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mercoledì 1 febbraio 2012

Uno non ti può aiutare se non riconosci di essere aiutato
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Il problema non è che queste cose non fossero vere, ma che io non sapevo più camminarci dentro, io non sapevo più che passi fare, che cosa devo fare, che cammino ho davanti. Posso ancora camminare? C’è una prospettiva per me, un esito per la mia vita, per i miei amori, per le perdite, per le cicatrici che mi porto addosso? E lì Dante dice: “Io [e questo è veramente geniale] io lo vedo il bene [perché l’uomo intellettualmente lo sa quello che dovrebbe fare] io la vedo la collina della verità e ci potrei anche andare”, sennonché l’uomo si deve sempre scontrare con il male che è fuori di sé e che, ahimé, è anche dentro di sé. Dante dice: “Io ce la farei anche, forse, contro la lonza della lussuria”. Che cos’è la lussuria? È usare gli altri e anche le cose non per il valore che hanno, ma per l’immediata comodità che riscuotono in noi. Io ti uso, uso una persona come fosse un mobile, perché mi è più comodo. Qualche giorno fa ero in autobus è ho visto un ragazzo che camminava con una ragazza e le ha girato la testa, così, per baciarla. Io vi assicuro che mi si è gelato il sangue nelle vene. Non l’ha mica picchiata, ma io era tanto che non vedevo un gesto di così terrificante violenza, come se premo il telecomando e ora mi devi baciare, ti giro la testa. Io ero in autobus e vi assicuro che sono rimasto congelato quando ho visto questa cosa. Questa è la lussuria di cui Dante parla all’inizio della Divina Commedia. “Ce la farei, forse, contro di questo. Ce la farei anche, forse, contro il leone della superbia”, che è il sentirsi i padroni del mondo. E Dante dice che veniva avanti con “rabbiosa fame4, come l’immagine di tutte le guerre. Si fa la guerra perché? Perché si pensa di dover imporre sulla realtà un proprio previo schema. Ce la farei anche contro questi due mali terribili. Ma contro la lupa dell’avidità, della sete di potere – e la sete di potere non ce l’hanno solo i politici, ce l’abbiamo tutti; è il dire “le cose sono mie, nel modo in cui voglio io”, “meglio dominare che amare”, perché amare mi mette in condizione di ascoltare, di servire, di essere a disposizione… no! Io voglio dominare, voglio ottenere tutto e non dare nulla – contro questa, dice Dante, nessun uomo da solo ce la fa, e “io perdei la speranza de l’altezza5 e precipitai di nuovo là “dove il sole tace6. La prima sinestesia della letteratura italiana, quando voi accostate due sfere sensoriali diverse. Il sole è un fenomeno visivo, il tacere è un fenomeno uditivo. Dante com’è che ti dice che precipita nel buio: il luogo dove il sole tace, dove non parla più. Altro che Boudulaire, che ne farà di sinestesie, ma secoli e secoli dopo. Il buio è il luogo dove il sole non parla, bellissimo.    E lì, Dante – e guardate che in un poeta le parole hanno un peso decisivo – che cosa succede? Dice “mi si fu offerto”, offerto, donato, “chi per lungo silenzio parea fioco7. Dante dice: “Proprio nel momento di buio assoluto, di disperazione, io vedo una figura che mi viene offerta – cioè mi viene presentata, donata senza che io me lo aspettassi, una gratuità che precede addirittura la richiesta di aiuto -, che però sta zitta, per così tanto che sembrò non avere voce”. E subito c’è il primo discorso diretto della Divina Commedia. E qual è la prima parola che Dante dice nella Divina Commedia: “«Misere di me [abbi pietà di me!] gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!»”8; o un uomo o un’ombra, qualsiasi cosa tu sia tu sei l’unica cosa che io vedo, aiutami! E perché quella figura non parla? Perché doveva parlare prima Dante. Perché uno non ti può aiutare se non riconosci di essere aiutato; se non dici “Aiutami!” io non ti posso aiutare. La domanda deve essere di Dante, Dante deve chiedere altrimenti nessun aiuto lo potrà raggiungere.
Edoardo Rialti da: Sabato, 7 luglio

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