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mercoledì 30 maggio 2012

Famiglia bene comune da promuovere

Scola a Tempi: Famiglia bene comune da promuovere

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maggio 30, 2012 Luigi Amicone
«Possono mutare le condizioni della famiglia. Quello che permane è il suo proprium: il matrimonio tra l’uomo e la donna. Che promette il “per sempre”, custodisce la differenza sessuale, apre alla vita». Intervista al cardinale Scola.
Anticipiamo l’intervista al cardinale di Milano Angelo Scola che uscirà sul numero di Tempi in edicola da giovedì. 
Famiglia risorsa decisiva. Questo il titolo dell’ultimo libro del cardinale arcivescovo di Milano Angelo Scola. Volume uscito alla vigilia di queste giornate internazionali della famiglia e presentato dallo stesso Scola al recente Salone del libro di Torino. Nulla di più naïf, si direbbe. Anche solo scorrendone l’indice (“Maschio e femmina li creò”, “Per sempre o finché dura?”, “Pudore e castità: ‘oggetti’ smarriti?” eccetera), si capisce che l’assertività pro famiglia è tra le maggiori “questioni disputate” del nostro tempo. E non tanto in linea di principio. Quanto piuttosto nel prosaico quotidiano. I giovani tendono alle convivenze. I legami affettivi durano una stagione e, diciamo così, gli affetti adolescenziali, insistono ormai anche nell’età adulta. I divorzi sono in crescita esponenziale, in Italia e ovunque in Occidente. Mentre i matrimoni religiosi sono in drastico calo (nella ex cattolicissima Spagna le unioni civili hanno superato le nozze in chiesa) e sembrano appannaggio di società arcaiche. Non ultimo, si va affermando la cultura e l’istruzione di massa al cosiddetto “gender”. Ovvero il paradigma secondo cui non esisterebbero identità e differenze biologiche ma solo culturali. Ragion per cui, si apprestano a registrare anche le polizze delle grandi assicurazioni internazionali, non si deve più indicare la distinzione tra “maschio” e “femmina”, ma il “genere” a cui liberamente l’individuo decide di appartenere. I sociologi (forse anche per mascherare la loro adesione a quella specie di “summa teologica” del relativismo che è l’agenda gaylesbotransgender) chiamano tutto ciò “società liquida”.
Eminenza, quando la Chiesa pone un fatto così socialmente rilevante e spettacolare come le giornate dedicate alla famiglia, un evento internazionale anche confortante per tanti uomini e donne che si riconoscono nel senso umano e cristiano della vita, in che senso essa non testimonia un attaccamento, commovente certo, ma destinato a essere travolto dallo Zeitgeist, l’inesorabile spirito del tempo? In altre parole: in che senso queste giornate non rappresentano un disperato sforzo etico che la Chiesa fa per resistere a un processo di omologazione che invece sembra irresistibile, e irresistibile proprio perché insito nei processi sociali, culturali ed economici di produzione di “nuova umanità”? Non ha forse ragione il ministro Elsa Fornero quando dice che «la famiglia tradizionale rischia di diventare un’eccezione, non una regola» e dunque lo Stato deve attrezzarsi a legiferare intorno alle diverse forme di famiglie e unioni?
Al di là delle diversità con cui si manifesta nelle varie culture e società, la famiglia fondata sul matrimonio, fedele ed aperto alla vita, tra un uomo ed una donna, continua ad imporsi come la via maestra per la generazione e l’educazione della persona. Un conto è costatare determinati trend sociali, un altro è affermare come cosa buona la crescita di certi fenomeni. La parola “crisi” significa giudizio ed evoca crinale, trasformazione, cambiamento. Ebbene: nessuno può negare che la famiglia, sociologicamente parlando, si presenti oggi assai diversa da quella che abbiamo conosciuto in un recente passato. Un solo dato, tra i tanti: il livello di istruzione delle donne tra i 20 e i 30 anni è già mediamente superiore a quello degli uomini. Il che, ovviamente, pone domande nuove sull’equilibrio lavoro-casa, sulla distribuzione dei compiti familiari, sui compiti educativi…
Dunque, le forme di vita della famiglia cambiano. Ma la voglia di famiglia non è sparita. La quarta indagine European Values Study sui valori in cui credono gli europei evidenzia che la famiglia è ritenuta importantissima dall’84 per cento degli europei e addirittura dal 91 per cento degli italiani. In ben 46 paesi su 47 viene messa al primo posto, precedendo aspetti centrali del vivere sociale. Aggiungo che anch’io, nella mia esperienza di pastore, riscontro continuamente un diffuso desiderio di “famiglia”, anche se non privo di contraddizioni…
Quel che mi preme dire, rispondendo alla sua domanda, è che se è vero che le “forme esterne”, le condizioni sociali della famiglia possono mutare, quel che permane è il proprium della famiglia. Esso consiste nel matrimonio di un uomo e di una donna inteso come unione stabile, che si promette il “per sempre”. Questa unione è aperta alla vita: i figli rappresentano precisamente la seconda differenza costitutiva dell’umano che la famiglia custodisce – la prima è la differenza sessuale –, ovvero quella fra le generazioni, tra chi genera (padre e madre) e chi è generato (figli). Riaffermare oggi queste verità elementari – in un clima di riflessione, testimonianza e festa, come avverrà nei giorni del VII Incontro mondiale – non significa affatto, per citare le sue parole, compiere «un disperato sforzo etico», bensì offrire una rinnovata prospettiva positiva e pro-positiva di vita buona all’intera società.
La famiglia, come tale, è “patrimonio dell’umanità” e dunque un bene da custodire e promuovere. Del resto, proprio per i caratteri che la differenziano da altre forme di convivenza (trattandosi di un legame tra un uomo e una donna, pubblico, stabile, fedele e aperto alla vita, custodito dall’indissolubilità), il matrimonio garantisce un salto di qualità all’amore tra l’uomo e la donna e questo ha, evidentemente, una ricaduta sociale positiva. Recenti studi hanno appurato, attraverso una rigorosa analisi empirica, che la famiglia “normocostituita”, marito, moglie e due figli, è la più felice. Per queste ragioni parlo serenamente di famiglia come “risorsa decisiva”.
Qualche anno fa, uno dei più brillanti editorialisti del Daily Telegraph, James Bartholomew, in un saggio (The welfare state we’re in) che è stato accolto da Milton Friedman come «una devastante critica allo Stato assistenziale», ha sostenuto che uno dei motivi non secondari della disgregazione della famiglia sono proprio le politiche di welfare. E questo perché tali politiche di “non discriminazione” tendono a sostenere, appunto, “indiscriminatamente”, qualsiasi tipo di unione. Perciò, nei fatti, rendono non conveniente (quando non addirittura controproducente, ad esempio sul piano fiscale) il matrimonio che impegna le persone alla durata, stabilità e responsabilità anche in relazione al buon ordine e alla vita di una società, all’educazione dei figli, al cespite fiscale eccetera. Eminenza, non sarà che il liberismo è più amico della famiglia del solidarismo?
Gli “-ismi”, per definizione, non rappresentano dei valori, ma – al più – delle loro caricature. In un contesto di travaglio sociale e di crisi economica non passeggera, che impone necessariamente la decisa rilettura delle forme attuali di welfare, la soluzione dei problemi non sta nell’abbracciare ideologicamente un modello piuttosto di un altro. Sta invece nell’attuare adeguatamente due criteri decisivi: la sussidiarietà e la solidarietà. Detto in altro modo: se la famiglia viene riconosciuta davvero per quello che la Costituzione prevede, ossia un elemento insostituibile della “cosa pubblica”, è chiaro che temi quali il “quoziente familiare” o proposte simili non verranno più interpretati come richieste di parte, quanto piuttosto come una modalità innovativa di impostare il rapporto tra cittadino, corpi intermedi e istituzioni. Mettere al centro dell’azione politica e dell’economia la famiglia non significa puntare su uno schema ideologico bensì mutare il paradigma, spostare il baricentro, in un’ottica di bene comune. E farlo attraverso un welfare di comunità che veda uniti gli sforzi dello Stato e del cosiddetto “privato sociale”.
Con il suo pronunciamento a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, il presidente americano Barack Obama ha segnato un bel punto a favore della ulteriore legittimazione sul piano antropologico, politico e culturale, di quella agenda Lgbt che, sospinta verso il basso dalle élite, tende ad essere acquisita nel patrimonio di valori della cultura di massa occidentale. Pare evidente che se Obama verrà confermato presidente degli Stati Uniti, ne usciranno rafforzati gli organismi internazionali che già oggi spingono per l’acquisizione a livello di Carta Onu di quelli che l’agenda Lgbt proclama essere “diritti umani”. La Chiesa si troverà nella situazione in cui non si sono trovati neppure i primi cristiani sotto l’impero romano: cioè davanti a leggi internazionali non soltanto indifferenti alla visione che della vita e dell’uomo sono emersi e sono stati codificati da duemila anni di cristianesimo, ma “al di là del bene e del male”, al di là di Socrate e di ogni evidenza naturale. Come valuta questa prospettiva?
Il processo di legittimazione culturale dell’«agenda Lgbt» non è nuovo e si alimenta, in primis, di un’antropologia che annulla di fatto quella differenza sessuale di cui si parlava poc’anzi, fattore insuperabilmente costitutivo di ogni persona umana in quanto tale. La differenza sessuale, infatti, è la dimensione interna all’io che ne esprime l’apertura. La differenza sessuale è intrapersonale, per questo non può mai essere superata. Lo dicono, tra l’altro, accurati studi di psicologia del profondo. Non ha nulla a che fare con la diversità che è interpersonale. Passo dopo passo, questo processo sta ricevendo dalla politica riconoscimenti indebiti. Quanto alla politica di Obama e alle sue scelte recenti, consiglio di considerare attentamente le prese di distanza dei vescovi americani.
Ma torniamo al dato culturale. Cito, ancora una volta, un antropologo, Claude Lévy-Strauss, non certo sospettabile di simpatie cattoliche, il quale affermava: «Un’unione socialmente approvata tra un uomo e una donna e i loro figli è un fenomeno universale presente in ogni e qualunque tipo di società». Ebbene, è a questo “universale” che si addice propriamente il nome di famiglia. Le “cose” e le parole nascono insieme. Altre forme di convivenza potranno ricevere altri nomi, ma non si possono chiamare famiglia e, quindi, non possono esigere un primato solo ad essa dovuto.
È evidente che siamo qui in presenza di un circolo vizioso: da un lato si fanno strada una cultura e un’antropologia “altre” che chiedono alla politica una legittimazione; la politica, per ragioni ideologiche e di consenso, interviene spesso, in materie sensibili come questa, avvalorando abusivamente determinate richieste. La somma di queste due spinte produce un cambiamento radicale nell’ethos collettivo e questo non può non interpellarci, come cittadini e come cristiani. Come cristiani, siamo chiamati ad un impegno affascinante: testimoniare la bellezza della fede, che esalta in pieno la nostra umanità, non escludendo nulla di ciò che ci sta a cuore, a partire dall’io e dalle sue relazioni fondamentali. Tra queste il biblico “bell’amore” è determinante ed avvincente.

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domenica 27 maggio 2012

FRANCO NEMBRINI SU DANTE

FRANCO NEMBRINI  SU DANTE
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Vecchioni: la paura non canta

Vecchioni: la paura non canta
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​ Non una raccolta di successi ma un’antologia. Roberto Vecchioni ama definire così il disco e il tour, che riassumono quarant’anni di racconti di vita diventati canzoni. Da Luci a San Siro a Un lungo addio, dai grandi hit ai brani più recenti, la colonna sonora di un pezzo di storia del nostro Paese e insieme uno sguardo d’artista sull’infinità varietà di sfumature che rende unica ciascuna delle nostre esistenze.

I colori del buio è un viaggio in 33 brani che stasera farà tappa a Vicenza, accendendo di suoni e parole l’VIII edizione del Festival biblico (alle 21.30 in piazza dei Signori). «Il tema scelto per questa edizione è bellissimo – spiega Vecchioni –. Di solito si punta sul “positivo”, sulle aperture, qui invece la riflessione è declinata in difesa, si parla del normalissimo atteggiamento di timore e meraviglia degli uomini di fronte a quello che si vedono intorno». La citazione del Vangelo di Marco intorno a cui si snoda la rassegna veneta – «Perché avete paura?» – sembra quanto mai adatta al momento che stiamo vivendo.

«È un tema antichissimo, che sprofonda nella notte dei tempi – sottolinea Vecchioni –. Le religioni rivelate tentano di eliminare o di mettere in altra luce le paure delle creature, ma non possono sconfiggerle del tutto». In questo senso la scelta del quarto capitolo di Marco è quanto mai significativa. «È l’episodio della tempesta: il Signore dorme tranquillo a poppa mentre i suoi discepoli tremano di paura perché l’acqua arriva sulla barca. Gesù ci fa capire che, finché c’è lui, non dobbiamo temere nulla». «La speranza dalle Scritture» è in effetti il sottotitolo della rassegna. «Siamo dentro un disegno di cui Dio prima e suo Figlio poi ci hanno dato delle spiegazioni abbastanza chiare – aggiunge Vecchioni –, che ci parlano della sconfitta del dolore, della morte, della fatica. Il loro motivo no, perché al momento trascende la nostra facoltà di comprensione, un’incapacità che tuttavia la fede rintuzza».

In questo momento di che cosa dobbiamo avere maggiormente paura?
«Direi della confusione, cioè la situazione in cui per ragioni strettamente sociali e culturali i popoli non si trovano d’accordo sul concetto di Dio. Stiamo mischiando troppe idee, creando complicazioni che possono portare a conflitti, lotte, ribellioni. La temperanza e la pazienza, virtù che troppo spesso mancano, esprimono forza, non debolezza».

In questo senso la Bibbia è una risposta?
«Soprattutto il Vangelo perché non c’è niente di più universale, che sappia avvolgere tutti, senza differenza di caste o di sesso. L’Antico Testamento ha pagine e racconti bellissimi ma tutti orientati al cammino, alla salvezza di un popolo. Lo dico sapendo che Israele è metafora del mondo intero».

Lei non ha mai nascosto una grande amore per il Vangelo, per il Discorso della Montagna in particolare.
«È il vertice di ogni religione, di ogni confessione, di ogni fede. Con le Beatitudini, che non sono promesse gratis, Gesù ci dà la certezza che gli ultimi, i più malversati saranno i primi. Dona significato a situazioni del nostro mondo che altrimenti non avrebbero senso».

È la novità del Vangelo.
«Non credo esista nessun libro più rivoluzionario. Il comandamento unico che li compendia tutti, quello di amare chi non ci ama, non ha raffronti nella storia dell’umanità».

Passare dai principi alla pratica però non è facile. Credere implica un cammino, delle tappe.
«Io ho quasi pena per chi nasce con una fede eccezionale. Preferisco la ricerca più minuziosa, il porsi domande in modo più concreto. E poi nelle Scritture, se le sappiamo leggere, ci sono già tutte le risposte».

Una riflessione che, da parte sua, implica alcune sicurezze di fondo.
«C’è la certezza che nulla può essere casuale, tutto è causato. Il fondamento della fede è che c’è una ragione, che viviamo di emozioni, di sentimenti, di lacrime, di amori. E tutto questo non può nascere da un grande bang».

Detto in altro modo, alla base di tutto c’è la vita, quella che, in tutte le sue infinite sfumature, Vecchioni ha cantato in quarant’anni di carriera. Un cammino che stasera farà tappa a Vicenza. «Con I colori del buio ripropongo le mie canzoni come sono nate, nelle loro versioni storiche, originali, con gli arrangiamenti di allora. Le propongo in versione in parte cantautorale e in parte sinfonica, per cui ci sarà anche un trio d’archi». Un concerto, un disco che è il racconto di una vita. «Voltandomi – conclude Vecchioni – ho visto tutti i colori che l’hanno accompagnata e di cui mentre li vivevo non mi rendevo conto. Adesso mi accorgo che erano importanti».

Riccardo Maccioni

giovedì 24 maggio 2012

«Lasciamoci trovare e afferrare da Dio»

ASSEMBLEA GENERALE CEI
​«Lasciamoci trovare e afferrare da Dio»
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Venerati e cari Fratelli,
è un momento di grazia questo vostro annuale convenire in Assemblea, in cui vivete una profonda esperienza di confronto, di condivisione e di discernimento per il comune cammino, animato dallo Spirito del Signore Risorto; è un momento di grazia che manifesta la natura della Chiesa. Ringrazio il Cardinale Angelo Bagnasco per le cordiali parole con cui mi ha accolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti: a Lei, Eminenza, rivolgo i migliori auguri per la riconferma alla guida della Conferenza Episcopale Italiana. L’affetto collegiale che vi anima nutra sempre più la vostra collaborazione a servizio della comunione ecclesiale e del bene comune della Nazione italiana, nell’interlocuzione fruttuosa con le sue istituzioni civili. In questo nuovo quinquennio proseguite insieme il rinnovamento ecclesiale che ci è stato affidato dal Concilio Ecumenico Vaticano II; il 50° anniversario del suo inizio, che celebreremo in autunno, sia motivo per approfondirne i testi, condizione di una recezione dinamica e fedele. «Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace», affermava il Beato Papa Giovanni XXIII nel discorso d’apertura. E vale la pena meditare e leggere queste parole. Il Papa impegnava i Padri ad approfondire e a presentare tale perenne dottrina in continuità con la tradizione millenaria della Chiesa: «trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», ma in modo nuovo, «secondo quanto è richiesto dai nostri tempi». (Discorso di solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962). Con questa chiave di lettura e di applicazione, - nell’ottica non certo di un’inaccettabile ermeneutica della discontinuità e della rottura, ma di un ermeneutica della continuità e della riforma, - ascoltare il Concilio e farne nostre le autorevoli indicazioni, costituisce la strada per individuare le modalità con cui la Chiesa può offrire una risposta significativa alle grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo, che hanno conseguenze visibili anche sulla dimensione religiosa.

La razionalità scientifica e la cultura tecnica, infatti, non soltanto tendono ad uniformare il mondo, ma spesso travalicano i rispettivi ambiti specifici, nella pretesa di delineare il perimetro delle certezze di ragione unicamente con il criterio empirico delle proprie conquiste. Così il potere delle capacità umane finisce per ritenersi la misura dell’agire, svincolato da ogni norma morale. Proprio in tale contesto non manca di riemergere, a volte in maniera confusa, una singolare e crescente domanda di spiritualità e di soprannaturale, segno di un’inquietudine che alberga nel cuore dell’uomo che non si apre all’orizzonte trascendente di Dio. Questa situazione di secolarismo caratterizza soprattutto le società di antica tradizione cristiana ed erode quel tessuto culturale che, fino a un recente passato, era un riferimento unificante, capace di abbracciare l’intera esistenza umana e di scandirne i momenti più significativi, dalla nascita al passaggio alla vita eterna. Il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità. Anche una terra feconda rischia così di diventare deserto inospitale e il buon seme di venire soffocato, calpestato e perduto.

Ne è un segno la diminuzione della pratica religiosa, visibile nella partecipazione alla Liturgia eucaristica e, ancora di più, al Sacramento della Penitenza. Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede o pensano di poterla coltivare prescindendo dalla mediazione ecclesiale. E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. Il Regno di Dio è dono che ci trascende. Come affermava il beato Giovanni Paolo II, «il regno non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio [7 dicembre 1990], 18). Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso.

In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? Come possiamo seminare con fiducia la Parola di Dio, perché ognuno possa trovare la verità di se stesso, la propria autenticità e speranza? Siamo consapevoli che non bastano nuovi metodi di annuncio evangelico o di azione pastorale a far sì che la proposta cristiana possa incontrare maggiore accoglienza e condivisione. Nella preparazione del Vaticano II, l’interrogativo prevalente e a cui l’Assise conciliare intendeva dare risposta era: «Chiesa, che dici di te stessa?». Approfondendo tale domanda, i Padri conciliari furono, per così dire, ricondotti al cuore della risposta: si trattava di ripartire da Dio, celebrato, professato e testimoniato. Esteriormente a caso, ma fondamentalmente non a caso, infatti, la prima Costituzione approvata fu quella sulla Sacra Liturgia: il culto divino orienta l’uomo verso la Città futura e restituisce a Dio il suo primato, plasma la Chiesa, incessantemente convocata dalla Parola, e mostra al mondo la fecondità dell’incontro con Dio. A nostra volta, mentre dobbiamo coltivare uno sguardo riconoscente per la crescita del grano buono anche in un terreno che si presenta spesso arido, avvertiamo che la nostra situazione richiede un rinnovato impulso, che punti a ciò che è essenziale della fede e della vita cristiana. In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio.

Cari Fratelli, il nostro primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e ultimo. Gli uomini vivono di Dio, di Colui che spesso inconsapevolmente o solo a tentoni ricercano per dare pieno significato all’esistenza: noi abbiamo il compito di annunciarlo, di mostrarlo, di guidare all’incontro con Lui. Ma è sempre importante ricordarci che la prima condizione per parlare di Dio è parlare con Dio, diventare sempre più uomini di Dio, nutriti da un’intensa vita di preghiera e plasmati dalla sua Grazia. Sant’Agostino, dopo un cammino di affannosa, ma sincera ricerca della Verità era finalmente giunto a trovarla in Dio. Allora si rese conto di un aspetto singolare che riempì di stupore e di gioia il suo cuore: capì che lungo tutto il suo cammino era la Verità che lo stava cercando e che l’aveva trovato. Vorrei dire a ciascuno: lasciamoci trovare e afferrare da Dio, per aiutare ogni persona che incontriamo ad essere raggiunta dalla Verità. E’ dalla relazione con Lui che nasce la nostra comunione e viene generata la comunità ecclesiale, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi per costituire l’unico Popolo di Dio.

Per questo ho voluto indire un Anno della Fede, che inizierà l’11 ottobre prossimo, per riscoprire e riaccogliere questo dono prezioso che è la fede, per conoscere in modo più profondo le verità che sono la linfa della nostra vita, per condurre l’uomo d’oggi, spesso distratto, ad un rinnovato incontro con Gesù Cristo «via, vita e verità».

In mezzo a trasformazioni che interessavano ampi strati dell’umanità, il Servo di Dio Paolo VI indicava chiaramente quale compito della Chiesa quello di «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (Esort. Ap. Evangelii nuntiandi [8 dicembre 1975], 19). Vorrei qui ricordare come, in occasione della prima visita da Pontefice nella sua terra natale, il beato Giovanni Paolo II visitò un quartiere industriale di Cracovia concepito come una sorta di «città senza Dio». Solo l’ostinazione degli operai aveva portato a erigervi prima una croce, poi una chiesa. In quei segni, il Papa riconobbe l’inizio di quella che egli, per la prima volta, definì «nuova evangelizzazione», spiegando che «l’evangelizzazione del nuovo millennio deve riferirsi alla dottrina del Concilio Vaticano II. Deve essere, come insegna questo Concilio, opera comune dei Vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici, opera dei genitori e dei giovani». E concluse: «Avete costruito la chiesa; edificate la vostra vita col Vangelo!» (Omelia nel Santuario della Santa Croce, Mogila, 9 giugno 1979).

Cari Confratelli, la missione antica e nuova che ci sta innanzi è quella di introdurre gli uomini e le donne del nostro tempo alla relazione con Dio, aiutarli ad aprire la mente e il cuore a quel Dio che li cerca e vuole farsi loro vicino, guidarli a comprendere che compiere la sua volontà non è un limite alla libertà, ma è essere veramente liberi, realizzare il vero bene della vita. Dio è il garante, non il concorrente, della nostra felicità, e dove entra il Vangelo – e quindi l’amicizia di Cristo – l’uomo sperimenta di essere oggetto di un amore che purifica, riscalda e rinnova, e rende capaci di amare e di servire l’uomo con amore divino.
Come evidenzia opportunamente il tema principale di questa vostra Assemblea, la nuova evangelizzazione necessita di adulti che siano «maturi nella fede e testimoni di umanità». L’attenzione al mondo degli adulti manifesta la vostra consapevolezza del ruolo decisivo di quanti sono chiamati, nei diversi ambiti di vita, ad assumere una responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni. Vegliate e operate perché la comunità cristiana sappia formare persone adulte nella fede perché hanno incontrato Gesù Cristo, che è diventato il riferimento fondamentale della loro vita; persone che lo conoscono perché lo amano e lo amano perché l’hanno conosciuto; persone capaci di offrire ragioni solide e credibili di vita. In questo cammino formativo è particolarmente importante – a vent’anni dalla sua pubblicazione – il Catechismo della Chiesa Cattolica, sussidio prezioso per una conoscenza organica e completa dei contenuti della fede e per guidare all’incontro con Cristo. Anche grazie a questo strumento possa l’assenso di fede diventare criterio di intelligenza e di azione che coinvolge tutta l’esistenza.
 
Trovandoci nella novena di Pentecoste, vorrei concludere queste riflessioni con una preghiera allo Spirito Santo:
Spirito di Vita, che in principio aleggiavi sull’abisso,
aiuta l’umanità del nostro tempo a comprendere
che l’esclusione di Dio la porta a smarrirsi nel deserto del mondo,
e che solo dove entra la fede fioriscono la dignità e la libertà
e la società tutta si edifica nella giustizia.
Spirito di Pentecoste, che fai della Chiesa un solo Corpo,
restituisci noi battezzati a un’autentica esperienza di comunione;
rendici segno vivo della presenza del Risorto nel mondo,
comunità di santi che vive nel servizio della carità.
Spirito Santo, che abiliti alla missione,
donaci di riconoscere che, anche nel nostro tempo,
tante persone sono in ricerca della verità sulla loro esistenza e sul mondo.
Rendici collaboratori della loro gioia con l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo,
chicco del frumento di Dio, che rende buono il terreno della vita e assicura l’abbondanza del raccolto.
Amen.

Senza di Lui

  Senza di Lui
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Siamo venuti via, abbiamo voltato 
le spalle al vuoto e al fumo. 
Abbiamo scosso le spalle.
 Faremo ci siamo detti, senza di Lui
Saremo magari anche forti e liberi … Come i morti  
(Giorgio Caproni da " Il Franco Cacciatore"1912/1990).

Le lettere dal deserto

Le lettere dal deserto


A dieci anni dalla morte del poeta livornese. C’è stato Qualcuno un tempo, che ha fatto compagnia all’uomo. Ora di quella storia sembra rimasto solo il racconto. E nel deserto le parole non fanno compagnia


di Paolo Mattei

Dieci anni fa, il 22 gennaio del 1990, si spengeva a Roma Giorgio Caproni, una delle più significative voci poetiche del Novecento. Nato a Livorno nel 1912, a dieci anni si trasferì a Genova, dove compì studi irregolari e svolse mestieri disparati. Nel 1939 fu a Roma, poi in Valtrebbia come partigiano ai tempi dell’occupazione nazista. Nell’Urbe trascorse il resto dei suoi anni facendo il maestro elementare (a Monteverde, quartiere in cui visse Pasolini, del quale fu amico), collaborando con riviste e traducendo specialmente dal francese (Maupassant, Céline, Proust, Genet ed altri). Lontana da ogni intellettualismo e da ogni virtuosismo, costituita da un linguaggio semplice e quotidiano, la poesia di Caproni possiede una straordinaria grazia comunicativa, una delicatezza e una musicalità che la rendono unica, originalissima e inconfondibile nel panorama letterario del XX secolo. Nel 1995 la sua opera poetica completa (1932-1990) è stata raccolta in un volume della collana i Meridiani della Mondadori.
Giorgio Caproni (1912-1990)
Giorgio Caproni (1912-1990)
Caproni scrisse poesie nel deserto. Il deserto della realtà. L’epigrafe posta ad introduzione della raccolta Il muro della terra (1964-1975) è una frase di Annibal Caro (il letterato del Cinquecento ricordato ormai da pochissimi soltanto per la sua “bella infedele” versione manierista dell’Eneide): «Siamo in un deserto, e volete lettere da noi?». Il deserto è un luogo in cui un tempo c’è stata la vita, un luogo una volta rigoglioso e pieno, ed ora abbandonato (dal latino desero, “abbandono”): «Lo abbiamo/ lasciato passare diritto/ davanti a noi.// E solo/ quand’è scomparso, il deserto/ ci è apparso chiaro.// Che fare […] Abbiamo/ scosso le spalle./ Faremo,/ ci siamo detti, senza/ di lui.// Saremo,/ magari, anche più forti/ e liberi.// Come i morti» (Determinazione, in Il franco cacciatore, 1973-1982). C’è stato Qualcuno nel deserto, Qualcuno è passato. Il suo passaggio è stato registrato dal mondo, i suoi connotati memorizzati («Apparve (sulla trentina,/ di strano colorito) un tizio/ (certo, di razza non latina) da me mai prima visto/ né conosciuto.// “Mi chiamo”,/ mi fece, “Gesù Cristo”», Mancato acquisto, in Res amissa, 1991), il suo nome e le sue generalità pure: Dio, Gesù Cristo, Figlio di Dio. Archiviata, infine, la sua scheda segnaletica. Quasi nessuno ormai nega più che sia avvenuto questo passaggio. Quasi nessuno più contesta l’esistenza di Dio. «Se Dio c’è o non c’è è questione secondaria» ha scritto il poeta livornese. Aggiungendo poi: «Il difficile è stabilire, ammessane l’esistenza, il suo rapporto con l’uomo» (Res amissa). Questa è la constatazione drammatica della poesia di Caproni. C’è stato Qualcuno, un tempo, che ha fatto compagnia all’uomo nel deserto della vita. Ora di quella storia sembra rimasto solo il racconto. Sembrano rimaste soltanto le parole che, da sole, non fanno compagnia in un deserto. Possono generare «pungente e senza condono la spina della nostalgia», o provocare – quando pronunziate con tonitruante arroganza magari anche da un ambone – fastidio e repellenza: «Gridava come un ossesso./ “Cristo è qui! È qui!/ LUI! Qui fra noi! Adesso!/ Anche se non si vede!/ Anche se non si sente!”// La voce, era repellente» (Telemessa, in Il franco cacciatore, 1973-1982). Nel deserto in cui riconosceva di trovarsi a vivere, Caproni ha scritto le sue poesie leggere e sommesse, le sue facili, «elementari» rime, i suoi cantabili versi raccontando le piccole e grandi cose, le esperienze e le persone che costituirono la trama della sua vita: le due amate città (Genova e Livorno), la madre, la morte, il viaggio. Nei suoi versi, tutto risulta venato da un senso di nostalgia per un “tu” assente a cui continuamente il poeta si rivolge. Anche, talvolta, sentenziandone con amarezza l’inesistenza. Ma proprio così, evidentemente invocandone la presenza: «Prego (e in ciò consiste/ – unica! – la mia conquista)/ non, come accomoda dire/ al mondo, perché Dio esiste:/ ma, come uso soffrire/ io, perché Dio esista» (Lamento (o boria) del preticello deriso, in Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, 1960-1964).
La «franchezza» è la cifra più significativa della sua poesia: «L’unica linea di svolgimento che vedo nei miei versi» ebbe a dire Caproni «è la stessa “linea della vita”: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la “franchezza”, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto». D’altronde nel deserto in cui Caproni riconosce di trovarsi, essendo per eccellenza il luogo in cui il superfluo non ha diritto di residenza, se appare qualcosa la si vede. È un luogo che rende assurdo ogni moralismo, ridicolo il perseguimento di progetti, anche in campo letterario, pleonastici e ridondanti. Disse Pasolini parlando di Caproni: «Com’è libero questo poeta da moralismi, da tesi: in questo senso uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario». La poesia di Caproni racconta di cose e persone amate di un amore semplice, punto da nostalgia, screziato da un’ultima tristezza. Anche l’affetto più puro, più gratuito è segnato dalla paura della morte. Commoventi in questo senso sono i Versi livornesi (da Il seme del piangere, 1952-1958), dedicati alla madre che è in essi sorpresa nel suo quotidiano recarsi al lavoro, da giovane. Il poeta la immagina come una ragazza lieta, meravigliosa e fresca che illumina col suo passaggio antelucano le vie di Livorno. In lei, così viva e felice, subito, il presentimento d’un’ombra: «Prendeva a passo svelto,/ dritta, per la Via Palestro,/ e chi di lei più viva,/ allora, in tant’aria nativa?// Livorno popolare/ correva con lei a lavorare./ Né ombra né sospetto/ era allora nel petto». L’assenza che riempie di nostalgia tutta la realtà è poeticamente dichiarata nel titolo dell’ultima raccolta di liriche dell’autore livornese: Res amissa, la cosa perduta. Come la grazia “amissibile”, che si può perdere: «Può capitare a tutti» spiegava Caproni in un’intervista dell’89 «di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto […]. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la grazia, visto che esiste una “grazia amissibile”. Con la grazia o con chissà che altro del genere. (Non è comunque, quest’ultimo, il caso mio, credo)». Forse è la possibilità di un incontro umano, con Qualcuno che sia compagnia presente fisicamente nel deserto della vita, il Bene di cui ha parlato Caproni nei suoi versi. Qualcuno che non sia solo un nome pronunciato con nostalgia o – come fa il chierico della citata Telemessa – con livore. Oppure, come ormai nella maggior parte dei casi, con indifferenza.
C’è l’accento di una preghiera in certe sue poesie. Che da qualche parte, in questo deserto, ci si possa imbattere (in una bettola davanti a un bicchiere di vino o in un magazzino: queste le occasioni semplici e banali suggerite in alcune liriche) in una presenza umana che gratuitamente rechi «il dono della libertà». Con un gesto semplice, ad esempio, come quello – vissuto e raccontato dal poeta in Res amissa – di una porta spalancata a ridare respiro a chi è rimasto recluso. C’è l’accento della preghiera che il «seme del piangere» – così Dante chiamò gli occhi e Caproni riprese la metafora – possa guardare qualcosa che dia senso e speranza al deserto della vita.





Anch’io

Uno dei tanti, anch’io.
Un albero fulminato

dalla fuga di Dio.



Asparizione

In una via di Lima.
O di qui.
Non importa.
In sogno, forse.
In eco.

Nel battito già perdutamente
dissolto di una porta.


Determinazione

Non è arrivato nessuno.
Tutti sono scesi.
Uno
(l’ultimo) s’è soffermato
un attimo, il volto nel lampo
dell’accendino, poi
ha preso anche lui – deciso –
la sua via.

Ci siamo
guardati.

Lo avremmo
pugnalato, lui
(l’ultimo!) che pur poteva,
doveva necessariamente
esser lui, se lui
non era giunto.

Lo abbiamo
lasciato passare diritto

davanti a noi.


E solo

quand’è scomparso, il deserto

ci è apparso chiaro.


Che fare.


Inutile aspettare,

certo, un altro treno.

Il testo

era esplicito.

O qui,

e ora,

o…

nulla.


Siamo

venuti via.


Abbiamo

voltato le spalle al vuoto

e al fumo.


Abbiamo

scosso le spalle.


Faremo,

ci siamo detti, senza

di lui.


Saremo,

magari, anche più forti

e liberi.


Come i morti.



Il cercatore


Aveva posato
la sua lanterna sul prato.
Aveva allargato
le braccia. Tutto
quel sole. Tutto
quel verde scintillio d’erba
per tutto il vallone.
Era scoraggiato.
«Come
può farmi lume,»
pensava. «Come
può forare la tenebra,
in tanta inondazione
di luce?»
Piangeva,
quasi. S’era
coperta la faccia.
Si premeva gli occhi.
Aveva
perso completamente,
con la speranza, ogni traccia.


Arpeggio

Cristo ogni tanto torna,
se ne va, chi l’ascolta…
Il cuore della città
è morto, la folla passa
e schiaccia – è buia massa
compatta, è cecità…


Indicazione


– Smettetela di tormentarvi.
Se volete incontrarmi,
cercatemi dove non mi trovo.

Non so indicarvi altro luogo.


Petit Noël

S’avvicina il Natale.
Gesù, portami via.

La tua è la più bella bugia

che possa allettare un mortale.



Generalizzando


Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più

né da chi né che sia.

Soltanto ne conserviamo

– pungente e senza condono –

la spina della nostalgia.



Il teologo pone


Il teologo pone
una «grazia amissibile».

Ma quale altra amissione

più dura (più terribile)

di quella del dono rimasto

– per sempre – inconoscibile?



Res amissa

Non ne trovo traccia.
......

Venne da me apposta
(di questo ne sono certo)
per farmene dono.
......

Non ne trovo più traccia.
......

Rivedo nell’abbandono
del giorno l’esile faccia
biancoflautata…

La manica
in trina…

La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere…
......
......

Un vento
d’urto – un’aria
quasi silicea agghiaccia
ora la stanza…

(È lama
di coltello?

Tormento
oltre il vetro ed il legno
– serrato – dell’imposta?)
......
......

Non ne scorgo più segno.
Più traccia.
......
......

Chiedo
alla morgana…

Rivedo
esile l’esile faccia
flautoscomparsa…

Schiude
– remota – l’albeggiante bocca,
ma non parla.

(Non può
– niente può – dar risposta.)
......
......

Non spero più di trovarla.
......

L’ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.

domenica 20 maggio 2012

Fu una croce o un palo?


Fu una croce o un palo?
***


Il supplizio della crocifissione dai popoli semiti ad oggi
Testimonianze archeologiche ed artistiche

Corriere di Saluzzo - 22 febbraio 2002 - articolo a cura di Mirella LOVISOLO
Ancora-croce-Catacomba Domitilla


Ancora-croce con pesciolini Catacomba di Domitilla


Il supplizio della crocifissione che era praticato in Persia e tra i popoli semiti prima di Cristo, venne assunto dai Romani come terrificante pena capitale per gli schiavi ribelli e usato sino al sec. IV quando Teodosio il Grande lo soppresse. Purtroppo non scomparve del tutto se in molte parti del mondo molti cristiani ebbero ancora a subirla e, a detta dei missionari, resta oggi ancora in taluni paesi, come il Sudan.


La Croce, simbolo della redenzione di Cristo, è "segno" che per il cristiano rappresenta e sintetizza la fede, ma è anche "segno di contraddizione" per molti che, come abbiamo già visto, vorrebbero toglierla dalle scuole e dagli ospedali.


Vi sono poi altri che, passando di casa in casa, vanno diffondendo - tra altre inesattezze - la strana affermazione che Cristo non sia morto su una struttura cruciforme, ma su un semplice palo. La teoria, che vorrebbe incrinare la fiducia nella lettura cristiana dei Vangeli e nella Chiesa, risale solo al 1928 ed è in contrasto con tutte le più antiche testimonianze letterarie e archeologiche che invece parlano di "croce".


Proviene da ambiti i religiosi che non sono cristiani (anche se pretendono di essere tali) che definiscono "idolatria satanica" la fede e la venerazione della Croce, giustificando la loro affermazione con il richiamo alle prescrizioni del Deuteronomio (21,22-23) circa l’uso di appendere ad un albero il cadavere di un condannato, come monito per tutti. Nell’Antico Testamento però, non venne mai appeso al palo un uomo vivo, perché la cosa era giudicata abominio dagli ebrei; anche per questo Pilato non l’avrebbe mai fatto.


I romani invece usavano lo strumento della croce (immissa o capitata : † o quella commissa :T). di cui già parlano Plauto, antico scrittore romano nella "Mostellaria" v.56, Plutarco in "An vitiositas ad infelicitatem sufficiciat" 499 D) Luciano di Samosata ne "Il giudizio delle vocali cap.12) e altri ancora. La condanna di Gesù venne eseguita dalle guardie del governatore che applicarono la procedura romana, come Gesù aveva profetizzato: "Il Figlio dell’Uomo sarà consegnato ai pagani perché sia schernito flagellato, crocifisso" (Mt.20,18-19).


Netta era la distinzione tra i due tipi di condanne a morte in uso, tra le altre, a Roma: al palo con flagellazione e decapitazione, alla croce, dove le braccia aperte erano inchiodate ad una trave orizzontale poi issata su quella verticale. Anche gli autori classici, che parlano ampiamente dei supplizi romani, distinguono tra condanna al "palo" (ad palum alligare= legare al palo) e condanna alla "crocifissione" ( "tollere= innalzare).


E’ esattamente il verbo "innalzare" che usa Gesù profetizzando la sua passione: "Quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo saprete che Io Sono"(Gv.8,28). "Innalzare" è sinonimo di crocifiggere.


Come è possibile dunque sostenere la tesi del palo?


Il principale motivo di contestazione della croce è il termine greco "stauros" con cui essa veniva designata. Stauros indica una molteplicità di oggetti di legno, tra questi anche la croce nel Nuovo testamento (crf. Vocabolario greco-italiano L. Rocci e il Dizionario illustrato greco-italiano di Liddell H.G-Scott R. Le Monnier 1975, p.1183).


La parola dunque che ha diverse accezioni nella lingua greca, nel Nuovo Testamento ha l’accezione di "croce". Altro termine usato è "xýlon " che significa "legno" termine col quale nel Nuovo Testamento (At.5,30 e 10,39) si intende la Croce ( Liddell H.G. –Scott op.cit. pag. 875) . La parola "xýlon " legno, era genericamente usata in riferimento al materiale di cui era fatto il trave trasversale detto "patibulum" portato dal condannato per esservi inchiodato e poi issato ("innalzato") sul palo verticale già preparato sul luogo del supplizio. "Gesù uscì portando la croce" dice Giovanni (19,17). Come avrebbe potuto un uomo massacrato dalla flagellazione portare fin sul Calvario un palo dal peso di un quintale e più?


Le stesse traduzioni in latino del nuovo Testamento risalenti al 180, traducono sempre la parola "stauros" con crux (croce) ", mai con "palus" (palo).


Numerosissime sono le testimonianze.


Innanzi tutto le profezie di Gesù( Mt. 20,18-19 – Gv.8,28) "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo" (Gv. 3,14). Paolo parla simbolicamente della croce a 4 braccia, non di un palo quando dice " …siate in grado di comprendere quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza"(Ef.3,17).


Numerosi sono i documenti letterari del secondo secolo. L’Epistola di Barnaba, redatta tra il 96 e il 130, parla della forma a T (tau) della croce,nel 135 Giustino descrive con precisione la croce del Golgota: la ricorda come una trave piantata in terra e intersecata da un’altra all’altezza delle spalle, il "patibulum". Nel sec. III Ippolito paragona la croce all’albero della nave intersecato dalla trasversale della vela, una immagine che diventerà un simbolo frequentemente usato per indicare la Croce di Cristo nell’arte catacombale.

IL CROCIFISSO

L’opera che presentiamo è un pannello della porta di S.Sabina a Roma del sec. V°, uno dei rarissimi esemplari di scultura lignea paleocristiana conservata; è la più antica raffigurazione della Crocifissione che si conosca. In quest’opera Cristo è rappresentato frontalmente al centro del riquadro notevolmente più grande dei due ladroni crocifissi ai lati, per indicare – secondo un antico concetto – la superiorità del personaggio; ha gli occhi aperti, il volto barbato, i capelli lunghi. È cinto del perizoma, le braccia si allargano nell’atteggiamento dell’”orante”; solo le mani sono inchiodate, dietro di esse appena si intravedono le estremità del braccio trasversale della croce. I piedi non sono inchiodati e poggiano per terra. La testa si volge lievemente verso destra per dire al Buon ladrone le parole della salvezza: “Oggi sarai con me in Paradiso”.


Il corpo del Cristo per quanto possente sembra senza peso.Il volto di Gesù ha le sembianze di un vivente e indica la totalità dell’annuncio cristiano: il Cristo è morto ed è risorto, egli è il Vivente. La scena è collocata sullo sfondo di un muro con un riferimento alle mura di Gerusalemme fuori dalle quali sorge il Golgota. Sul muro appaiono tre frontoni su quello di destra una finestrella, probabile allusione alla salvezza accordata al Buon Ladrone. Anteriormente al 400, l’arte delle prime comunità esprime simbolicamente il sacrificio di Cristo con l’immagine dell’ Agnello immolato e con l’ancora, che in forme diverse camuffa la croce. Il Wilpert afferma che nelle regioni cimiteriali appartenenti all’epoca tra II° e V° secolo, ne esiste un folto gruppo di 200 esemplari. L’uso dell’ancora, a differenza di altri simboli catacombali, non ha riscontro in altre civiltà, è propria del cristianesimo, e rivela il concetto teologico originale: Cristo crocifisso e risorto è l’ancora della nostra salvezza.


Il tema del crocifisso rimane sconosciuto all’iconografia finché Teodosio il Grande soppresse la pena umiliante della croce e l’immagine non suscitò più associazioni negative. La raffigurazione del Messia crocifisso “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (I Cor 1,23) poteva infatti scandalizzare gli ebrei e intimorire i neofiti, nonché suscitare il disprezzo dei pagani come appare nell’incisione del Palatino dove è rappresentata l’immagine di un asino crocifisso adorato da un proselito.


Con il IV° secolo apparirà nell’abside delle Basiliche paleocristiane la Croce Gemmata che allude all’apoteosi finale di Cristo e specialmente nei mosaici ravennati come nella cupola del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna dove la Croce è al centro di una incredibile decorazione stellare. Molto frequente è anche l’immagine dell’Albero Della Vita (S. Clemente a Roma), ma fino al V secolo non vi è il corpo appeso.


Dopo la coraggiosa raffigurazione di S. Sabina, il Concilio Trullano del 602, ordinò di rappresentare direttamente la Crocifissione la cui grande diffusione si ebbe nei sec. XII-XIII con le cattedrali romaniche e gotiche. Nella Croce di S. Damiano il Cristo appare ancora Triumphans trionfante sulla morte, mentre nel sec. XIII per influsso delle correnti francescane appare Patiens (sofferente sulla croce).


I secoli successivi hanno prodotto immagini diverse della Redenzione: da Giovanni Bellini a Grunewald, da El Greco a Chagall, sino all’essenzialità contemporanea come la Croce di Armando Testa (1990) nelle cui linee oblique è presente l’abbandono doloroso del Cristo obbediente: “Tutto è compiuto” mentre il colore luminoso è quello della Risurrezione.


Immagini diverse che annunciare la stessa gioiosa e sconvolgente notizia: “Cristo è stato crocifisso, ma Dio l’ ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni” (At.2,38).


Mirella LOVISOLO


Bibliografia:

TRICARIO M.F, Il credo dell’arte, AdP, Roma, 2000.

SALA G. Lacroce e il crocifisso, suppl. a Evangelizzare, EDB, Marzo 2003.

RUGGERI C., Stenografie dell’anima, Piemme, 1991

LA CROCE NELLE ISCRIZIONI E NELL'ARTE DEI PRIMI SECOLI
tratto dal sito http://www.infotdgeova.it
Questo graffito di inizio del II secolo è stato trovato sul Palatino a Roma. Raffigura un crocifisso con testa di animale e una persona in atto di adorazione verso di lui, con la scritta "Alessameno adora Dio". Questo graffito è stato interpretato dagli archeologi come una irrisione del culto cristiano verso Cristo. La testa dell'animale è stata interpretata come la testa di un asino o di un mulo. È una testimonianza molto preziosa sul fatto che i primi cristiani non solo sapevano che Gesù era stato crocifisso su una croce, ma lo adoravano come Dio.
Nella letteratura cristiana dei primi secoli abbiamo l'attestazione che i pagani deridessero i cristiani come adoratori di un asino, e che facessero volentieri riferimento (questo anche per i Giudei) al mulo. Secondo un'antica leggenda il Dio dei Giudei era un asino, oppure aveva una testa di asino (cfr. Giuseppe Flavio, Contra Apionem, II,80 ss.; Tacito, Historiae, V,3 ss.; Epifanio, Panarion, eresia 26,10 etc.). Era questa una leggenda sorta probabilmente dal fatto che l'asino era l'animale sacro di Seth, il reprobo nel pantheon egizio, che gli egiziani consideravano il Dio degli stranieri. I Giudei erano molto presenti in Egitto, ed il loro Dio veniva identificato con Seth; Io ed Eio sono i nomi copti dell'asino, abbastanza somiglianti alla parola Iao che è uno dei modi per indicare YHWH, utilizzatissimo nei testi magici; nelle gemme magiche infatti la raffigurazione di Seth dalla testa d'asino viene identificata come Iao, YHWH o Yah, il Dio degli Ebrei. È stato molto semplice trasferire l'identificazione del Dio degli Ebrei al nuovo Dio, Gesù Cristo crocifisso. Questa identificazione è confermata da un altro graffito realizzato a Cartagine poco prima del 197 d.C., ove si vede una figura umana avvolta nella toga con orecchie d'asino, uno zoccolo al posto del piede, un libro in mano, accompagnata da una scritta: "Il Dio dei cristiani è un asino che giace con i suoi adoratori".
«Come ha scritto qualcuno, [voi pagani] avete fantasticato che una testa d'asino è il nostro dio. Tale sospetto l'ha introdotto Cornelio Tacito. Costui, infatti, nel libro quinto delle sue Storie, raccontando la guerra giudaica fin dall'origine, dopo aver congetturato quello che ha voluto, tanto sull'origine stessa, quanto sul nome e la religione di quel popolo, narra che i Giudei, liberati dall'Egitto o, com'egli credette, cacciati via, trovandosi nelle vaste località dell'Arabia, quanto mai povere di acqua, tormentati dalla sete, seguendo degli onagri [=asini selvatici], che si credeva si recassero per avventura a bere dopo il pasto, poterono far uso di sorgenti; e per questo beneficio consacrarono la figura di una bestia simile. Così di qui si presunse, penso, che anche noi cristiani, come discendenti della religione giudaica, venissimo iniziati all'adorazione della medesima immagine» - Tertulliano, Apologetico, cap. XVI,1-3 (fine I secolo).

Minucio Felice, Ottavio, IX,3 (fine I secolo) fa affermare ad un pagano: «Sento dire che i Cristiani venerano la testa della bestia più spregevole, l'asino, non so per che futile motivo».
Poco più avanti, Minucio Felice riporta ancora le parole del suo interlocutore pagano:
«E chi ci narra che il loro culto si rivolge ad un uomo punito per un delitto con il sommo supplizio e ai ferali legni della croce, non fa che attribuire altari appropriati a quei malfattori e scellerati, che onorano ciò che si meritano» (IX,4).
L'autore pagano deride il fatto che i cristiani venerino un malfattore crocifisso; si noterà tra l'altro che si parla di "legni della croce" (crucis ligna), e non di "legno della croce" (crucis lignum), a testimonianza del fatto che si trattava di due pali incrociati. E questi due pali vengono derisi come altari appropriati per il culto dei cristiani.
È quindi evidente che l'autore del graffito trovato sul Palatino si era ...ispirato a  queste offensive credenze relative al culto cristiano.
«...Questo abbozzo malfatto non può essere presentato come prova né che Gesù fù [sic] messo su "la Croce" né tanto meno che i cristiani adoravano "la Croce". Si può ben vedere che la T è disegnata sopra la figura e non dietro, questo probabilmente perché è stata aggiunta in un secondo tempo. Inoltre la testa d'animale assomiglia più a quella di uno sciacallo che a quella di un asino (basta vedere le orecchie!). Vale la pena ricordare che in Egitto si adorava una divinità con corpo umano e testa di sciacallo detta Anubis. Cosa possa significare lo schizzo raffigurato sopra è suscettibile di molte interpretazioni. E' comprensibile che una di queste sia quella voluta dai sostenitori de "la Croce". Ma, onestamente, una simile "prova" non sostiene nulla. Piuttosto, possibile che i primi cristiani, se è vero che adoravano "la Croce" come sostiene la tesi di sopra, non hanno lasciato nessuna traccia seria sotto forma di icone nei primi 300 anni di cristianesimo? La realtà è un altra: non ci sono da nessuna parte immagini di "la Croce" né nelle catacombe né in nessun altro luogo frequentato dai primi cristiani semplicemente perché i primi cristiani non adoravano nessuna "Croce" ma il solo vero Dio e Padre di Gesù Cristo, Geova (Giovanni 20:17)».
Gli autori di queste critiche si sono basati non su delle foto, come quella riprodotta in questa pagina, ma su un disegno che non rende fedelmente il graffito:

Disegno riportato nell'anonimo sito
Commentiamo una per una queste obiezioni per mettere in risalto la loro assoluta inconsistenza.
Si può ben vedere che la T è disegnata sopra la figura e non dietro, questo probabilmente perché è stata aggiunta in un secondo tempo
Innanzitutto si osservi che si tratta di un rozzo graffito e non di un affresco nel quale si rispettano le regole prospettiche. Sicuramente l'autore di questo insultante disegno non pretendeva di fare un capolavoro pittorico. 
Inoltre la testa d'animale assomiglia più a quella di uno sciacallo che a quella di un asino (basta vedere le orecchie!).
La testa d'animale è indubbiamente quella di un asino o di un mulo. È nel disegno del sito geovista che potrebbe sembrare dubbia la sua identificazione in una testa d'asino, ma la foto non lascia alcun dubbio in merito: 

Dettaglio
Gli asini possono avere le orecchie corte come lunghe, ad esempio questo bell'asinello ha le orecchie proprio come quelle del graffito:
Gli asini selvatici, gli ònagri, che hanno le medesime orecchie. Ma forse i Testimoni non sanno che cos'è un ònagro, anche se esso compare più volte nella Bibbia; non lo sanno perché la fantastica Traduzione del Nuovo Mondo in Giobbe 24,5 invece di tradurre ònagro o asino selvatico traduce "zebra nel deserto", come se un asino e una zebra fossero la stessa cosa...
Vale la pena ricordare che in Egitto si adorava una divinità con corpo umano e testa di sciacallo detta Anubis. Cosa possa significare lo schizzo raffigurato sopra è suscettibile di molte interpretazioni. E' comprensibile che una di queste sia quella voluta dai sostenitori de "la Croce". Ma, onestamente, una simile "prova" non sostiene nulla.

Il dio egizio Anubis, dalla testa di sciacallo
Quella dello sciacallo è una scusa per far credere che quello sia un graffito pagano che raffigura un pagano che prega un dio con la testa di sciacallo. Forse i  Testimoni non sono mai stati al museo egizio e non hanno mai visto una raffigurazione del dio Anubis, che non assomiglia neanche col binocolo a quella di cui stiamo discutendo. In ogni caso, in nessun culto pagano si ha l'adorazione di un crocifisso.

Sciacallo
Anche lo sciacallo ha una testa immensamente diversa da quella raffigurata nel graffito. È chiarissimo quindi che nel graffito si è voluto raffigurare un uomo con la testa di asino o di un mulo.
Ma, onestamente, una simile "prova" non sostiene nulla.
Questa è una semplice e discutibilissima opinione. Per i TdG "non sostiene nulla" perché questa iscrizione contrasta con gli attuali insegnamenti della Società Torre di Guardia. Per chi non ha simili pregiudizi invece, l'iscrizione è chiaramente da associare al culto cristiano.
Piuttosto, possibile che i primi cristiani, se è vero che adoravano "la Croce" come sostiene la tesi di sopra, non hanno lasciato nessuna traccia seria sotto forma di icone nei primi 300 anni di cristianesimo?
Si dimentica che il culto cristiano era proibito e che essendo perseguitati i cristiani non potevano certo manifestare apertamente la loro fede o raffigurare dei simboli legati al loro culto. Tuttavia vi sono molte testimonianze ed iscrizioni - oltre a questa che abbiamo esaminato - che attestano che la croce era un simbolo cristiano.
Uno dei simboli usati dai cristiani del secondo secolo d.C. era il pesce. La parola pesce, in greco ICHTHYS, era un segno convenzionale dell'espressione greca Iesous CHristòs THeou Yiòs Sotér, che significa "Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore".
In alcune di queste iscrizioni veniva aggiunto il T della croce tra le lettere, come in questa iscrizione del III secolo che si trova nelle Catacombe di S. Sebastiano...
... oppure si inseriva la X (iniziali di Cristo, in greco). Giustino, a metà del II secolo, spiega la differenza tra la X cristiana e quella pagana: "Platone nel Timeo cerca, con ragioni naturali, quello che è il figlio di Dio, dicendo che egli ha tracciato un X su tutte le cose; ma questo l'ha preso da Mosè [...] Platone lesse questi avvenimenti, ma non avendoli ben compresi non capì che questa era l'immagine della croce; e credette invece che era una X e disse che per Dio la seconda potenza era lo X tracciato sull'universo" (I Apologia, 60).

Porta di Santa Sabina, Roma
Le prime croci  con sopra disegnato Gesù (crocifissi) compaiono nel V secolo, come il pannello della porta di Santa Sabina. C'è anche un avorio del British Museum del principio del V secolo con un Gesù crocifisso che si può vedere in questa foto:
Per quanto riguarda la croce senza figura umana risulta che tra i primi esempi di croce cristiana vi è quello discusso di Palmira e l'iscrizione di Dura Europos (163). In Occidente, oltre alla croce di Ercolano, la croce appare in un affresco dell'ipogeo degli Aurelii a Roma. (ca. 253). Verso il 253 d.C. ca. si trova nell'ipogeo degli Aurelii una raffigurazione di un personaggio che indica la croce.
Un'altra bella croce si trova su una lastra sepolcrale marmorea nel cimitero di S. Callisto a Roma, sotto il nome della defunta Rufina Irene. È del III secolo.
A pag. 3050 del Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie (F. Cabrol e H. Leclerq, Paris 1907-1953) vengono riprodotte altre antichissime raffigurazioni della croce:
Nel prestigioso dizionario si dice che tale gemma è un diaspro rosso, inciso sui due lati, che venne ritrovato a Gaza, in Siria.
Ciò che rende questa minuscola scultura estremamente interessante, è il fatto che rappresenta una crocifissione, e di sicuro una delle più antiche che si conoscano. Nel Dizionario si dice che tale opera venne realizzata dagli Gnostici: «Non si può dubitare del fatto che gli gnostici raffigurarono il Cristo, se confrontiamo i diversi passaggi in cui i Padri osservano che qualcuno di questo eretici fece eseguire, in materiali diversi, immagini di Omero, Pitagora, Aristotele, Platone, San Paolo e Gesù Cristo. Tali immagini, ci dicono, furono fatte al tempo di Pilato e mentre il Signore era ancora fra gli uomini. Ma presso i primi cristiani, le rappresentazioni delle scene del Vangelo relative alla vita di Cristo si fermano alla sua comparsa davanti a Pilato. La crocifissione non compare se non sotto la forma di una croce ricoperta di fiori e di pietre preziose. Sulla gemma gnostica, al contrario, l'immagine è brutale e mostra, in tutto il suo orrore, l'antico supplizio. Il crocifisso è nudo, morente o morto, con la testa reclinata».
Quest'altra gemma, come si legge del Dizionario, è una cornalina custodita nel Museo Britannico. Raffigura il Cristo in piedi, nudo, con le braccia stese orizzontalmente alla traversa della croce.La figura di Cristo domina con la sua statura i dodici apostoli. Sullo sfondo si leggono delle lettere scritte al contrario e questo permette di capire che la gemma era usata come sigillo. È stata trovata a Costanza, in Romania, insieme ad altre gemme datate dal I al III secolo. Si ritiene che tale pietra risalga al II secolo.
Questa seconda cornalina ci mostra lo stesso soggetto con alcune varianti degne di nota. Il crocifisso non ha più un'altezza sovrumana, ma è alto come i dodici apostoli raccolti ai piedi della croce. È elevato tramite il suppedaneum (il sostegno sporgente su cui si appoggiavano i piedi) all'altezza di un metro circa. Il crocifisso ha le braccia stese, ha l'aureola e sullo sfondo si legge la scritta "Gesù Cristo". Tale medaglia è un po' più recente della precedente e viene datata al III secolo.
Molti Testimoni di Geova credono che non vi siano raffigurazioni di croci anteriori al V secolo, ma si sbagliano, come abbiamo visto. Si trovano, infatti, raffigurazioni della croce dal II secolo in poi, con l'unica limitazione che non c'è Gesù sopra... e questo perché prima della liberalizzazione del cristianesimo non sarebbe stato concesso di raffigurare così apertamente il Cristo, quindi lo si velava simbolicamente o lo si raffigurava in modo da non dover essere necessariamente compreso (il "buon pastore" non era altro che un pastore con una pecora sulle spalle... poteva essere interpretato come un pastore qualsiasi). Ma non appena il cristianesimo diventa libero, l'iconografia esplode nelle raffigurazioni della croce con il Cristo. Come questo Cristo in un sarcofago del IV secolo al museo lateranense.

Vi sono poi numerosissime fonti letterarie, a cavallo di I-II secolo, tra cui Ignazio, Barnaba e Giustino, che ci spiegano che la croce aveva forma simile alla lettera T, e usano molte immagini per descriverla (l'albero ramificato, Mosé con le sue braccia allargate, l'agnello cotto allo spiedo con uno spiedo che lo trapassa in un senso e un altro che lo trapassa nell'altro, etc., etc.). Poi ci sono le fonti liturgiche che ci descrivono il segno della croce, a partire da Tertulliano ai principi del III secolo. E lo sphragis fatto ai battezzandi sul capo.

Tra la fine del II e l'inizio del III secolo, i pagani persecutori, per mostrare che anche i cristiani erano idolatri, rinfacciavano loro il culto della croce e li chiamavano Crucis religiosi (veneratori della croce). Adoratori idolatrici i cristiani non lo sono mai stati, ed i concili ecumenici hanno vigilato su questo. Il secondo concilio di Nicea definisce gli atti di culto riservati alla croce: il saluto alla venerazione, ma non l'adorazione. Teodoro Studita osserva che l'adorazione rivolta a Dio è vera adorazione, quella rivolta alla croce lo è in senso relativo, in quanto è rivolta comunque al Cristo e non all'oggetto.

Per i Romani le esecuzioni capitali sulla croce erano all'ordine del giorno. In quei casi c'erano dei pali verticali già piantati. Cicerone si vantava di averlo tolto dal campo Marzio durante il suo consolato, e rimprovera Labieno che aveva ordinato di "conficcare e stabilire la croce per il supplizio dei cittadini" (Pro Rabirio 3,10; 4,11). Il condannato si portava sulle spalle il braccio trasversale della croce. Arrivati sul luogo dell'esecuzione, si inchiodavano le braccia al palo trasversale e si sollevava il palo così fissato alla persona usando una corda che passava sulla punta del palo verticale, e delle scale se necessario. Questa operazione si chiama in crucem tolli o crucem ascendere, o in cruce excurrere. Queste espressioni danno l'idea del salire verso l'alto. Due persone sono sufficienti per tirar su il condannato e fissarlo al palo verticale. Dopo la morte, si tirava nuovamente giù il palo trasversale e quello verticale era pronto per la prossima esecuzione.

Questa è la procedura che i romani seguivano per crocifiggere. Le attaccature su pali verticali unici avvenivano in casi particolari, in mancanza di legno, per la fretta, e comunque su pali già piantati nel terreno, normalmente alberi, soprattutto in tempo di guerra, per esecuzioni di massa, per esecuzioni sommarie. Ma certo senza trasporto del palo da parte del condannato. Nel caso di Gesù ci fu un regolare processo ed una condanna esemplare.
Gli scrittori ecclesiastici tra la fine del primo e l'inizio del II secolo, ben conoscendo la forma della croce, la utilizzano in vario modo, rappresentandola con la lettera T maiuscola dell'alfabeto, paragonandola ad oggetti composti da due bracci incrociati. Nelle catacombe si comincia a mettere la croce un po' ovunque. Quando Costantino permette il cristianesimo, i segni di croce fino a quel momento nascosti possono essere accompagnati anche dalla figura di Cristo. Dall'inizio del V secolo incomincia la raffigurazione del Cristo attaccato alla croce. Croce che nessuno mai disse essere un palo sino alla metà del secolo XX con i testimoni di Geova.
Concludo con un passo degli Atti di Andrea, del II secolo, dedicato alla croce:
"Una parte di te si eleva nei cieli, per designare il Verbo che è in alto; un'altra parte si spiega a destra e a sinistra, per mettere in rotta la potenza temibile dell'Avversario, e per riunire il mondo dell'unità; e una parte è piantata nella terra, per riunire le cose che sono sulla terra e quelle che sono negli inferi assieme a quelle che sono nei cieli [...] O croce, trofeo della vittoria di Cristo sui suoi nemici! O croce, piantata sulla terra, ma che porti il tuo frutto nei cieli; salute a te, che sei stata vestimento del Signore" (14).

BIBLIOGRAFIA:
M. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, Brescia, Paideia, 1988.
J. BLINZLER, Il processo di Gesù, Brescia, Paideia, 2001.
da: Fu un palo o una croce? Il supplizio della crocifissione