del post concilio li ritenevano “integralisti”. Andrea entrò nei Memores Domini, il gruppo dei consacrati laici di CL. Nel 1976 fu mandato da Giussani a Siena. Lì con tre amici iniziò una presenza cattolica nell’ateneo di una delle città più rosse d’Italia. Fu un ciclone. Non si era visto niente di simile dai tempi di santa Caterina.

In Università quella ciellina diventò subito la presenza più forte (alle prime elezioni studentesche la lista cattolica prese più del 50 per cento mettendo in allarme tutto il locale apparato del Pci). Ma ad infiammare i cuori di tutti quei giovani non era la politica, era quell’amicizia con Gesù che Andrea proponeva con la sua stessa persona, così affascinante ed entusiasmante.

Andrea si faceva in quattro per tutti, senza mai riposare, spesso saltando i pasti. Quando si laureò gli amici della comunità gli regalarono un po’ di vestiti (ne aveva davvero bisogno) e il giorno dopo erano già finiti a dei profughi cambogiani che erano scappati dall’inferno dei Khmer rossi e che – attraverso la Caritas – lui era riuscito a ospitare a Siena.

Nel 1989, a 36 anni, ottenne finalmente – come desiderava da sempre - di essere mandato in una delle missioni di CL in Sud America, il Perù. Prima insegnò in alcuni atenei di Lima, poi, con alcuni amici e l’appoggio della Chiesa, fondò l’università “Sedes Sapientiae”. Una università che cerca di far accedere agli studi i più poveri e che è diventata già un modello contagioso per tutto il Sud America.

Che senso ha fondare una università in un paese del terzo mondo? Andrea rispondeva: “la peggiore povertà non è quella economica, ma quella umana. Da lì viene la miseria, il degrado e la fame. Educare uomini nuovi significa far crescere una generazione capace di costruire e quindi di dare un futuro a questo povero paese”. E’ esattamente quello che sostiene il decano dei missionari, padre Piero Gheddo. Ed è così che la Chiesa è diventata dovunque una straordinaria sorgente di sviluppo umano. A leggere su un blog le centinaia di messaggi di studenti di Lima, sconvolti dalla morte del professor Aziani, sembra davvero che questa grande avventura sia vincente. E’ impressionante il segno che ha lasciato quest’uomo. Cito qualche espressione dei ragazzi: “che persona straordinaria!”, “gran hombre sabio”, “la passione che irradiava in tutto non lasciava indifferente nessuno”, “donava se stesso attraverso ciò che insegnava”, “la sua sapienza ci affascinava, ma soprattutto la sua grande umanità e la sua purezza di cuore”, “il suo sorriso caldo e amabile”, “un uomo senza paragoni, differente da tutti quelli che incontriamo”, “un vero Maestro, un padre, un amico… que vive en todos nosotros”, “ci dava sempre speranza guardandoci come figli”, “ringrazio Dio: che fortuna averti conosciuto!”, “sei stato un Maestro eccezionale, grazie per l’esempio della tua vita!”, “era entusiasmante”, “trasmetteva una passione per la vita e per gli altri impressionante”, “amico fedele di Gesù, un cuore semplice e puro”, “ricorderò sempre la sua immensa bontà, il suo amore verso tutte le cose”, “che modo straordinario di amare la vita e tutti quelli che incrociavano la sua strada”, “era sempre disponibile, soprattutto per chi aveva bisogno”, “la sua felicità ci ha segnati per sempre: caro amico, grazie per aver avuto fiducia in me”, “un grande uomo che ci ha insegnato a essere uomini”.

Al funerale, sabato, il vescovo monsignor Panizza non é riuscito a terminare l’omelia per la commozione. C’erano 1500 persone in chiesa, altre mille all’universita dove gli studenti dalle finestre hanno lanciato una pioggia di petali di fiori. Avevano fatto cartelli con le sue frasi tipiche, come “Febbre di vita”. Il ragazzo che ha parlato ha riferito che Andrea ha terminato la sua ultima lezione dicendo: “ricordatevi sempre: l’amore é piú forte della morte”. Era sconvolgente vedere centinaia di giovani silenziosi in lacrime. Al cimitero altre mille persone. La sua tomba è già meta di pellegrinaggio. Ha un popolo che ora aiuta dal cielo.

In una lettera del 1993 a un amico, Andrea ricordava una frase di santa Caterina e scriveva: “Che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi. Ma perché sia così, noi dobbiamo bruciare, letteralmente, ardere di passione perché Cristo lo raggiunga. Perché attraverso questo bruciare sia Cristo a raggiungerlo”. Don Giussani un giorno lesse queste righe davanti a centinaia di persone e, commosso, commentò: “
vi sfido a trovare una testimonianza simile. Dovunque!”.

Antonio Socci
Grazie a:rapynaBlogger: rapynaRita



Postato da: giacabi a 15:03 | link | commenti
testimonianza, cristianesimo, aziani

mercoledì, 30 luglio 2008

Fabrice Hadjadj
 ***
da www.avvenire.it del 17 luglio 2008
«La tecnica nega la spiritualità»
 DI LORENZO FAZZINI 
Ebreo di nascita, comunista d’educazione, nichilista per scelta, in passato amico del romanziere 'maledetto' Michel Houllebecq, Fabrice Hadjadj, 37enne docente di filosofia a Toulon, è rimasto folgorato dal Crocifisso riflettendo su Heidegger e Bataille; un’illuminazione nella chiesa parigina di Saint Severin l’ha condotto al battesimo.
 Come è avvenuta la sua conversione?

 «Se Cristo stesso è la Verità, un’altra è la domanda: perché non sono diventato cristiano prima? Non amo parlare della mia conversione.
Dio ci converte con la creazione tutt’intera, ma non c’è solo la bellezza del creato, anche la disperazione profonda ci assicura che non possiamo darci la gioia da noi stessi e dobbiamo gridare ad un Salvatore. Presentarsi come convertito significa spesso fare un discorso trionfalistico, ma la conversione non è una conclusione, ma un inizio. Ci impegna a convertirci ancora, fino all’ora della morte. Ora, io sono cattolico! Ma se non vivo la carità divento peggiore di prima, approfitto delle ricchezze di Cristo per il mio piccolo tornaconto orgoglioso. Comunque, iniziando da Heidegger e Bataille, stavo riflettendo su quella tecnica che ci propone di fabbricare un uomo tranquillizzato dalla neurochimica, dalla virtualità e dalla biogenetica. Ho intuito che la nostra angoscia è il nostro tesoro: può dilaniarci in un grido verticale. È questa pressione del Cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto al mondo e ce lo fa sperimentare nella sua estrema precarietà. Il corpo sofferente mi sembrava più grande di tutti questi superuomini rimpinzati di benessere. A quel punto ero pronto per ascoltare l’Ecce homo ».
 Nel suo itinerario c’è stato un autore cristiano che l’ha particolarmente
toccato?
 «Anzitutto Léon Bloy. La violenza della sua parola, la radicalità della sua fede, il suo stile geniale sembravano predisposti per colpire quel nietzschiano che ero
. Fino alla conversione credevo che la carità fosse una sorta di bontà da femminuccia con cui ci si compra la tranquillità della coscienza; ho scoperto invece che è un fuoco divorante. Il cattolicesimo era un’altra cosa rispetto a ciò che mi veniva mostrato dalla tiepida esteriorità dei cristiani della domenica (di cui faccio parte!). Mi sono messo a rileggere i profeti: Isaia, Ezechiele, Geremia. Un abbaglio. Dio è amore, ma l’amore è forte come la morte. Ho letto Dostoevskij, Péguy, Bernanos e Manzoni. È grandissimo, Manzoni: l’humour di Dickens con la stranezza di Kafka e la fede di Dante. In Francia non lo conosciamo abbastanza, e in Italia mi sembra dimenticato dopo essere stato ridotto a noioso autore da manuale scolastico».
 
Lei è nato in una famiglia ebrea di sinistra: l’appartenenza al 'popolo eletto' significa qualcosa per lei?
 «Non sono passato dall’ebraismo al cristianesimo; sono nato in una famiglia poco praticante: per noi la Torah
  era meno significativa del Capitale,
  celebravamo la Pasqua solo per fedeltà a un patrimonio. Leggevamo Voltaire, Zola e Gramsci, mio padre mi insegnava i canti della Comune invece dei salmi. Paradossalmente, ho scoperto l’importanza della mia ebraicità diventando cristiano
. Ho percepito che mediante la carne appartenevo a questo strano popolo, che Dio aveva scelto per darsi una carne: la sua esistenza è irriducibile alla ragione perché non è né una nazione particolare né la Chiesa universale, ma qualcosa di ibrido. È significativo che tutti i tentativi totalitari, scientisti, razionalisti o fideistici, vogliano distruggere questo marchio del sovrannaturale nella storia. Recupero meglio la tradizione ebraica diventando più cattolico: Maria non è la figlia di Sion? Gesù non è il Figlio di Davide? Non è in lui che si compiono le promesse fatte a Mosè?
 »
 La sua scrittura è stata toccata dalla sua conversione religiosa?
 «Non è perché si è cristiani che si scrive meglio. Devo molto alla recita quotidiana del salterio: il ritmo dei salmi ha impresso la sua impronta nella mia scrittura con il suo movimento ad onde, il suo rumore di risacca e il suo dilagante giubilo.
Maritain raccomandava: Non cercare di 'fare il cristiano', sii profondamente cristiano e pienamente artista, allora il tuo cristianesimo passerà completamente attraverso la tua arte. Sono ritornato alla ragione mediante la fede. Prima della mia conversione disprezzavo i discorsi scientifici, non credevo che l’intelligenza potesse raggiungere il reale senza deformarlo: vedevo l’uomo come un fabbricatore di finzioni. Grazie alla fede ho riconosciuto che l’intelligenza è un dono di Dio, capace di accogliere il reale rispettando in maniera assoluta le cose. Avevo sbagliato per colpa dalla sua riduzione a ragione strumentale: l’oggettività non si trova nella freddezza delle scienze sperimentali ma nella contemplazione del reale come dono. Mi risultava assurdo porre in contraddizione ragione e fede, spirito e materia. Quando si crede in un Dio buono e creatore, si crede anche alla bontà della sua intelligenza e della materia da lui creata. Si può così diventare profondamente materialista. Oggi quanti si proclamano tali, in verità detestano il dato materiale dell’esistenza. Lo riconducono ad una materia, manipolabile a piacere. Parlano della liberazione sessuale ma vogliono liberarsi dei sessi, per sottomettere tutto alla loro volontà di potenza mediante la tecnica
».
 
Lei ha passato un periodo 'nichilista'…
 «L’uomo mi sembrava uno scherzo e affermavo che la cosa migliore era fare perpetuamente il buffone, rovesciare tutte le istituzioni, iniziando dalla famiglia! Ero favorevole all’estinzione della specie umana e però soffrivo terribili pene d’amore. Comunque, il nichilismo non è un’opzione filosofica, ma è nell’aria che respiriamo
. Quando si crede che la specie umana è il prodotto di un bricolage casuale e che sarà rimpiazzata da un’altra, meno nociva e di maggior successo, ci troviamo dentro un nichilismo assoluto. Il darwinismo, con la sua logica concorrenziale, il rifiuto della natura umana, il rigetto del mistero nella storia a favore di una biologicizzazione integrale del passato, è nichilismo. Se domandate ad un ragazzo: 'Chi sono i tuoi antenati?', risponderà: 'Delle scimmie'. Chiedetegli: 'Qual è il nostro futuro?', replicherà: 'L’estinzione'. È normale che gli venga voglia di distruggere tutto».
 Il suo libro «Réussir sa mort» ha toccato il pubblico francese: perché?

 «È un cliché dire che la nostra società vive nella negazione della morte, ma è presente pure tra i credenti che parlano del cristianesimo come di una consolazione facile. Come se Cristo non avesse conosciuto 'paura ed angoscia'! La morte è uno strappo terribile, ma è anche una grazia: ci sottrae alla nostra volontà di potenza e ci libera come bambini piccoli abbandonati a Colui che ci oltrepassa. Oggi il culto del controllo su tutto, sostenuto da una ragione tecnicista, porta al rifiuto della morte. L’eutanasia, come l’accanimento terapeutico, è un rifiuto della morte perché vuole trasformare ciò che sfugge al nostro volere in un ultimo atto della volontà. L’aborto si radica nei buoni sentimenti: questo bimbo non è perfetto e rischia di soffrire, allora lo si elimina. Ma seguendo tale principio, tanto vale eliminare tutti. E quando non ci sarà più nessun uomo, non vi saranno angoscia né gioia».

Postato da: giacabi a 17:38 | link | commenti
testimonianza

giovedì, 24 luglio 2008

Kuby:
dalla New Age a papa Ratzinger
 ***

da: www.avvenire.it      del23-07-08
CHI È
 Allieva di Ralph Dahrendorf

 Nata nelle Alpi bavaresi nel 1944, Gabriele Kuby è entrata nella Chiesa cattolica il giorno del battesimo di Gesù nel 1997.
  Specializzatasi in sociologia sotto la guida di Ralf Dahrendorf, oggi si occupa del relativismo morale e politico contemporaneo: a settembre le edizioni Cantagalli manderanno in libreria l’edizione italiana del suo «Die Gender Revolution. Relativismus in Aktion» (a cura di di Vito Punzi), col titolo «Gender revolution. Il relativismo in azione». Qui l’autrice analizza come le politiche tedesche ed europee sulle tematiche sessuali siano determinate da una visione relativista e 'politicamente corretta' della natura umana.
  In Germania il libro ha venduto oltre 10 mila copie. (L.F.)

 
Un tempo era sincretista, ora combatte il relativismo e l’ideologia del gender: parla la studiosa tedesca che ha criticato Harry Potter con un carteggio con Benedetto XVI

 DI LORENZO FAZZINI
 
D al Sessantotto a Benedetto XVI, dal sincretismo religio­so alla devozione alla Vergi­ne. Gabriele Kuby, sociologa tede­sca, 64 anni, si è riavvicinata al cri­stianesimo dopo un trascorso al­l’insegna della New Age. Ora lotta intellettualmente contro la 'ditta­tura relativista' che - denuncia - si esplica nel 'politicamente corretto' e nell’ideologia del gender diffusa in ambiente Onu e Ue. Il suo nome fe­ce il giro del mondo nel 2005 quan­do rese nota (su permesso dell’inte­ressato) la sua corrispondenza pri­vata - risalente a 2 anni prima - con l’allora cardinale Joseph Ratzinger riguardo la saga di Harry Potter, sul­la quale la studiosa aveva condotto uno studio critico. «E’ bene che lei, stimata e cara signora Kuby - le a­veva scritto il futuro Papa - illumini la gente su Harry Potter, perché si tratta di subdole seduzioni, che agi­scono inconsciamente distorcendo profondamente la cristianità nell’a­nima », fu l’incoraggiamento di Rat­zinger alla Kuby. Che in questa in­tervista rievoca la sua conversione e spiega cosa significhi per lei guar­dare cristianamente al reale.
 Quando si è convertita?

 «A otto anni dissi a mia madre pian­gendo: 'Andrò all’inferno se non so­no battezzata!'. Da neonata non a­vevo ricevuto il battesimo perché mio padre, scrittore ben noto e gior­nalista di sinistra, era agnostico. Mia mamma, protestante, credeva in Dio e in seguito fece battezzare i suoi cinque figli, però io non coltivai il seme della grazia.
Studiai sociolo­gia a Berlino: Dio e la fede svaniro­no dal mio orizzonte; abbandonare la Chiesa fu una semplice formalità. Partecipai al Sessantotto come rap­presentante degli studenti, ma non a lungo: l’innato senso per la verità mi salvò dall’ideologia marxista e femminista. Vissi alcune esperienze con cui Dio mi si fece chiaramente presente. Ero sposata e ma­dre di 3 bambini; nei 18 an­ni di matrimoni avevo vis­suto cercando Dio dove non lo si può trovare: esoterismo, New Age e psicologia. La Chiesa era nascosta dietro la cortina dei miei pregiudi­zi e la litania di critiche ri­petute nella nostra cultura.
  La crisi coinvolse tutti gli ambiti della mia vita, incluso il ma­trimonio: quando mio marito se ne andò di casa nel 1996 una vicina mi disse: Prega! Lo feci di fronte ad un Buddha, ad una fotografia di una di­vinità indù e altri totem. Finivo di­cendo: ' Sono la serva di Dio, av­venga di me secondo il tuo volere!'. Terminata la novena compresi che volevo diventare cattolica; da lì la mia vita cambiò. Fui incaricata di scrivere un libro sulle apparizioni mariane che diventò il diario della mia conversione, Il mio cammino verso Maria; pubblicato nel 1998, fu un bestseller».

 
Quali autori cristiani cominciò a leggere dopo la sua conversione?
 «
Quando iniziai a studiare il Cate­chismo della Chiesa cattolica e le en­cicliche di Giovanni Paolo II rimasi stupita nel trovare una luce che fa­ceva splendere la verità sulla natu­ra umana e i problemi del nostro tempo. Il Signore di Romano Guar­dini fu un libro importante che mi aprì cuore e mente a Gesù. I romanzi
 Il canto di Bernadette e Ascoltate la voce dello scrittore Franz Werfel mi hanno toccato in profondità; fre­quentai anche il filosofo Dietrich von Hildebrandt. Ero interessata al­le storie di altri convertiti, special­mente le Confessioni di Sant’Agostino
. È stupefacente che qualcuno, 1600 anni orsono, descrisse il suo cammino verso Dio, incluse le pro­prie ossessioni, le mosse per elu­derLo, le aberrazioni e il proprio af­fidarsi, alla fine, alla grazia di Dio. Decisi di leggere solo libri che mi aiutassero a comprendere meglio la fede».
 
Come la conversione ha influenza­to il suo lavoro culturale?
 «
Quando permettiamo che lo Spiri­to Santo illumini il modo in cui per­cepiamo le cose, il mondo e la na­tura umana appaiono diversi. Se possiamo dire che qualcosa è buo­no, dobbiamo essere capaci di affermare che qualcosa è cattivo: non è strano che la parola 'sbagliato' stia sparendo dal nostro vocabolario? I sostenitori della nuova ideologia sul
 gender pensano sia corretto livella­re la differenza tra uomo e donna e promuovere lo stile omosessuale tra i bambini nelle scuole: è giusto? Anche chi non è illuminato dalla Rive­lazione circa la sessualità umana do­vrebbe considerare la natura come un punto di riferimento».
 Nel suo libro sulla 'rivoluzione del gender' lei afferma che dopo il na­zismo e il comunismo gli europei hanno 'fallito' perché non si sono preoccupati di cos’è la verità.
 
«Uno dei testi più illuminanti sulle radici filosofiche e la struttura del relativismo è Werte in Zeiten des Umbruchs di Joseph Ratzinger. Le radici risalgono a 4 secoli avanti Cri­sto, al filosofo greco Protagora: 'L’uomo è la misura di tutte le co­se', il credo del relativismo attuale. Ma un uomo è venuto tra noi, è Dio ed è misura di tutti gli uomini: Ge­sù Cristo, che afferma: 'Io sono la via, la verità e la vita'. Lui è la roc­cia su cui è stata costruita la mera­vigliosa ricchezza culturale dell’Eu­ropa, ma i relativismi tentano di di­struggerla ».
  Quest’anno si è ricordato il 40° an­niversario del Maggio francese: quali le sue eredità positive? Quali quelle negative?
 «Devo sforzarmi per trovarne di po­sitive: forse l’incoraggiamento ad u­na democrazia su base popolare, ovvero che le persone dovrebbero alzare la voce quando le cose van­no male. Ma si comportano così? Abbiamo una nuova legge non scrit­ta basata sul politically correct cui ci si deve conformare se si vuole la­vorare nei media, in politica, all’u­niversità, in ambito giuridico o me­dico. Il 'politicamente corretto' è un modo per mascherare le tendenze totali­tarie nella so­cietà.
È l’ideolo­gia del ’ 68 svi­luppata nel­l’ambito del
  gender: l’'ugua­glianza' delle donne - al pun­to da sopprime­re gli uomini - è positiva, la ma­ternità sbaglia­ta; tutte le per­versioni sessua­li sono accettate, ma continuare a pensare che la procreazione etero­sessuale rappresenta ciò per cui sia­mo fatti è considerato un atto 'di­scriminatorio', 'omofobo' e - per il Parlamento europeo - va sradicato e sanzionato. Gli impulsi ideologici del Sessantotto sono la causa della distruzione della famiglia e del di­sastro demografico dell’Europa. Ciò viene semplicemente ignorato dal­la maggior parte dei legislatori; il Consiglio d’Europa - ad esempio ­ha votato ad aprile in favore di un accesso senza limiti all’aborto».

 
Lei critica il filosofo Robert Rorty che sostituisce la ricerca della ve­rità con il 'peso' del voto demo­cratico. È possibile costruire una democrazia fondata sulla verità?
 «
Se in una democrazia la gente de­cide quel che si deve fare, ci deve essere qualche nozione di cosa è be­ne e male per mantenere una na­zione lungo la rotta del bene au­tentico. Ciò è espresso dall’affer­mazione seguente: la democrazia vive di precondizioni che non ri­produce da se stessa. I significati fondativi con cui è arrivato nel cuo­re della gente l’orientamento verso il bene si trovano - si trovavano? ­nella nostra cultura basata sul cri­stianesimo ».
 Come vede il futuro dell’Europa ri­spetto al cristianesimo?
 «
Da un punto di vista umano vedo un futuro 'nero'. Stiamo distrug­gendo da soli l’eredità e la popola­zione cristiana rifiutando la pro­creazione e uccidendo milioni di bambini nel grembo delle madri, mentre da noi la popolazione mu­sulmana cresce in maniera rapida. Ma dobbiamo lavorare per un Ri­nascimento cristiano in base a quanto l’angelo Gabriele disse a Maria: ' Niente è impossibile a Dio'».


Postato da: giacabi a 11:36 | link | commenti
testimonianza, il 68

lunedì, 21 luglio 2008

Love me tender di un amore più grande  ***
 
 love me tenderIn «Loving you» fu la prima attrice a baciare Elvis Presley sul grande schermo
di Silvia Guidi
Q
uello che madre Dolores cerca sempre di far capire a giornalisti, fan, semplici curiosi che le scrivono per posta elettronica, figli e figlie spirituali, ex colleghi dello star system e amici vecchi e nuovi è che non è mai veramente cambiata. Sfogliando l'album dei ricordi della sua vita, e le tante interviste rilasciate oltre cinquanta anni fa a tabloid e riviste di cinema, ci si accorge che è proprio così. Anche il nome è rimasto lo stesso:  Dolores Hart, l'idolo dei teen-agers rockabilly, la protagonista di film di enorme successo come King Creole e Wild is the wind, con Anna Magnani e Anthony Quinn, la prima attrice che ha baciato Elvis sul grande schermo (in Loving you), la nuova Grace Kelly amata e odiata da milioni di fan ("Il flirt con Elvis è autentico o solo una trovata pubblicitaria per promuovere il film?", si chiedevano più o meno tutte le ragazzine d'America che affollavano i cinema dalla provincia profonda ai quartieri alti di New York nell'estate del 1957, ritagliando le sue foto per chiedere al parrucchiere di copiare il suo esatto tono di biondo), la brillante e sensibile interprete di commedie sofisticate a teatro è oggi madre Dolores, priora delle novizie nell'abbazia Regina Laudis a Bethlehem, Connecticut. La stessa donna, senza soluzione di continuità. "Se hai fiducia in Dio puoi affrontare qualsiasi cosa" scrivevano i cronisti dei tabloid in technicolor degli anni Cinquanta riportando le dichiarazioni di una giovanissima starlet dai luminosi occhi azzurri, stupiti della serena determinazione di una ragazzina cresciuta a Beverly Hills, contesa dalle majors e abituata a compensi a molti zeri, ma con una rocciosa determinazione a "fare la cosa giusta" come direbbe Spike Lee, o meglio, a tenere "il cuore al posto giusto" come consiglia la grande scrittrice cattolica americana Flannery O' Connor, a centrare ambizioni, aspirazioni, affetti e desideri sull'Unico che è in grado di rispondere alle attese del cuore.
"Se hai fiducia in Dio puoi affrontare qualsiasi cosa" ripeteva Dolores ai giornalisti che le chiedevano rivelazioni sul suo prossimo film, intendendo davvero "qualsiasi cosa":  dai riflettori di Hollywood alle trappole dello star system e gli sgambetti tra colleghi, dall'euforia del successo - all'inizio degli anni Sessanta era tra le giovani promesse più quotate della scuderia Metro Goldwyn Mayer - al timore di deludere le aspettative di un pubblico esigente come quello di Broadway, dall'angoscia della telefonata dell'agente o del responsabile del cast che non arriva, al dolore di dover lasciare il set e i colleghi dopo mesi di lavoro, vita in comune e preoccupazioni condivise.
"Se ti fidi davvero di Dio puoi affrontare qualsiasi cosa" ripeteva Dolores Hicks (il suo vero cognome) agli altri e a se stessa, anche le sfide private e le ferite invisibili all'esterno come il dolore per il divorzio dei genitori, divisi dall'alcol e dalla competizione nel lavoro - Bert ed Harriett Hicks erano entrambi attori -, i litigi continui in famiglia (Bert amava il gioco e la bella vita, "era un tipo alla Clark Gable", spiega la figlia), l'infanzia dalla nonna a Chicago, e, con il passare degli anni, la lotta con una vocazione tanto strana quanto affascinante, la fatica di dover lasciare l'amatissimo fidanzato, l'imprenditore californiano Don Johnson, perché Dio chiede la vita e la chiede tutta, secondo modalità totalmente impreviste, in modo misterioso ma inequivocabile, chiedendo una radicalità di scelta che fa paura a se stessi e agli altri, apparentemente assurda e incomprensibile anche per tanti credenti.

È stata la determinazione a prendere sul serio il suo desiderio di essere pienamente e totalmente felice a portare Dolores prima a voler essere una brava attrice, poi a non accontentarsi dei lustrini effimeri dei party postproduzione e di qualche titolo a sette colonne sui giornali, lasciando la gabbia dorata degli studios di Hollywood per il silenzio pieno di canti di un'abbazia benedettina in mezzo alle praterie del Connecticut, dove il lavoro è coltivare un appezzamento di 359 acri, mungere le mucche prima all'alba (la sveglia suona alle due di notte per il mattutino), curare la serra delle fragole e accogliere nel proprio cuore tutto lo smarrimento e la disperazione del mondo per offrirla a Dio con la pacata bellezza del canto gregoriano.
"Prima ancora di aver compiuto vent'anni mi sono accorta che lavorare nel cinema mi dava molta meno gioia di quello che mi sarei aspettata" racconta Dolores, per far capire che il suo lavoro non è stato un ostacolo, ma una strada al compimento della sua vocazione, la circostanza che le ha permesso di essere leale di fronte al suo desiderio di verità e bellezza, fino a scegliere la clausura. L'addio agli studios, infatti, arriva dopo il 1961, l'anno in cui interpreta Chiara in Francesco d'Assisi di Michael Curtiz; immedesimarsi con il personaggio la conduce a bussare sempre più spesso alla porta dell'abbazia di Bethlehem. "Ogni volta era più bello arrivare e facevo sempre più fatica ad andarmene. Ho capito che quella era casa mia".
Anche l'amicizia con Elvis, all'inizio della sua carriera, l'ha aiutata a capire che il successo non è sinonimo di felicità. "Mi chiedono sempre di lui, ovviamente" spiega madre Dolores, ricordandolo come "un ragazzo gentile e timido, con le orecchie rosse per l'imbarazzo di dover ripetere la scena del bacio. Io non sapevo neanche chi fosse, non era ancora così famoso. Mi stava molto simpatico perché mi chiamava signorina Dolores; a Hollywood solo lui e Gary Cooper mi chiamavano così. Elvis era un ragazzo buono e sensibile, ma col passare degli anni era sempre più triste e solo, e terribilmente infelice".

Madre Dolores, quando ha realizzato che la presenza di Cristo era l'unica vera risposta ai bisogni più profondi del cuore?

Potrei dire che è la risposta, la presenza di Cristo, che mi ha fatto capire meglio la domanda. Posso solo sperare di aver capito qualcosa di questa domanda con la testimonianza della mia vita. E soprattutto sperare che, grazie all'"evidenza visibile" della mia vocazione di religiosa capirò la profondità della presenza del Signore nella sua Incarnazione. Un rapporto vivo e personale con Cristo è necessario per capire che la Sua presenza è l'unica cosa veramente reale e veramente preziosa della nostra vita.

Quando ha deciso di uscire dal turbine di impegni, prove, riprese, interviste e tournée della sua carriera di attrice?

In realtà non ho mai davvero abbandonato il "turbine" della mia carriera di attrice, è qualcosa che vive ancora con me. Tanti attori sono venuti spesso all'abbazia per trovare risposte alla loro confusione e alle loro ferite, e sono felice che il mio essere qui apra a loro una strada personale, sia per loro un accesso privilegiato verso un luogo dove posare l'ancora, un'occasione per riconciliarsi con Dio nel modo più profondo e autentico possibile. I miei amici portano all'abbazia il flusso costante delle angosce che riempiono i loro cuori. Sono rimasta vicina alla comunità degli attori attraverso la loro presenza e attraverso la mia dedizione a loro.

Cosa ricorda con più affetto del suo lavoro a Broadway?

The Pleasure of His Company è stata la prima e unica volta che ho lavorato a Broadway. È stata un'esperienza meravigliosa che mi ha fatto conoscere alcuni dei più grandi artisti dell'epoca, come Cornelia Otis Skinner, Charlie Ruggles e Walter Able. Mi ha insegnato di più guardare Cyril Richard rubarmi la scena che seguire le direttive di un qualsiasi altro regista. Io pensavo di avere una speciale vis comica e uno speciale feeling col pubblico quando ero sul palcoscenico con lui; non mi ero accorta che gli spettatori morivano dal ridere perché Cyril, dietro di me, faceva delle buffe smorfie guardando il soffitto e tirandosi le orecchie. Un vecchio trucco da vaudeville? Certamente. Ma funzionava davanti al pubblico naïve di fine anni Cinquanta.

L'abbazia Regina Laudis è famosa in Connecticut per la sua stagione teatrale. Come è nata l'idea di costruire un palcoscenico accanto al convento?

Una cara amica, Patricia Neal, è venuta a trovarmi all'abbazia dopo la fine del suo matrimonio nel 1979, un dolore che l'ha provata molto. Abbiamo pensato che una delle cose più efficaci per farle riacquistare il senso della sua dignità e la consapevolezza del suo valore di persona era farla tornare su un palcoscenico. Ma prima dovevamo costruirne uno. Con l'aiuto di Patricia ci siamo riuscite. A metà degli anni Ottanta abbiamo inaugurato il "The Gary-The Olivia Theater", costruito in nome di Gary Cooper e sua figlia Olivia:  è un teatro all'aperto da cinquecento posti, con spendide produzioni tutte le estati. Abbiamo rappresentato praticamente tutto Shakespeare e musical come MusicMan o Fiddler on the Roof l'anno scorso. Quest'estate metteremo in scena West Side Story.

E continuerete a vendere i cd di canto gregoriano del coro Regina Laudis

L'anno scorso abbiamo inciso il nostro nuovo compact, L'annuncio del Natale, con una selezione di pezzi cantati che inizia con l'Avvento e accompagna l'ascoltatore fino all'Epifania. È una gioia speciale sentire la Genealogia di Cristo cantata dalla badessa come facciamo durante la messa di mezzanotte nella nostra chiesa Jesu Filii Mariae, e mi ha reso davvero felice accettare la proposta di leggere la traduzione inglese poi incisa sul cd, che si può ordinare tramite il nostro sito www.abbeyofreginalaudis.com.
 È stato uno splendido regalo iniziare il lavoro un anno dopo il passaggio alla casa del Padre della nostra fondatrice.
La badessa Benedict Duss nutriva un profondo amore per il canto, un amore che ha trasmesso a tutta la comunità fin dai suoi inizi, "imbevendo" di musica la nostra vita e chiamando esperti come Dom Joseph Gajard dell'Abbazia di Solesmes e Theodore Marier, celebre insegnante di canto e direttore di coro, per lavorare con le suore. Da subito la comunità ha iniziato a studiare canto e sviluppare un amore particolare per la bellezza del suo puro suono e la sua capacità di tradurre i misteri della Chiesa. La badessa ne era ben consapevole, e non ha lasciato niente di intentato perché la comunità fosse costantemente "colmata" e accompagnata della maestà della musica.

Fa ancora parte della commissione che assegna gli Oscar


Il 13 giugno 1963 Dolores Hart, reduce dal lungo tour promozionale del suo ultimo film Come fly with me, chiede all'autista della sua limousine di lasciarla davanti all'abbazia Regina Laudis. È il suo addio alle scene, incomprensibile per i suoi colleghi dopo l'enorme successo di Where the boys are e Loving you (narra la leggenda che al suo debutto nelle sale, nel 1957, il pubblico non riusciva a sentire i dialoghi a causa delle urla di entusiasmo delle fan di Elvis), ma solo un arrivederci per i suoi amici attori Montgomery Clift, Walter Matthau, Anthony Franciosa, Maureen Stapleton, Robert Wagner, che invita a venirla a trovare in convento. Madre Dolores fa ancora parte della "Motion Picture Academy of Arts and Sciences", la commissione che sceglie i vincitori degli Oscar. Nel 2004 è tornata a Hollywood per diffondere la conoscenza di una malattia neurologica molto rara, che ha colpito anche lei. Nel 1999 improvvisamente si è trovata nell'impossibilità di camminare, di mangiare e di parlare. Per sei mesi è passata da un ospedale all'altro, senza che nessuno riuscisse a trovare la causa dei dolori che l'affliggevano, finché uno specialista di New York è riuscito a trovare una soluzione, che le ha permesso di lasciare la sedia a rotelle e tornare a una vita normale.


(©L'Osservatore Romano - 18 luglio 2008)

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testimonianza

domenica, 13 luglio 2008

***Di Pierluigi Fiorini
Ma le tenebre non sono né morte, né vuoto,
In esse si disegna la croce.
Mia fine, mia fine consumata


Elizaveta Pilenko, poi Mat' Maria, nacque nel 1891 e morì nel 1945 nella camera a gas di Ravensbrück. La sua fede ortodossa e la sua vocazione monastica costituiscono il fondamento per un'appassionata vita d'azione, dedita all'impegno sociale, consapevole del legame profondo tra Chiesa e Sinagoga e desiderosa che questo diventi manifesto.
A Gerusalemme, Jad wa-Shem ricorda il suo nome tra quello dei giusti delle nazioni; a Parigi, presso l'Esarcato del Patriarcato di Costantinopoli, sono allo studio gli atti per la sua canonizzazione. Monaca russa ortodossa che ha subito il martirio in Occidente, certa della vittoria del bene sul male e che coopera al disvelarsi di questa, Mat' Maria presenta agli occhi del credente la ricchezza dell'ecumenismo dei santi [1].


Dalla morte la vita
Le tappe della vita di Madre Marija, dopo i quindici anni, sembrano dolorosamente scandite dalla morte delle persone care: dai propri lutti attinge determinazione più vigorosa e li vive come richiamo a una maggiore vicinanza alla verità.

Elizaveta nacque in una famiglia ricca, con relazioni prestigiose, e trascorse gioiosamente l'infanzia. Poi conobbe la forza della sofferenza. La morte del padre nel 1906 sembra la risposta ai suoi interrogativi da adolescente e la ragazza è convinta che l'esperienza del dolore cancelli Dio: "La risposta è venuta, ed è stata tragica. Di quella risposta ricordo il paesaggio. Era l'alba di una calda giornata estiva. Il cielo era roseo, c'erano delle foglie d'acacia, passeri che cinguettavano, e quei pianti nella camera: mio padre è morto. Nella mia testa pensavo: nessuno ha bisogno di questa morte. È un'ingiustizia. Se non c'è un Dio giusto, non c'è nessun Dio" [2].

Gli anni seguenti sono importanti per la formazione intellettuale di Elizaveta, ma sono soprattutto segnati da un'ansia di verità, da un'appassionata ricerca di Gesù e del Padre che non è stato veramente possibile liquidare con il ragionamento dei quindici anni. L'angoscia, però, sembra non superata. Anche l'incontro con il poeta simbolista Alexandr Block -il discepolo di Solov'ev che dichiarava di non amare altro che l'arte, i bambini e la morte- è dominato dai temi del dolore e della sofferenza incombente. La ricerca della verità e della liberazione dall'angoscia porta Elizaveta a ottenere di seguire dei corsi di teologia per corrispondenza -le studentesse non erano ammesse all'accademia teologica di San Pietroburgo- e supera gli esami brillantemente
Nel 1910 sposa, senza troppo riflettervi, Dmitrij Kuz'min-Karavaev. Benché gli anni di questo matrimonio siano caratterizzati da una brillante vita intellettuale e dalla frequentazione dei poeti russi dell'età d'argento, le notti in bianco, le eterne discussioni, i teatri e i liquori lasciano in Elizaveta un senso opprimente di vuoto:"Il cuore mi diceva da lungo tempo: 'credi'. / … Non più speranze, non restano che dubbi /… Tutto è più vuoto, ma forse più vasto?" [3]. Per lei, però, che a quindici anni aveva tenuto delle lezioni agli operai di una fabbrica, il problema si pone anche nei termini, tipici della tradizione russa, del rapporto tra popolo e intellettuale: "Vivevamo al centro di un immenso paese come al centro di un'isola deserta.La Russia non sapeva leggere, ma tutta la cultura del mondo si concentrava nel nostro ambiente… Eravamo cittadini dell'universo, guardiani del grande museo della civiltà umana. Roma al tempo della decadenza. Non vivevamo, godevamo di quel che vi era di più raffinato nella vita

Non indietreggiavamo davanti a nessuna parola nella sfera dello spirito. Eravamo cinici e impudichi, ma inconsistenti e inerti nell'esistenza. Era, in un certo senso, la rivoluzione prima della rivoluzione, perché scavavamo profondamente, spietatamente, fatidicamente nella terra delle vecchie tradizioni. Lanciavamo degli arditi ponti sull'avvenire! Ma al tempo stesso questa profondità e questo coraggio si associavano a una sorta di declino, a uno spirito di morte, al sentimento del carattere effimero, spettrale di ogni cosa. Vivevamo l'ultimo atto della tragedia, la rottura fra il popolo e l'intelligencija" [4].
La sensazione di inutilità è fatale a quel matrimonio: Lizaveta lascia Dmitrij che non ha potuto salvare dal vuoto e dall'alcol. Questi troverà altrove la via della sensatezza: diverrà sacerdote cattolico.
Prima di ottenere il divorzio, quando però è già separata dal marito, Elizaveta ha, da una breve relazione, la sua prima figlia, Gajana. Non si sa quasi nulla del padre di Gajana, cui Dmitrij Kuz'min-Karavaev dà il proprio cognome e a cui dimostrerà in più occasioni un affetto paterno.

Queste vicende sono importanti per la scelta politica della futura madre Maria, che aderisce al partito socialista rivoluzionario, mentre attorno a lei infuria il fragore della I Guerra Mondiale. Ma la sua sete spirituale non è sazia: compra un tubo di ferro, lo schiaccia col martello e lo indossa sotto le vesti come una cintura. Ciò che vuole è che Cristo la renda certa che Egli esiste veramente.
Gli anni della guerra sono anche quelli in cui Elizaveta inizia la sua attività instancabile; la sua azione politica la occupa sempre di più; diventa sindaco di Anapa, la località vicino alla Crimea dove ha trascorso buona parte della sua infanzia serena; si mostra energica e determinata; medita un attentato contro Trockij, ma desiste dall'uso della violenza; collabora con i bolscevichi, benché loro avversaria, e per questo viene processata dai bianchi. Suo giudice è Daniil Skobcov che le risparmia una dura condanna. Pochi giorni dopo al processo i due prendono la decisione di sposarsi.
La sconfitta dei bianchi apre un nuova capitolo della vita di Elizaveta: lascia la sua terra e attraverso la Georgia, Costantinopoli, la Serbia giunge in Francia. Non è solo la via dell'esilio: il viaggio a Costantinopoli e la scoperta delle chiese greche è un ritrovamento delle radici dell'Ortodossia; si tratta anche però di un cammino verso l'occidente, dell'incontro con una diversa esperienza cristiana. Prima che la famiglia possa stabilirsi, nel 1923, a Villepreux, presso Parigi, si è arricchita di due nuovi figli, Jura, l'unico maschio, e Anastasija. Quest'ultima muore a tre anni di meningite. Anche questo nuovo dolore imprime una svolta alla vita di Elizaveta.

Realizza ritratti di dolente bellezza della figlia morente e afferma: "Accanto a Nastasija ho sentito che la mia vita, la mia anima, avevano sempre seguito delle vie anguste, limitate. E adesso voglio una vita autentica e purificata, non al di fuori della mia fede nella vita, ma per giustificare, comprendere e accettare la morte. Qualunque cosa se ne pensi non esistono parole più grandi che 'amatevi gli uni gli altri'. Da allora tutto si giustifica, senza eccezione. Allora la vita nella sua totalità è illuminata, mentre al di fuori di esse non vi sono che abominio e dolore" [5].

Il primo gesto di questo nuovo impegno è un'attività di maggiore responsabilità e impegno nell'ambito dell'Azione cristiana degli studenti russi di cui faceva già parte. Ma non ha ancora trovato un orientamento definitivo per il suo cammino; in questo periodo ha un interlocutore d'eccezione in padre Sergeij Bulgakov. Elizaveta prende la decisione radicale della vita monastica e, ottenuto il consenso del marito, pronuncia i voti il 7 marzo 1932 e assume il nome di Maria.

Contrariamente alla tradizione propria del monachesimo ortodosso, madre Maria non sceglie una vita di santità scandita dall'azione liturgica e dal ritmo dei digiuni e delle penitenze, ma si impegna con decisione per soccorrere nelle vie di Parigi quanti sono vittima della solitudine, dell'ateismo, dell'alcool… La sua convinzione è che Dio si serva dell'uomo, di lei, e che solo la sua disponibilità consenta l'opera di Dio. A questo scopo fonda nel 1935 Azione ortodossa; fanno parte del comitato direttivo il teologo Sergeij Bulgakov e il filosofo Nikolaj Berdiaev.


Nel 1936 un nuovo lutto: Gajana muore di tifo in Russia. Madre Maria vive anche questo con la convinzione del trionfo finale della vita contro la morte ("Morte, non è per amarti che sono cresciuta / La cosa più viva in questa vita è ciò che eterno").
Le persecuzioni naziste in Francia durante la seconda guerra mondiale la chiamano all'eroico impegno della difesa degli ebrei, a cui si dedica con vigore e santità assieme a suo figlio Jura, a padre Dimitrij Klepinin e altri del suo gruppo. La loro attività è notata dagli invasori, vengono arrestati e inviati in campo di concentramento. Jura e padre Dimitrij, deportati a Buchenwald, moriranno nel febbraio del 1944. Madre Maria, nel campo di Ravensbrück, saprà della morte del figlio; quest'ultimo lutto sembra disporre la monaca alla propria fine ("Se morrò, vedrò in questo una benedizione dall'Alto". "Jura è morto; anch'io desidero morire"). Il Venerdì santo del 1945, 31 marzo, Mat' Marija è destinata alla camera a gas o forse prende il posto di una compagna in preda alla paura. In alcuni suoi versi del 1942 compare un presagio di questa fine.

La monaca, la concezione di monachesimo e di maternità
"Consacratevi agli ultimi" raccomanda il metropolita Evlogij nel dare la sua benedizione ad Azione ortodossa. Madre Maria vive in modo radicale questa esortazione, convinta di essere uno strumento nelle mani del Signore per fare fiorire altre anime. Il suo impegno incessante è quello di accogliere nella casa di rue de Lourmel diseredati di ogni tipo, di preoccuparsi del loro nutrimento portando i rifornimenti in pesanti sacchi o spingendo la carriola che li conteneva, ma anche quello di curare una vivace vita intellettuale e di parteciparvi.

La divergenza tra il suo comportamento e la tradizione monastica ortodossa le attirò numerose critiche, unite a quelle del suo comportamento -il fatto di fumare o di avere incontri regolari o anche frequenti con l'uomo che era stato suo marito. Ma lei non si limita a ignorare le critiche, le prende di petto, elaborando una propria concezione della vita monastica in un testo teatrale, Anna, in cui si contrappongono la visione di Paula, una monaca fedele alla tradizione, e quella di Anna, che dà voce al pensiero dell'autrice. A Paula che dichiara di avere operato la scelta monastica per la propria salvezza, Anna risponde che il vero monastero è nel mondo: "Noi portiamo sulle spalle la croce del mondo". Poi, contrapponendosi esplicitamente alle parole dell'Epistola a Diogneto, afferma "Noi siamo del mondo".

La medesima visione dell'impegno monastico compare in un'opera dal titolo: Le diverse forme di vita religiosa. In essa madre Maria distingue cinque diverse concezioni di vita cristiana, non solo monastica. La pietà sinodale porta a venerare con medesima devozione Chiesa, patria e zar. La pietà legalista conduce a un'osservanza minuziosa di precetti e divieti.

La pietà estetica, che riconosce nella bellezza un criterio di verità, può indurre a deviazioni dal Cristianesimo fino ad allontanare completamente da esso. La pietà ascetica non è specifica del Cristianesimo e, a suo avviso, può diventare una forma molto elaborata di egoismo. La pietà evangelica, finalmente, propria dei santi, caratterizzata dalla manifestazione dell'immagine di Dio interiorizzata, è riconoscibile dall'amore del prossimo. Madre Maria non cerca mai un facile consenso e non teme le contestazioni, la sua opera infatti -come il suo proprio stile di vita- le attirò critiche, numerose e severe.

La vita religiosa di Madre Maria presenta un altro tratto non frequente: ella è madre e per tutta la vita conserva un amore intenso per i suoi figli; prova un acuto senso di colpa per non avere saputo difendere Gajana dalla morte; tiene accanto a sé Jura finché non saranno separati dalle persecuzioni e con la sua morte avverte la fine della propria vita.

Sia nell'opera su Le diverse forme di vita religiosa, sia in altre occasioni Madre Maria spiega la propria concezione di maternità, non amore egoista di sé e dei propri figli, ma un amore cristiano che veda in essi l'immagine di Dio; figli che saranno liberi, ma anche esposti al pericolo.
La Chiesa e la Sinagoga: il martirio
Con l'occupazione nazista in Francia, la casa di rue de Lourmel diventa un centro importante di aiuto agli ebrei. Padre Dimitrij Klepinin, il rettore, vi prepara certificati di battesimo veri -per ebrei che si fanno battezzare- e falsi.
Madre Maria, quando viene fatto obbligo agli ebrei di indossare la stella di Davide, ricorda come questa sia uno scudo, non un marchio di infamia, e che in quella situazione tutti i veri cristiani potrebbero portarla.Nel luglio del 1942 madre Maria si reca al Velodromo d'Inverno, dove sono stati radunati molti degli ebrei rastrellati, tra essi un numero elevato di bambini; ottiene il permesso di entrare; porta soccorso e conforto e riesce a organizzare sul momento una fuga di bambini nascosti nei bidoni della spazzatura.
Anche per la presenza di un agente nazista infiltrato, l'Azione ortodossa viene colpita: padre Dimitrij, Ivan, madre Maria e altri ancora vengono arrestati.


Lo spirito di forte legame avvertito dai membri di Azione ortodossa con le origini ebraiche del Cristianesimo si avverte con vigore nelle parole del sacerdote durante l'arresto: questi all'ufficiale tedesco che gli domandava con che animo potesse aiutare degli ebrei rispose, mostrando la croce pettorale: "E questo ebreo lo conoscete?".

Madre Maria aveva da tempo previsto e accettato la possibilità di un tale esito della sua azione ("Ma perché andarmene? Di che cosa sono minacciata qui? Nel peggiore dei casi, i tedeschi mi chiuderanno in un campo di concentramento. Ma gli esseri umani vivono anche là"). Dapprima reclusa in Francia, viene poi deportata a Ravensbrück. Anche in campo di concentramento trova la forza per aiutare le sue compagne, portando il conforto dei suoi piccoli doni -i suoi ricami bellissimi preparati chissà come in quell'inferno- o degli addobbi per il mattino di Pasqua, sostenendo la loro fede con la lettura e il commento di un testo religioso, alimentando la loro speranza con la certezza che la morte non è la parola ultima sull'uomo, incrollabile anche davanti ai forni crematori: "Questo fumo è sinistro solo appena esce dal camino. Ma guardatelo levarsi in alto e vedrete come salendo si trasforma in una nube leggera, immateriale, che si dissolve nello spazio infinito. Così fanno le nostre anime quando si strappano da questa terra di peccato, e dopo un volo leggero sono aspirate per l'eternità in nuova vita di felicità". La forza della speranza non nasconde l'intensità del dolore e il martirio si fa più atroce per la difficoltà di scorgere il disegno di Dio: "Scagliami come una torce nella notte. / Che tutti vedano, che tutti apprendano ciò che chiedi agli umani / Quali tuoi servi mandi al sacrificio".
Già da tempo Mat' Marija è pronta a questo passo, sa che, torcia nelle tenebre, non giungerà all'angoscia della morte e del vuoto, ma alla croce
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testimonianza

sabato, 05 luglio 2008


Chiedo di ringraziare Dio e la Vergine…

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Grazie al grande amico:  fontanavivace
da :  Avvenire   04-07-0
LUNGO SEI ANNI DI PRIGIONIA
  LA PREGHIERA IL FIATO CHE L’HA TENUTA IN VITA

 DAVIDE RONDONI

I
n sei anni di prigionia, strappata ai figli, e sen­za sapere se il giorno che viveva poteva esser l’ultimo, lei avrebbe potuto trovare mille motivi per bestemmiare Dio. Per rinnegarlo. Per pensa­re che la vita, come dice un personaggio di Shake­speare, sembra una commedia realizzata da un ubriaco. Invece no. Invece le prime parole in con­ferenza stampa sono state: chiedo di ringraziare Dio e la Vergine… Come se mentre i potenti e le polizie di tutto il mondo si affaccendavano per raggiungerla, Dio e la Vergine fossero stati sem­pre lì con lei. La corona del rosario, fatta con una corda, è stato il suo legame con la vita. Con il sen­so della vita. E dunque il legame che l’ha strap­pata alla disperazione e alla follia.
  Per questo, la signora che si è trovata al centro di un intrigo internazionale ha detto per prima quel­la cosa in conferenza stampa. Come se dicesse: buongiorno. Come se dicesse una cosa normale. Lei che ha vissuto sei anni del tutto anormali, ec­cezionali. Che deve aver avuto tutti i pensieri pos­sibili a un essere umano. E gli sbalzi tra conforto e sconforto. Ha detto di ringraziare Dio e la Ver­gine come se parlasse dell’aria che ha respirato. La preghiera detta tutti i giorni, all’alba da sola, o alla stessa ora in cui sapeva che la diceva sua ma­dre, è stata il fiato che l’ha tenuta in vita. Perché la preghiera di lei somiglia alla preghiera che da secoli dicono gli uomini e le donne semplici. La preghiera che è come un respiro. Che è il gesto di non lasciarsi andare. Di dire a Qualcun altro dammi la forza. È il gesto delle persone realiste. Cioè di quelle che nessuno ha davvero tutta in­tera la forza per reggere la vita, che si svolga per sei anni di rapimento nel bosco, o per sessant’anni di vita in città, che sia per sei anni di privazione e pericolo, o per trent’anni di fatica e di lavoro. Lei è stata realista, ha pregato. È realista, è normale. Ma è anche un fatto eccezionale, quasi come il fat­to che sia stata liberata. Sì, il fatto che pregasse tut­ti i giorni, che non disperasse, insomma che do­po sei anni abbia il nome di Dio e di Maria sulle labbra, è un fatto eccezionale quasi quanto il fat­to che l’abbiano liberata. Sarebbe stato eccezio­nale anche se non la liberavano. Sarebbe stato il segno che lei era già in fondo libera. Perché chi l’ha rapita non ha potuto esercitare la più dura for­ma di potere sull’altro uomo, quella di farlo di­sperare. Chi l’ha rapita non ha potuto imprigio­narla del tutto. Non ha potuto rubarle l’anima e il pensiero. Non ha potuto convincerla nemme­no che la sua vita fosse solo nelle mani di chi l’a­veva in ostaggio. Lei sapeva che era anche in al­tre mani. In questo aveva già sconfitto i suoi ra­pitori. Il rosario all’alba, e quello di mezzogiorno, detto in comunione con la madre, era già la scon­fitta dei suoi rapitori. Era il segno che lei era ed è di un Altro. Sconfitta della disperazione e scon­fitta
dei rapitori. Così quando in conferenza stampa ha innanzi­tutto usato quelle parole di ringraziamento a Dio e alla Vergine, Madame Betancourt ha mostrato ai potenti e ai rapitori in che mani è il mondo. E in che mani lei si era messa. Ha detto una cosa eccezionale, e però realista. Normale come dire: buongiorno. Ed eccezionale come dire: sono li­bera. La preghiera è il respiro degli uomini libe­ri. Non degli uomini e delle donne a cui va tutto diritto, o a cui manca qualche rotella. E’ il respi­ro normale di quella cosa eccezionale che si chia­ma libertà. Madame lo ha mostrato. I suoi lunghi sei anni non sono stati solo un pozzo oscuro, in cui è inimmaginabile come si potesse sentire. So­no stati anche il luogo dove non era mai sola. Al­la faccia dei suoi rapitori, e di chi crede – con tan­te forme di rapimento, di separazione, di na­scondimento – di possedere l’uomo, o di farci sen­tire da soli e disperati. Da una donna che hanno tenuta prigioniera ci arriva una piccola grande lezione di libertà. E un invito a cercare il respiro che lega alla vita e a Dio, più delle mille chiacchiere che ci lasciano più so­li e più schiavi.

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testimonianza

mercoledì, 18 giugno 2008

Pensieri di
 ***
"La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla 8 immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana."

"
Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa, se è amore autentico."


La vita è tutta tessuta di ideali, di fini da conseguire che, puri o impuri, hanno un solo scopo: il raggiungimento del bene. Il bene per noi, per il prossimo; e da questi ideali, da questi fini derivano il senso buono e cattivo della vita. Esaminando tutto ciò che ci circonda, attraverso un processo logico e razionalistico, si perviene a una origine comune, a un essere di indefinibile natura che ha dato origine a tutto. Tutto l’universo, per quanto immenso, si identifica in questo essere. Dio è come un perno su cui gira tutto ciò che è. Tutto viene e ritorna a Dio, Dio è principio e fine. L'uomo nella sua follia peccaminosa pensa spesso al principio, ma molto raramente alla fine..."


 "Sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di
candidato
o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento  superi di molto in prestigio, potere ed importanza l'ufficio
del giudice,
effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall'ordine giudiziario."


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giustizia, testimonianza

giovedì, 05 giugno 2008

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Quel pancione gettato come una sfida a Dio

Tempi 19 Maggio 2008

È storia antica, di un secolo fa quasi, che affiora ancora nelle campagne verso Ravenna, dove la pianura è infinita e il sole a giugno inchioda le cose a terra, senza margine d’ombra. Te la racconta il parroco di un paese, vaga, sfumata come quando una storia comincia a farsi leggenda. Poi la ritrovi precisa, con nomi e cognomi, in un saggio di un anziano sacerdote di Ravenna (don Enzo Tramontani, La settimana rossa nella Romagna del 1914, Longo).

Dunque la storia è del tempo delle rivolte anarchiche e socialiste dei braccianti affamati contro i padroni, il re, la Chiesa. Che fosse l’inizio della rivoluzione? Manipoli di uomini con asce e forconi assaltavano le chiese, in quel giugno 1914.
A Villanova di Bagnacavallo nel branco c’era una ragazza. Giacomina Tavolazzi, 21 anni, contadina, occhi di incendio sotto a una massa dei capelli neri. La banda piombò come una tempesta in paese, si avventò contro la pieve, le asce brandite a sfondare il portone. Sfasciarono ogni cosa, ciechi di furia. Poi, davanti all’altare, un gran banchetto di roba buona rapinata alle cascine. Sulle vivande Giacomina sparse come sale l’Ostia consacrata, ridendo: «Se è vero che qui dentro c’è il Signore, che me ne dia un segno in questo qui che ho nella pancia». E si battè sguaiata la mano sul ventre. Giacomina era incinta. Poi, ebbra, si accucciò a terra e pisciò sul Sacramento.

La rivolta fu soffocata. Stava per scoppiare la guerra. La ragazza del branco sacrilego rimase sola, il ventre che ingrossava. Quella storia, nei paesi, la sapevano tutti. E attorno alla profanatrice nelle campagne un fumo acre di paura, mentre le vecchie al suo passaggio mormoravano sinistre profezie su quel figlio gettato come una sfida contro Dio. Certamente, dicevano, sarebbe nato con addosso il segno della maledizione.
Nacque a marzo. Sua madre partorì all’ospedale di Ravenna, forse per fuggire agli occhi del paese. Sola, prese il suo fagotto e tornò a casa. Le rimase però in mente la suora che nel parto aveva avuto accanto. L’aveva accudita come una madre – e non le aveva fatto nemmeno una domanda.
Scolastica, si chiamava la suora, e Scolastico fu chiamato il neonato.

Crebbe con gli occhi curiosi e forse sprezzanti della gente addosso. Ma gli uomini hanno liberi destini. A 11 anni il ragazzo entrò in seminario. A poco più di venti fu prete, un prete molto amato in quelle campagne. La profanatrice morì in canonica, accanto al figlio della sfida.

Sorride ancora laggiù chi ricorda questa storia: vedete che scherzi fa Dio? Ma non fu vendetta, né beffa. Semplicemente, testimonia chi ha visto, Dio mostrò in quella donna il suo perdono. Che non è un dire: pazienza. Ma è trarre da un male un bene più grande. «Fatti vedere in questo che ho nella pancia», rise la fanciulla ubriaca. Dio la prese sul serio. Perdonando, e facendo nuova ogni cosa.

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mercoledì, 28 maggio 2008

Cannes premia Rose, una vita con i malati di Aids nel cuore dell'Africa



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Redazione24/05/2008


Autore(i): Redazione. Pubblicato il 24/05/2008 - Letto 1232







Rose ha il volto scavato dalla fatica, ma lo sguardo lieto di chi ha speranza. Le sue parole, i suoi sorrisi, i suoi gesti ci introducono nella vita delle donne e dei bambini di Kampala, toccati da quel male che in Africa assume sempre più i connotati di una strage, l'HIV.
Ma è lei, "zia" Rose, "mamma" Rose, come la chiamano nel villaggio, la vera protagonista di "Greater-Defeating HIV", il documentario scritto e diretto da Emmanuel Exitu, vincitore a Cannes del premio Babelgum (premiato in persona da Spike Lee).
Un protagonismo discreto, deciso ma mai autoreferenziale, una donna conscia dell'importanza del suo ruolo come fondatrice del Meeting Point, ma anche del fatto che, come lei stessa dice, la felicità per queste persone è oltre l'orizzonte dell'aiuto che l'associazione può dare. Un aiuto che è innanzitutto un'educazione che porta addirittura queste donne e questi bambini, che agli occhi del mondo sono solo i "poveri" da "compiangere" e da "aiutare", a farsi donatori a loro volta quando, è il momento più toccante del film, lavorano per sostenere i superstiti dell'uragano Katrina, a New Orleans, dall'altra parte del mondo.
Un esempio, il loro, che diventa insegnamento per noi che, come conclude Rose, possiamo "imparare a commuoverci" da queste misere e imponenti vite.
ilsussidiario.net ha raggiunto e intervistato il regista del film-documentario Emmanuel Exitu

Partiamo dalla vittoria del suo documentario al Babelgum Online Film Festival, premiato da Spike Lee: una bella soddisfazione...

Assolutamente. Si tratta di un concorso cui hanno partecipato più di 1.000 lavori da 86 paesi. La selezione è stata veramente dura, dal momento che c'è stata una prima scrematura dei video maggiormente apprezzati dal pubblico e il mio è stato il più visto e votato.
I primi dieci sono stati sottoposti poi all'attenzione di una giuria selezionata di esperti che ne ha scelti tre. Poi tra i finalisti Spike Lee ha scelto il vincitore, e ha secelto il mio, Greater. Mi ha detto che ho fatto un grande film e mi ha fatto i complimenti, ha tenuto addosso tutta sera la collana che gli ho portato dall'Uganda, fatta dalle donne di Kampala e mi ha detto di portare i miei saluti a Rose.

Il documentario si chiama Greater. Pechè questo titolo?

Perchè il messaggio fondamentale del film sta in una piccola domanda che Rose ha fatto a una di queste donne malate. Quando stava malissimo le ha detto: «Non sai che il valore in te è più grande del valore della tua malattia?».
Da dove nasce l'idea di scegliere questa storia come soggetto per il suo documentario?
È nata da un progetto chiamato Ventoproject.com, che è una specie di piattaforma editoriale che coinvolge internet, una rivista e i video, il cui direttore è Daniele Mingucci che mi ha dato una grossa mano per la realizzazione e il sostegno nell'affrontare questo lavoro e a cui sono molto riconoscente.
Il nostro obiettivo era di raccontare la speranza, e l'idea di andare in Uganda è nata dal rapporto con Arturo Alberti, il presidente dell'Avsi, che ringrazio molto. Io avevo già avuto modo di conoscere Rose al Meeting di Rimini. Mi sono presentato, le ho descritto la mia idea e abbiamo legato subito, anche se lei non è una che si lascia convincere facilmente.
Io l'avevo già sentita parlare in un incontro durante il periodo universitario: non ricordo nulla di quello che disse, ma mi ricordo che sono uscito piangendo: mi aveva commosso e anche al Meeting sono scese tante lacrime perchè è proprio bello quello che racconta. Sono lacrime non di compatimento per queste persone, sono lacrime per cose belle.


Il documentario parla delle donne e dei bambini ugandesi afflitti dalla piaga dell'Aids. Ci si aspetterebbe di vedere raccontata nel dettaglio la loro situazione, la loro sofferenza, invece sembra emergere Rose come protagonista.


Io faccio questo mestiere da 10 anni, lavoro nella fiction, ho fatto lo sceneggiatore freelance, ho fatto un film per la Rai e questo lavoro mi piace. Ma il desiderio che ho è raccontare la speranza. È troppo facile fare documentari di denuncia, anche perchè mi basta uscire di casa, girare l'angolo per incontrare drammi e cose brutte. Non ci vuole niente.

Il problema è andare a vedere chi cambia il mondo, chi non si lascia spaventare dal male, lo affronta e lo batte. Che segreto hanno queste persone? Mi interessano loro, cosa sta dietro il loro agire. Nel mio blog ho riportato una citazione del celebre regista americano John Ford. Lui ha detto delle cose incredibili, sostenendo che quello che vale è il volto umano. Io infatti sono un "drogato" dei primi piani, perchè dentro il volto umano c'è l'universo.

Una volta un'intervistatrice americana mi ha chiesto se i film possono cambiare il mondo. Sono rimasto allibito, è una domanda assurda, senza senso. Infatti mi sono scaldato e le ho risposto «ABSOLUTLEY NOT!». L'unica speranza per il mondo è incontrare e seguire gente come la Rose, tutto il resto non conta.
 
Un'altra cosa che mi sembra emergere è come l'interesse di questa donna non si soffermi sui problemi della gente, in generale. La sua attenzione è data ad ogni singolo.  
A lei non interessano i progetti, ma chi ha di fronte. Nel giro di due ore siamo diventati amici, e io ero una "bomba nucleare", perchè lei ha questo modo di fare che ti fa sentire importante e diventare una "bomba". 
Com'è stata la sua esperienza in Uganda? 
Tra sopraluoghi, riprese sono stato lì due settimane. La cosa fantastica è stata questa. Io sono gasato perchè Spike Lee mi ha detto che il mio è un gran film (tanto che io gli ho risposto di non ripeterlo altrimenti mi mettevo a piangere!). Non faccio questo preambolo per autocelebrarmi, ma è importante per quello che sto per dire. Io ho in mente questo tipo di stile registico che non è uno stile normale, convenzionale e sapevo che avrebbe funzionato il fatto di riprendere con due camere, girare sempre, adottando lo stile del reportage di guerra, che prevede il non rifare niente, non bloccare mai nessuno. La dinamica era questa: arrivava Rose e io le dicevo: «Ok, cosa facciamo oggi? Dove andiamo?». E poi le andavo dietro. Questo perchè ho un'estrema fiducia nel fatto che la realtà parli. Questo tipo di linguaggio funziona molto per raccontare le cose che emergono dalla realtà, non è agiografico. Il fatto che Spike Lee mi abbia fatto i complimenti è, da questo punto di vista, per me il massimo.

Un'altra cosa più importante è stata questa: quando ho proposto il progetto a Rose, lei ha ascoltato quello che le dicevo e poi mi ha detto: «Ok, Emmanuel vieni, mi fido del tuo cuore. Sento che a te interessa la stessa cosa che interessa me».
 
Il vostro rapporto personale è stato quindi fondamentale, al di là di questo film... 
Sì, ho in mente un altro episodio a questo proposito. Deve sapere che questo video ha già vinto un'altro premio, quello del pubblico al New York Aids Film Festival. Ed è una cosa strana, dal momento che il mio era l'unico documentario sull'Aids in cui non si parlava del preservativo!

Quando comunicai a Rose la mia intenzione di portare il documentario a New York, ero molto contento, soprattutto per la pubblicità e la promozione che avrei potuto svolgere. Lei mi guardò, con quel suo modo che sembra quasi si vergogni, poi guardò a terra e di nuovo alla mia faccia dandomi una "frustata" con gli occhi, e mi disse: «Ma no Emmanuel, non preoccuparti di queste cose, tu sei più grande, non devi aver paura. La vita non è un soffio che viene, tu sei più grande di queste cose».
 
A livello professionale, continuerà a battere questa strada, realizzando altri documentari? 
Io ho diversi contatti, anche con la Fox, ma per fare come dico io ho bisogno di soldi, perchè per dare maggiore ricchezza di racconto uso due camere, e i costi raddoppiano. Quindi gli sponsor sono i benvenuti.

Nella giuria c'era Sandra Ruch, executive director dell' International Documentary Association di Los Angeles, un'organizzazione molto grande, che mi ha invitato in America, stupita del fatto che questo fosse il mio primo documentario. «One shot, one kill», ho sottolineato io, come dicono i cecchini.

Ma quello che mi piacerebbe fare è una serie di video su persone come Rose, in cui raccontare la speranza. Quello che voglio è che la gente, vedendo i miei lavori, abbia una sola e semplice reazione: che gli batta il cuore.

 

Approfondisci

Leggi l'intervista a Rose

Guarda il trailer di presentazione di Greater al Babelgum Online Film Festival

Il sito di Emmanuel Exitu

 



Postato da: giacabi a 21:51 | link | commenti
testimonianza

lunedì, 28 aprile 2008

Un sogno avverato
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“..io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".
Martin Luther King  



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testimonianza

mercoledì, 09 aprile 2008

Testimonianza cristiana
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 Un missionario italiano ha ricostruito la diocesi di Siberia cancellata da Stalin. Ecco la rivoluzione un po’ russa e un po’ emiliana di don Ubaldo Orlandelli
di Piero Vietti

Tratto da Il Fogliodel 22 dicembre 2007

Lì la fa da padrone il vento. Non c’è niente che lo ferma, fino agli Urali. Solo qualche collina bassa qua e là”. Sedici anni di russo non hanno cancellato l’accento emiliano dalla voce di don Ubaldo Orlandelli. Ma quando parla della steppa siberiana sembra di vederla, di sentire il gelo di quel vento.

Sedici anni di Siberia non hanno fiaccato la sua risata, profonda, bellissima. Quando un giorno di trentaquattro anni fa mise due magliette in una busta e uscì di casa di nascosto non immaginava di arrivare fino a Novosibirsk, a migliaia di chilometri dall’albergo di Tabiano Terme per cui suo padre e sua madre avevano lavorato una vita. Un cameriere lo aveva però visto uscire, avvertì la nonna e a poche centinaia di metri da casa Ubaldo venne fermato e riportato indietro. Ma ormai era partito. “Perché te ne sei andato? Non ti vogliamo bene?” gli chiese la mamma. Ubaldo voleva farsi prete e i suoi gli avevano detto di torglierselo dalla testa: c’era l’albergo da mandare avanti. “Perché?” gli domandavano. “Voglio aiutare gli altri” era la sua risposta. “Puoi farlo benissimo sposandoti e facendo soldi. E comunque fino a che non sei maggiorenne non ti muovi da qui”. Chissà se Ubaldo pensava alla busta con le due magliette quando vent’anni dopo scendeva carico di valigie nella stazione di Palavinnoje, a trecentocinquanta chilometri da Novosibirsk, e ad attenderlo non c’era nessuno, solo neve e steppa.

Nel mondo soltanto il Vaticano e Gerusalemme sono chiamate “sante”: la Santa Sede, la Terra Santa. Poi c’è la Russia. La Santa Russia. Mille anni di cristianesimo profondo, doloroso e misterioso le sono valsi questa medaglia. Mille anni che sono stati seppelliti nella terra gelata della taiga da settant’anni di comunismo. Preti, monaci e suore venivano fucilati. I cristiani presi e caricati su enormi barconi che risalivano il Volga, stipati sui treni merci della transiberiana, la ferrovia più lunga del mondo, e portati nella steppa. Ogni tanto i vagoni fermavano, i soldati aprivano le porte e scaricavano i morti. Poi ripartivano. I pochi sopravvissuti venivano abbandonati nella foresta in pieno inverno. Lì scavavano delle buche sotto la neve, le coprivano con rami di cedro e contro ogni speranza provavano a sperare. Una donna era riuscita a sopravvivere alla deportazione in treno, con lei c’erano il marito e i tre figli. Si erano rifugiati in una di queste buche e lì erano rimasti per mesi. Un giorno lui uscì per cercare da mangiare
. Lo ritrovarono in primavera, morto congelato a poche decine di metri dalla tana. In poco tempo la donna guardò morire tra le sue braccia i figli e fu salvata dagli abitanti di una buca vicina. Cominciò ad attendere qualcuno. Non lo sapeva, ma attendeva quel bambino che a undici anni era uscito di casa con due magliette e una busta. Attendeva questo qualcuno per rivedere finalmente un prete, e per spiegargli che per cinquant’anni aveva ringraziato Dio ogni giorno: “Mi ha dato l’uomo che amo più nella mia vita – gli avrebbe detto – e me l’ha donato per il tempo che ha voluto Lui. Mi ha dato il frutto di questo amore, i miei figli, e me li ha donati per il tempo che ha voluto Lui. Non mi lamento perché mi sono stati tolti, ringrazio perché mi sono stati donati”.

Dopo la scuola media Ubaldo era diventato cuoco e istruttore di atletica nel suo paese, aveva avuto diverse ragazze e tutti i giorni era in comune a chiedere che il sindaco concedesse un terreno per farci un campo sportivo. Voleva fondare una scuola di calcio: tanto insistette che dopo due anni anche Tabiano aveva la sua squadra. Intanto aveva conosciuto delle persone di Comunione e Liberazione, e iniziato a stare con loro. Un incontro decisivo: uno dei primi allievi di don Giussani, don Massimo Camisasca, sarà il rettore del suo seminario a Roma, quello della Fraternità San Carlo Borromeo, fondata dallo stesso don Massimo
. Quando Ubaldo disse ai suoi che sarebbe entrato in seminario sua mamma pianse tre giorni (e lui la sentiva, la notte, dalla sua stanza). “Eh, comodo – gli aveva detto invece suo padre – mi sputi in faccia tutti i sacrifici della mia vita”. Smise di parlargli per molto tempo. Il giorno della sua ordinazione don Massimo, che aveva deciso di mandarlo assieme ad altri due preti della Fraternità a Novosibirsk, disse che per i sacrifici che fanno, anche i genitori dei missionari vanno in missione. Tornato a Tabiano per la prima messa, Ubaldo fu accolto da tutto il paese: un corteo di auto e moto lo accompagnava alla chiesa. In testa c’erano i ragazzi della squadra di calcio da lui fondata pochi anni prima. Era il 1992, Ubaldo era già stato a Novosibirsk per un anno come diacono, aiutando il vescovo. Ora sarebbe tornato là per raggiungere il villaggio di Palavinnoje come prete. Sua madre il giorno della festa in paese gli confidò: “Come il giorno più triste della mia vita è stato quando sei entrato in seminario, oggi è il più bello perché ti vedo contento”. Gli amici gli regalarono il tabellone del Risiko, quello col mondo, con le loro firme. Per ricordare le serate passate a giocare e discutere insieme. E perché avesse i loro nomi sempre con sè, come san Francesco Saverio cinque secoli prima.

La Santa Russia era un paese addormentato. Come se sotto a quelle buche nel terreno si fosse nascosto, insieme ai pochi cristiani sopravvissuti, anche lo stesso Gesù. Occorreva andare a dissotterrarlo. Chiese non ce n’erano quasi più: Stalin le aveva fatte abbattere, e al posto degli altari aveva fatto costruire latrine pubbliche. A Novosibirsk c’era l’unica parrocchia di tutta la diocesi. Una diocesi grande trentatré volte l’Italia, abbracciata da sette fusi orari e percossa dal vento. Una sola parrocchia e sei preti in tutto. Più fusi orari che preti. La missione dei sacerdoti della Fraternità San Carlo, portare il carisma di don Giussani nel mondo attraverso la loro vocazione, trovò così la prima casa estera della sua storia in Siberia, là dove il cristianesimo aveva subito la più terribile persecuzione, in quel grande Colosseo del mondo che è la steppa. Il giorno in cui Ubaldo dovette partire per il villaggio di Palavinnoje non sapeva chi e cosa avrebbe trovato. Giovanni Paolo II aveva detto di cercare i dissidenti sopravvissuti. Lui era lì per quello. Si presentò alla stazione con due valigie stracolme di abiti, paramenti sacri, ostie e vino per la messa. Una valigia era piena di vangeli. Sul treno non volevano farlo salire, a meno che non pagasse una multa per il bagaglio in più che aveva con sè. Ubaldo si rifiutò: “La parola di Dio ha già pagato troppo in questo paese”, disse al capotreno. Dopo una lunga trattativa lo misero nell’ultimo vagone, quello che fermava fuori dalla piattaforma della stazione, così quando arrivò e aprì la porta si trovò di fronte a un muro di neve. Nel frattempo i pochi cattolici che sapevano del suo arrivo lo attendevano sulla banchina. I loro vaghi ricordi li convinsero ad aspettarsi un vecchio con la barba bianca e quando, scesi i passeggeri dal treno videro solo più arrivare dall’ultimo vagone un giovane trentenne, alto e con due valigie, se ne tornarono a casa pensando che il prete non fosse venuto. Da solo e senza un indirizzo Ubaldo chiese alla gente se “c’è qualcuno che prega” in paese. “Ma è matto?” gli rispose un uomo, “Qua non prega nessuno. Siamo tutti atei”. Una vecchia signora lo sentì e, chiamatolo a sè, gli spiegò che sì, qualcuno che pregava c’era. Doveva camminare in quella direzione per un po’. Quel giorno imparò che in Siberia non ci sono vie e strade, soltanto direzioni. Dopo un’ora e mezza nella neve Ubaldo raggiunse una casa. Erano luterani. Stanco e quasi scoraggiato chiese se ci fossero dei cattolici. Sì, dall’altra parte del villaggio, a un’ora e mezza di cammino. Giunto all’altra casa gli aprì la porta una vecchina che, per vedere se fosse davvero un prete e non una spia, gli domandò notizie sulla salute della moglie, come si faceva per smascherare i membri del Kgb. Ubaldo sbottò: “Ma quale moglie? Io sono un prete cattolico, noi non ci sposiamo!”. Gli occhi della vecchina che lo aveva accolto si illuminarono; toccando col gomito la donna accanto a lei, sussurrò: “Questo è dei nostri”. E’ l’inizio del dissotterramento. Il paese si rianima, molti cattolici fanno ritorno, alla messa di Pasqua sono in duecento, quaranta dei quali chiedono il battesimo. La messa è celebrata in una piccola stanza, non ci stanno tutti. Molti entrano ed escono, si danno il cambio. Altri seguono il tutto dalla finestra, stando fuori a quindici gradi sotto zero. Ci sono persone che hanno fatto più di cento chilometri per potersi confessare dopo anni senza sacramenti.

In “Vita e destino” Vassilij Grossman scrisse che nella steppa “la terra e il cielo si sono guardati così a lungo reciprocamente, fino a rassomigliarsi come si somigliano marito e moglie che abbiano vissuto assieme una vita”. A Palavinnoje Ubaldo incontra un uomo e una donna così: la steppa e il cielo.
Prima di lui, l’ultimo prete che avevano visto era stato cinquant’anni prima, a un matrimonio. Il loro. Il sacerdote li aveva confessati ma non aveva fatto in tempo a sposarli: gli uomini del Kgb lo avevano arrestato durante la messa e ucciso tre giorni dopo. Qualche anno prima anche don Ubaldo stava per sposarsi, ma quel desiderio che aveva spinto i suoi passi fuori di casa a undici anni, era tornato a farsi vivo proprio allora. La sua fidanzata aveva capito e tra le lacrime gli aveva detto: “Io ti amo, voglio la tua felicità. Se Dio vuole questo ti aiuterò”. Ora don Ubaldo era di fronte a quei due vecchi che chiedevano di essere finalmente uniti col sacramento dopo cinquant’anni. Sarà don Francesco (uno dei preti della Fraternità San Carlo in casa con lui) a sposarli. Dopo la cerimonia si offrirà di accompagnarli a casa col suo furgone. “No grazie – sorrideranno loro – torniamo a piedi, così il viaggio di nozze è più lungo”.

Dopo settant’anni di persecuzione in Russia non ci sono più strutture. Don Ubaldo comincia allora, poco per volta, a ritessere una trama millenaria. Fonda la parrocchia nel suo villaggio, poi fonda quella della città universitaria e lì comincia a insegnare Canto gregoriano e Storia della musica: le sue lezioni sono affollatissime e seguite anche da altri professori. Va ad insegnare all’Accademia per diplomatici, è nominato console onorario italiano. Diventa prima responsabile Costruzioni della diocesi poi responsabile dei rapporti tra chiesa e stato e infine direttore della Caritas. E’ a quel punto che comincia a girare la diocesi per cercare altri cristiani. Passa anni a spostarsi da un luogo all’altro della sconfinata Siberia in aereo e nave, atterrando in aereoporti con piste sterrate e risalendo fiumi ghiacciati. Comincia con cinque dipendenti e cinque volontari. In ogni posto in cui va cerca i cattolici. Li incontra, dice messa e nomina un responsabile. Dissotterra Gesù. In poco tempo sono duecento dipendenti e seicento volontari. Nel 1995 organizza la prima processione pubblica per le vie della città. E’ la festa del Corpus Domini. Partecipano una decina di persone in tutto, forse meno. Ma erano decenni che non succedeva una cosa del genere in Russia. “Abbiamo dato corpo a una fede che la gente aveva nel cuore da tempo ma non poteva esprimere” dirà poi. A Novosibirsk costruisce una casa d’accoglienza per bambini orfani di cui si occupa assieme a una suora, Barbara. I bambini lo chiamano papà, e quando sette anni dopo i suoi genitori vengono a trovarlo, lui li accompagna lì. “Quelli sono i tuoi genitori?” gli chiedono i bambini. “Sì”. “Allora sono i nostri nonni!” gridano abbracciandoli. Poi la festa al paese con le vecchine e quella con i suoi alunni al conservatorio. Partendo, sua madre gli dirà: “E’ proprio come nel vangelo: hai perso una mamma e ne hai trovate cento”. Dopo qualche tempo un prete ortodosso lo accusa di picchiare i bambini per convertirli al cattolicesimo. E’ un colpo durissimo, ma don Ubaldo non vuole rispondere alle sempre più pressanti provocazioni. Perdona in silenzio. Alcuni bambini vengono portati via dalla casa, l’accusa, dimostratasi poi infondata, si ingrandisce. Lui tace. Il suo silenzio incuriosisce il vescovo ortodosso che si interessa della faccenda e lo vuole conoscere. Poco tempo dopo gli consegna solennemente una lettera davanti agli amministratori comunali con cui lo ringrazia pubblicamente per l’opera da lui svolta. Comincia un’amicizia. Cinque anni dopo bussa alla sua porta un ragazzo appena maggiorenne. Con lui c’è una ragazza. E’ uno dei bambini che erano stati portati via dall’orfanotrofio al tempo delle accuse. Prima viveva in strada e si drogava con la colla. Era stato nella casa solo tre settimane. Ubaldo e suor Barbara sono sorpresi dalla visita, lo fanno entrare e lui, rivolto alla sua ragazza dice:
Vedi, volevo che tu conoscessi loro, perché se io non li avessi incontrati non avrei conosciuto l’amore e non ti avrei chiesto di sposarti per stare con te tutta la vita. Volevo che tu vedessi chi mi ha insegnato ad amare te in questo modo”. Don Ubaldo ha capito chenoi non siamo in grado di amare. Possiamo farlo solo se abbiamo incontrato Dio attraverso degli amici, che poi sono la chiesa”. Bisogna essere semplici. “E’ l’unico modo per intravedere Gesù che nasce”, dice sicuro, “perché lui c’è, e aspetta”. Per farlo capire Ubaldo racconta che quando ha cominciato a girare la Siberia per la Caritas non riusciva più a tornare nei posti dove era stato all’inizio. Don Francesco, che continuava ad andare nei villaggi e a dire messa nelle case della gente anche con trenta gradi sotto zero, viene a sapere che una delle prime donne che Ubaldo aveva conosciuto a Palavinnoje era in fin di vita per un tumore. I medici le avevano dato un mese e poco più di vita. Lei aveva chiesto di rivedere un’ultima volta il primo prete che aveva incontrato dopo anni, Ubaldo. Ma lui era in viaggio, non poteva. Due mesi dopo don Francesco glielo ridice. Nonostante quanto detto dai medici è ancora viva. E lo aspetta. Ubaldo riesce ad andare da lei sette mesi dopo. Quando entra in casa la donna, inferma da tempo, balza dal letto e, abbracciandolo, gli dice commossa: “Quanto mi hai fatto aspettare”. Recitano il rosario e lui le dà la comunione e l’estrema unzione. La notte stessa la donna muore.

In tutti questi anni don Ubaldo con gli altri preti della Fraternità ricostruisce la chiesa in Russia. Poi, in modo inaspettato, don Paolo Pezzi, già capo della casa di Novosibirsk, diventa vescovo di Mosca. Don Camisasca richiama Ubaldo in Italia. Da ottobre del 2006 va in giro per raccontare la sua storia, e l’anno prossimo andrà a Mosca dal vescovo metropolita, il suo amico Paolo.
Ai tempi delle deportazioni di Stalin il Kgb una volta arrestò insieme quasi cento monaci ortodossi. Arrivati in un bosco, nel silenzio malinconico che solo la steppa siberiana sa raccontare, i soldati li misero in fila indiana. Chiesero al primo: “Credi in Dio?”. “Sì”. A quel punto gli spararono in bocca in modo che il proiettile attraversasse il cranio e il sangue schizzasse sul volto di quello dietro, a cui fecero la stessa domanda. La stessa risposta. Lo stesso sparo. Così con tutti e cento. Cento sì. “Ogni martirio dissotterra Cristo”, dice don Ubaldo. Lo sa bene, lui: ha visto che per anni, sotto la terra gelata imbevuta di quel sangue, un popolo aveva atteso e attende con pazienza, quasi nascosto, di essere dissotterrato.


grazie a: Graciete

Postato da: giacabi a 22:12 | link | commenti (2)
testimonianza, camisasca

martedì, 18 marzo 2008

I difetti di Gesù
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Introduzione     Card. François-Xavier Nguyen Van Thuan
Aveva un sorriso coinvolgente, pieno di pace e serenità quando mi disse:
"Se il Signore mi concederà la vita, potrei guidare tutto il ritiro?".
"Io gli avevo chiesto soltanto di dirigere la conferenza introduttiva e risposi con gratitudine: "Eminenza, questo sarebbe meraviglioso!"
Così, nel febbraio 2002, a guidare gli Esercizi Spirituali per un gruppo di 50 sacerdoti, fu il Card. François-Xavier Nguyen Van Thuan, venuto a mancare a Roma, all'età di 74 anni, lo scorso 16 settembre.
Nato il 17 aprile 1928, a Phu Cam, un paesino della provincia di Hue, in Vietnam, era il primo di 8 figli e nipote del Primo Presidente della Repubblica del Vietnam del Sud. Dopo il seminario, fu ordinato sacerdote nel giugno del 1953. Studiò Diritto Canonico a Roma e partecipò a Corsi Spirituali e Apostolici nell'Europa di quel tempo. AI suo ritorno lavorò per un certo periodo nel campo della formazione dei sacerdoti. Poi, il 24 giugno 1967, fu nominato Vescovo della Diocesi costiera di Nha Trang.
Nel 1975, una settimana prima che Saigon cadesse nelle mani delle forze comuniste, fu nominato dalla Santa Sede Arcivescovo coadiutore della Diocesi di quella città. La sua nomina venne però rifiutata dalle autorità comuniste. 1115 agosto 1975 fu convocato presso il Palazzo dell'Indipendenza, consegnato ai militari della Regione e portato in una piccola parrocchia di Cay Vong, dove fu messo sotto sorveglianza.
Iniziò così la sua lunga prigionia che durò per ben 13 anni, durante i quali conobbe nel 1976, la terribile prigione di Phu Khanh e il campo di rieducazione di Vinh Phu nel Vietnam Settentrionale. In seguito, fu posto sotto sorveglianza prima a Giang Xa, poi presso Hanoi.
Sebbene il 28 novembre 1988 fosse terminata ufficialmente la sua prigionia, non ebbe il permesso di raggiungere il suo posto di Arcivescovo Coadiutore a Ho Chi Minh (l'antica Saigon). Gli venne quindi assegnata una residenza nella casa dell'Arcivescovo di Hanoi. Durante un soggiorno a Roma, nel settembre del 1991, si rese conto che il governo vietnamita non lo avrebbe più lasciato rientrare nel suo paese.
Cominciò così a lavorare in Vaticano, e fu nominato Presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace il 24 giugno 1998.
Nella Quaresima del 2000, commosse milioni di persone, che poterono conoscere alcuni passaggi degli Esercizi Spirituali predicati per il Santo Padre e per i membri della Curia Romana. Nelle sue meditazioni profuse le sue esperienze spirituali maturate nel carcere. Il giorno delle sue esequie nella basilica di San Pietro, il Santo Padre nell'omelia ha sottolineato: « Spera in Dio! Con quest'invito a confidare nel Signore il caro Porporato aveva iniziato le meditazioni degli Esercizi Spirituali. Le sue esortazioni mi sono rimaste impresse nella memoria per la profondità delle riflessioni, arricchite da continui ricordi personali, in gran parte relativi ai tredici anni passati in carcere. Raccontava che proprio in prigione aveva compreso che il fondamento della vita cristiana è "scegliere Dio solo", abbandonandosi totalmente nelle sue mani paterne».
Sua Eminenza scelse di vivere con noi durante il ritiro, benché abitasse poco lontano: "forse posso fare del bene" disse. Infatti, ogni sera, abbiamo avuto l'opportunità e il privilegio di conoscere la profondità del suo cuore, nei momenti di scambio e di colloquio più familiari.
Ci parlò anche della sua necessità, per motivi di salute, di seguire una dieta particolare: "Solo un po' di pesce, niente latte, un po' di riso... Ho un tumore", disse sorridendo mentre si toccava lo stomaco.
Sono convinto che Sua Eminenza abbia preparato questo ritiro sapendo che sarebbe stata la sua ultima opportunità di parlare a dei sacerdoti.
Una volta la sua segretaria mi ha chiamato: "Sua Eminenza vorrebbe parlare con Lei".
Voleva, in tutta semplicità, chiedermi un parere su una nuova idea. "Cosa pensa di questo? Le dieci A per ogni sacerdote" - una idea geniale per riassumere tutto il ritiro.
Per tutti noi partecipanti, questo ritiro è stato come un cenacolo, nel quale abbiamo potuto rinnovare profondamente la nostra fede e la nostra vocazione sacerdotale, guidati da un maestro e martire del 20° secolo.
P. Dermot Ryan, LC
Gioia dell'incontro con Gesù
di:Card. François-Xavier Nguyen Van Thuan
Cari Amici, Fratelli carissimi nella grazia del battesimo e del sacerdozio! Innanzitutto i miei cordialissimi saluti e auguri di amore e di pace.
A quale scopo sono venuto proprio qui, in questi giorni? La risposta è semplice: sono venuto per la nostra santificazione, che è la cosa più urgente che il Signore vuole da noi sacerdoti per il nuovo millennio: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione" (1Ts 4,3). Come sapete la lettera da cui è tratta questa frase, indirizzata ai cristiani di Tessalonica, è il più antico scritto cristiano. L'apostolo Paolo sin dall'inizio ha voluto dire la cosa più importante e necessaria, e continua a ripetercela oggi. Come articolerò questo incontro con voi?
Vorrei meditare con voi sulle Gioie dei testimoni della speranza.
L'incontro con Cristo nella mia vita.
Il primo punto della mia prima tappa parte da un testo di Matteo: "Se vuoi essere perfetto, va, vendi i tuoi beni e seguimi" (Mt 19,21). È il messaggio di Giovanni Paolo II ai giovani di Tor Vergata: "Non abbiate paura di essere i santi del nuovo millennio" (18 Agosto 2000). A voi sacerdoti qui adunati voglio dire analogamente: non abbiate paura di essere i sacerdoti santi del nuovo millennio!
Vorrei iniziare questa riflessione sulla chiamata alla santità da un esame di coscienza molto personale: nella mia vita, e anche adesso da cardinale, ho avuto ed ho paura delle esigenze del Vangelo: ho paura della santità, di essere santo. Mi piacciono le mezze misure. Invece Cristo mi richiama ogni minuto ad amare Dio con tutto il mio cuore, con tutta l'anima, con tutte le mie forze, con tutto me stesso. Ogni giorno io ho vissuto momenti come quelli del giovane nel Vangelo che se ne va triste perché ha molti beni.
Nella mia vita ho molto predicato, a ogni categoria di persone, ma talvolta non ho osato chiedere la santità. Ho parlato della gioia, della speranza, dell'impegno, ma ho avuto paura di parlare della santità, come se fosse qualcosa che la gente non può comprendere o accettare come possibile. Ho sottovalutato la buona volontà della gente e la forza della grazia del Signore.
Io sono stato in prigione più di tredici anni: ho avuto momenti duri, anche molto duri. Tante volte non ho osato pensare alla santità: ho voluto essere fedele alla Chiesa, non rinnegare nulla della mia scelta. Ma non ho pensato sufficientemente ad essere santo, mentre Cristo in verità ha detto: "Siate perfetti come il Padre vostro è perfetto" (Mt 5,48).
Lo scorso anno sono stato operato per l'asportazione - almeno parziale - di un tumore. Mi hanno tolto due chili e mezzo del tumore: sono rimasti nel mio ventre quattro chili e mezzo, che non possono essere asportati. Ed io ho avuto paura di essere santo con tutto questo: questa è stata la mia sofferenza. Essa però è durata solo fino al momento in cui ho visto la volontà di Dio in quanto mi succedeva ed ho accettato di portare questo peso fino alla morte, e di conseguenza di non poter dormire che un'ora e mezza ogni notte. Accettando questo, sono ora nella pace: nella sua volontà è la mia pace! Fino a quando Dio vorrà, vorrò essere come Lui vorrà da me, per me!
Chi è il Cristo che mi viene incontro?
Nella Sacra Scrittura preghiamo spesso con il Salmi sta: "Fa' splendere il Tuo volto" (Sal 80,4) o "Cerco il Tuo volto" (Sal 27,8). E questo senza fine, fino al giorno in cui potremo vedere Cristo faccia a faccia.
Un giorno i carceri eri mi hanno domandato: "Chi è Gesù Cristo? Perché tu soffri per Lui?" Anche i giovani mi hanno spesso chiesto: "Chi è Gesù Cristo per Lei e come mai ha lasciato tutto per Lui? Lei poteva avere casa, famiglia, beni, un buon avvenire e ha lasciato tutto per seguire Gesù; Chi è dunque Gesù nella sua vita?"
È difficile dire le qualità di Dio: sono trascendenti. Egli è onnipotente, onnisciente, onnipresente... Mi sembra più facile dire i difetti di Gesù. Alcuni di voi avete forse sentito parlare dei cinque difetti di Gesù, di cui ho trattato negli esercizi spirituali alla Curia romana. Alcuni Cardinali e Vescovi dopo questa meditazione mi hanno chiesto dove fossero gli altri difetti. Oggi, se volete, vi dico anche gli altri. l cinque difetti di cui avevo parlato alla Curia erano:
Gesù non ha buona memoria, perché sulla Croce il buon ladrone gli chiede di ricordarsi di lui in Paradiso e Gesù non risponde come avrei fatto io "fa' prima venti anni di purgatorio", ma dice subito di sì: "Oggi tu sarai con me in paradiso" (Lc 23,43).
Con la Maddalena fa la stessa cosa, e ugualmente con Zaccheo, con Matteo ecc. "Oggi la salvezza entra in questa casa" (Lc 19,9), dice a Zaccheo. Gesù perdona e non ricorda che ha perdonato. Questo è il suo primo difetto.
Il secondo difetto è che Gesù non conosce la matematica: un pastore ha cento pecore. Una si è smarrita: lascia le novantanove per andare a cercare quella smarrita e quando la incontra la porta sulle spalle per tornare all'ovile (Mt 18, 12). Se Gesù si presentasse all'esame di matematica sarebbe certamente bocciato, perché per lui uno è uguale a novantanove.
Il terzo difetto di Gesù è che non conosce la logica: una donna ha perduto una dracma. Accende la luce per cercare in tutta la casa la dracma perduta e quando l' ha trovata va a svegliare le amiche per festeggiare con loro (Lc 15, 8). Si vede che è veramente illogico il suo comportamento, perché sapendo che la dracma era comunque in casa, avrebbe potuto aspettare la mattina seguente e dormire. Invece cerca subito, senza perdere tempo, di notte. D'altra parte, svegliare le amiche non è meno illogico. Anche la causa per cui festeggiare l'aver trovato una dracma - non è poi tanto logico. Infine, per festeggiare una dracma ritrovata dovrà spendere più di dieci dracme...
Gesù fa lo stesso: in cielo il Padre, gli angeli e i santi hanno più gioia per un peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza.
Il quarto difetto è che Gesù sembra essere un avventuriero: di solito un politico alle elezioni fa propaganda e promesse: la benzina costerà meno, le pensioni saranno più alte, ci sarà lavoro per tutti, non ci sarà più inflazione... Gesù, invece, chiamando gli apostoli, dice: "Chi vuoi venire dopo di me, lasci tutto, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24). Seguirlo, dunque, per andare dove? Gli uccelli hanno un nido, le volpi una tana, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo... Seguire Gesù è un'avventura: fino all'estremità della terra, senza auto, senza cavallo, senza oro, senza mezzi, senza bastone, unicamente con la fede in Lui.
Non vi sembra che sia proprio un avventuriero? Eppure, da venti secoli siamo ancora in molti ad entrare nell'associazione dei suoi avventurieri, come Lui, con Lui.
Il quinto difetto di Gesù è che non conosce l'economia e la finanza, perché va a cercare quelli che lavorano alle tre e alle sei e alle nove e paga gli ultimi come i primi (Mt 20, 1ss).
Se Gesù fosse economo di una comunità o direttore di una banca, farebbe bancarotta, perché paga chi lavora meno come chi ha fatto tutto il lavoro.
A questi cinque difetti, vorrei aggiungerne ancora nove:
Il sesto è che Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori: come vedete, frequenta cattive compagnie!
Il settimo è che ama mangiare e bere: lo accusano di essere un mangione e un beone.
Poi, ed è l'ottavo difetto, sembra matto: i parenti stessi pensano così di Lui e davanti a Pilato gli mettono addosso una tunica bianca per dire che è matto. Il soldato romano gli dice: "Tu hai salvato gli altri, se sei Dio scendi dalla croce, salva te stesso" (Mt 27,40. 42). Quel matto che è Gesù non lo fa.
Il nono difetto è che Gesù ama i piccoli numeri, mentre la gente ama la massa, la grande folla: va alla ricerca della Maddalena, della Samaritana, dell'Adultera... La "carta magna" di Gesù -le beatitudini - appare come un fiasco: beati i poveri, gli oppressi, gli afflitti, i perseguitati, ecc. (Lc 6, 20). Gesù ama tutto questo: chi lo segue deve essere matto come lui!
Il decimo difetto è l'insuccesso continuo: la sua vita è piena di insuccessi. Cacciato dal suo paese è sconfitto, perseguitato, rifiutato, condannato a morte...
Ancora, ed è il difetto numero undici, Gesù è un professore che ha rivelato il tema dell'esame: se fosse un insegnante sarebbe licenziato subito! Il tema dell'esame e il suo svolgimento è descritto a puntino da lui: verranno gli angeli, convocheranno i buoni alla destra, i cattivi alla sinistra, e tutti saremo giudicati sull'amore (Mt 25,31ss). Sapendo questo, tutti potrebbero essere promossi!
Il dodicesimo difetto è che Gesù è un Maestro che ha troppa fiducia negli altri. Chiama gli apostoli quasi tutti illetterati, ed essi lo rinnegheranno. Nel tempo continuerà a chiamare gente come noi, peccatori. La via di Dio passa per i limiti umani: chiama Abramo, che non ha figli ed è vecchio; chiama Mosè, che non sa parlare bene; chiama dodici uomini mediocri e ignoranti, e uno di essi lo consegnerà; e per chiamare i pagani sceglie un violento e un persecutore, Saulo; e nella Chiesa continua a fare così...
Gesù è un temerario incorreggibile: perciò ha scelto me, ha scelto voi, noi tutti poveri peccatori. Gesù non si corregge proprio!
Il tredicesimo difetto è che Gesù è molto imprudente: si dice che per essere un leader bisogna prevedere. Gesù non prevede: soprattutto, non prevede la morte dei suoi discepoli.
Richiede loro di essere fedeli fino alla morte: però non sembra occuparsi di quello che viene dopo... Gesù trascende la saggezza umana: che cosa succederà, quando tutti saranno morti, a loro e a quelli che verranno dopo di loro?
Il quattordicesimo difetto è la povertà: di essa il mondo ha molta paura. Oggi si parla tanto di lotta alla povertà: Gesù esige dalla sua Chiesa e dai pastori la povertà, qualcosa di cui tutti hanno paura. Gesù ha vissuto senza casa, senza assicurazione, senza deposito, senza tomba, senza eredità, umanamente e materialmente senza sicurezza alcuna.
Questi quattordici difetti possono essere oggetto di una vera e propria via della Croce, con le sue quattordici stazioni da meditare.
Nel mondo non c'è una strada col nome di Gesù: c'è Piazza Pio XII, Piazza Cardinal tal dei tali, ma non c'è Piazza o Via Gesù di Nazaret.
La sua strada è questa via della Croce, carica dei suoi difetti, che siamo chiamati a fare nostri...
E noi abbiamo creduto al suo amore
Mi domanderete: "perché Gesù ha questi difetti?" Rispondo: "perché è Amore!" E l'amore autentico non ragiona, non pone limiti, non calcola, non ricorda il bene che ha fatto e le offese che ha ricevuto, non pone mai condizioni. Se ci sono condizioni, non c'è più amore.
Il sacerdote di questo nuovo millennio è quello che ha incontrato Gesù e in cui il popolo può incontrare Gesù.
Quando medito su questo, sento il mio cuore pieno di felicità, di gioia e di pace. Spero che alla fine della mia vita - quando sarò giudicato sull'amore Gesù mi riceva come l'ultimo lavoratore della sua
vigna, a cui dà la stessa ricompensa del primo, dicendomi come al ladrone pentito: "Oggi stesso sarai con me in paradiso" (Lc 23, 43).
Io con Zaccheo, con la Samaritana, con la Maddalena, con Agostino e tutti gli altri canterò la misericordia per tutta l'eternità, ammirando eternamente le meraviglie che Dio riserva ai suoi eletti.
Mi rallegro perciò di vedere Gesù con i suoi difetti, che sono grazie a Dio incorreggibili, e che sono il grande motivo della mia speranza.
Carissimi fratelli in Cristo! Non mi piace troppo il Cristo Re nella Sua Maestà, ma preferisco il Gesù di Pietro sulla barca, il Gesù che chiama la Maddalena con il suo nome: "Maria!" (Gv 20, 16), e che all'adultera dice "Neanch'io ti condanno" (Gv 8,10); il Cristo dei piccoli, dei semplici, dei poveri, così vicino a noi che ci dice: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed io vi ristorerò" (Mt 11,28), e che mi dice: "Francesco, tutto ciò che è mio, è tuo!". Desidero che nessuno mi scacci, allontanandomi da Te.
Voglio poterTi vedere da vicino, bere alla Tua coppa, riposare il capo sul Tuo petto, ascoltarTi dire: "Francesco, chi vede me, vede il Padre" (Gv 14,9).
Carissimi fratelli, Gesù non ci chiama a diventare tutti dei dottori, dei profeti, o a parlare le lingue, ma ci dona la grazia di essere dei santi, anche se io sono peccatore!
Non abbiate paura! Perché dove abbonda il peccato, là sovrabbonda la grazia! Vi supplico: Non abbiate paura di essere santi, i sacerdoti santi del nuovo millennio. E per esserlo c'è bisogno di una sola cosa: l'amore!
 UN MENÙ DOLCE: I DIFETTI DI GESÙ
(14 stazioni da una "Via Crucis" che mi porta alla speranza)
1. Gesù non ha buona memoria
2. Gesù non conosce la matematica
3. Gesù non conosce la logica
4. Gesù sembra essere un avventuriero
5. Gesù non conosce l'economia e la finanza 
6. Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori 
7. Gesù è accusato di essere un mangione e un beone
8. Gesù sembra matto
9. Gesù ama i piccoli numeri
10. Gesù è l'insuccesso continuo
11. Gesù è un professore che ha rivelato il tema dell'esame
12. Gesù ha troppa fiducia negli altri
13. Gesù è molto imprudente
14. Gesù è povero
Gesù ha questi difetti perché è Amore!



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testimonianza, gesù, van thuan

venerdì, 14 marzo 2008

P. Alfonso M. Ratisbonne l'ebreo convertito da Maria
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Tratto da www.totustuus.org
Quasi per scommessa...
Due uomini discutono serenamente tra loro, in una villa di Roma.
L'uno è il barone De Bussières. L'altro è il giovane Alfonso Ratisbonne, ebreo. Siamo nel 1842.
Ascoltiamo che cosa stanno dicendo.
-Vorrei chiedervi un favore- dice il barone De Bussières al giovane Ratisbonne.
-Vediamo di che si tratta?- risponde il giovane.
-Semplicemente di questo; accettare di portare indosso questa medaglia. Secondo il vostro modo di vedere, la cosa dovrebbe essere del tutto indifferente, mentre a me recherebbe un grande piacere.
-Se è così, per dimostrarvi che gli ebrei non sono poi tanto ostinati e testardi come si crede, accetto di portare la vostra medaglia .
A questo punto, il giovane Ratisbonne racconta lui stesso ciò che avvenne e ciò che egli disse: - Detto, fatto. Il barone mi mette al collo la medaglia, mentre io, scoppiando a ridere, esclamo: "Eccomi ormai cattolico, apostolico, romano"-
Chi è Alfonso Ratisbonne?
È un giovane ebreo, già al colmo della sua fortuna. Dalla vita ha avuto tutto. Da poco tempo si è anche fidanzato con una ragazza di nome Flora. Quanto alla sua fede: " Non credevo più neanche in Dio ", confesserà dopo.
Ma la Madonna, Madre universale, vegliava su di lui, e lo attendeva a Roma. Qui lo fece capitare per caso nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte, e gli operò il miracolo che avrebbe rivoluzionato tutta la sua vita brillante quanto effimera e fatua.
Tutto era iniziato appunto da quella medaglietta miracolosa che gli era stata offerta dall'amico barone De Bussières, e che egli aveva accettato solo per fargli piacere.
Si era lasciato mettere al collo la Medaglia; ci aveva scherzato sopra, ma già non ci pensava più.
L'amico barone, però, sapeva quel che faceva era uomo di fede, confidava nella potenza miracolosa della medaglietta, e pregava intensamente perché l'Immacolata operasse nell'animo di Alfonso, disfatto dall'incredulità.
La notte di quello stesso giorno, svegliatosi di soprassalto, Alfonso vide alta dinanzi a sé l'immagine di una grande Croce, di forma particolare, senza Gesù Crocifisso, che egli inutilmente tentò di scacciare.
Era la Croce della Medaglia miracolosa. Ma egli non lo sapeva, perché non aveva neppure guardato la Medaglia che portava indosso, né lo interessava affatto guardare una Medaglia! Proprio lui !
Il giorno seguente...
Il giorno seguente, stranamente, Alfonso si sentì spinto ad accompagnare lo stesso amico De Bussières alla Chiesa di S. Andrea delle Fratte, dove il barone aveva da sbrigare una commissione di lavoro.
La carrozza si fermò sulla piazzetta della Chiesa. Scesero tutti e due. Il barone entrò in Chiesa e si recò subito in sacrestia per incontrarsi con le persone interessate alla commissione. Alfonso, invece, dapprima esitante, entrò poi anche lui nella Chiesa. E si trovò solo, distratto e vuoto.
" La Chiesa di S. Andrea delle Fratte -così egli stesso racconta in seguito- è piccola, povera e quasi sempre deserta. Quel giorno ero solo o quasi solo. Nessun oggetto d'arte attirava la mia attenzione. Passeggiavo macchinalmente girando gli sguardi attorno a me. Ricordo soltanto che un cane nero scodinzolava dinanzi a me... Ben presto anche quel cane disparve. La Chiesa intera disparve; io non vidi più nulla... O meglio, mio Dio, io vidi una sola cosa! ...
Come potrei parlarne? La parola umana non può facilmente esprimere ciò che è inesprimibile. Quando arrivò il barone De Bussières mi trovò col volto rigato di pianto. Non potei rispondere alle sue domande... tenevo in mano la medaglia che avevo appesa al collo e coprivo di baci l'immagine della Vergine...Era Lei, sicuramente Lei!
Non sapevo dove ero, non sapevo se ero Alfonso o un altro; provavo in me un tale cambiamento che mi pareva essere un altro; cercavo di ritrovare me stesso e non mi ritrovavo... Non riuscivo a parlare; non volevo dire niente; sentivo in me qualche cosa di solenne e di sacro che mi costringeva a cercare un sacerdote".
Più tardi, calmatasi la vivissima emozione provata, così spiegò all'amico "Ero da pochi istanti nella chiesa di S. Andrea, quando, improvvisamente, mi sentii afferrato da un turbamento inesprimibile. Alzai gli occhi; l'edificio intero era come scomparso ai miei sguardi; una sola cappella aveva concentrato tutta la luce. In un grande fascio di luce, mi è apparsa, dritta, sull'altare, alta, brillante, piena di maestà e di dolcezza, la Vergine Maria, quale si vede sulla Medaglia Miracolosa; una forza irresistibile mi ha spinto verso di Lei. La Vergine mi ha fatto segno con la mano di inginocchiarmi. Mi è parso che dicesse: 'Bene!' Non mi ha parlato, ma io ho compreso tutto ".
Proprio la Vergine della Medaglia Miracolosa era dunque apparsa ad Alfonso Ratisbonne quel giovedì 20 gennaio 1842.
75 anni più tardi.
75 anni più tardi, il 20 gennaio 1917, ,a Roma, nella Cappella del Collegio Internazionale dei Frati Minori Conventuali, il Padre Rettore sta raccontando ai giovani frati l'episodio della prodigiosa conversione dell'ebreo Alfonso Ratisbonne, divenuto poi gran Servo di Dio e morto in concetto di santità.
Tra questi c'è un giovane straordinario è fra' Massimiliano Maria Kolbe, l'ardente innamorato dell'Immacolata, colui che darà vita al Movimento mariano più vasto dell'epoca moderna, la Milizia dell'Immacolata, un esercito di cavalieri schierati in campo sotto la guida dell'Immacolata, la Celeste Condottiera e Invincibile guerriera che "schiaccerà il capo" al nemico (Gn 3,15).
Con estremo interesse fra' Massimiliano ascolta il racconto della conversione di Alfonso Ratisbonne. Ne rimane visibilmente commosso. si rende conto del valore della Medaglia miracolosa, di cui l'Immacolata si serve per operare fatti di grazia anche portentosi.
Gli balena allora nell'animo l'ispirazione di servirsi della Medaglia miracolosa come scudo e insegna dei "cavalieri dell'Immacolata", come scorta di "proiettili" e "mine" spirituali che i cavalieri dovranno adoperare per fare breccia negli animi chiusi e duri alle operazioni della grazia divina.
È un'ispirazione. Fra' Massimiliano non la lascia passare a vuoto. L'accoglie e la custodisce nel cuore. Un giorno non lontano la Milizia dell'Immacolata -il 16 ottobre dello stesso anno- partirà con la Medaglia miracolosa quale insegna e arma dei novelli cavalieri.
Da quel 20 gennaio, inoltre, fra' Massimiliano amò di un amore speciale la Chiesa di S. Andrea delle Fratte; la visitava frequentemente e vi sostava in devota orazione. Quando divenne Sacerdote, infine, volle celebrare la sua prima S. Messa all'altare dove la Madonna era apparsa all'ebreo Alfonso Ratisbonne.
Sacerdote di Gesù e Cavaliere dell'Immacolata, San Massimiliano è l'apostolo mariano dei tempi nuovi, folle di amore, ardente di zelo, forte del celeste pegno della Medaglia miracolosa.

***
Giovedì 20 gennaio 1842 verso le 12.45, il giovane Alfonso Ratisbonne accompagna, per pura cortesia, l’amico Teodoro de Bussière nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte in Roma. Mentre l’amico è in colloquio con il Parroco, Alfonso visita curioso, con sguardo freddo ed indifferente la Chiesa, dove si stanno facendo i preparativi per il funerale del conte di Laferronnays. Passati non più di 10 minuti, rientrato in Chiesa, l’amico Teodoro trova Alfonso inginocchiato davanti alla cappella di S. Michele, profondamente assorto, quasi in estasi. «Ho dovuto toccarlo tre o quattro volte – scrive due giorni dopo al fratello di Alfonso – e poi finalmente volse verso di me la faccia bagnata di lacrime, con le mani giunte e con un’espressione impossibile a rendersi... Poi estrasse dal petto la Medaglia Miracolosa, la coprì di baci e di lacrime e proferì queste parole: “Ah! Come sono felice, quanto è buono Dio, che pienezza di grazia e di felicità!”».1
Passata la commozione del momento, Alfonso viene accompagnato prima in albergo e poi nella Chiesa del Gesù, dal Padre Filippo Villefort che gli ordina di raccontare quanto ha visto e sperimentato. Alfonso, stringendo in mano la Medaglia Miracolosa, con commozione la bacia ed esclama: “L’ho vista, l’ho vista, l’ho vista!”. A stento poi, dominando la forte emozione, continua il suo racconto: «Stavo da poco in Chiesa, quando all’improvviso l’intero edificio è scomparso dai miei occhi, e non ho visto che una sola cappella sfolgorante di luce. In quello splendore è apparsa, in piedi, sull’altare, grande, fulgida, piena di maestà e di dolcezza, la Vergine Maria, così come è nella Medaglia Miracolosa. Una forza irresistibile mi ha spinto verso di Lei. La Vergine mi ha fatto segno con la mano di inginocchiarmi e sembrava volesse dirmi: “Così va bene!”. Lei non ha parlato, ma io ho compreso tutto!».1 Nella deposizione del Processo canonico del 18/19 Febbraio 1842, Alfonso completerà: «Alla presenza della SS. Vergine, quantunque non mi dicesse una parola, compresi l’orrore dello stato in cui mi trovavo, la deformità del peccato, la bellezza della Religione Cattolica: in una parola capii tutto!».1
Il 31 gennaio, nella Chiesa del Gesù, Alfonso Ratisbonne fa la sua abiura pubblica tra le mani del Cardinale Patrizi e riceve il Battesimo, prendendo anche il nome Maria. Diventerà Gesuita, Sacerdote e lavorerà con il fratello P. Teodoro, anche lui convertito, fondatore della Congregazione di Nostra Signora di Sion in Gerusalemme.
Alfonso Ratisbonne, penultimo di dieci figli, appartiene ad una famiglia ebrea di banchieri molto facoltosa, ma il cui senso religioso della tradizione ebraica e la fede nell’unico Dio si erano assai affievoliti, cedendo il posto all’interesse per il denaro. Orfano della mamma a quattro anni e del papà a quattordici, Alfonso è seguito dallo zio Luigi, ricchissimo banchiere senza figli, che provvede ai suoi studi. Frequenta il Collegio reale di Strasburgo, poi un Istituto protestante; consegue il Baccellierato in Lettere e quindi, a Parigi, la Laurea in Diritto.
Nella lettera autobiografica del 12 aprile 1842 al Padre Dufriche-Desgenettes, così descrive se stesso: «Amavo solo i piaceri; gli affari mi impazientivano e l’aria degli uffici mi soffocava: pensavo che nel mondo si vivesse solo per godere... Non sognavo che feste e piaceri e ad essi mi abbandonavo con passione... Ero un ebreo solo di nome, poiché non credevo nemmeno in Dio! Non aprii mai un libro di religione, e, nella casa di mio zio, come presso i miei fratelli e sorelle, non si praticava la minima Prescrizione del giudaismo».1
In mezzo a questa povertà spirituale, Alfonso ha due richiami a valori più nobili e degni di essere vissuti. Il primo è la conversione al cattolicesimo (1827) del fratello maggiore Teodoro, più anziano di lui di 12 anni, che diventerà Sacerdote e fondatore della Congregazione di Nostra Signora di Sion in Gerusalemme; il secondo è il fidanzamento (1841) con la nipote Flora, di appena sedici anni, figlia del fratello Adolfo.
La conversione del fratello Teodoro ha suscitato la reazione ostile di tutta la famiglia, come se avesse tradito il suo popolo. Alfonso dal canto suo rompe ogni relazione con lui e, quando Teodoro partendo saluta i familiari, assicurandoli che avrebbe pregato per tutti loro, Alfonso ride sarcasticamente.
Flora Ratisbonne, bella ed intelligente, minore di 11 anni rispetto ad Alfonso, è troppo giovane ed ancora in età minorile. Gli anziani della famiglia decidono di prendere tempo e di allontanare Alfonso da Strasburgo, con un lungo viaggio turistico, dovunque gli sia gradito. Egli decide per l’Oriente, attraverso la Costa Azzurra, l’Italia, Malta e l’Egeo, e Costantinopoli come meta finale. Flora, preoccupata per la sua salute e più per la sua fede ebraica, gli fa giurare di non visitare Roma perché vi perversa la malaria, e perché il centro della cattolicità è un pericolo di perversione.
Invece, per un insieme di contrattempi imprevisti e coincidenze non volute, Alfonso da Napoli giunge a Roma dove, per un semplice atto di cortesia verso il Barone Teodoro de Bussière, amico del fratello, accetta di portare al collo la Medaglia Miracolosa e di recitare la preghiera di S. Bernardo Ricordati piissima Vergine.
La Madonna lo attende nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte il giovedì 20 gennaio, lo abbaglia e lo converte come S. Paolo sulla via di Damasco.

                                                                       
Don Mario Morra SDB


Postato da: giacabi a 22:47 | link | commenti
testimonianza


È morta Chiara Lubich

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da: www.avvenire.it 14 marzo 2008  
«In un clima sereno, di preghiera e di intensa commozione, Chiara Lubich ha concluso a 88 anni il suo viaggio terreno questa notte, 14 marzo 2008, alle ore 2 nella sua abitazione di Rocca di Papa (Roma)». Con queste parole, una nota ufficiale del Movimento dei Focolari ha annunciato la morte della sua fondatrice, Chiara Lubich,nella nottata di giovedì 13 marzo, dopo un ricovero di un mese al Policlinico Gemelli, per una insufficienza respiratoria grave. La Lubich era rientrata per sua espressa volontà nella sua abitazione a Rocca di Papa (Roma) che si trova accanto al Centro internazionale dell’Opera di Maria. Per tutta la giornata, ieri, centinaia di persone – parenti, stretti collaboratori e suoi figli spirituali – sono passati nella sua stanza, per rivolgerle l’ultimo saluto, e poi fermarsi in raccoglimento nell’attigua cappella, sostando poi a lungo attorno alla casa in preghiera. Una ininterrotta e spontanea processione. A taluni Chiara ha potuto anche fare cenni d’intesa, nonostante l’estrema debolezza. Al suo fianco le prime compagne - Eli Folonari che l’ha seguita da vicino, Dori Zamboni, Aletta Salizzoni, Silvana Veronesi, Graziella De Luca, Gis Calliari e Bruna Tomasi – che insieme a lei hanno fondato il Movimento dei Focolari. In queste ore continuano a giungere dal mondo intero messaggi di partecipazione e di condivisione da parte di leader religiosi, politici, accademici e civili, e da tanta gente del “suo” popolo.

(14 marzo 2008)
IL TELEGRAMMA DEL SANTO PADRE

HO APPRESO CON PROFONDA EMOZIONE LA NOTIZIA DELLA PIA MORTE DELLA SIGNORINA CHIARA LUBICH SOPRAGGIUNTA AL TERMINE DI UNA LUNGA E FECONDA VITA SEGNATA INSTANCABILMENTE DAL SUO AMORE PER GESU’ ABBANDONATO(.) IN QUEST’ORA DI DOLOROSO DISTACCO SONO SPIRITUALMENTE VICINO CON AFFETTO AI FAMILIARI E ALL’INTERA OPERA DI MARIA - MOVIMENTO DEI FOCOLARI CHE DA LEI HA AVUTO ORIGINE COME PURE A QUANTI HANNO APPREZZATO IL SUO IMPEGNO COSTANTE PER LA COMUNIONE NELLA CHIESA PER IL DIALOGO ECUMENICO E LA FRATELLANZA TRA TUTTI I POPOLI (.) RINGRAZIO IL SIGNORE PER LA TESTIMONIANZA DELLA SUA ESISTENZA SPESA NELL’ASCOLTO DEI BISOGNI DELL’UOMO CONTEMPORANEO IN PIENA FEDELTA’ ALLA CHIESA E AL PAPA E MENTRE NE AFFIDO L’ANIMA ALLA DIVINA BONTA’ AFFINCHE’ LA ACCOLGA NEL SENO DEL PADRE AUSPICO CHE QUANTI L’HANNO CONOSCIUTA E INCONTRATA AMMIRANDO LE MERAVIGLIE CHE DIO HA COMPIUTO ATTRAVERSO IL SUO ARDORE MISSIONARIO NE SEGUANO LE ORME MANTENENDONE VIVO IL CARISMA (.) CON TALI VOTI INVOCO LA MATERNA INTERCESSIONE DI MARIA E VOLENTIERI IMPARTO A TUTTI LA BENEDIZIONE APOSTOLICA
BENEDICTUS PP. XVI

Il martirio del vescovo Rahho
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Angoscia. Era stato rapito il 29 febbraio da un commando che uccise tre suoi collaboratori. Il Papa: atto di disumana violenza. La Cei: sia seme di riconciliazione
 

 Iraq, trovato morto e sepolto il presule sequestrato a Mosul


● Una telefonata ha indicato il luogo del ritrovamento. Non sono ancora chiare le cause della morte: l’anziano religioso soffriva di cuore, ma la polizia parla di «colpi d’arma da fuoco» Secondo i medici legali il decesso risalirebbe a cinque giorni fa
● Benedetto XVI: un atto di «disumana violenza». Il Pontefice auspica che «questo tragico evento serva a costruire un futuro di pace» La Chiesa italiana «si stringe nella comune preghiera»
● La condanna del premier iracheno Nouri al-Maliki: «Un’aggressione che vuole suscitare la sedizione nel Paese» Le Nazioni Unite: questo delitto non deve restare impunito. Oggi verranno celebrati i solenni funerali nel villaggio di Karamles



Postato da: giacabi a 15:33 | link | commenti
testimonianza

venerdì, 25 gennaio 2008

Testimonianze
Don Gnocchi
  Poi, nelle steppe russe, accade ciò che il vostro libro definisce come il disincantamento...

I mutilatini del Centro di Don Gnocchi in una immagine del dopoguerra
     RUMI: Sempre per seguire i suoi giovani, il pezzo di popolo di Dio che gli è stato affidato, il cappellano Gnocchi si trova insieme agli alpini “là dove si muore”: in Albania, Grecia, Montenegro, Polonia, Ucraina, fino alla campagna di Russia. L’impresa, all’inizio, gli appare giustificabile con motivi patriottici e religiosi: i russi sono comunisti, sono slavi e non sono cattolici. Ma nelle campagne russe si imbatte in povere genti contadine cristiane come lui, che non mostrano alcun trasporto per l’ideologia bolscevica, e che la guerra condanna a una vita fatta di miserie, sofferenze e morte. Le stesse che riserva agli alpini decimati dal gelo e dalle battaglie. È lì che vengono spazzati via tutti gli orpelli ideologici, e la condizione umana si rivela nella sua nudità sofferente, incapace di redimersi da sola: crudeltà, egoismi, dolore senza ragione. Scrive don Gnocchi nel libro Cristo con gli alpini: «Ho visto contendersi il pezzo di pane e di carne a colpi di baionetta; ho visto battere col calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte come il naufrago alla tavola di salvezza… Ho visto un uomo sparare nella testa del suo compagno che non gli cedeva una spanna di terra, nell’isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto e dormire…». Egli stesso si salva dalla morte per freddo in maniera fortuita. Un tenente medico, riconoscendolo in mezzo alla colonna di disperati che si trascina nella neve durante la ritirata, lo carica quasi a forza su una slitta.
      Quale effetto ha questo impatto duro sulla vicenda umana e cristiana di don Gnocchi?
      RUMI: Lì tutto viene ricondotto alla realtà nuda. Anche la fede. Svanite le teorie astratte sulla civiltà cristiana, le sovrastrutture ideologiche, le aure gladiatorie, emerge che l’unica cosa reale, che agisce, è la tenerezza di Gesù stesso verso gli uomini afflitti e bisognosi di salvezza. E siccome, come dice il cardinal Biffi, gli angeli non hanno le mani, le mani del Signore diventano le opere di carità di chi crede in Lui. È sul fronte che prende corpo la sua vocazione. Nel settembre 1942 scrive a un suo cugino: «Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera».

De Gasperi, presidente del Consiglio, all'inaugurazion del Centro a Roma nel 1950

      Perché la sua opera si rivolge proprio ai mutilatini?
      RUMI: C’è, forse, nella scelta di don Gnocchi, un desiderio di espiazione della colpa storica di aver seguito il fascismo per un tratto non piccolo. Nell’Italia del dopoguerra c’è una pulsione generale di ripresa, una voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e le sofferenze. Ma il dolore innocente dei mutilatini è tagliato fuori anche da questo flusso. Appare senza possibilità di riscatto. Rimangono ai bordi della strada, come testimoni muti e dimenticati che portano per sempre impressi nella propria carne gli effetti del disastro di tutta una generazione. Alla fine della guerra ottiene di essere nominato direttore dell’Istituto grandi invalidi di Arosio. Così descriverà le impressioni avute nel suo incontro con Bruno, il primo ragazzo mutilato ospitato presso quella struttura: «Le sue lacrime e il suo sangue mi accusano insopportabilmente. Quando noi si farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza egli non chiedeva che di vivere e di giocare un poco».
      Don Gnocchi parla di educazione al dolore. Dopo la creazione della Federazione pro infanzia mutilata, una delle sue iniziative sarà quella delle settimane del dolore. In queste formule non c’era il rischio di un certo “dolorismo”?
      RUMI: È il contrario. Don Gnocchi vede bene che il dolore, di per sé, rende cattivi. Inaridisce. Spegne i volti e i cuori. Racconta egli stesso, come una delle sue esperienze più decisive, l’incontro con Marco, un mutilatino che era saltato su una mina e a cui erano state amputate le gambe. Don Carlo gli chiese: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». E lui rispose: «A nessuno». La sua opera di carità partiva proprio dallo sgomento davanti all’“irreparabile sciagura” del dolore innocente che si perde nel vuoto. E dall’esperienza fatta tante volte di come la grazia di Gesù poteva prendere in braccio i poveri e i sofferenti che da soli si sarebbero perduti, redimendo misteriosamente anche il loro dolore. Come scrive don Gnocchi, «la redenzione di Cristo deve estendere i suoi benefici anche alle conseguenze materiali della colpa originale e perciò deve mirare anche a sanare o almeno attenuare il dolore fisico e combatterne tutte le cause. Sanare il dolore non è allora soltanto un’opera di filantropia, ma è un’opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo». Tutta la vita di don Gnocchi è una lotta al dolore. Per questa ragione giungerà a occuparsi di meccanica, di leghe metalliche, di marchingegni tecnologici. A servirsi di tutti i ritrovati messi a disposizione dalla più avanzata ricerca tecnica e medico-sanitaria.
      Il suo vescovo, il cardinale Schuster, aveva qualche riserva sulle scelte di don Gnocchi…
      EDOARDO BRESSAN: Schuster era un padre che considerava don Gnocchi un figlio un po’ irrequieto. Il vescovo aveva su di lui un progetto diverso. Pensava di affidargli una parrocchia, e che tutte le sue esperienze avrebbero ben potuto confluire in un ministero parrocchiale ordinario, quello di tutti gli altri preti ambrosiani. Ma per don Gnocchi la parrocchia era la sua opera per i mutilatini, quella che chiamava «la mia baracca». Non era facile resistere al vescovo benedettino con quel cognome così tedesco. Ma alla fine Schuster lasciò fare, e benedì i frutti inattesi di quella grande Opera.
      Nel dopoguerra, l’Opera per l’infanzia mutilata (che dal 1951 diventa Fondazione pro iuventute) assume rilevanza nazionale nel settore dell’assistenza. Riceve finanziamenti dal governo. C’è anche qualche bisticcio con chi vuole preservare il carattere statale degli istituti di cura.
      BRESSAN: Le difficoltà si superarono senza troppe guerre ideologiche. Le disposizioni giuridiche tendevano a ribadire un controllo pubblico del settore, ma nell’attuazione pratica la legge stessa diventò lo strumento per riconoscere alla Pro juventute la leadership di fatto nella gestione del problema. In don Gnocchi non c’era alcuna animosità o competizione nei confronti dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Lui cercava il loro sostegno, e il governo De Gasperi appoggiò con decisione l’inizio della sua impresa. Nella sua vicenda ci fu una collaborazione e compenetrazione concreta tra pubblico e privato vantaggiosa per lo Stato. In termini attuali, fu un caso esemplare di applicazione del criterio della sussidiarietà.
Don Gnocchi in Russia

      Insomma, la carità fa bene anche allo Stato…
      BRESSAN: Don Gnocchi diceva: «Non si può fare la carità in carta da bollo. Ma lo Stato ci costringe spesso a fare questo». Nell’Istituto grandi invalidi di Arosio, don Gnocchi aveva visto negli adulti mutilati durante la guerra gli effetti negativi della “burocratizzazione del dolore”. Descriveva così la situazione: «Il dannunzianesimo e il fascismo hanno lasciato in eredità a queste anime sofferenti (più di 600mila) uno spirito esasperato, esaltato, pretenzioso soltanto di diritti, inquieto e senza consolazione». Sperava che ai mutilatini non toccasse la stessa sorte. E secondo lui solo chi era mosso dalla carità cristiana poteva aiutarli a non ripiegarsi e incattivirsi. «Noi» scriveva «non vogliamo assolutamente che diventino come sono spesso gli altri, degli esosi il cui scopo principale della vita è quello di mirare al 27 del mese per far coda impaziente davanti agli sportelli delle pensioni contando avaramente il denaro ricevuto e bestemmiando il governo. Vogliamo farne degli uomini superiori, capaci di far dono del tesoro della loro sofferenza a Dio e agli uomini, per la ricchezza di tutti».
      Nel sottotitolo del vostro libro, don Carlo è definito imprenditore della carità
      BRESSAN: In una lettera, una volta, don Gnocchi scrisse: «Io ammiro le persone e le istituzioni che tutto attendono dalla Divina Provvidenza, nulla cercando e nulla rifiutando, ma io non ho la loro Grazia speciale. Nella ricerca dei mezzi per la vita dei miei poveri, io cerco di ispirarmi più a don Bosco che “cercava” che al Cottolengo che “attendeva”». Forse era un paragone un po’ ingiusto per il Cottolengo… ma certo
don Gnocchi ebbe un’energia fantasiosa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e occasioni per far crescere la sua “baracca”. Usava con totale libertà i contatti umani, il mondo dei mass media, le sue entrature con l’alta società lombarda per far affluire fondi e risorse all’Opera. Inventò iniziative come le catene di solidarietà o altre, più spettacolari, come il volo aereo del cosiddetto “Angelo dei bimbi” da Milano a Buenos Aires, o come la collaborazione con Cesare Zavattini nel film Tutti i bambini del mondo: tutto poteva esser utile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei mutilatini. E fu rapido ed efficace anche nel “riconvertire” la sua opera alle nuove situazioni. Man mano che ci si allontanava dalla guerra, e diminuiva il numero dei mutilatini, tutte le case della Pro juventute cominciarono ad ospitare i poliomelitici, e altre categorie di persone bisognose di assistenza…
      Il processo di beatificazione di don Gnocchi ha
superato la sua fase diocesana e adesso è “fermo” a Roma. Il sempre più vasto e vitale mondo del volontariato potrebbe prendere a cuore questa causa…
      BRESSAN: Potrebbe essere un’idea: san Carlo Gnocchi, patrono del volontariato e del no profit…

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santi, testimonianza, don gnocchi

mercoledì, 23 gennaio 2008

TESTIMONI DI CRISTO
FRATEL ETTORE
                    http://www.fratelettore.it/frame_fratel.htm          
 
UN “FOLLE” DI DIO SULLA FRONTIERA DELLA CARITA’
Di Teresa Martino
Per capire il carisma e comprendere l’origine dell’esperienza di Fratel Ettore Boschini a servizio dei poveri bisogna riascoltare le parole da lui pronunciate nel corso di un’intervista.

Parla del suo arrivo a Milano dove intuisce che nella sua vita c’è un passo in più da compiere, e lo racconta così: “La mia è semplicemente una storia d’amore, un percorso scelto per me da Dio. Una mattina bussa da me un uomo, era malato, stanco, sporco. Chiedeva aiuto.


Ho spogliato delicatamente il suo corpo coperto di piaghe, l’ho lavato e medicato. Quel giorno di tanti anni fa la mia scelta è diventata definitiva, non avrei aspettato che gli ultimi della terra arrivassero moribondi alla mia porta: sarei andato io a cercarli sui marciapiedi, nelle stazioni e nei sottoscala della città”. Fratel Ettore, senza tregua, ha offerto tutto se stesso alla causa degli emarginati.
Difficile contare le sue notti insonni, trascorse alla guida di un pulmino traballante, lungo le vie meno frequentate di Milano. Andava alla ricerca dei suoi poveri, di chi non aveva né tetto né cibo. “Hai fame? Hai bisogno di un vestito? Vuoi venire con me?”.

Quando c’era da soccorrere, intervenire, dare sollievo alle sofferenze, non si fermava davanti a nulla. Senza clamori, in anni di rinunce e sofferenze, ha saputo provvedere tempestivamente ad alcune tra le urgenze più drammatiche di Milano. Per primo ha accolto i barboni che languivano sui binari della Stazione centrale. Per primo ha deciso, già alla fine degli anni settanta, di aprire le porte dei suoi Rifugi agli immigrati, offrendo conforto materiale e parole di speranza. Ha istituito uno dei primi centri privati per accogliere gli ammalati di Aids, alla fine degli anni Ottanta, mentre l’assistenza pubblica sembrava disarmata di fronte all’incalzare della tragedia. Il suo centro in uno dei padiglioni del “Paolo Pini” ad Affori, è stato a lungo l’unica alternativa alle poche strutture pubbliche esistenti. Con lo stesso slancio inesausto ha pensato ai tossicodipendenti, ai malati mentali, agli anziani lungo degenti e senza assistenza. Ecco perchè Milano è grata a questo uomo di Dio che ha fatto proprio, rinnovandolo e adeguandolo alle nuove emergenze, il carisma del fondatore dell’ordine a cui apparteneva, San Camillo De Lellis, l’apostolo dei malati. Con la forza della sua misericordia Fratel Ettore ha sferzato la fraternità tascabile, gli animi tiepidi, la solidarietà minimalista. Ha mostrato che lo scandalo dell’amore evangelico, totale e senza condizioni, è il filo tenace che lega gli uomini al mistero. Il primo miracolo di Fratel Ettore è il Rifugio di via Sammartini: eccolo in un ricordo del sindaco Albertini: “I milanesi seppero che il frate camilliano voleva aprire un rifugio per gli emarginati sotto il cavalcavia ferroviario della Stazione Centrale in via Ferrante Aporti, e pensarono che posto più squallido non poteva trovarlo, ma proprio la campata sotterranea del ponte è diventata la cattedrale di Fratel Ettore. Proprio lì, nel 1987 partecipai in incognito alla Messa celebrata davanti a credenti e non credenti di tutte le razze accomunati dalla miseria e dalla disperazione. L’altare era il tavolo della mensa e le panche i cartoni sistemati per terra. Come pulpito Fratel Ettore salì su una sedia e rivolto a quella platea di fedeli disse loro di pregare tutti assieme per le intenzioni di una persona che in quel momento era in mezzo a loro, anonima come loro, ma che ricopriva alte responsabilità è per la città di Milano. Fu un momento di forte intensità spirituale il cui ricordo ancora oggi mi pervade lasciandomi intuire il misticismo di questo religioso”.

Al Rifugio di via Sammartini offriva a tutti un pasto e un letto. Poi prima di spegnere la luce, prendeva la corona del Rosario, si inginocchiava e cominciava a pregare: “Ringraziamo Maria che anche oggi è stata generosa con noi. Chi vuole ripeta le mie parole”. Nessuno si rifiutava. Anche chi da tempo aveva smarrito la fede, anche chi non era cristiano. Fratel Ettore con il sorriso dolce e gli occhi luccicanti, non conosceva le sottigliezze teologiche del dialogo interreligioso. Ai musulmani, che sempre più numerosi affollavano i suoi centri in questi ultimi anni, diceva: “Pregate come siete capaci, Dio sa leggere nei cuori”. E lui intonava il Salve Regina, senza iattanze né obiettivi di proselitismo, ma perchè convinto che il manto materno della Vergine fosse per tutti un aiuto formidabile. Fratel Ettore era ciò che nel monachesimo viene indicato come guida, che è molto più di un maestro, come spiega bene André Louf, abate di Mont-des-Cats in un suo libro. L’intera vita di Fratel Ettore era ciò che sapeva o poteva dire, ma in forza di ciò che era. Solo dall’amore scaturisce la vita perchè l’amore è interamente immagine di Dio e del figlio suo, di cui la guida tende ad essere l’icona.

Il messaggio di vita s’irradiava da lui in qualità del suo essere e quasi inconsapevolmente. Sul volto di questo uomo santo e attraverso il suo modo di agire abbiamo percepito l’amore di Dio nelle sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Era molto forte in Ettore la paternità. Quando è morto sulla sua bara una mano sapiente e è perspicace ha voluto scrivere: “Padre dei poveri e il cardinale Tettamanzi, nella sua omelia, riprenderà quell’appellativo spiegando che la Bibbia lo riferisce solo a Dio, il Pater Pauperum per eccellenza. Ma, continua il Cardinale, Fratel Ettore è stato, con tutta la sua carica di umanità e per un dono grande di Dio e del suo amore, una trasparenza particolarmente luminosa, credibile ed efficace di questa paternità. Padre Fausto Beretta, missionario comboniano in Brasile, racconta in una testimonianza: “Il primo ricordo con Fratel Ettore risale al 1947, quando nell’Auditorium del “Cenacolo di Milano”, era di autunno, ci comunicò la sua scelta di viver con gli ultimi alla Stazione Centrale. Era una sfida a seguirlo, ad andare con lui. L’abbiamo accettata, ma quante volte di sabato pomeriggio andando a Milano ci chiedevamo: ma perchè ci andiamo? Per vedere chi? Se poi, probabilmente, Fratel Ettore sarà tutto indaffarato e non ci darà attenzione o ci farà fare cose assurde? Sì, perchè davvero diceva e faceva cose che nessuno di noi aveva il coraggio di fare, ma la sua testimonianza ci ha sedotto e dato coraggio. Ricordo i rosari al “Rifugio”, prima e dopo cena, i digiuni e le penitenze imposte ai poveri barboni che avevano abusato nel bere, o quelle minestre troppo saporite, annacquate all’ultima ora a mortificare la gola. Fratel Ettore si spingeva sempre avanti, oltre il buon senso, con la forza e la chiarezza dei profeti. Erano proposte sempre nuove e quasi assurde, ma che venivano dal suo cuore, dal suo amore per Maria e per chi viveva al margine della società: per il barbone, l’alcolizzato, la prostituta, la vecchia abbandonata, il terzomondiale, il fallito nella vita. Il Rifugio di via Sammartini divenne per molti la scuola del Vangelo, il luogo di verifica della nostra preghiera, il luogo della scoperta del volto di Gesù di Nazareth nel povero e la fonte di molte vocazioni missionarie, e non solo. Là, in via Sammartini, molti giovani, ragazzi e ragazze, hanno deciso di lasciare tutto per seguire il Signore, scegliendo la vita religiosa contemplativa o attiva”.

Devotissimo a Maria, angosciato quando rubarono la statua davanti al dormitorio di via Sammartini, si mise a girare per Milano su una scassatissima automobile con la sacra immagine legata sul tettuccio, mentre da un megafono usciva la sua voce che recitava il rosario. Come quell’altra volta, ricorda il sindaco di Seveso, Tino Galbiati, che Fratel Ettore, arrabbiato perchè non gli venivano concessi i permessi per ampliare il centro, girò per due giorni le strade del paese con l’auto con sopra la Madonna, finchè i permessi non giunsero. Allo scoppio della guerra nei Balcani portò la sua Mamma Celeste in piazza Duomo, la pose sui gradini, si inginocchiò e cominciò a sgranare la corona, fra lo stupore della folla, per chiedere la fine della guerra.

Al Gay Pride si mescolò alle lesbiche e agli omosessuali chiedendo a Maria di intercedere per loro e, dopo aver pregato brandendo la statua della Vergine e ponendosi di fronte al corteo, come il ragazzo di Tienan-Men davanti al carro armato, gridava “Convertitevi!”. Ai più queste scene apparivano patetiche. Perchè Fratel Ettore era sorretto dalla fede ma soprattutto da una ingenuità beata e testarda, tipica dei santi. Lo dimostrò anche nell’ottobre del 1989 quando il Coro della Scala partì per una tournee in Unione Sovietica. Ai coristi diede centinaia di Bibbie, perchè le nascondessero nelle valigie e le distribuissero a Mosca e Leningrado. A uno di loro, il Frate che credeva nella Provvidenza, consegnò un regalo per Gorbaciov, un’icona di San Michele, con la raccomandazione:”Portalo al fratello Michele per il suo onomastico e digli che prego per lui”. Il corista obbedì. Il vice ministro che prese in consegna il donò ringraziò...a solo due settimane dal crollo del Muro di Berlino e dal disfacimento dell’Unione Sovietica. Non c’era ricorrenza significativa che non lo vedesse raggiungere piazza Duomo con i suoi mezzi alternativi ed il suo seguito di umanità sofferente, megafono alla mano per il rosario e due volontari a distribuire immaginette della Vergine Maria. Era, la sua, un’autentica evangelizzazione di strada, tanto più dirompente e scandalosa perchè giungeva a sorprendere la fretta un poco indifferente della metropoli. Ben presto Fratel Ettore stesso, diventa meta di pellegrinaggi altrui, da madre Teresa All’Abbé Pierre. Lui non si ferma, va in visita al Papa, torna in stazione, va fra i terremotati; durante la guerra nell’ex-Iugoslavia, a metà anni Novanta, aiuterà con più di duecento viaggi di Tir carichi di aiuti umanitari e i Savoia si terranno obbligati a fargli visita per ringraziarlo. Controcorrente sempre, capace di sorprendere e di disorientare con quella forza segreta che gli veniva da lunghe ore trascorse immerso in preghiera. Quando un sacerdote camillliano in partenza per l’America Latina gli chiese una statuetta della Madonna da portare in missione, Fratel Ettore andò ad acquistarne una da un amico scultore, alta quasi due metri, pesantissima, in marmo bianco, magnificamente scolpita. Costo, cinque milioni di vecchie lire. E quasi altrettanto occorreva spendere per imballarla e spedirla oltre Oceano.

Quando l’economo di Casa Betania a Seveso -il quartiere generale delle sue opere di misericordia- fu informato della spesa, assalì Fratel Ettore con parole di fuoco: “Ma come, dobbiamo pagare un conto di cento milioni, tra pochi giorni per i lavori qui alla casa e tu vai a spenderne altri dieci per una statua”. Ma lui non si fece intimorire:”E’ una missione che sta muovendo i primi passi. Hanno il diritto di avere una bella immagine di Maria”. Quella sera stessa una signora mai vista prima bussò alla porta e consegnò un assegno di alcune centinaia di milioni, sufficiente per la statua, per pagare i lavori e per altre spese ancora. La casa di Bogotà, la sua missione in Colombia, l’ha pagata Luis Gabriel. Naturalmente quella casa Fratel Ettore l’aveva fermata con il conto in banca sotto zero. Un giorno andando a messa con i suoi poveri, incontra per strada un uomo appoggiato al muro che tiene sul viso uno straccio, (quell’uomo si chiamava Luis-Gabriel, ha fatto una morte santa). Pensandolo ubriaco lo invita a bere un tinto, così si chiama il caffè a Bogotà. Quando il povero si stacca dal muro per seguirlo e toglie lo straccio dal viso, Fratel Ettore non trattiene un urlo...Luis ha solo mezza faccia, il resto gliel’ha mangiata il cancro. Lo convince a seguirlo in un ospedale da dove viene cacciato insieme al povero:”E’ uno di strada, non lo vogliamo. E poi che serve curarlo? Ha poco da vivere”. Come una mamma se lo porta a casa e sembra non sentire il fetore che emana quel povero viso devastato. Lo netta del pus, stacca brandelli di pelle marcia, lo fascia con amore e gli dà un bacio. Il giorno dopo dall’Italia gli comunicano che un benefattore ha donato 90 milioni. Il costo della casa.

Non era uno che “chiedeva” Fratel Ettore. Soldi meno che mai. La Provvidenza (scrivi “Provvidenza” sempre con la maiuscola, diceva, perchè significa Dio!), ci pensava da sola: si chiama “Rotary” o con qualunque altro nome. No, era lui, Fratel Ettore, ad andare incontro alle altrui necessità. Era lui a fare offerte al Papa, accompagnandole con un bigliettino pieno di candore: “Dai poveri per i più poveri del Papa”; oppure offerte per le missioni del suo Ordine Camilliano; o aiuti di tutti i generi ad altre Comunità religiose.

Se vi erano richieste, le sue erano di tutt’altra natura. Come quando fece irruzione ad un convegno sulla solidarietà milanese, pieno di nomi importanti, portandosi dietro un centinaio di ucraine: “Se volete  davvero fare qualcosa di utile – gridò – ciascuno di voi ne assuma una come colf. Adesso!”.

Era un grand’uomo che ha stupito Milano con la sua semplicità, umiltà e determinazione. Era uno che apriva strade impensabili ad altri e le percorreva tutte, fino in fondo, con passione, Aveva una fiducia cieca nella Provvidenza.

“L’altro giorno” ha raccontato una volta “eravamo senza pane. Stavo uscendo per andarlo a cercare quando ne è arrivato un camion pieno”.

“E chi te lo ha mandato?”

“Non lo so. Secondo me Maria Vergine”.
 per saperne di più:

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santi, testimonianza, fratel ettore

giovedì, 17 gennaio 2008

Cristo fa rinascere a vita nuova
***
«Andavo errando alla cieca nelle tenebre della notte, sballottato a caso sul mare agitato del mondo; galleggiavo alla deriva, ignorante della mia vita, straniero alla verità e alla luce. Stando ai miei costumi d'allora, credevo difficile e arduo ciò che la bontà divina mi prometteva per la mia salvezza. Come poteva un uomo rinascere ad una vita nuova per mezzo del battesimo dell'acqua salutare, essere rigenerato, spogliarsi di ciò che era stato e, senza cambiare corpo cambiare nell'anima e nello spirito? Come era possibile, pensavo, una siffatta conversione? ...Ecco ciò che mi chiedevo spesso. lo stesso infatti ero preso prigioniero nei mille errori della mia vita passata; non credevo di potermene sbarazzare, tanto ero schiavo dei vizi che mi si erano appiccicati, tanto disperavo del meglio, tanto mi compiacevo per i miei mali, diventati come compagni familiari»
 «L'acqua rigeneratrice lavò in me le macchie della mia vita precedente; una luce venuta dall'alto si diffuse nel mio cuore purificato dalle sozzure. Lo Spirito disceso dal cielo mi cambiò in un uomo nuovo con una seconda nascita. Subito, in maniera meravigliosa, vidi la certezza succedere al dubbio, aprirsi le porte chiuse e brillare le tenebre. Trovai facile ciò che prima mi sembrava difficile, e possibile ciò che avevo ritenuto impossibile... Tu sai certamente e riconosci con me ciò che mi ha tolto e ciò che mi ha portato questa morte dei crimini, questa risurrezione delle virtù. Tu lo sai da te stesso e io non me ne vanto».
 vescovo Cipriano di Cartagine

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testimonianza, cristianesimo

domenica, 06 gennaio 2008

Padre Aldo Trento
***
da: http://www.olivotti.org/:upload/2/att_punto%20a%20capo%20san%20francesco%202006.pdfda 
LASCIARSI EDUCARE  ALLA GRATUITÀ


Mi sembra valga la pena tradurre l’articolo che il nostro
amico Padre Aldo Trento, missionario nella Parrocchia
San Rafael di Asuncion (Paraguay) con il
quale collaboraiamo da qualche tempo, ha pubblicato
sul suo bollettino parrocchiale. Si tratta di una lettera
aperta, che fa riferimento ad una benestante volontaria
della Parrocchia, che aveva chiesto a Padre Aldo
di accogliere nella sua clinica per malati terminali un
suo parente vicino. Una riflessione sui valori del volontariato
dalle tinte forti, ma che proprio per questo
lascia il segno nelle coscienze.
“Io ho sempre collaborato con la parrocchia…”
“… e mi sorprende, Padre, la sua risposta in riferimento
al ricovero di un malato nella Clinica San Riccardo
Pampuri”.
Risposta ovviamente negativa, dato che il caso
non presentava i requisiti necessari per il ricovero in
questo tipo di struttura, che sono: lo stato di abbandono,
la malattia terminale e la situazione di povertà
o di vita nella strada.
La signora, davanti al nostro “No”, si è offesa,
ricordando ciò che aveva fatto per la nostra comunità.
Inevitabilmente, davanti ad una simile posizione,
non ho potuto tacere, anche perché mi rendo
conto che questa forma di porsi di fronte alla vita in
generale, ed all’aiuto che una persona offre ad
un’istituzione, è un ritornello che riempie il mondo.
Per questo è importante chiarire alcune cose.
1. Nessuno è obbligato a regalare o donare niente
a nessuno.
Se una persona intende offrire il proprio servizio o
un regalo, deve farlo solamente per amore alla
propria persona e per amore a Cristo. Amore alla
propria persona, perché il “condividere” è una legge
del cuore umano. Per amore a Cristo, perché
solo Cristo è con certezza ciò di cui ciascun uomo ha
bisogno, e anche perché è Cristo colui che ci chiede
questa libertà di riconoscere la sua Presenza nelle
persone più bisognose. Di conseguenza, se una persona
vuole prestare un servizio abbia chiaro questo
concetto, altrimenti è meglio che non faccia niente. È
importante che si lasci educare alla gratuità, che è
puro dono del Signore.
Un ragazzo che è stato testimone per alcuni mesi
di questa libertà nel servizio presso la Clinica, prima
di tornare in Argentina ci ha mandato una lettera
nella quale diceva: “Carissima Casa Divina Providencia,
durante il periodo in cui sono stato lì mi
hai fatto diventare più umano, obbligandomi a rispondere
alle mie esigenze esistenziali di giovane”.
Una posizione matura e autenticamente cristiana.
2. La generosità uccide, la gratuità salva.
Ciascun essere umano nasce con il sentimento positivo
del condividere. È qualcosa di naturale, è una
legge del cuore. Tuttavia nel tempo questa legge
del cuore, se non incontra il volto fisico di Cristo, diventa
un ricatto. Sarebbe a dire che se il mio cuore
non è educato alla gratuità, la generosità muore, o
diventa un terribile strumento di ricatto. “Guarda
quello che ho fatto per te… e guarda in che modo mi hai ripagato”…ecc.
Ma in che modo la generosità diventa gratuità? È
lo stesso Gesù che ce l’ha insegnato, facendosi carne
e morendo sulla croce obbedendo al Padre. È la
dipendenza, e questa dipendenza è sempre da una
compagnia che trasforma l’impeto di generosità in
gratuità.
Dentro, e solo dentro, una dipendenza da una
compagnia la persona impara la gratuità. Lo stesso
Gesù lo ha imparato vivendo la compagnia del Padre
e obbedendo al Padre: “Si è fatto obbediente
fino alla morte, morte in croce” afferma l’apostolo
San Paolo. Tutta la vita di Gesù è stata l’esperienza
più alta di dipendenza, e per questo, come afferma
sempre l’apostolo, “Cristo è morto per noi, che eravamo
i suoi nemici”.
Culmine della gratuità, Cristo non ha mai preteso
niente da nessuno, semplicemente ha proposto la
sua persona alla libertà degli altri, che nella grande
maggioranza lo rifiutarono, persino coloro che
avevano ricevuto un miracolo da Lui.
3. La gratuità è sinonimo di libertà.
Come dire: “Questa cosa la faccio indipendentemente
dalla risposta che l’altro mi darà. Lo faccio perché è
una mia necessità, perché aprendomi agli altri cresce
la mia umanità, lo faccio per Cristo”.
La conseguenza è una libertà: libertà dalle mie
istintività, dai miei progetti, dai miei sentimenti, che
esigeranno sempre una contropartita.
Quando mi offendo perché non ricevo una ricompensa
dagli altri, il problema non è negli altri, bensì
in me stesso, che sono vittima dei progetti che ho
fatto sugli altri.
Quante volte lo sperimentiamo nella vita. Soffriamo
perché vediamo il fallimento di un progetto
personale. Perfino quando muore una persona cara,
esprimiamo sempre un dolore che sgorga dal fatto
che è venuta a mancare un’immagine, un progetto
che avevamo nell’altro. Anche se è un’immagine ed
un progetto buono. Nelle relazioni esiste sempre
un’impurità che solo la grazia di Cristo e la pazienza possono purificare. La gratuità ama anche se non
è amata, corrisposta.
Continuare ad arrabbiarci è continuare ad essere
infantili, e per questo “grandi amori e grandi
rancori”, “grandi simpatie e grandi antipatie”. La
relazione tra uomo e donna rappresenta in questo
senso un esempio eloquente. Ma anche qualsiasi altra
relazione. Perciò l’unico cammino che ci educa
alla libertà, a quella libertà che permette perfino di
abbracciare il nemico, e quello dell’obbedienza
alla compagnia che ci educa. Una compagnia che
esige una grande umiltà, una grande coscienza del
proprio essere nulla.
È bello vedere quante persone che ci circondano,
avendo percepito questa verità che è Cristo stesso,
sono cambiate e continuano a godere di un cambiamento
ogni giorno più grande e più bello. In definitiva,
l’unico diritto che l’uomo possiede, ed anche
l’unico grande dovere, è quello di lasciarsi educare
alla gratuità, ovvero alla libertà anche dei propri
criteri e schemi mentali, che sono origine di tanti disastri
nel mondo.
P. Aldo Trento



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sabato, 05 gennaio 2008

TracceN. 4 > aprile 2007 Testimonianza
Politica, libertà e tensione ideale
Aldo Brandirali
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Una vita passata sui banchi della politica. Gli incontri, le resistenze davanti «a una proposta di pienezza». Un’unica possibile verifica: l’esperienza



Cristo corrisponde pienamente alle esigenze del cuore. Questa affermazione di fede io posso pronunciarla perché ne sono certo e ho avuto la grazia di poterne fare esperienza.
La Grazia mi è venuta incontro nella persona di don Giussani, con il suo particolare carisma.
Dicendo questo faccio un balzo di duemila anni di storia, dal fatto raccontato nei Vangeli sono passato al testimone, che mi ha raggiunto concretamente facendomi sperimentare la realtà di Cristo fra noi.
Io, travagliato dalla vita moderna con le sue ideologie e il suo inseguimento del nulla, ho giocato la mia libertà aprendo la ragione a una ipotesi sul Mistero.
L’incontro con don Giussani ha suscitato in me stupore, improvvisamente mi ha preso un impegno affettivo, amavo questo uomo perché era decisivo per me. Eppure non avevo posto una domanda giusta e neppure avevo capito veramente quello che lui mi aveva detto.
Ho periodicamente incontrato di nuovo don Giussani, e ogni volta capivo e recepivo solo un pezzetto di quello che mi diceva. La mia mentalità resisteva in tutti i modi alla pienezza della proposta che mi veniva fatta. Il lavorio della ragione procedeva innanzitutto con la difesa delle mie idee e poi, via via, comprendevo la novità, il giusto giudizio sulle cose, il cambiamento del mio rapporto con la realtà.
Ma ne dovevo sempre fare esperienza e solo la convivenza con gli amici di Comunione e Liberazione mi permetteva di verificare la forte valenza del nuovo che mi veniva incontro.
Il costruttore della positività
Durante il primo incontro don Giussani mi disse: «Continua questa critica della politica, ma non perdere la passione con cui l’hai fatta». Io invece ero in crisi sulle mie idee politiche, ma cercavo di mettere da parte la passione per adattarmi alle cose possibili. Seguivo cioè il metodo dell’uomo che si fa da sé: sono io l’errore, devo distruggere l’io se voglio conformarmi alle posizioni vincenti.
Nel dicembre del 1985 l’incontro con don Giussani fu contrassegnato dalla evidenza del maestro autorevole. In
particolare disse del suo fermarsi una sera davanti a una coppia di giovani che si baciava dicendo loro: «Che c’entra con le stelle?».
Io dissi di slancio: «Dov’eri? Ti ho sempre cercato!». Effettivamente il mio precedente percorso nella politica era di rottura con una classe dirigente che mi appariva fatta da falsi maestri. Non riuscivo ad avere una persona di riferimento e per questo ho fondato io un nuovo movimento.
Invitato alla Assemblea responsabili di Cl della fine dell’87, mi accadde di domandarmi perché seguivo la compagnia di Giussani benché non fossi cattolico.
Facendo un’opera di carità con carcerati e stranieri mi resi pian piano conto che il costruttore della vera carità era Cristo presente fra noi. Fare “opera” per me non voleva dire dispiegare le mie abilità trovando i mezzi per aiutare. Voleva dire condividere bisogni sino al punto di imparare a chiedere, cioè a pregare, per poter ottenere risposte concrete al bisogno umano con cui ero coinvolto.
Infine nel 1992 mi inginocchiai in Chiesa, il Mistero aveva mostrato il suo volto, aveva un nome: Cristo. Il costruttore della positività della realtà.
La questione dell’“io”
Pochi mesi dopo incontrai Giussani che mi disse: «Aldo, spiegami cosa è la santità, perché io sto facendo una grande fatica su questa domanda». Io rimasi allibito. Mi ci vollero anni per capire quel che mi aveva detto. Non avevo ancora imparato a dire “io”, cercavo ancora giudizi e risposte per la comunità umana, ma non per me personalmente. Invece la riflessione sulla santità mi pone su di me, dicendomi che nella struttura dell’io, mosso da Cristo, c’è tutto quello che occorreva per dare senso alla vita. Quando questo emerge totalmente, si vede il santo.
Nel maggio del’94 io e mia moglie Teresa ci sposiamo in chiesa. Dopo 25 anni di convivenza secondo il legame che un comune ideale ci dava, Teresa si fida di me e decide di rispettare la mia conversione, accetta il matrimonio misto fra credente e non credente.
Poco dopo Giussani invita a pranzo me e Teresa. Lei gli spiega che non è convertita e lui le dice: «Sentiti libera, sii te stessa». Accade così che mia moglie si converte, perché scopre che per la prima volta era lei a essere presa pienamente in considerazione. Io nel contempo mi agitavo drammaticamente fra Buttiglione e Formigoni, avevo ripreso a far politica, ma avevo una mia personalità poco propensa a fare da pecora. Attendevo che don Giussani mi correggesse, mi sgridasse per le pubbliche critiche che facevo ad amici ciellini. Niente da fare, Giussani non mi ha mai fatto una critica, eppure vedevo che ad altri dava sonore ramanzine. Non capivo perché a me no. Anzi, addirittura spinse a sostenere miei tentativi di fare qualcosa di altro in politica.
Furono alcuni anni con “Popolo e Libertà”, con magnifici giovani universitari che ho amato con passione.
Ma cosa mi aveva insegnato Giussani con questo puntare sulla mia libertà? Egli mi vedeva disposto a spendermi totalmente per quello che credevo giusto fare, e nel contempo sapeva che non avrei capito superiori ragioni se non ne facevo esperienza. Infatti fu proprio l’esperienza di “Popolo e Libertà” a farmi comprendere che la politica non è il luogo delle mia identità, io sono di Cristo e nella politica ci devo andare come se andassi in Brasile a fare missione.
Voi “uno”
1997: Giussani mi invita a casa sua, a Gudo Gambaredo. Mi invita a collaborare con un amico importante e ricco, che aveva le mie stesse inquietudini nella politica. C’era la possibilità di un confronto con il cardinal Martini attorno alle questioni dell’ecumenismo. Giussani aveva capito che solo davanti alla totalità del mondo potevo far vivere una tensione ideale che nella politica si consumava nelle beghe del potere in Italia. Si profilava la questione dello scontro di civiltà, era indispensabile avere un punto d’azione dove politica e ideale si ritrovassero avendo evidente il protagonismo di Cristo nella storia. Solo in questo modo si evitava lo scontro di civiltà. Si è poi visto che un compito così grande è diventato della Chiesa e direttamente di Benedetto XVI, capace di giudicare i fatti del mondo senza la tentazione politica dell’arroccamento identitario.
Io cominciai a desiderare che il luogo ecumenico per eccellenza diventasse il paese dove abitava don Giussani. Avevo davvero forti tendenze utopistiche e sognavo di grandi spazi messi a disposizione di delegazioni da tutto il mondo per incontrare le varie culture con al centro la capacità di dialogo che aveva don Giussani. Naturalmente non sono riuscito a dare un contributo efficace, dovevo ancora fare i conti con la politica.
A fine dicembre 2003 l’ultimo incontro, io e Teresa a pranzo con don Giussani. Ci chiama: «Voi “uno”!». Affermando con questo il più vero miracolo della mia esperienza, io e mia moglie eravamo una cosa sola. Da questo dovrei prendere le mosse per capire questo affondo attorno al tema ecumenico, il mondo grida al miracolo dell’unità. Ma io devo ancora capire. Sono così inadeguato, vieni Signore, aiutami a capire il tempo che stiamo vivendo e quello che il mio impegno può concretamente fare per essere unito al Tuo popolo.


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mercoledì, 02 gennaio 2008

L’atteggiamento del cristiano
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 «Quando dico che il cristiano non deve essere timoroso, non intendo che debba essere trionfalista o proclamatore. Dico che dovrebbe suscitar inquietudine negli altri per il modo in cui vive e, quando la possiede, per quella specie di gioia che respira. Come si diceva nei primi secoli: perché son così felici?».

Maurice Clavel     

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sabato, 29 dicembre 2007

La sua presenza testimoniava un'altra Presenza
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«Avendo scelto di ancorarsi in un ambiente in cui gli agnostici, gli atei, i non praticanti erano la maggioranza, Maurice viveva semplicemente il suo cristianesimo, con disinvoltura... Noi avevamo preso l'abitudine di vederlo interrompere un articolo urgente, una riunione importante per andare alla messa e, a poco a poco, i sogghigni di sorpresa come le semplici canzonature si erano trasformati in considerazione. Era lui ad imporci il suo ritmo, così bene che alla fine, malgrado noi, malgrado lui, avevamo finito per vivere con una persona di cui noi avvertivamo oscuramente una cosa: che non era solo, ma era costantemente accompagnato »
Jean Daniel, il direttore della redazione del Nouvel Observateur: il giorno dopo la morte di Maurice Clavel

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giovedì, 27 dicembre 2007

Il santo di Natale
Una carriola al posto della culla: è Natale
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Carissimi amici,
queste settimane inizia la novena di Natale. Quest'anno il Papa ci ha davvero sorpresi con un regalo unico e bellissimo: “Spe salvi”. Nelle sue parole c’è tutta la clinica, il volto addolorato e sereno di ogni paziente, perché la speranza è un “già” evidentissimo nella Presenza Eucaristica. In questi giorni in cui sono stato in Italia il Direttore Sanitario, cioè Cristo stesso Eucarestia esposto 24 ore su 24 nel cuore della Clinica, e il Parroco, sempre Lui, ha portato avanti l'opera come nessuno potrebbe neppure immaginare. Il segno più evidente è l’atteggiamento del personale, pieno di responsabilità e l’allegria con cui i pazienti, quelli che hanno sopravvissuto, mi hanno ri-accolto.
Che bello che sia tornato... così a notte fonda vediamo ancora la tua sagoma aggirarsi nei corridoi per vedere chi dorme o chi sta male e non riesce a chiudere occhio neanche con dosi forti di morfina. L´uomo ha solo bisogno di compagnia, dicevo ai medici e al personale. L'uomo non ha bisogno di consigli ma di qualcuno che lo prenda per la mano e l´accompagni davanti al Padre Eterno. E così il giorno dopo il mio ritorno, siamo andati in un luogo indescrivibile per la sporcizia e la violenza a prendere Giuseppe, di cui vedete la foto, l´uomo della “caretilla” si dice da questa parte. Ossia l´uomo che ha avuto come casa una cariola, che potete vedere nell’immagine. Giuseppe di giorno con la cariola andava a portare di qua e di là la merce per i padroni di turno e di notte ci dormiva. La carriola racchiude tutta la sua vita. Però da alcuni mesi era diventato il suo letto di agonia. Parcheggiata al solito posto, in uno sgabuzzino ricoperto di plastica, era diventato per lui l´unico luogo di accoglienza. Quando già non parlava più, disidratato, già in fin di vita, un vicino non vedendolo da tempo si è avvicinato a quell´immondezzaio e vedendo Giuseppe in quelle condizioni, aiutato dai vicini, l´ha portato in vari ospedali statali, dove è stato rifiutato. E così e stato riportato nella sua cariola, nell´attesa della morte. Ma Dio che non dimentica un istante i suoi figli bisognosi ha fatto il miracolo. Una donna avvisa l’amico di Giuseppe della nostra Clinica. La nostra assistente sociale - come una freccia con la punta piena della carità di Cristo - corre a vedere. Torna, e al Direttivo sanitario riunito pone all’attenzione di tutti i membri il problema, e ovviamente subito diamo l’ordine all’autista dell’ambulanza di andare a prenderlo. Le condizioni in cui lo troviamo sono indescrivibili, peggiori di quelle che la foto di qualche mese fa mostra. Arriva da noi e subito il personale, cosciente che è arrivato un nuovo Gesù Bambino sporco, con la barba incolta, avvolto in poveri cenci, lo puliscono e lo mettono in un letto bello, tutto bianco. Adesso sembra l’ostia, meglio è come l’ostia consacrata che domina la clinica. Non parla, non vede, solo qualche movimento... peró capisce il linguaggio dell’amore… ed è tutto. Anche per lui è iniziata la novena di Natale. Mi inginocchio davanti a questo Cristo crocifisso, lo bacio, lo adoro: è il mio nuovo Gesù.
Questa mattina gli ho dato gli oli santi, la benedizione Papale e l'ho consegnato nelle mani della Madonna. Sono contento perché davvero non potevo desiderare una cosa più grande e più bella per iniziare la novena di Natale. Un po' in anticipo... però che importa per chi ogni giorno è Natale. Lo vedo lì avvolto nelle lenzuola bianche e lo guardo, possibilmente e con la grazia di Dio, come la Madonna e Giuseppe guardavano quel bambino nelle grotta di Betlemme.
Pregate per me e per questi miei figli.
Con affetto,
P. Aldo Trento


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Il cattolico Lucio Dalla:
“Quale marxista? Io mi ispiro all’Opus Dei”
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di Bruno Volpe
CITTA’ DEL VATICANO - Quando l’abito non fa il monaco. E neppure il marxista. Da sempre additato come una delle voci musicali della sinistra, e in particolare del comunismo, l’artista Lucio Dalla racconta in esclusiva la sua verità a ‘Petrus’.
Maestro, Lei per anni ha partecipato ai Festival dell'Unità e ai raduni comunisti. A Settembre, invece, si è esibito alla cattolicissima ‘Agorà dei Giovani’ di Loreto. Sarà mica stato folgorato sulla via di Damasco?
"La ringrazio per l’opportunità che mi dà per sfatare questa leggenda: non sono mai stato né marxista, né comunista. Se mi sono esibito alle manifestazioni di sinistra è perché sono un professionista: gli organizzatori mi hanno pagato ed io ho cantato. Punto. Non credo che un cattolico - perché io tale sono - debba rifiutare le offerte che gli vengono fatte solo per una questione ideologica. Detto ciò, reputo che il marxismo, come ha sottolineato il Papa nella sua ultima Enciclica, contenga alcuni elementi in comune con il cristianesimo, anche se ha fatto, sbagliando, un mito dell’economia. La pancia piena non è il solo traguardo possibile per l'uomo, che ha il diritto di esprimere liberamente le sue idee e le sue credenze religiose”.
Si racconta che Lei sia una sorta di ‘maniaco della perfezione’ nel lavoro.
"E' così. Io credo nella ricerca del bello, nella santità e nella mistica del lavoro, che poi vuol dire santificarsi per mezzo della propria professione".
Una logica che coincide con quella di San Josemarìa Escrìva, il fondatore dell'Opus Dei…
"Esatto. Sa, apprezzo molto questo Santo".
Lucio Dalla cattolico e devoto dell’Opus Dei: chi l’avrebbe mai detto?
"Che c’è di male? Trovo il messaggio di San Josemaria di straordinaria attualità. Il Santo spagnolo non faceva del lavoro un idolo, ma affermava che qualsiasi attività, anche la più semplice, deve essere eseguita con scrupolo, professionalità e dedizione. Così ci si santifica nel lavoro e si santifica il lavoro".
Ci parli di qualche altro segno distintivo del Dalla credente.
"Certo. Reputo l'aborto, ad esempio, una cosa negativa. La vita va difesa sempre e comunque, dal suo momento inziale sino alla fine naturale. Personalmente, nell’esistenza di tutti i giorni, anche attraverso la mia affiliazione all’Opus Dei, cerco di contrastare ogni forma di ateismo e di secolarismo, fenomeni che, lamentabilmente, mortificano purtroppo i nostri tempi".
Ci parli della Sua visione di Dio…
"La ricerca del divino e della trascendenza fanno parte della natura umana. Nessuno può impedire all'uomo di aspirare al divino, al trascendente. Dio è in ogni luogo, nel volto degli uomini, nel sorriso di un bambino,anche in una canzone ben eseguita".
Ha letto l’Enciclica del Santo Padre sulla Speranza: che impressione Le ha fatto?
"L’ho trovata ineceppibile. Papa Benedetto XVI ha dimostrato ancora una volta di essere un grande e fine intellettuale. Qualche ‘bello spirito’ vuol farlo passare per nemico della ragione, ma il livello della sua catechesi è così elevato da sfuggire a quelle menti che ricercano, nel mondo attuale, solo l’insulto. Il Papa afferma, saggiamente, che fede e ragione devono e possono essere amiche e che non sono affatto categorie contrapposte. Io la penso come lui".
Se dovesse dedicare una canzone al Pontefice, quale sceglierebbe?
"Senza dubbio la mia ‘Inri’, nella quale si parla di due angeli, uno che rappresenta il bene, l’altro che rappresenta il male. Dio, nella sua perfezione, ha creato il concetto di libertà. La libertà, però, non rappresenta un arbitrio, ma implica la responsabilità. Ognuno può scegliere tra bene e male, e Dio non lancia anatemi. Alla fine giudicherà nella sua infinita misericordia, e sarà giudice sì severo ma buono. La salvezza è alla portata di tutti. Molti si chiedono, ed è spesso causa di crisi della fede: come è possibile la presenza del male nel mondo? Le sofferenze servono a forgiare e fortificare la nostra fede. Oserei dire che certe volte il male è necessario. Del resto, il diavolo nel deserto ha tentato Gesù, che seppe resistere dandoci un altro grandissimo esempio di fortezza davanti alle tentazioni".
Sappiamo che Lei si interessa anche di dialogo interreligioso…
"Sì, e lo ritengo necessario, a condizione di non perdere la propria identità".
Da addetto ai lavori, che ci dice del canto gregoriano?
"Solo gli ignoranti lo possono screditare. Rappresenta un patrimonio della nostra storia. E poi a me piace anche la Messa tridentina per la sua ricchezza di spiritualità. Bene ha fatto il Papa a liberalizzarla".
Maestro Dalla, per terminare: l’Italia può avere speranza in un futuro migliore?
"Guai a vivere senza speranza. Ma ognuno deve fare attivamente la propria parte senza rassegnazione".


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martedì, 25 dicembre 2007

Una testimonianza  di coloro che hanno il coraggio di far nascere Cristo nel loro cuore
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dal Blog di graziella
Il Vescovo Mons. LUIGI NEGRI invita tutti a meditare questa testimonianza”.

Storia di Francesco
Francesco ha compiuto un anno. Che cosa c’è di tanto strano? Per capire la meraviglia di questo evento occorre sapere chi è Francesco.
E’ nato l’otto febbraio 2006, idrocefalo, cerebro leso, con l’esofago piegato in due. Abbandonato dalla madre in ospedale subito dopo la nascita.
Appena nato, è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico, nella convinzione che non ce l’avrebbe fatta. Ma Francesco ce l’ha fatta.
Ha trascorso i suoi primi dieci mesi di vita in un lettino del reparto di terapia intensiva della pediatria, avendo come famiglia le infermiere e i medici e come uscite i trasferimenti nella sala operatoria o in radiologia. Le sue “distrazioni”, se così possiamo chiamarle, erano le flebo, i prelievi, le TAC, la sostituzione della PEG (il sistema di alimentazione attraverso un tubicino che va direttamente nello stomaco) ecc.
Ma nonostante tutti i problemi, i suoi occhioni profondi dicevano semplicemente che lui voleva vivere.
A ogni problema, reagiva in modo sorprendente, perché voleva vivere.
Nessuno lo voleva. L’assistente sociale ha provato tutte le strade possibili per trovare una famiglia disposta ad accoglierlo, ma niente.
Siamo venuti per caso a conoscenza che Francesco cercava famiglia. Noi non pensavamo assolutamente all’adozione né a dare la disponibilità all’affido. Avevamo già otto figli e, avendo superato entrambi la cinquantina, pensavamo di poter finalmente respirare un po’, visto che Pietro, l’ultimo nato ha iniziato le elementari. Basta asilo, basta pannolini, lettini, passeggini, autentici traslochi in occasione di qualsiasi piccolo spostamento.
Ma il Signore era in agguato. Al pensiero di Francesco ci sentivamo inquieti. Raffaella, in particolare, è sempre stata terrorizzata al pensiero di un figlio handicappato. Una sera ci siamo guardati negli occhi e ci siamo chiesti: lo prendiamo? Per poter capire ci siamo messi in silente e fiduciosa preghiera, alzandoci anche di notte per capire se quella era veramente la volontà di Dio.
E’ vero che il Signore manifesta a noi la sua volontà donando una grande pace al cuore che la accoglie; in una settimana avevamo la risposta: lo Spirito Santo aveva fretta per Francesco e ci ha fatto chiaramente capire che lui era il nostro nostro “numero 9”.
Restava il problema dei figli. I più piccoli (9-8-6) anni non avevano problemi: per loro era una meravigliosa avventura poter accogliere un fratellino più sfortunato di loro. Per i più grandi (26-25-22-19-17anni) è stato più difficoltoso. Noi li abbiamo lasciati completamente liberi di decidere. Abbiamo suggerito loro di mettersi in preghiera e di farci sapere: il no di uno sarebbe stato il no di tutti.
Lo Spirito Santo deve averli abbindolati ben bene perché tutti hanno detto: sì, lo accogliamo.
In soli tre giorni abbiamo ottenuto l’affidamento dal Tribunale per i minorenni e per il primo mese l’abbiamo assistito in ospedale. La prima volta che abbiamo visto quel corpicino ripiegato su se stesso nel lettino dell’ospedale, abbiamo avuto la certezza che lì c’era Gesù sofferente. Per noi subito Francesco è diventato Gesù da curare, coccolare, consolare. Si è subito instaurato un feeling incredibile tra noi e lui e ha cominciato a reagire in modo assolutamente straordinario, tanto a stupire medici e infermiere. Finalmente, il 1° dicembre, Francesco è uscito dall’ospedale e ha fatto trionfale ingresso nella nostra casa.
In questi tre mesi, nonostante i problemi (temiamo debba affrontare un nuovo intervento), Francesco è cresciuto e ha fatto enormi progressi. Ci ha rivoluzionato la vita, ma ne valeva la pena.
Siamo davvero grati al Signore che ci ha di nuovo rimesso in pista a servizio della vita, sofferente, difficile, con mille problemi, ma VITA. Francesco è la dimostrazione lampante che la vita non si può misurare in base alla sua qualità, come una bottiglia di vino. Francesco è l’immagine del Cristo sofferente e il poterlo servire ci sta dando una pace e una gioia indicibili. E’ vero: non abbiamo più la possibilità di disporre liberamente del nostro tempo, non possiamo muoverci insieme per qualche giorno, non sappiamo ancora se potremo andare in vacanza questa estate. Ma che importa tutto questo? Basta guardare Francesco negli occhi e capiamo che la vita sta lì, che la nostra felicità sta nel servire notte e giorno questa creatura.
Non siamo bravi: chiunque potrebbe fare quello che abbiamo fatto noi. Siamo invece dei privilegiati perché il Signore ha scelto due persone fragili come noi per accoglierlo in Francesco, facendoci sperimentare una pace e una gioia tali che ci sentiamo degli sposini innamorati alle prese con il loro primo figlio.
Grazie Francesco di esserci. Grazie ignota mamma che non lo hai abortito, ma lo hai lanciato nella vita: non disperarti, perché Francesco veglia su di te, perché tu possa trovare pace e incontrare quel Dio che forse non conosci, ma che tutto può nel suo amore provvidente.



Giovanni e Raffaella
Auguri di Buon Natale


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mercoledì, 12 dicembre 2007

Giovanni Testori
***

Conversazione con la morte” dieci anni dopo
Milano, 13 marzo 1983
E adesso io, dopo dieci anni con voi. Dopo alcuni articoli comparsi
sul Corri ere della Sera circa dieci anni fa, si parlò della mia
conversione. Io sono sempre stato un cattivo cristiano, in certi
momenti disperato, sono nato non solo in una famiglia cristiana,
ma anche in una cultura cristiana. Non è la mia una conversione:
è una precisazione del mio povero modo di essere cristiano,
cui sono stato indotto dalla morte di mia madre. Mia
madre, morendo, ha ridato peso, grembo, latte a questo mio povero
modo di essere cristiano. Quando scrissi questi articoli,
nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico mi ha
contattato. Mi hanno invece telefonato quattro ragazzi: "Siamo
di Comunione e Liberazione: vorremmo parlarle". E sono venuti
nel mio studio; la cosa che mi ha stupito è che non erano tutto
quello che dicono essi siano. Non mi hanno mai chiesto niente:
come fosse la mia povera vita, quali fossero i miei errori; ma mi
hanno accolto (e io credo di averli accolti) come amici. Io non
sono di Cl, voi lo sapete: sono molto vicino. Le sono vicino per
una cosa sola: perché hanno questo senso dell’amicizia, questo
senso dell’umanità, questo senso dell’integrità della fede. Sono
tutti di un pezzo, poi anche loro fanno errori, per fortuna. Però
hanno questa rocciosità per quel che riguarda l’uomo. Non chiedono
niente, non domandano conto di niente. Solo su questo
piano di umanità. Don Giussani mi raccontava cos’è stato per lui
la scoperta, il senso più abissale della sua posizione di prete e di
uomo, quando, subito dopo essere stato ordinato, in una delle
prime confessioni, si è trovato di fronte a un giovane che, dall’altra
parte del confessionale, non riusciva a dire, a parlare. E lui
lo esortava: "non c’è niente che tu abbia fatto che non possa essere
perdonato, che non possa essere accolto"; ma l’altro faceva
fatica e don Giussani, con le parole che riesce a tirare fuori
dalla sua fede, dalla sua umanità, lo invitava fraternamente. A
un certo punto, sentì questo giovane dire: "ho ucciso un uomo".
Don Giussani rimase lì un attimo, un’eternità, e rispose: "Solo
uno?". Poi mi raccontava: "Lì ho capito cos’è la carità, la fraternità,
l’amore, cos’è il perdono di cui lui è soltanto il tratto". E
l’altro scoppiò a piangere. Da allora sono diventati, credo, amici.
Il ragazzo è andato a confessare alle autorità il suo gesto e
sono diventati amici. Io, perché sono diventato amico di quelli
di Cl? Perché se io dicessi a loro tutte le porcate che ho fatto,
direbbero “solo questo?”.
Senza carità la fede è niente
Perdete pure tutto; ma non perdete questo senso “oltre tutto”,
questa umanità che non si scandalizza di niente. Questo sapere
che l’uomo può compiere qualunque gesto, può essere di qualunque
parte, ma è prima di tutto uomo, figlio di Dio, creatura
redenta da Dio diventato Uomo. Se perdiamo questo perdiamo
il senso dell’incarnazione, cioè perdiamo il senso totale del nostro
essere cristiani. Come mi diceva continuamente Giussani,
"senza carità", senza amore, anche la fede è niente. La fede è
proprio questo amore: questo amore prima di tutto. Io devo ringraziare
questi ragazzi di questa capacità di amore, di umanità,
perché arriverà il momento che la leggeranno anche quelli che
oggi non la sanno leggere. Ma, se anche non la leggeranno, non
importa: l’importante è offrire. Siete troppo giovani per voler diventare
“maestri” di questa verità, di questo amore; però cominciate
a diventare allievi, visto che il maestro lo avete: di
questa capacità di apertura, di questa capacità di accogliere
chiunque. Anzi, più è misterioso, direi, più deve essere grande
l’amore. Io, ad esempio, sono chiamato, preso, affascinato da chi
è nelle situazioni più terribili, più dolorose: credo che questo sia
il vostro segreto. Se le mie parole hanno qualcosa di buono, di
non troppo deficitario, lo hanno in quanto sono stato voluto,
creato per scrivere e perché ho avuto intorno a me una famiglia
e una cultura e una città e un paese e degli amici che mi hanno
fatto riconoscere cos’è la vita, la verità, l’amore.
C’è Lui
Ecco perché dico che non è stata una conversione, ma è stato
un di più, una presa di coscienza di qualcosa che c’è sempre stato,
anche per la vostra vicinanza, per gli anni che passano e perché
voi mi avete anche insegnato soprattutto quella cosa per
cui io vi amo e che è la capacità di carità, di amore. Tutto questo
mi ha accentuato ancora, mi ha reso ancora più sanguinante,
incarnato in me Lui: c’è un nome solo, anche se adesso faccio
fatica a dirlo. Non è più forse un inseguimento come prima
che io facevo. È che lo sento certo, qui, in me, nel mondo terribile,
turpe: c’è Lui. E c’è in noi e c’è nel modo che è minacciato
e già piegato dal peccato, che è la cosa che dimentichiamo più
di sovente. Credo che negli ultimi miei lavori che sono molto più
rischiosi, meno quieti, c’è però più Lui, meno distanza tra la scena
e la parola, la scrittura e la Sua presenza. Io parlo quasi sempre
di disperati: io purtroppo non riesco a trovare la Speranza
che, al limite, dentro la disperazione. Non mi è comodo dire
questo, ma forse Lui vuole questo. Ogni volta che presumo e mi
rendo calmo e speranzoso mi allontano da Lui e da voi e dal
mondo e costruisco o cedo alle costruzioni del potere; in ogni
caso divento astratto.
Insurrezionali e resurrezionali
Ma oggi mi sembra tutto così minacciato da non essere, che anche
la carne, la carne sbagliata, anche la carne e il sangue che
errano devono gridare, devono alzarsi, insorgere. Credo che il
mondo e soprattutto i cristiani hanno la responsabilità e il destino,
che è la sola speranza, di tentare di essere contemporaneamente
contemporaneamente insurrezionali e resurrezionali. Nel frangente di storia nel quale Dio ci ha messi non si può risorgere senza insorgere: insorgere
contro ciò che si sta operando contro l’uomo creato e la
creazione tutta. Qualsiasi insurrezione che non nasca da una certezza,
da un bisogno e da una speranza di resurrezione cade, diventa
oggi più che mai vittima e strumento del potere. C’è solo
Lui, Cristo, in tutti, anche in chi non crede. Solo Lui però ha e ci
dà questa capacità di essere insurrezionali e resurrezionali: è Lui
che è insorto ed è risorto. In mezzo c’è la croce, c’è il dolore. Allora
la speranza è una cosa terribile: grande, greve. Io non riesco
a essere molto allegro: non sono felice, non sono mai stato felice,
non so cosa sia la felicità. So solo cosa sia qualche volta non
essere troppo porco, troppo traditore. Ma la felicità è ridere; ma
quale serenità? Continua a soffrire: è duro vivere, ma è giusto vivere
e passarlo e parteciparlo e renderlo attivo, insurrezionale all’interno
del dolore riconosciuto e non riconosciuto che c’è.
Rimanere aperti
La passione di essere aperti a tutti e guai se vi venisse la tentazione
di chiudervi. Credo che sia la tentazione più terribile: perché
un mondo così chiuso ha bisogno di chi sta spalancato: imparate
da chi vi ha fondato come si fa a essere stupiti. Allora
imparate da lui a sentirvi sempre aperti, di stupirvi di chi viene,
a stupirvi anche delle cattiverie, delle ingiustizie, bisogna saperle
combattere perché è giusto, ma al fondo che bello se qualcuno
riuscisse a pregare per chi vi e ci colpisce; non perché non ci
colpisca più, ma perché trovi un po’ di serenità, un momento di
quiete in cui si riconosca. Polemizzare e pregare per. Sulla barricata,
ma sempre con quella carità, quell’amicizia, quell’affetto
di stare lì pronti, per cui io, quando siete venuti, ho capito che
c’era qualcosa che conoscevo nei miei fratelli, sorelle, ma che
non conoscevo fuori.
 Giovanni Testori



 

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sabato, 08 dicembre 2007

Cristo Salvatore reale dell’uomo
***

Padre Aldo Trento - Cagliari - 30 Novembre 2007
purtroppo non c'ero
 GRAZIE: fontanavivace 
Padre Aldo Trento - TG5 insieme
La registrazione della puntata di TG5 Insieme dell'8 dicembre 2007

Il "giro d'Italia" di padre Aldo

di Francesco Rositano 29/11/2007

padre Aldo TrentoBelluno, Agordo, Roma, Rimini. Infine Cagliari. Sono le tappe del “giro d’Italia” di Padre Aldo Trento, missionario della Fraternità san Carlo in Paraguay. Il sacerdote da una settimana sta attraversando la penisola per raccontare la sua esperienza in America Latina, dove vive con don Paolino Buscaroli e don Ettore Ferrario. Pochi giorni fa ha parlato al teatro Tarkovsky di Rimini davanti ad una platea di ottocento persone. Il tema dell’incontro era la carità. Un tema molto caro a questo sacerdote di origini bellunesi che insieme ai suoi confratelli ha dato vita ad una clinica per malati terminali, a una scuola, a un policonsultorio. Opere nate tutte grazie al sostegno di amici e benefattori. Per padre Aldo nulla comunque sarebbe sorto senza l’intervento decisivo della Provvidenza.
«In questi anni – ha spiegato – ho scoperto che la prima legge dell’economia è la Provvidenza. Non mi sono mai preoccupato di cosa fare per ottenere i fondi per realizzare le opere, perché i soldi inaspettatamente sono sempre arrivati, ma ho sempre pensato allo scopo per cui queste opere nascevano. E lo scopo è quello di rendere presente alle persone che incontriamo l’abbraccio di Cristo. Un abbraccio che io per primo ho sentito su di me attraverso la persona di don Giussani.
È solo grazie a quell’abbraccio che ho avuto la forza di impegnarmi in qualcosa di veramente significativo e di andare al fondo del significato della carità».
Ma cos’è la carità? Padre Aldo si guarda bene dal confonderla con l’assistenzialismo. «La carità – dice – non è un insieme di cose da fare, ma è uno sguardo pieno di amore. Uno sguardo di amore alla vita, ai bisogni della gente, alla loro umanità. Quando riceviamo i malati nella clinica la prima medicina che diamo loro è l’amore: stiamo attenti ad ogni dettaglio, ad esempio, cambiamo spessissimo la biancheria e ci preoccupiamo che a loro non manchi nulla. Possono sembrare solo dettagli, ma attraverso questi gesti molte persone messe a dura prova dalla vita cominciano a sentirsi volute bene; cominciano ad accettare anche il peso della morte e del dolore. Questo è possibile solo perché incontrano Cristo».
In questi giorni il sacerdote ha avuto modo di toccare con mano la carità nei suoi confronti. In particolare pensa al rapporto di amicizia nato con Gianni Contini, un imprenditore per anni a capo di una grande azienda internazionale, che in questi giorni lo sta accompagnando in lungo e in largo per l’Italia, curando ogni particolare del suo viaggio. «Ci siamo conosciuti ad Asunción, quando era venuto a trovarci. E da allora non ci siamo più lasciati. Sorprende vedere la gratuità con cui si è messo a mia disposizione, l’amore con cui lui e la sua famiglia mi hanno accolto nella loro casa. Il suo è un esempio da cui io per primo imparo cos’è la gratuità».
Aldo poi pensa allo sguardo della gente che ha incontrato. «Negli occhi di molte persone ho visto una grande solitudine. Mi ha colpito in particolare un ragazzo di diciotto anni. Era molto triste, voleva raccontarmi della sua vita, ma non c’era il tempo per farlo. Ad un certo punto si è avvicinato a me, ringraziandomi per la mia testimonianza e ha voluto darmi un bacio. Dietro quel bacio c’era una tristezza che però non annientava la speranza».



Postato da: giacabi a 22:13 | link | commenti
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Cristo Salvatore reale dell’uomo
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 Padre Aldo Trento - TG5 insieme
 La registrazione della puntata dell'8 dicembre 2007
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grazie a :fontana vivace

Postato da: giacabi a 13:07 | link | commenti
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venerdì, 23 novembre 2007

Chi   origina il popolo è Cristo
Tempi num.47 del 22/11/2007 0.00.00
Interni

Servire il popolo oggi
Difendeva «la teoria della classe operaia». Poi ha scoperto la realtà. L'ex sedicenne del Sessantotto Brandirali continua la sua battaglia di frontiera
di Brandirali Aldo

Questa mattina, in un nuovo giorno, ho potuto verificare l'infallibilità del cuore. Chi mi conosce rimarrà sorpreso che io possa dire infallibilità, avendo io una storia di continuo cambiamento, dunque di evidenza di un precedente errore. Eppure dico infallibilità perché dopo 50 anni, per Grazia, posso ridire quello che dicevo a 16 anni: «Voglio dare la vita per il mio ideale».
Ore 9, mia moglie Teresa riceve una telefonata sul telefono della sua associazione, con dolce pazienza ascolta il dolore di un'altra donna, mi racconta poi che si tratta di una vedova con figlio di 35 anni malato psichico, che le provoca un dolore indicibile. Di queste storie la Teresa me ne ha già raccontate decine, una più dolorosa dell'altra. E Teresa fa compagnia a queste persone, ristabilisce una speranza, rende ragione dell'attesa. E io vivo della luce di Teresa. Ma sono un politico, non posso non farci sopra tutti i miei ragionamenti. A 16 anni ho cercato per chi battermi, ho trovato una teoria che diceva di dare la vita per la classe operaia, ci ho provato, ma ho dovuto scoprire che la classe operaia non è una realtà è solo una teoria. Allora a 27 anni ho detto: «Servire il popolo». Ci ho messo tutto me stesso e infine, sbagliando e riprovando
, a 42 anni ho trovato chi origina il popolo: Cristo.
Dunque avevo trovato l'ideale per cui dare la vita. Ma ero ancora io che mi facevo da me, come mi si poneva culturalmente l'ideale a 16 anni. Mi ci sono voluti altri venti anni per farmi fare da Cristo, ovvero per cambiare posizione verso l'ideale: non io porto la bandiera rossa nella piazza, ma Cristo mi mette in mano la sua croce e mi dice «portala». è una diversità culturale sconvolgente.
Ma perché chi mi legge capisca, deve considerare che la passione ideale dei miei 16 anni era suscitata dal secolo delle ideologie, ovvero il secolo che ha capovolto le radici cristiane dell'Europa togliendo Dio dalle vicende umane.
Rimaneva il dare la vita per un altro, ma questo altro era diventata una idea astratta, il cui solo fatto reale era la lotta per il potere. Ed ora guardo mia moglie e vedo che lei dà la vita per un Altro, ovvero è motivata dal suo rapporto con Cristo e si pone con realismo davanti alla persona bisognosa di aiuto. Che spettacolo, che vittoria, essere come a 16 anni. Allora è proprio la salvezza quello che andavamo cercando: una preghiera ci ha condotto in tutta la nostra storia, «Signore salva il nostro cuore buono».
E io in politica? è dura da spiegare. Dai 16 ai 35 anni ho utilizzato un dono che mi era stato dato dalla nascita: avevo carisma, convincevo, attraevo, scaldavo i cuori. E mi sono abituato a fare il capo. Quando, a 35 anni, li ho mandati a casa tutti e quindicimila, dicendo che tutto era sbagliato, ma non sapevo spiegare perché, sono diventato un niente che rotolava sulla terra.
Dalla terra mi ha raccolto don Giussani. Mi ha rimesso in piedi, è ricominciata la mia libertà, infine sono tornato a fare politica su posizioni molto diverse dalle precedenti. Ma ancora mi portavo dietro la pretesa di essere uno che, con scarsa misura della realtà, voleva guidare l'affronto della lotta per il potere. Per questo sono stato continuamente ridimensionato, come se fossi sempre uno sconfitto. E invece di volta in volta ho verificato che il Signore mi conduceva sulla sua strada, e che lì dove mi aveva messo avevo veramente la battaglia giusta da fare.
Eccomi ora, consigliere comunale a Milano, presidente della commissione servizi sociali, affronto in questi giorni la discussione in Consiglio della delibera di programmazione dell'insieme dei servizi alla persona. I miei colleghi del centrodestra si assentano distratti, perché giustamente non credono alla programmazione, credono maggiormente alle singole azioni. Intanto la sinistra conduce una furiosa battaglia, incomprensibile perché in fondo la delibera corrisponde alle loro idee, ma loro combattono per imporre il fatto che le azioni devono essere concordate con il loro mondo associativo, come concertazione del potere.
Io voglio difendere la concretezza della azioni dell'amministrazione e nel contempo il riconoscimento del mondo associativo, come sussidiarietà e non come concertazione. Faccio un esempio: sostegno alle persone con disagio psichico. Il Comune ha pochi soldi su questa voce, e li usa per dare piccoli contributi economici ai malati che non sono in grado di lavorare. Siccome i soldi sono pochi, la questione diventa che si possono aiutare solo alcuni. Allora la sinistra propone di fare progetti sperimentali concordati al tavolo del Terzo Settore. La delibera propone di cercare criteri oggettivi per riconoscere i più bisognosi. Io dico che il criterio oggettivo è fare affidamento sulle famiglie e i gruppi associativi che riconoscono i diversi gradi di gravità della malattia. Nel contempo bisognerebbe aumentare i fondi.

Un atto di costruzione duratura
La destra mi viene dietro, ma non capisce, la differenza fra concertazione e sussidiarietà è praticamente fra sperimentazione e abbraccio concreto del bisogno. La sinistra aiuterebbe qualcuno nel quartiere dove sono forti loro, noi aiuteremmo quelli che si sono rivolti a una associazione o a un servizio che è in rete con fatti associativi capaci di abbraccio amorevole. I progetti sperimentali prima o poi finiscono e lasciano le cose come erano prima. Il sostegno a un popolo in azione è un atto di costruzione duratura. E così via.
La mia battaglia è volta a fare della politica un servizio per un popolo in azione, il che comprende anche una piena responsabilità degli atti di governo.
è una battaglia così di frontiera che mi rendo conto di essere molto utile per formare una nuova classe dirigente che in futuro possa governare il paese secondo questo realismo. Spero veramente di riuscire a dare la vita per questo cambiamento del mondo.
Capite adesso perché il gesto mattiniero di mia moglie mi ha messo in pace con tutto e ha tolto il mio atteggiamento da disperato nell'azione. In battaglia e in pace, ditemi voi se esiste altro da Cristo che permette questa apparente antinomia.
Aldo Brandirali *consigliere comunale a Milano (Forza Italia)

Postato da: giacabi a 16:43 | link | commenti
testimonianza, cristianesimo, brandirali


1 commento:

Anonimo ha detto...

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