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mercoledì 29 agosto 2012

«l’unicità della vita umana proviene da un atto creativo»

Il Nobel Carlo Rubbia: 

«l’unicità della vita umana proviene da un atto creativo»

Il fisico Carlo Rubbia è il penultimo italiano ad aver vinto il Premio Nobel (1984), scienziato dotato di grande prestigio a livello internazionale, già direttore del CERN, dell’ENEA di Frascati, socio onorario dell’Accademia Nazionale dei Lincei, della National Academy of Sciences americana, della Royal Society, della Pontificia Accademia delle Scienze e di tante altre accademie.
Rubbia, assieme a Bombieri, è anche uno degli scienziati più disprezzati da Piergiorgio Odifreddi. Il motivo è semplice: «Carlo Rubbia mi pare che sia cattolico, Enrico Bombieri, medaglia Fields, è cattolico e va a messa», scrive a pag. 122 di “Perché Dio non esiste” (Aliberti 2010). Il Nobel italiano è in realtà uno dei grandi esempi di come un’altissima conoscenza scientifica possa contribuire ad una riflessione esistenziale molto profonda. Ha detto in passato, ad esempio: «Parlare di origine del mondo porta inevitabilmente a pensare alla creazione e, guardando la natura, si scopre che esiste un ordine troppo preciso che non può essere il risultato di un “caso”, di scontri tra “forze” come noi fisici continuiamo a sostenere. Ma credo che sia più evidente in noi che in altri l’esistenza di un ordine prestabilito nelle cose. Noi arriviamo a Dio percorrendo la strada della ragione, altri seguono la strada dell’irrazionale» (citato in C. Fiore, “Scienza e fede”, elledici, Leumann (TO) 1986, p. 23).
Poco prima di Natale ha partecipato ad un convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, guidata da un altro Premio Nobel, il biologo Werner Arber. Rubbia ha proposto una bellissima relazione intitolata dal quotidiano Liberal così: La vita sulla Terra ha un solo Padre. Citiamo alcuni passaggi: «Con alta precisione, oggi vediamo che il cosmo è straordinariamente unico, caratterizzato dal valore ½° =1. La natura dell’universo non è dunque casuale, essa è il risultato di un evento unico e straordinario, possibile solamente per questo valore [...]. Grazie a potentissimi anelli di collisione tra fasci di altissima energia, è possibile ripetere le fasi iniziali dell’evoluzione della materia cosmica, con la creazione nel laboratorio di tutta una serie di straordinari fenomeni che ci permettono di esplorare le condizioni dell’Universo fino a qualche miliardesimo di secondo dopo il big-bang. Anche a questi incredibili istanti, la creazione iniziale era già un fatto compiuto. L’uomo di scienza non può non sentirsi umile, commosso ed affascinato di fronte a questo immenso atto creativo, così perfetto e così immenso e generato nella sua integralità a tempi così brevi dall’inizio dello spazio e del tempo. Vanno ricordate le fasi successive di questa immensa trasformazione a partire dalla creazione fino al giorno d’oggi. L’universo si è evoluto in maniera unitaria e coerente, come se fosse un unico tutto. Ricordiamo a questo proposito le parole della Genesi, dove si dice: “Dio pose le costellazioni nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona”».
Rubbia passa poi a tratteggiare «un altro successivo immenso evento», ovvero «la creazione della vita [...] Una delle più importanti conquiste della scienza moderna è quella che le leggi della fisica e conseguentemente il comportamento della materia sono invarianti nello spazio e nel tempo. Esse sono dimostrabilmente le stesse a miliardi di anni luce da noi e miliardi di anni fa. Ciò è facilmente comprensibile se si pensa che oggi sappiamo che le leggi fondamentali della fisica sono state per così dire inscritte nelle proprietà “geometriche” dello spazio, ancorché vuoto e quindi prescindono dalla materia fisica in esso eventualmente contenuta. La materia che costituisce l’Universo quindi esprime per così dire il suo “libero arbitrio”, all’interno di strette regole definite apriori, che preesistono alla sua creazione e successiva evoluzione». Il Premio Nobel intende anche sfatare «un’impressione, e cioè il fatto che essendo senza dubbio la Terra solamente un pianeta su tanti possibili in cui condizioni idonee per la vita si sono realizzate, la probabilità di un tale evento sia necessariamente elevata: in realtà questo ragionamento non è valido. Anche se questo fosse un fenomeno unico nell’universo, per definizione esso è avvenuto sulla nostra terra». Tuttavia «è perfettamente concepibile che si costruisca pian piano, come del resto comprovato per gli elementi più semplici, da qualche parte nelle immensità dell’Universo anche la struttura chimica della prima cellula vivente. Va ricordato che nelle sue forme più elementari, tuttavia capaci di riprodursi, la vita abbisogna di un numero relativamente limitato, da alcune decine ad alcune centinaia di migliaia di atomi. Va inoltre ricordato che grazie alla presenza della forte affinità chimica, questo non è puramente una roulette, in quanto elementi più complessi (proteine) sono costruibili a partire da componenti, da “mattoni” più semplici, già pre-costituiti».
Il celebre fisico parla anche dell’evoluzione della vita, «fortemente influenzata dalle condizioni specifiche al nostro pianeta. Ad esempio le transizioni tra grandi periodi geologici, caratterizzati da forme profondamente diverse di vita, come ad esempio il Giurassico, il Cambiano ecc. sembrano essere state determinate da eventi catastrofici e dalle immense estinzioni delle specie prodotte. La fine dei dinosauri e il passaggio ai mammiferi fu un passo evolutivo importante, per cui fu determinante il cambiamento climatico, probabilmente conseguente all’impatto di una meteorite sulla penisola dello Yucatan e del conseguente temporaneo periodo di oscurità e di freddo durato alcuni anni con conseguente estinzione delle specie meno preparate a subire questo straordinario shock climatico, che apparentemente eliminò tutte le specie di dimensioni più grandi di alcuni centimetri e specialmente quelle al momento più evolute e quindi più fragili. È quindi evidente che su di un altro ipotetico pianeta, pur assumendo una simile “partenza” probabilistica, è completamente improbabile che la forma di vita risultante sia, per così dire, la copia-carbone di quella su terra. Tutto ciò depone a favore a due fatti importanti: che l’evoluzione della vita segue una linea precisa a partire molto probabilmente da un unico e singolo fatto iniziale, il primo DNA da cui è conseguita tutta l’evoluzione, motivata da tutta una serie di eventi esterni fa sì che essa abbia una grandissima specificità che rende probabilmente unica la vita su terra, come noi la intendiamo. Oggi sappiamo che l’uomo rappresenta uno degli ultimi anelli della vita. Ciononostante la struttura dettagliata del DNA umano è solo leggermente diversa da quella degli altri esseri viventi. È questa una differenza morfologicamente piccola in sé, ma enormemente diversa per quanto riguarda le sue conseguenze. L’uomo è quindi strutturalmente fondamentalmente diverso dalle altre specie animali conosciute. Ha caratteristiche che lo contraddistinguono profondamente e in maniera unica».
Il fisico conclude il suo intervento augurandosi che la scienza scopra l’esistenza di altra vita nell’immenso universo. «Ma la scoperta di una eventuale vita extra-terrestre, con tutte le somiglianze e diversità rispetto alla nostra», continua, «arricchiranno ancora di più l’unicità dell’uomo in tutti i suoi aspetti e ci aiuteranno a meglio percepire e apprezzare gli immensi patrimoni di umanità e di saggezza che abbiamo ricevuto e di cui dobbiamo fare il più prezioso utilizzo, così ben ricordato in quella meravigliosa immagine dell’uomo con il dito puntato verso il Creatore nel fantastico affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina».

Il prezzo che deve pagare la società per rimanere pienamente umana


 Il prezzo che deve pagare la 
società per rimanere pienamente umana 
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lunedì 27 agosto 2012

IL SENSO RELIGIOSO

 IL SENSO RELIGIOSO
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“Mi hanno rimproverato sempre il mio bisogno di assoluto, che d’altra parte appare nei miei personaggi. Questo bisogno attraversa come un alveo la mia vita, meglio, come una nostalgia di qualcosa cui mai sono arrivato (...) Io non ho potuto mai calmare la mia nostalgia, addomesticarla dicendomi che quell’armonia è esisitita un tempo nella mia infanzia; lo avrei voluto, ma non è stato così (...) la nostalgia è per me uno struggimento mai soddisfatto, il luogo che non sono mai riuscito a raggiungere. Ma è ciò che avremmo voluto essere, il nostro desiderio. È così vero che non si riesce a viverlo che potremmo credere perfino che risieda fuori della natura, se non fosse che qualsiasi essere umano porta in sè questa speranza di essere, questo sentimento di qualcosa che ci manca (...) La nostalgia di questo assoluto è come lo sfondo, invisibile, inconoscibile, ma con il quale confrontiamo tutta la vita”. 
Ernesto Sabato

EDITH STEIN: itinerario di conversione


EDITH STEIN:
itinerario di conversione

L’11 ottobre 1998 Giovanni Paolo II ha regalato una nuova santa alla Chiesa e all’umanità. È Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein.
Ha avuto un itinerario intellettuale e spirituale molto interessante, che ne fa una delle grandi figure di questo nostro secolo. Di famiglia ebrea, Edith era di intelligenza brillante (in famiglia la chiamavano “die kluge Edith” cioè Edith l’intelligente). All’età di 12 anni – racconta lei stessa – abbandona la fede “per affermarsi come essere autonomo”. A 21 anni si dichiara agnostica: “Mi sento incapace di credere all’esistenza di Dio”. Poi l’incontro con E. Husserl e la sua fenomenologia nell’Università di Gottinga. Edith sta lentamente cambiando. La sua ricerca appassionata della verità la vive come una intensa preghiera. Dirà lei stessa: “Lo studio è la mia preghiera”. Il suo itinerario spirituale si conclude a trent’anni con la conversione al cattolicesimo.
Tre “esperienze” o testimonianze sembrano essere state determinanti nel processo della sua conversione. La prima fu la visita ad Anne Reinach, la giovane vedova di un suo collega filosofo morto in guerra. Invitata dalla sua amica a casa per riordinare le carte e gli appunti del marito in vista di una pubblicazione, Edith si aspettava una donna in preda alla disperazione per una perdita così grave. Trovò invece Anne addolorata sì ma serena e sorridente: era sostenuta dalla fede. Scriverà Edith: “Fu il mio primo incontro con la Croce, la mia prima esperienza della forza divina che dalla Croce emana e si comunica a quelli che l’abbracciano...”.
Secondo quadro. Duomo di Friburgo, Edith con un gruppo di amici. Mentre sostavano in rispettoso silenzio, entrò una donna con la borsa della spesa, e si inginocchiò per una breve preghiera. Scrisse Edith: “Per me si trattava di una cosa assolutamente nuova. Nelle sinagoghe o nelle chiese protestanti che avevo visitato, si andava solo per il servizio divino.
Qui invece si veniva nella chiesa vuota, in mezzo alle quotidiane occupazioni di un giorno di lavoro, come per un intimo colloquio. È una cosa che non ho potuto dimenticare”.
Terzo episodio, decisivo, in casa di amici nell’estate del 1921. Una sera si recò alla biblioteca. Scrisse lei stessa: “Senza scegliere, presi il primo libro che mi capitò sotto mano: era un grosso volume che portava il titolo “Vita di S. Teresa scritta da lei medesima”. Ne cominciai la lettura e ne rimasi talmente presa che non l’interruppi fino alla fine. Quando lo chiusi, dovetti confessare a me stessa: “Questa è la verità”. Poco tempo dopo ricevette il battesimo, diventando cattolica.
Anne Reinach, la donna di Friburgo, Santa Teresa: tre donne che con la loro testimonianza hanno aiutato Edith nel suo itinerario spirituale.
                                                                                         
MARIO SCUDU

Il Sapone cattolico

 Il Sapone cattolico
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E' madre anche la Chiesa. Se è continuatrice di Cristo e Cristo è buono: anche la Chiesa deve essere buona; buona verso tutti; ma se per caso, qualche volta ci fossero nella Chiesa dei cattivi? Noi ce l'abbiamo, la mamma. Se la mamma è malata, se mia madre per caso diventasse zoppa, io le voglio più bene ancora. Lo stesso, nella Chiesa: se ci sono, e ci sono, dei difetti e delle mancanze, non deve mai venire meno il nostro affetto verso la Chiesa. Ieri - e finisco - mi hanno mandato il numero di « Città Nuova »: ho visto che hanno riportato, registrandolo, un mio brevissimo discorso, con un episodio. Un certo predicatore Mac Nabb, inglese, parlando ad Hyde Park, aveva parlato della Chiesa. Finito, uno domanda la parola e dice: belle parole le sue. Però io conosco qualche prete cattolico, che non è stato coi poveri e si è fatto ricco. Conosco anche dei coniugi cattolici che hanno tradito la loro moglie; non mi piace questa Chiesa fatta di peccatori. Il Padre ha detto: ha un po' ragione, ma posso fare un'obiezione? - Sentiamo - Dice: scusa, ma sbaglio oppure il colletto della tua camicia è un po' unto? - Dice: sì, lo riconosco. - Ma è unto, perché non hai adoperato il sapone, o perché hai adoperato il sapone e non è giovato a niente? No, dice, non ho adoperato il sapone. Ecco. Anche la Chiesa cattolica ha del sapone straordinario: vangelo, sacramenti, preghiera. Il vangelo letto e vissuto; i sacramenti celebrati nella dovuta maniera; la preghiera ben usata sarebbero un sapone meraviglioso capace di farci tutti santi. Non siamo tutti santi, perché non abbiamo adoperato abbastanza questo sapone. Vediamo di corrispondere alle speranze dei Papi, che hanno indetto e applicato il Concilio, Papa Giovanni, Papa Paolo. Cerchiamo di migliorare la Chiesa, diventando noi più buoni. Ciascuno di noi e tutta la Chiesa potrebbe recitare la preghiera ch'io sono solito recitare: Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri.
Io devo dire una parola anche ai nostri cari ammalati, che vedo lì. Lo sapete, Gesù ha detto: mi nascondo dietro a loro; quello che viene fatto a loro vien fatto a me. Quindi nelle loro persone noi veneriamo il Signore stesso e auguriamo che il Signore sia loro vicino, li aiuti, e li sostenga.
A destra invece ci sono gli sposi novelli. Hanno ricevuto un grande sacramento; facciamo voti che questo sacramento ricevuto sia veramente apportatore non solo di beni di questo mondo, ma più di grazie spirituali. Nel secolo scorso c'era in Francia Federico Ozanam, grande professore; insegnava alla Sorbona, ma eloquente, ma bravissimo! Suo amico era Lacordaire, il quale diceva: « E' così bravo, è così buono, si farà prete, diventerà un vescovone, questo qui! ». No! Ha incontrato una brava signorina, si sono sposati. Lacordaire c'è rimasto male, e ha detto: « Povero Ozanam! E' cascato anche lui nella trappola! ». Ma due anni dopo, Lacordaire venne a Roma, e fu ricevuto da Pio IX. « Venga, Padre, - dice - venga. Io ho sempre sentito dire che Gesù ha istituito sette sacramenti: adesso viene Lei, mi cambia le carte in tavola; mi dice che ha istituito sei sacramenti, e una trappola! No, Padre, il matrimonio non è una trappola, è un grande sacramento! ». Per questo facciamo di nuovo gli auguri a questi cari Sposi; che il Signore li benedica!
Giovanni Paolo I

© Copyright 1978 - Libreria Editrice Vaticana

L’errore più grande

L’errore più grande
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l'ha capito lui... lo capiranno loro?
Ormai prossimo alla sua fine, nell’isola di Sant’Elena, Napoleone fu intervistato da un giornalista francese. Alla domanda: «Se tornasse indietro, quale errore non rifarebbe», il grande persecutore della Chiesa rispose: «L’errore più grande che ho fatto è qualcosa a cui nessuno pensa. E cioè la pretesa di distruggere la Chiesa cattolica. Io credevo che la Chiesa fosse come una sorta di serpente, per cui, schiacciata la testa, sarebbe morta. E invece, più schiacciavo questa testa (l’allusione all’esilio di Pio VI e Pio VII è chiara), e più mi accorgevo che la Chiesa mi rinasceva tra le mani. Ho combattuto contro potentissimi eserciti, eppure non ho mai dubitato di combattere contro realtà limitate; ma combattendo contro la Chiesa, mi sono accorto di combattere non solo contro degli uomini!».
Prima di morire, Napoleone si riconciliò con la Chiesa, si confessò e riprese la pratica della Comunione.
Da Il timone, 2005

L’ULTIMA INTERVISTA DI PIER PAOLO PASOLINI

L’ULTIMA INTERVISTA 
DI PIER PAOLO PASOLINI
– Siamo tutti in pericolo
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Pier Paolo Pasolini

D – Pasolini, tu hai dato, nei tuoi scritti e nei tuoi articoli, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò “la situazione” e tu sai che con ciò intendo parlare della scena in cui, in generale, ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La “situazione”, con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito ed il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della “situazione”. Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi…
P – Si ho capito, ma io non solo lo tento quel pensiero, ma anche ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare ad un loro congresso). In grande un esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un fatto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. Eichman, caro mio, aveva una gran quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno, alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e l’acqua per i deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, la “situazione” e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. Ed in che modo.

D – Ecco, descrivi allora la “situazione”. Tu sai benissimo che i tuoi interventi ed il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella, ma si può anche vedere o capire poco.

P – Grazie per l’immagine del sole ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso o di dieci anni prima, e poi diciamo: ma strano che questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito, o è un criminale isolato, o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o uno per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione “Parigi brucia” tutti sono lì con le lacrime agli occhi ed una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita, (un frutto del tempo è che lava le cose come le facciate delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per scegliere. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e collabora (mettiamo alla televisione)
Sia per campare, sia perché non è mica un delitto. L’altro, o gli altri, i gruppi, ti vengono incontro o addosso con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi, e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e slogan, ma che cosa li separa dal “potere”?

D – Che cos’è il potere per te, dov’è, dove sta, come lo sani?

P – Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione e una manovra di borsa, uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso la spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

D – Ti hanno accusato di non distinguere politicamente ed ideologicamente, di aver perso il senso della differenza profonda che deve pur esserci tra fascisti e non fascisti, soprattutto tra i giovani.

P – Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dall’altra? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco dl genere. Ecco io vedo così le truppe di intellettuali, sociologi, esperti, giornalisti dalla intenzioni più nobili. Le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è più il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anche io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia. Con la vita che faccio ho già pagato un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno, se torno, ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.

D – E qual è la verità?

P – Mi dispiace aver usato questo termine. Volevo dire “evidenza”. Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: un’educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti nell’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In quest’arena siamo spinti come una strana e cupa armata con cannoni e spranghe. Allora una prima divisione, classica, è “stare con i più deboli”. Ma io dico che in un certo senso tutti sono deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

D – Allora, fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, ed hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema ed hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (in fatti hai in genere molto successo popolare, sei “consumato” avidamente dal tuo pubblico), ma anche di una macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?

P – A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, il mondo diventa nostro, e non dobbiamo usare né la borsa né i consigli di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano c’era il padrone turpe con il cilindro ed i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che con i suoi pargoli chiedeva giustizia. Il bel mondo di Brecht, insomma.

D – Come dire che hai nostalgia di quel mondo.

P – No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanto predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere di che segno sei. Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse, se ha qualche soffio di vita, a quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, poi lui o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la “situazione” È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, un’acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un gran fiume. Però per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del “cantando sotto la pioggia”. Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico non perdiamo tutto il tempo a mettere un’etichetta qui ed una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta acqua prima che restiamo tutti annegati.

D – E per questo tu vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici?

P – Detta così sarebbe una stupidaggine: ma la cosiddetta scuola dell’obbligo forma per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di sé stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà ispirarmi una delle prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione. Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato la “vita violenta”.
Non vi illudete. E voi siete con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di quest’ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere sul delitto la vostra bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano queste cose si trova la pace fabbricando scaffali.


D – Ma abolire vuol dire per forza creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine faranno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata nella sua visione di un mondo diverso non può essere più primitiva e se non vogliamo usare l’espressione più avanzata…

P – Che mi fa rabbrividire..

D – Se non vogliamo usare frasi fatte un’indicazione ci deve pur essere. Per esempio: nella fantascienza, come nel nazismo si bruciavano libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiuse le televisioni, come anima il suo presepe?

P – Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere nel mio linguaggio vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico, disperato, quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata, intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire. Signori questo è un cancro, non un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido o un disgraziato? Prima del cancro, dico. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici, e divento pazzo. Non sanno di che paese stanno parlando, sono lontani come la luna. E i letterati, i sociologi, gli esperti di ogni genere.

D – Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?

P – Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri ed i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.

D – Pasolini, se tu vedi la vita così non so se accetti questa domanda: come pensi di evitare il pericolo ed il rischio?

È diventato tardi, Pasolini non accende la luce ed è difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. “Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare, lascio le note che aggiungo per domattina”.
Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di P. P. Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.



(Intervista tratta da Tuttolibri, settimanale d'informazione edito da La Stampa, pubblicata l'8 novembre del 1975, a pagg. 3- 4. L'intervista è stata fatta da Furio Colombo.)


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venerdì 24 agosto 2012

EDUCAZIONE/ Carrón: una diversità umana contro il torpore.

Cronaca

EDUCAZIONE/ Carrón: una diversità umana contro il torpore. Bagnasco: una questione antropologica



Julián Carrón, Angelo Bagnasco


venerdì 19 marzo 2010

Ieri sera al Palasharp di Milano oltre 10.000 persone hanno accolto con molto calore l’intervento del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, S. Em. Card. Angelo Bagnasco, e del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julian Carron, sul tema “L’avventura Educativa”.
L’incontro, moderato da Roberto Fontolan, si è aperto con l’intervento di Mons. Mario Delpini, Vescovo ausiliare della Diocesi di Milano, che ha portato il saluto e il ringraziamento agli organizzatori dell’Arcivescovo di Milano, Card. Dionigi Tettamanzi, e da alcune interessanti testimonianze provenienti dal mondo della scuola, dell’università e del lavoro.




L’avventura educativa - Introduzione di Julián Carrón

«Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l’educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l’educazione, un’educazione che sia vera, cioè corrispondente all’umano» (L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 15).
Niente più di questa frase di don Luigi Giussani spiega in modo solare e definitivo come il carisma a lui donato trovi nell’educazione la sua dimensione più decisiva. La sua costante preoccupazione - che per grazia di Dio è divenuta anche la nostra - è stata quella di «educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto» (Il rischio educativo, pp. 15-16), cioè di evocarne e sostenerne l’apertura instancabile alla realtà, sospinta da quei desideri nativi e da quelle esigenze inestirpabili che ne costituiscono la stoffa, prima ancora di qualsiasi condizionamento culturale e sociale.

In questo momento storico, ancora una volta, la sfida più decisiva che ci incalza è proprio quella dell’educazione. Due anni fa il santo padre Benedetto XVI ha messo davanti a tutti i cristiani e agli uomini di buona volontà questa urgenza: «Educare [...] non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. [...] Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell'educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita» (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008).
Sta venendo dunque meno - è sotto gli occhi di tutti - la solidità dell’umano. Per certi versi, noi abbiamo vissuto della rendita di una tradizione. Adesso che il cristianesimo, la tradizione, è sempre meno incidente e che prevale tutt’altro, ci troviamo davanti a una paralisi, a una incapacità di interessarsi ad alcunché (lo sanno bene gli insegnanti che entrano in classe ogni giorno).

Con la sua dote profetica, don Giussani individuava già nel 1987 questa deriva, che oggi è dilagata: «È come se tutti i giovani [e adesso, possiamo dire, anche molti adulti] di oggi fossero tutti stati investiti dalle radiazioni di Chernobyl [da un’enorme esplosione nucleare]: l’organismo, strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso. Vi è stato come un plagio fisiologico operato dalla mentalità dominante» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 181, in corso di pubblicazione).

Questa mentalità provoca una estraneità a noi stessi, che rende astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi. La conseguenza è quel «misterioso torpore», di cui parlava tanti anni fa Pietro Citati (P. Citati, «Gli eterni adolescenti», la Repubblica, 2/8/1999, p. 1). Questo ci dice la profondità della crisi. Non è innanzitutto di natura morale, ma è una vera e propria crisi dell’umano.

A che cosa appellarsi, allora, per ripartire? Non possiamo fare appello alla tradizione, che per tanti è completamente sconosciuta o è gravemente frammentata in coloro in cui ne rimane traccia. L’unico appiglio che abbiamo è quello che nessun potere può distruggere e che rimane sotto tutte le possibili macerie: l’«esperienza elementare» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 8) dell’uomo, il suo cuore che contiene le esigenze costitutive di verità, di bellezza, di giustizia...
È qui dove il cristianesimo può, di nuovo, mostrare la sua verità e dare un contributo decisivo, proprio dove tutti gli altri stanno fallendo. Questo contributo sarà possibile solo se l’attuale circostanza storica - così difficoltosa - verrà affrontata come una grande avventura, come una opportunità per una nuova autocoscienza della natura del cristianesimo. Infatti, una fede ridotta a etica o a spiritualismo (a questo è stato ridotto il cristianesimo dalla modernità) non è in grado di rispondere alla sfida. La storia lo ha ampiamente documentato. Solo un cristianesimo che si presenta secondo la sua vera natura, cioè quella di “fatto storico” che si documenta in una diversità umana, può essere in grado di dare un vero contributo a questa situazione problematica.

E allora, «dove si può ritrovare […] la persona?» si domandava don Giussani. «Quella che sto per dare non è una risposta alla situazione in cui versiamo […]; è una regola, una legge universale da quando l’uomo c’è: la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un’attrattiva, […] vale a dire provoca al fatto che il cuore nostro, con quello di cui è costituito, con le esigenze che lo costituiscono, c’è, esiste». È una presenza che muove, che produce uno sconvolgimento carico di ragionevolezza, una sommossa del nostro cuore. Quella presenza fa ritrovare l’originalità della propria vita, cioè «una corrispondenza alla vita secondo la totalità delle sue dimensioni. Insomma, la persona si ritrova quando si fa largo in essa una presenza - questa è la prima evidenza - che corrisponde alla natura della vita, e così l’uomo non è più nella solitudine » (L’io rinasce in un incontro, p. 1834).
Due sono allora i fattori di una rinascita dell’esperienza educativa.
In primo luogo, la consapevolezza del metodo. L’unica cosa in grado di svegliare l’io dal suo torpore, non è una organizzazione o un richiamo etico più accanito, ma l’imbattersi in una diversità umana. Perché questo possa accadere occorrono - ed è il secondo fattore indispensabile - degli adulti che incarnino nella loro vita una «risposta plausibile» (così la definiva a Genova Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco, nell’omelia alla Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani, Genova, 23 febbraio 2010), che possa offrirsi agli altri. Si tratta di una straordinaria possibilità di verifica: partecipando all’avventura educativa, cercando cioè di introdurre altri uomini alla totalità del reale, viene a galla senza possibilità di astrazioni se noi per primi partecipiamo all’avventura della conoscenza. Don Giussani ci ha sempre detto che la forma dell’educazione è la «comunicazione di sé» (L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Società Editrice Internazionale, Torino 1995, p. 172), cioè del proprio modo di rapportasi con la realtà; perciò noi possiamo educare solo se per primi accettiamo la sfida del reale, comprese le paure, le difficoltà, le obiezioni. Proprio questo mostrerà a tutti la portata della fede come risposta alle esigenze di un uomo ragionevole del nostro tempo. E renderà per ciascuno di noi entusiasmante e carica di speranza l’avventura educativa.

Attraverso l’incontro di questa sera vorremmo, dunque, corrispondere alla preoccupazione educativa della Chiesa italiana, riecheggiata anche di recente nelle parole del nostro arcivescovo Dionigi Tettamanzi (durante la Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani): «Il giudizio cristiano sulla realtà, la formazione della coscienza secondo la fede cristiana si pone come fondamento e forza di quell’impegno educativo che rappresenta senza alcun dubbio, come spesso ripete il Santo Padre, una delle attuali priorità pastorali della Chiesa. I Vescovi italiani intendono raccogliere questa sfida e la presentano come decisiva per il prossimo decennio pastorale. Penso che l’insegnamento, la vita, le opere di don Giussani abbiano al riguardo ancora tanto da offrire alle nostre comunità» (D. Tettamanzi, «Un’eredità spirituale e pastorale da vivere», Omelia alla Messa nel V anniversario della morte di Luigi Giussani, Milano, 22 febbraio 2010).

Strappare l’uomo dal torpore, richiamarlo all’essere: questo è il livello elementare e decisivo dell’educazione. E questo è davvero possibile, come esito, solo se accettiamo e diventa nostro lo sguardo di Cristo sulla realtà: «Dio si dà, dà se stesso all’uomo. E Dio cos’è? La sorgente dell’essere. Dio dà all’uomo l’essere: dà all’uomo di essere; dà all’uomo di essere di più, di crescere; dà all’uomo di essere completamente se stesso, di crescere fino alla sua compiutezza, cioè dona all’uomo di essere felice» (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 327).


L’avventura educativa - lezione del card. Angelo Bagnasco
Istanze educative e questione antropologica

0. Premessa

Sono lieto di essere qui con voi per parlare di qualcosa che non solo ci sta a cuore, ma che sentiamo essere parte del nostro essere persone e credenti. Cioè del nostro essere discepoli del Maestro – il Signore Gesù – che non cessa di educare ad una umanità nuova e piena. Egli continua a parlare all’intelligenza e a scaldare il cuore di coloro che si aprono alla sua verità e al suo amore e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della novità del Vangelo e così annunciare a tutti la gioia e il fascino di un incontro che cambia la vita e che fa fiorire l’umano. La Chiesa continua l’opera del suo Signore, e la sua storia bimillenaria è un intreccio di evangelizzazione e di educazione: annunciare la persona di Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’uomo e quindi creare cultura e civiltà. A volte, a fronte di tante situazioni di violenza vecchie e nuove, al mondo ancora così lacerato da squilibri e ingiustizie, o a forme di involuzione culturale, potremmo chiederci: quanto ha inciso il Cristianesimo nell’elevazione dell’umanità, quanto efficace è stata ed è la predicazione della fede? Potremmo risponderci: e che cosa sarebbe stato e sarebbe il mondo senza il Vangelo di Cristo? Senza la presenza della Chiesa con i suoi sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici, i gruppi, le associazioni, i movimenti, le istituzioni di carità e di promozione, di ascolto? Senza il vortice di continua preghiera che si eleva a Dio da ogni parte della terra da secoli e che eleva i cuori di moltitudini, rende la coscienza migliore, la rafforza contro il male? Senza quella rete sterminata di piccole luci che rendono l’universo più luminoso? E dove sarebbe quel popolo immenso sparso sino ai confini della terra fatto di persone umili e buone che fanno la storia vera – quella del bene – con la loro vita riferita a Cristo? Conosciamo i limiti e gli errori della condizione umana, ma ciò non può oscurare l’esperienza secolare della comunità cristiana.
  
I Vescovi italiani hanno scelto, come Orientamenti Pastorali per il decennio appena iniziato, proprio la sfida educativa: responsabilità e grazia! Grazia perché significa continuare a “comunicare il vangelo in un mondo che cambia”, e significa declinarlo nella dimensione specifica dell’educazione. Responsabilità perché se educare mai è stato facile, oggi si tratta di accettare la sfida che viene dalla complessità spesso contraddittoria della cultura e della società. Il Santo Padre Benedetto XVI non solo ci esorta a questo con il limpido e puntuale Magistero, ma ci precede sulla via educativa del popolo di Dio, avendo chiaramente nello sguardo e nel cuore ogni uomo, poiché l’umanità piena che si rivela in Gesù, e in Lui si incontra, non esclude nessuno.

La felice espressione “emergenza educativa”, divenuta tanto familiare in questi ultimi tempi dentro e fuori della Chiesa, può risultare particolarmente arricchita se la si legge con un occhio attento alla lezione di un grande filosofo e teologo dell’ottocento italiano, il beato Antonio Rosmini. La sua prospettiva mi sembra vada ad incrociare punti cruciali emergenti nell’attuale contesto culturale e pastorale. 

E per cogliere tutta la portata del contributo positivo che può venirci dalla prospettiva rosminiana, e che va nella direzione di un arricchimento del senso che all’ “emergenza educativa” ha voluto dare lo stesso Benedetto XVI, torna utile ricordare che le “emergenze”, per loro natura, non fanno parte della vita ordinaria e della storia quotidiana delle persone; esse irrompono tanto improvvise quanto inattese. Mentre né inattesa né improvvisa può essere ritenuta l’esigenza di educare e di educarsi, dal momento che, come scrive il Rosmini, «l’educazione è un affare gravissimo» (Dell’educazione cristiana, Città Nuova ed., Roma 1994, p.47), nel senso di “affare di grande portata”, per il fatto che essa mira a «rendere l’uomo stesso buono con riguardo a tutte le circostanze nelle quali si trova; [rendere l’uomo] capace di usare di esse, e di tutti gli altri mezzi al vero vantaggio di sé e d’altri; e [renderlo] così autore del proprio bene e specialmente della propria virtù e della propria felicità» (Idem, Scritti vari di metodo e di pedagogia, Unione Tipografica Ed., Torino 1883, p.499). E questo, aggiunge Rosmini, appartiene ad ogni uomo, in ogni fase della sua vita, dal momento che a tutti gli uomini è chiesto spendersi per realizzare il bene.

In altri termini, se è vero che la società contemporanea è attraversata sempre più da deficit preoccupanti di “buona educazione”, è anche vero che una risposta efficace non può venire da una comunità che si limita ad affrontare questo deficit come se si trattasse di una “emergenza” piuttosto che di un “compito” quotidiano.

E, a richiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano, non sono circostanze episodiche, seppure preoccupanti né il moltiplicarsi dei segnali di cattiva o inesistente educazione. A chiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano è la natura stessa dell’uomo. Tanto che non è affatto azzardato affermare che la “questione pedagogica” (o se si vuole, l’emergenza educativa) va di pari passo con la “questione antropologica”.

Le circostanze che fecero da sfondo alle pagine pedagogiche del nostro Autore presentano forti analogie con quelle odierne, che stanno chiamando a raccolta le energie più sensibili intorno all’emergenza educativa e, tra queste, la stessa Chiesa italiana.

È noto l’enorme dispendio di energie messo in campo sia dall’Illuminismo sia dal Liberalismo di fine Settecento inizi Ottocento. Sia l’uno che l’altro non tralasciarono il ricorso a strumenti di propaganda e di formazione che facevano coincidere la razionalizzazione delle attività lavorative e il miglioramento della qualità della vita con un deciso e progressivo allontanamento dalla religione e dall’etica cristiana. La conseguenza più immediata dell’offensiva illuministico-liberale si presentò subito con i caratteri di una evidente frattura tra cristianesimo e società civile e politica, aprendo per la Chiesa un nuovo ed inedito fronte missionario.

Rosmini, di fronte a questa situazione, non veste né i panni del rinunciatario né quelli dell’ottuso oppositore: la validità della sua impostazione – “apologetica”, nel senso più alto della parola - trova fondamento nello stretto legame tra filosofia, antropologia, pedagogia; legame che, a sua volta, garantisce la consequenzialità tra pensiero teologico ed istanze etiche, politiche e di natura giuridica.

In questo quadro, l’educazione della persona non si presenta affatto come un compito marginale o comunque da invocare in momenti di “emergenza”, quanto piuttosto come la prosecuzione del “governo divino del mondo” «con cui ordinando e disponendo gli avvenimenti (Dio) educò il genere umano e l’educa di continuo» (Idem, Sistema filosofico, n. 244).

MARIA, MAESTRA DI LIBERTA VERA IN UN'EPOCA DI LIBERTA INGANNEVOLE


Relazione di Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. Angelo COMASTRI, Prelato di Loreto
Vicepresidente della Pontificia Accademia dell'Immacolata


 
1. Lo smarrimento della libertà
 
Così un giorno si espresse Martino Heidegger (1889‑1976): "Nessuna epoca ha saputo meno della nostra, che cosa sia l'uomo!".
Questa è la più insidiosa povertà del nostro tempo: viviamo in una società che ha smarrito il senso della vita al punto tale che neppure lo cerca più. E la libertà, di conseguenza, oggi si muove come una forza cieca che non vede un orizzonte e non ha una meta alta da raggiungere. È il dramma dell'attuale momento! Desidero offrirvi una veloce carrellata di significative testimonianze, che fotografano efficacemente il clima culturale, nel quale siamo chiamati a dare la testimonianza della nostra fede.
Già nel 1845 Sören Kierkegaard (1813‑1855), come un'antenna straordinariamente sensibile, colse un diffuso atteggiamento di banalizzazione della vita con tutte le conseguenze che ciò comporta per l'orientamento della libertà umana. Scrisse il filosofo danese: "La nave (che è un'immagine della società) ormai è in mano al cuoco di bordo; e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta (che non interessa più a nessuno), ma quel che si mangerà domani". Kierkegaard percepì che si stava diffondendo l'idolatria del banale.
Passarono pochi decenni e Federico Nietzsche (1844‑1900), nella "Gaia scienza", scrisse testualmente: "Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno, ancora per millenni, caverne nelle quali si additerà l'ombra di Dio. E noi dobbiamo vincere anche la sua ombra". Sono parole tristemente lucide, che testimoniano un orientamento presente nel moderno pensiero occidentale. A onor del vero, tuttavia, dobbiamo riconoscere che, nella stessa opera, Nietzsche al frammento 125 scrisse: "Avete sentito di quell'uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: 'Cerco Dio! Cerco Dio!'. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. 'Si è forse perduto?' disse uno. 'Si è perduto come un bambino?, fece un altro. 'Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? E' emigrato?', gridavano e ridevano in una grande confusione. L'uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: 'Dove se n'è andato Dio? ‑ gridò ‑ Ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini. Ma come abbiamo potuto fare questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci diede la spugna per strusciare via l'intero orizzonte? Che cosa mai abbiamo fatto sciogliendo questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Lontano da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, a tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini. Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli! Chi detergerà per noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi questa azione?'". In questi interrogativi trasuda la nostalgia di Dio nel momento stesso in cui viene celebrata la Sua presunta eclissi definitiva.
Franz Kafka (1883‑1924), all'inizio del '900, dà voce alla stessa dolorosa percezione che il tempo sta diventando vuoto. Egli dichiara con impressionante lucidità: "Anch'io, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravità, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l'ho ancora questo centro di gravità, ma, in un certo qual modo, non c'è più il corpo relativo". Cioè: sono condannato a cercare ciò che non c'è, perché il tempo è vuoto! Situazione tragica dell'uomo contemporaneo!
E Thomas Eliot (1888‑1965) nel settimo dei Cori de "La Rocca" (opera scritta nel 1934) dà questa fotografia del nostro tempo: "Gli uomini hanno dimenticato tutti gli dèi, salvo l'usura, la lussuria e il potere". Il tempo, cioè, è diventato corrotto e pieno di idoli! A questo punto appare più che comprensibile l'amara conclusione di J. P. Sartre (1905‑1980): "L'uomo è una passione inutile", alla quale fanno eco le parole di Jean Rostand, che, nel 1962, nella sua opera "L'homme", dichiara: "L'uomo è un atomo ridicolo, sperduto nel cosmo inerte e smisurato; e la sua febbrile attività è soltanto un piccolo fenomeno locale, effimero, senza significato e senza scopo".
Ma ‑ fatto paradossale ed inquietante ‑ mentre l'uomo teorizza sull'inutilità della sua vita e del suo tempo, cresce il bagaglio del suo potere a motivo del veloce progresso scientifico e tecnico. Riflettendo su questa pericolosa situazione, nel 1952, alla consegna del Premio Nobel per la Pace, Albert Schweitzer coraggiosamente dichiarò: "Esorto il mondo ad osare di guardare in faccia la realtà. L'uomo è divenuto un superuomo riguardo al potere. Ma ‑ ecco il fatto incredibile! ‑ più cresce il potere dell'uomo e più l'uomo diventa un pover'uomo. Le nostre coscienze non possono non essere scosse da questa considerazione: più cresciamo e diventiamo superuomini, più siamo disumani".
In epoca ancora più vicina a noi Pier Paolo Pasolini, intervistato da Furio Colombo poco tempo prima della sua tragica morte nel 1975, diede questa fotografia dell'attuale società: "Oggi si riceve una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l'arena dell'avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno le spranghe... Tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L'educazione avuta è stata: avere, possedere, distruggere" (Tuttolibri, 1975). E, con lucidità sanguinante, arrivò a dichiarare "Io scendo nell'inferno. Ma state attenti: l'inferno sta salendo da voi. Il bisogno di dare la stangata, di aggredire, di uccidere, è forte e generale. Non resterà per tanto tempo l'esperienza privata e rischiosa di chi ha (come dire?) toccato la 'vita violenta’ " (Tuttolibri, 1975).
Hans Jonas (1903‑1993), profondamente turbato dal vuoto spirituale dell'uomo contemporaneo, giustamente ammoniva: "Io tremo davanti a questa situazione: oggi il massimo potere si unisce al massimo vuoto; e il massimo di capacità va insieme al minino sapere intorno agli scopi ultimi della vita".
Intanto, nei nostri giorni possiamo raccogliere nuove affermazioni, che ritornano a teorizzare sul tempo vuoto.
Su "Repubblica" del 24 gennaio 1996, Eugenio Scalfari confida: "Personalmente non credo che il ruolo della specie alla quale io appartengo sia superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri". Ci pensate!?
Ma Indro Montanelli, nel "Corriere della Sera" del 23 gennaio, aveva candidamente confessato: "A me la mancanza di fede dà una profonda malinconia. Sento che mi manca la cosa più importante, quella che renderebbe secondarie tutte le altre, compresa la stessa vita".
E, sempre sul "Corriere della Sera", il 28 febbraio 1996 Montanelli onestamente dichiarava: "Se devo chiudere gli occhi senza aver saputo da dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli".
Possiamo concludere questa rassegna di voci con alcune recentissime riflessioni di Marcello Veneziani (dal libro: L'Antinovecento):
"Il secolo XX può essere indicato come il secolo in cui crebbe e tramontò il mito dell'uomo nuovo. [...] Il pensiero di Nietzsche, di Marx e di Comte, ovvero il mito del Superuomo, della nuova umanità rigenerata dalla rivoluzione o dalla scienza attraverso la tecnica, sono come bombe a orologeria seminate nell'800 ed esplose poi nel nostro secolo. [...] Il Novecento ha prodotto e consumato storia e ideologie più di ogni altro secolo. Anzi, per dir meglio, il XX secolo ha consumato, demolito e perfino demonizzato, nella sua seconda metà, quel che ha prodotto, creduto e adorato nella sua prima metà. [ ... ] L'uomo nuovo uccise dunque l'uomo tradizionale, per dissolversi a sua volta nel disincanto nichilista di fine millennio [ ... I. A fine secolo sì può quindi osservare questo fenomeno: l'uomo del XX secolo si va definendo non per quel che è, ma per quel che è stato. Non è un caso che oggi trionfi il prefisso "post ": l'uomo di fine millennio si definisce infatti postmoderno e postcristiano. [ ... ] Quella promessa dell'uomo nuovo non è stata mantenuta, e adesso, alla fine del Ventesimo secolo, non viviamo nella città nuova sognata nella prima metà del secolo, ma nel repertorio dei suoi detriti, tra le rovine di una città che non fu mai fondata". Noi siamo chiamati a raccontare il Vangelo, cioè Gesù, a questa società.
 
 
2. La radice dello smarrimento
 
In questo scenario letteralmente occidentale (cioè da "tramonto", perché "occidente" vuole dire terra del tramonto del sole) brilla ancora più forte e affascinante la luce della fede: essa ci svela il senso della vita e, conseguentemente, accende una lampada davanti alla nostra libertà.
La fede, innanzi tutto, dando forza all'evidenza, dice che Dio ha creato l'uomo e la donna per puro amore (quale altro scopo poteva avere Dio?) e li ha collocati nella festa della creazione, la quale oggi, a motivo delle straordinarie scoperte scientifiche, ci appare sempre di più come uno scenario di divina sproporzione e di divina fantasia: la galassia ‑ soltanto per fare un esempio ‑ nella quale si trova il sistema solare con il nostro piccolo pianeta ha un diametro di 100.000 anni luce, pari a un miliardo di miliardi di miliardi di chilometri! E la nostra galassia è un angolo dell'universo!
Viene subito la domanda: perché Dio ha creato l'uomo? La risposta della fede è stupendamente semplice, ma anche meravigliosamente rispondente a ciò che la ragione umana cerca e intuisce: Dio ha creato l'uomo, affinché possa, con la sua libertà, firmare l'innata relazione con Dio e così possa aprirsi ad un abbraccio di amore con Lui, che è la sorgente della festa e di ogni festa. Un carcerato romano nel 1970 mi consegnò uno scritto, nel quale mi sembra che sia espresso in modo luminoso questo primo gradino di lettura della vita umana. Egli si esprime così:
 
"In un momento di verità,
in un coraggio di verità,
ho capito chi sono:
io sono il vuoto!
 
La mia vita è desiderio,
è ricerca,
è attesa,
è vuoto:
vuoto di felicità.
Ma quale felicità?
 
Il mosaico dei pezzetti di gioia
che la vita mi regala
è sempre incompleto:
manca sempre una tessera
al volto della felicità!
 
Intanto affannosamente io cerco,
aspetto ......,
mentre tutto il mio corpo ha i brividi
per la febbre di un amore eterno.
 
Io voglio una felicità
ma eterna,
senza fine,
senza noia:
il tutto io cerco.
 
I profeti della terra,
dell'uomo pornografico
mi insultano e mi deridono
in questa sete di verità.
 
Mi rispondono: 'Sciocco!
Godi il momento. Esiste Dio, ne sei sicuro?
In fin dei conti, può esistere Dio?
E' una sfida. Lo so.
L'accetto!
 
E rispondo:
Amico, scendi; scendi dal carrozzone dei rifiuti
e della cenere.
Guarda per un momento il mondo
con me:
il mondo in cui unicamente tu credi.
Guarda!
 
Se l'uccello ha le ali...,
deve esistere un cielo per lui.
Se l'anatra ha l'istinto di nuotare...,
come potrebbe avere questa scienza infusa del nuoto
se non ci fosse l'acqua per lei?
Se l'ape è meravigliosamente attrezzata
per produrre il miele,
debbono esistere i fiori
e deve esistere il polline nei fiori:
altrimenti tutto sarebbe una beffa!
 
Guarda!
 
Tu hai un occhio impressionabile alla luce...
come può non esistere la luce?
 
Deve esistere.
Deve.
 
Se non esistesse, tutto sarebbe assurdo.
Ma se esiste....,
allora, amico, accetta tutte le conseguenze.
 
Ebbene:
il cielo,
l'acqua,
i fiori,
la luce...
esistono! Esistono!
 
Possibile, amico mio, che solo a te e a me
mancherà ciò per cui sentiamo di esistere?
 
Possibile che solo a noi
mancherà la luce
per la caverna insaziabile
della nostra anima?
 
Solo per noi la
legge della vita si dovrebbe infrangere
in una delusione
tragica,
peccaminosa?
 
Sì, peccaminosa!
Perché sarebbe il più grande peccato
il peccato dell'assurdo –
l'esistenza di un uomo
fatto per l'infinito
se l'infinito non esistesse!
 
Amico ‑ ascoltami! - e il mio cuore
che mi parla di Dio!
E dal di dentro
che sento la voce potente:
Dio c'è!
 
Dio esiste, perché esisto io
che di Dio ho bisogno!
Sono io,
pozzo arido e
screpolato dalla delusione
delle acque vaporose della vita
che provo l'esistenza di Dio.
Il mio cuore Lo aspetta...,
dunque Dio esiste!
Esiste!
 
Non posso ora fratello mio,
fratello di ansia e di ricerca,
non posso tacere!
 
Permettimi che inondato
dall'ebbrezza di questa scoperta
io canti pazzo di gioia!
Canto e cammino.
 
Non riesco più a fermarmi
per le strade del mondo.
Non posso più fermarmi
tra queste cose pallide di gioia.
È il tramonto del mondo, lo capisco.
Ma io ringrazio il mondo perché mi delude.
Perché solo così io comprendo la verità
che mi libera il cuore:
terra tu non sei Dio!
 
Grazie! Cerco altrove!".
 
La Bibbia, però, ci riferisce che la libertà dell'uomo ha clamorosamente rinnegato la gravitazione verso Dio, introducendo nel mondo la novità deleteria del peccato, che ha scoperto l'uomo nella sua "nudità": "Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi" (Gen 3,7); e, da allora, l'uomo è continuamente costretto a riconoscere:
 
"Siamo diventati tutti come cosa impura
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia:
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento"
(Is 64,5).
 
Inesorabilmente il peccato dell'uomo si è ripercosso su tutto il creato. Infatti, il peccato, facendo saltare la relazione fondamentale con Dio, fa saltare l'armonia  di ogni altro rapporto: dell'uomo con se stesso, dell'uomo con i suoi fratelli, dell'uomo con il cosmo. Il mondo e la storia, ormai, portano non solo il segno luminoso del Creatore, ma anche il segno tenebroso della libertà umana diventata peccato: mondo e storia, dopo il peccato dell'uomo, non sono più come Dio li aveva pensati e creati.
Ma, allora, non c'è più speranza? Dobbiamo rassegnarci inermi al dilagare del peccato? No, la Bibbia ci dice che, se il peccato allontana l'uomo da Dio, non allontana Dio dall'uomo: dopo il peccato Dio continua ad amare l'uomo e Dio‑creatore diventa Dio‑redentore.
Poche ma sublimi parole fanno subito spuntare un inatteso raggio di luce, che illumina il mistero di Dio:
 
"Io porrò inimicizia tra te e la donna,
tra la tua discendenza
e la sua discendenza:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno" (Gen 3,15).
 
Siamo tutti desiderosi di sapere quale sarà il meriggio di questa timida aurora di speranza: Chi è la donna? Chi è la discendenza della donna?
 
 
3. Dio va alla ricerca dell'uomo
 
Intanto la Bibbia, dopo aver raccontato che il peccato, partendo dal cuore dell'uomo, ha invaso e devastato la storia e il cosmo (Gen 1 ‑ 11),  racconta che Dio va a bussare alla porta del cuore di un uomo: Abramo. E' sorprendente questo Dio. Avrebbe tutto il diritto di sentirsi amaramente e irreversibilmente deluso dall'uomo e, invece, va ancora a cercare l'uomo rinnovandogli affetto e fiducia. Dio è così. Ed è importantissimo sottolineare questo aspetto del comportamento di Dio nella storia, perché esso è rivelazione di Dio.
Anche nella chiamata di Mosè (Es 3,1‑12) riaffiora lo stesso inconfondibile stile di Dio. Egli dice a Mosè: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto, ho udito il suo grido...., conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo" (Es 3,7‑8). A queste impegnative parole, Mosè avrebbe potuto rispondere: "Finalmente, Signore! È questo ciò che io aspettavo e desideravo fin dagli anni della mia giovinezza. Quanto sono felice, che tu, finalmente, scenda a liberare il mio popolo". Ma il Signore spiazza completamente il povero Mosè e dice: "Ora va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!'' (Es 3, 10). Mosè, come avrebbe fatto ogni altra persona al suo posto, sussume e ragionevolmente osserva: "Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?" (Es 3,11). Ma la risposta di Dio è categorica: Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte" (Es 31,12).
Perché Dio si comporta così? C'è una sola risposta: Dio si comporta così, perché Dio cerca la collaborazione dell'uomo per arrivare a far sbocciare, dentro la storia umana, la Donna dalla quale nascerà la Discendenza capace di schiacciare la testa del serpente.
Intanto, mentre Dio chiama l'uomo alla collaborazione, viene fuori un altro sorprendente aspetto del suo mistero: Dio può coinvolgere l'uomo nella misura in cui l'uomo si presenta nella verità della sua povertà, della sua piccolezza, della sua umiltà.
Infatti ‑ e questo appare chiaramente nella Bibbia ‑ solo gli umili sono capaci di aprirsi a Dio e di farsi condurre da Lui che, nel Salmo 68, significativamente arriva a definirsi: "padre degli orfani e difensore delle vedove".
Quando Dio chiama Abramo, promettendogli di far nascere da lui un grande popolo (Gen 12,2), egli è un "vecchio" e sua moglie Sara è "anziana e sterile". La situazione è paradossale. Ma Dio sceglie proprio questa situazione. Racconta la Bibbia, con un candore misto di semplicità e di ilarità: "Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abramo in visione: 'Non temere, Abram. Io sono il tuo Scudo; la tua ricompensa sarà molto grande'. Rispose Abram: 'Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Eliezer di Damasco'. Soggiunse Abram: 'Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede'. Ed ecco gli fu rivolta questa parola del Signore: 'Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede'. Poi lo condusse fuori e gli disse: 'Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle' e soggiunse: 'Tale sarà la tua discendenza'. Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia " (Gen 15,1‑6).
Abramo è davanti al cielo pieno di stelle, con una promessa più grande delle stelle. È questo il paradosso della fede, è questa la sfida del povero che si appoggia totalmente a Dio, è questa la via vincente di Dio in mezzo al fatiscente orgoglio degli uomini.
In Giacobbe si ripropone lo stesso stile di Dio: Giacobbe, infatti, incontra Dio proprio quando si trova solo, fuggiasco, senza difese e sicurezze, fuori della cerchia protettiva del clan, nel buio pericoloso della notte. La Bibbia puntualmente registra questo momento per consolare i poveri di tutti i momenti:
"Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: 'Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra. Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t'ho detto'. Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: 'Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo'. Ebbe timore e disse: 'Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo!'. Alla mattina presto Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità" (Gen 28, 10‑18).
E una pagina sublime! Giacobbe è un povero e la sua povertà fiorisce in esperienza di Dio: così è stato e così sarà sempre.
Giacobbe ha sperimentato la "palude" della paura, ha sentito la desolazione dello sfinimento, ha provato l'amarezza della solitudine. Ma in questa situazione di "limite", il cuore di Giacobbe ha gioito davanti ad una impensabile sorpresa: la sorpresa di trovarsi Dio "accanto"!
E Giacobbe, giunto, al termine della sua lunga vita, mentre si trova in Egitto insieme ai suoi figli compie un gesto che profuma di Vangelo. Egli ormai ha capito lo stile di Dio, ha capito la preferenza di Dio e vuole farla diventare norma della sua vita. Racconta il libro della Genesi: "Poi Israele vide i figli di Giuseppe e disse: 'Chi sono questi?'. Giuseppe disse al padre: 'Sono i figli che Dio mi ha dati qui'. Riprese: 'Portameli perché io li benedica!'. Ora gli occhi di Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere. Giuseppe li avvicinò a lui, che li baciò e li abbracciò. Israele disse a Giuseppe: 'Io non pensavo più di vedere la tua faccia ed ecco, Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!'. Allora Giuseppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. Poi li prese tutti e due, Efraim con la sua destra, alla sinistra di Israele, e Manasse con la sua sinistra, alla destra di Israele, e li avvicinò a lui. Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito" (Gen 48, 8‑14). Giuseppe si meraviglia per il gesto imprevisto dell'anziano padre e gli fa notare che ha sbagliato la posizione delle mani e, con l'intenzione di aiutarlo, "prese la mano del padre per toglierla dal capo di Efraim e porla sul capo di Manasse" (Gen 48, 17). Ma Giacobbe rifiuta l'intervento di Giuseppe, perché egli ormai ha imparato la lezione: Giacobbe sa che Dio preferisce i piccoli, i secondi, coloro che non peccano d'orgoglio.
E così sarà sempre. In Isaia troviamo questa domanda di Dio: "Su chi volgerò lo sguardo?"; e questa nitida risposta di Dio: "Sull'umile!" (Is 66, 2). A questo punto possiamo leggere la pagina dell'Annunciazione e capire il criterio della scelta di Dio e l'humus nel quale è sbocciata la libera risposta di Maria.
 
 
4. Maria: la libertà che dice "sì!"
 
"Quando venne la pienezza del tempo (oτε δε ηλθεv τo πληρωμα τoυ χρovoυ) (ote de èlthen to pléroma tu kronu) scrive l'apostolo Paolo ai Galati — Dio mandò il Suo Figlio (εξαπεστειλαμεv o θεoσ τov υιov αυτoυ) (Gal 4,4).
È legittimo chiedersi: che cos'è la pienezza del tempo? Alcuni pensano che la pienezza del tempo sia il momento giusto, l'epoca più opportuna, il tempo più favorevole per la venuta del Figlio di Dio in mezzo a noi. Però, se andiamo a scrutare i tempi di Gesù, noi restiamo sconcertati: a Roma comandava Ottaviano Augusto, che aveva conquistato il potere attraverso una guerra civile crudelissima e attraverso l'eliminazione di tutti i suoi avversari; a Gerusalemme regnava Erode, che era un tiranno infame con le mani macchiate di sangue (anche del sangue di suo figlio!) e con la vita affogata in una stomachevole lussuria. Altro che pienezza del tempo!
Eppure la Scrittura afferma categoricamente: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Suo Figlio" (Gal 4, 4). Cos'è, allora, la pienezza del tempo? Non è il tempo favorevole dalla parte degli uomini, ma è il tempo favorevole dalla parte di Dio: cioè è il momento nel quale Dio non ha potuto più resistere ed è esploso in un gesto d'amore che, ancora oggi, ci fa piangere di commozione.
Sì ‑ dichiara l'evangelista Giovanni "Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio"(Ουτoσ γαρ ηγαπησεv o θεoσ τov κoσμov, ωστε τov υιov αυτoυ τov μovoγεvη εδωκεv) (Utos gar egàpesen o theos ton kosmon, oste ton uion ton monoghenè èdoken), così Dio ha amato il mondo che ha dato il Suo Figlio unigenito)" (Gv 3, 16).
E nel momento in cui Dio matura la Sua paradossale decisione, Egli si incontra con la libertà di una donna: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Suo Figlio, nato da donna" (Gal 4, 4).
Fermiamo il nostro sguardo su questa donna, già annunciata agli albori della storia della salvezza (Gen 3, 15), e impariamo da lei la vera libertà e la sapienza del cuore.
L'evangelista Luca, introducendo il racconto dell'Annunciazione, ci dà alcune coordinate che ci fanno capire il senso dell'evento e ci fanno cogliere lo stile dell'azione di Dio nella storia umana: stile di collaborazione, che abbiamo già fatto emergere attraverso la breve escursione nell'Antico Testamento.
Dice l'evangelista: "nel sesto mese". Perché Dio sceglie il "sesto" mese e non il "quinto" o il "settimo"? E se il fatto non ha alcuna rilevanza, perché l'evangelista l'ha ricordato proprio nell'ouverture dell'evento?
A me sembra che il "sesto" mese rimandi al "sesto" giorno, giorno della creazione dell'umanità: l'evangelista delicatamente ci dice che sta avvenendo una nuova creazione, cioè sta iniziando la salvezza; e ci invita ad aprire gli occhi e il cuore per non perdere nessuno dei segnali, che Dio ci offre.
Cosa accade nel "sesto" mese? L'angelo Gabriele fu mandato da Dio: απεσταλη o αγγελoς Γαβριηλ απo τoυ θεoυ. (apestàle o ànghelos gabriel apò tu theu) Da Dio: questo complemento d'agente è un macigno! È Dio che prende l'iniziativa (è fondamentale sottolinearlo e memorizzarlo!), è Dio che bussa alla porta della libertà di Maria, è Dio che cerca la collaborazione di Maria secondo lo stile divino ben rimarcato in tutte le chiamate dell'Antico Testamento.
Ma ora siamo giunti al momento decisivo e decisiva sarà anche la risposta di Maria.
Il Papa, nella "Tertio Millennio Adveniente", opportunamente sottolineava: "Mai nella storia dell'uomo, tanto dipese, come allora, dal consenso dell'umana creatura" (TMA, 2).
Anche la tradizione protestante resta pensosa davanti a questo dato biblico e Zwingli, il riformatore di Zurigo, non esita ad affermare che: "quanto più cresce la gloria e l'amore di Cristo Gesù fra gli uomini, tanto più cresce la valorizzazione e la gloria di Maria, perché Maria ci ha generato un Signore e Redentore così grande e ricco di grazia". E Karl Barth, che nella Kirchliche Dogmatik strenuamente difende il dogma della verginità di Maria, afferma: "Maria è semplicemente l'essere umano a cui accade il miracolo della rivelazione".
È vero! Ma come accade questo "miracolo" (per usare la parola di Barth), che fa di Maria un anello ineludibile e ineliminabile della storia della salvezza? L'evangelista Luca, che ha fatto "ricerche accurate su ogni  circostanza fin dagli inizi" (Lc 1, 3) e ha attinto al "racconto degli avvenimenti successi tra di noi così come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni" (Lc 1, 1‑2), riferisce con precisione: ''L'angelo fu inviato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria" (Lc 1, 26‑27).È importante notare subito che la Galilea era una regione talmente disprezzata da essere chiamata "Galilea delle genti", cioè una regione senza identità e, pertanto, senza titoli di primato o di privilegio. Del resto, Nicodemo, che tentava di difendere l'opera di Gesù agli occhi dei farisei, si sentì rispondere seccamente: "Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea" (Gv 7, 5 2).
Questa era la reputazione della Galilea agli occhi degli uomini, dimentichi dei criteri di preferenza di Dio. Il popolo d'Israele, infatti, avrebbe dovuto ricordare le parole del Deuteronomio "Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli: siete infatti il più piccolo di tutti i popoli" (Dt 7, 7); e avrebbe dovuto ricordare anche le ripetute esclamazioni dei Salmi, che registrano così lo stile di Dio: "Il Signore sostiene gli umili, ma abbassa a terra gli empi" (Sal 147, 6); e Israele avrebbe dovuto riflettere sulle parole esplicite di Isaia:
"Io, il Signore, sono il primo
e io stesso sono con gli ultimi" (Is 41, 4).
Maria, memoria e coscienza di tutto il popolo d'Israele, sapeva tutto questo e lo viveva nella semplicità, e nel nascondimento della casa di Nazareth. E l'angelo va a Nazareth, che era un villaggio così insignificante da strappare a Natanaele questa colorita esclamazione: "Che cosa mai può venire di buono da Nazareth?" (Gv 1, 46).
Natanaele dovette subito ricredersi e, colto da un improvviso raggio di luce, disse a Gesù: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re di Israele" (Gv 1, 49).
 
 
5. La scintilla del sì
 
Ma al centro dell'evento dell'incarnazione c'è il sì di Maria: nel Suo sì si fondono l'espressione più alta della libertà umana e l'espressione più paradossale della libertà divina.
Seguiamo il racconto del Vangelo di Luca. L'angelo Gabriele consegna a Maria il saluto, che Dio custodisce nel cuore da tutta l'eternità: "Gioisci, Maria, tu sei stata e sei piena della benevolenza di Dio. Il Signore è con te!" (Lc 1, 28).
Mi sembra non irriguardoso tentare di tradurre con linguaggio moderno l'annuncio dell'Angelo. Potremmo renderlo così: "Gioisci, Maria! Dio stravede per te e pensa di affidarti la più grande missione".
La notizia è gettata nell'anima di Maria come un seme di divina potenza. E le parole dell'Angelo colpiscono profondamente la giovane di Nazareth: ella percepisce chiaramente l'irruzione di Dio nella propria esistenza; avverte la grandezza vertiginosa del momento e si sente investita da una tempesta che la travolge e la fa tremare. L'evangelista puntualmente riferisce: "A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto" (Lc 1, 29).
Perché Maria è turbata? Non ha forse ricevuto una bella notizia, anzi la più bella notizia di tutta la storia umana? Perché, allora, esita a rispondere? San Luca, per descrivere il turbamento interiore di Maria, usa il verbo δια-ταρασσo (dia-tarasso) e dice: "η δε επι τω λoγω διεταραχθη" (e dè epì to logo dietaràcte), essa fu tutta attraversata dal turbamento! Pensate che lo stesso verbo (εταραχθη) (etaracte) viene usato da Matteo per esprimere il grande turbamento di Erode e della città di Gerusalemme all'annuncio dell'arrivo dei Magi, che cercavano il neonato Re dei Giudei dopo che avevano visto sorgere la sua stella (Mt 2, 1‑3).
Il verbo ταρασσω denota un autentico terremoto interiore. Perché?
Certamente non è il turbamento della paura: mai Maria appare una donna paurosa. Tutt'altro!
Perché, allora, reagisce così all'annuncio dell'Angelo? La risposta possibile è una soltanto. Maria prova il turbamento dello stupore, che nasce da una profonda umiltà. Maria interiormente si chiede: "Perché Dio ha scelto me? lo sono l'ultima, io sono piccola, io non sono degna!".
E l'Angelo va incontro al turbamento di Maria e la soccorre con un esile raggio di luce: questo raggio di luce è sufficiente affinché Maria possa pronunciare un sì responsabile e libero, però è così esile da lasciare intatto tutto lo spazio della fede.
Seguiamo attentamente il racconto:
"L'angelo le disse: 'Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre nella casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine'" (Lc 1, 30‑33).
Le parole dell'Angelo a noi, che viviamo dopo il compimento degli eventi, appaiono chiare. Però quanti problemi potevano porre alla coscienza di Maria in quel particolare momento! Ella, giustamente, avrebbe potuto far notare la sua particolare condizione di 'promessa sposa'; ella avrebbe, legittimamente, potuto esigere garanzie per tutelare la sua onorabilità davanti a Giuseppe e alla gente di Nazareth; ella, per lo meno, avrebbe avuto il diritto di avere precise spiegazioni su come Dio pensava di portare avanti un progetto così ardito e unico.
Ma, ecco il prodigio! Ecco la bellezza e la grandezza del cuore di Maria! Ecco il salto meraviglioso della fede: Maria pone all'angelo una delicatissima domanda, che non nasce dal desiderio di difendersi, ma dal desiderio di consegnarsi al progetto di Dio in totale obbedienza: "Come è possibile? Non conosco uomo!" (Lc 1, 34).
E l'Angelo assicura Maria che la maternità avverrà per opera dello Spirito Santo, lasciando intatta la sua verginità.
L'Angelo stesso, a questo punto, si accorge di aver detto una cosa enorme, una cosa che non era mai accaduta e che non si sarebbe mai più ripetuta. E dice a Maria: "Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei che tutti dicevano sterile: nulla e impossibile a Dio" (Lc 1, 36‑37).
E Maria, in un atto di pura libertà, si apre a Dio, si consegna a Lui, si restituisce al Creatore che diventa Salvatore e dice: "Eccomi! Sono la serva del Signore. Avvenga di me secondo la tua parola" (Lc 1, 38).
Questo atto di libertà apre a Dio un varco dentro la storia umana, affinché Egli possa accendere, nel freddo del peccato, il fuoco dell'Amore. E Maria, nel momento in cui si dichiara serva del Signore, tocca il vertice più alto della libertà umana. La libertà, infatti, ci è stata donata come opportunità per aprirci a Dio, del quale portiamo dentro di noi un innato bisogno e verso il quale avvertiamo una oggettiva gravitazione. L'uomo può, se vuole, rinnegare la gravitazione verso Dio, ma, in questo modo, la libertà umana abortisce e diventa essa stessa la punizione dell'uomo.
Biagio Pascal (1623‑1662) nel pensiero 267 ha scritto acutamente: "L'ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che c'è un'infinità di cose che la superano. Essa (=la ragione) è debole se non arriva a capire questo".
Maria l'ha capito e, davanti alla storia, brilla come la creatura più ragionevole e, nello stesso tempo, come la creatura più libera: anzi, la maestra di libertà!
E dal momento in cui ha pronunciato il Suo sì, Maria è coinvolta, per decisione dell'Altissimo, in un meraviglioso ruolo di collaborazione nell'opera della salvezza compiuta dal Suo Figlio. J. P. Sartre, mentre era prigioniero a Treviri nel 1941, ebbe una autentica illuminazione e si espresse così: "Sul volto di Maria è apparso uno stupore che non apparirà mai più sul volto di una creatura. Maria, infatti, è l'unica creatura che, stringendo al petto il Suo Figlio, può dirgli: 'Dio mio!'. Ed è l'unica creatura che, pregando il Suo Dio, può dirgli: 'Figlio mio!'.
È singolare il fatto che Sartre sia riuscito a darci questa perfetta sintesi di mariologia. Lo Spirito veramente soffia dove vuole!