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domenica 30 settembre 2012

L'ESERCIZIO DELL'AUTORITA'

L'ESERCIZIO DELL'AUTORITA'
di Erich Fromm
Prefazione
Erich Fromm (1900-1980)
Erich Fromm
(1900-1980)
Tra i maggiori esponenti del neo-freudismo americano troviamo assieme a Henry Stack Sullivan e Karen Horney soprattutto Erich Fromm. Uno dei libri più significativi di quest'ultimo è Avere o essere? (1976). In quest'opera Fromm mette sul conto della categoria dell'avere le repressioni come le ossessioni e i pervertimenti sessuali, il dispotismo del potere politico, il risentimento e l'invidia che sono alla base dei conflitti sociali. La modalità dell'essere ha invece come requisiti l'indipendenza, la libertà e la presenza della ragione critica. Essa si manifesta nel lavoro produttivo, che non è necessariamente quello dell'artista o dello scienziato, ma è caratterizzato dalla soddisfazione che gli è immanente, dalla gioia di una partecipazione attiva e responsabile ad un piano la cui utilità è evidente per tutti.
Nell'avere ed essere come esperienza quotidiana, da cui è tratto
L'esercizio dell'autorità,  Fromm afferma che dal momento che la società in cui viviamo è dedita all'acquisizione di proprietà e di guadagno, «raramente ci capita di trovarvi manifestazioni della modalità esistenziale dell'essere, e la maggior parte di noi considera la modalità dell'avere come la più naturale, anzi l'unico stile di vita accettabile». L'esercizio dell'autorità è - quindi - uno dei semplici esempi di come l'essere e l'avere si manifestano nella vita quotidiana.
Luca Liguori
(2 febbraio 2004)
 
L'esercizio dell'autorità
Un altro esempio della differenza tra le modalità dell'avere e dell'essere è fornito dall'esercizio dell'autorità. L'elemento cruciale è costituito dal divario tra avere autorità ed essere un'autorità. Quasi tutti noi esercitiamo, almeno per un certo periodo della nostra vita, un'autorità. Devono farlo coloro che allevano bambini, e che lo vogliano o meno, per proteggere i propri figli da pericoli e fornire loro almeno un minimo di consigli su come comportarsi in varie situazioni. In una società patriarcale, anche le donne sono oggetto di autorità per la maggior parte degli uomini. Gran parte dei membri di una società burocratica, gerarchicamente organizzata qual è appunto la nostra, esercita autorità, con l'eccezione di coloro che appartengono all'infimo livello sociale, e che sono soltanto oggetto di autorità.
Questa visione dell'autorità secondo le due modalità è possibile a patto che si riconosca che essa è un termine ampio, dotato di due significati affatto diversi: può essere sia «razionale» sia «irrazionale». L'autorità razionale si fonda sulla competenza, e aiuta a crescere coloro che a essa si appoggiano. L'autorità irrazionale si basa sul potere e serve a sfruttare la persona che a essa è asservita. (Ho trattato il divario in questione nel mio Escape from Freedom.)
Nelle società più primitive, vale a dire quelle dei cacciatori e raccoglitori, l'autorità viene esercitata dalla persona generalmente riconosciuta come competente: su quali doti si basi la competenza, dipende in larga misura dalle circostanze specifiche, ma generalmente nel novero devono rientrare esperienza, saggezza, generosità, abilità, «presenza» e coraggio. Presso molte di queste tribù, non esiste autorità permanente: un'autorità emerge in caso di necessità, oppure si hanno diverse autorità per differenti occasioni, come guerra, pratiche religiose, appianamento di contese. Quando accade che le qualità su cui si fonda l'autorità scompaiono o impallidiscono, l'autorità stessa ha fine. Una forma assai simile di autorità è rilevabile in molte società di primati, nell'ambito delle quali la competenza molto spesso non è stabilita dalla forza fisica, ma da qualità come l'esperienza e la «saggezza». Mediante un ingegnosissimo esperimento con scimmie, J.M.R. Delgado (1967) ha comprovato che, qualora l'animale dominante perda anche solo per un momento le qualità che ne costituiscono la competenza, la sua autorità cessa.
L'autorità secondo la modalità dell'essere non è fondata soltanto sulla competenza dell'individuo per quanto riguarda l'assolvimento di certe funzioni sociali, ma anche, e nella stessa misura, sulla vera essenza di una personalità pervenuta a un alto grado di crescita e integrazione. Persone del genere irradiano autorità e non sono costrette a impartire ordini, a minacciare, a corrompere; si tratta di individui altamente sviluppati i quali dimostrano, con ciò che sono - e non principalmente con ciò che fanno o dicono -, quello che gli uomini possono essere. I grandi Maestri di Vita erano appunto autorità del genere e, sia pure a un minor grado di perfezione, individui simili sono reperibili a tutti i livelli di istruzione e nelle più disparate culture. Per inciso, il problema dell'istruzione si impernia appunto su questo: se i genitori fossero essi stessi più sviluppati e capaci di autonomia, la contrapposizione tra educazione autoritaria ed educazione secondo il modello del laissez-faire non avrebbe ragione di esistere. Il bambino, che ha bisogno di quest'autorità secondo la modalità dell'essere, reagisce a essa con grande entusiasmo, mentre si ribella alle pressioni o all'indifferenza di individui che, con il loro stesso comportamento, dimostrano di non aver compiuto a loro volta lo sforzo che pretendono dal figlio che cresce.
In seguito alla formazione di società basate su un ordine gerarchico e assai più ampie e complesse di quelle dei cacciatori e raccoglitori, l'autorità basata sulla competenza cede il passo all'autorità basata sul rango sociale. Con questo, non si vuole dire che l'autorità esistente sia per forza di cose incompetente, ma soltanto che la competenza non costituisce un elemento essenziale dell'autorità. Che si abbia a che fare con l'autorità monarchica - nel qual caso, a decidere delle qualità della competenza è la lotteria dei geni - o con un criminale privo di scrupoli che riesca a diventare un'autorità mediante assassinii e tradimenti, oppure, come tanto di frequente accade nel moderno sistema democratico, con autorità elette sulla scorta della loro maggiore o minore fotogenia o della quantità di denaro che possono investire nella propria campagna elettorale, sono tutti casi in cui può mancare quasi assolutamente il rapporto tra competenza e autorità.
Ma gravi problemi sussistono anche nei casi di autorità istituita sulla base di una certa competenza: un leader può essere competente in un campo, incompetente in un altro (per esempio, un uomo di stato può rivelarsi competente in guerra e incompetente in una situazione di pace); oppure, un capo, onesto e coraggioso all'inizio della propria carriera, può perdere tali qualità perché cede alla seduzione del potere; ancora, l'età o disturbi fisici possono comportare un certo deterioramento. Infine, non va dimenticato che è molto più facile giudicare il comportamento di un'autorità per i membri di una piccola tribù, che non per i milioni di individui del nostro sistema, i quali conoscono il proprio candidato soltanto attraverso l'immagine artificiale creata da specialisti in pubbliche relazioni.
Quali che siano le ragioni della perdita delle qualità su cui si basa la competenza, è certo che in gran parte delle società vaste e gerarchicamente organizzate si verifica il processo di alienazione dell'autorità, nel senso che la competenza iniziale, effettiva o presunta, viene trasferita all'uniforme o al titolo dell'autorità. Se questa veste la divisa appropriata o si fregia del titolo adeguato, tale segno esteriore di competenza prende il posto della competenza effettiva e delle relative qualità. Il re - per usare questo titolo come simbolo di siffatto tipo di autorità - può essere idiota, perfido, malvagio, vale a dire del tutto incompetente a essere un'autorità, pure ha autorità. Finché è investito del titolo, si suppone che abbia le qualità della competenza; anche se l'imperatore è nudo, tutti credono che indossi splendidi abiti.
Il fatto che la gente scambi uniformi e titoli per le effettive qualità della competenza non è qualcosa che accade di per sé. Coloro che possiedono questi simboli di autorità e coloro che ne beneficiano devono attutire il modo di pensare realistico, vale a dire critico, dei loro subordinati, e far sì che credano alla finzione. Chiunque si soffermi a riflettere su quanto s'è detto, si renderà conto delle macchinazioni della propaganda, dei metodi cui si fa ricorso per togliere di mezzo il giudizio critico, di come la mente, mediante il ricorso a cliché, venga addormentata e sottomessa, di come la gente sia resa ottusa perché diventi dipendente e perda la capacità di prestar fede ai propri occhi e alla propria capacità di giudizio. Si è così resi ciechi alla realtà dalla finzione in cui si crede.
 
Erich Fromm

No preghiera? No carità!

No preghiera? No carità!


Un giorno, un giovanissimo sacerdote incontrò Madre Teresa di Calcutta. Si presentò dicendo di essere “ai primi passi” e chiese alla Madre di pregare per lui. Madre Teresa lo rassicurò e poi gli chiese: “Quante ore preghi ogni giorno?”.
Meravigliato e un pò confuso, il sacerdote ricordò che quotidianamente celebrava la Messa, recitava il Breviario e il Rosario. Madre Teresa, stringendo tra le mani la corona del Rosario che non abbandonava mai, replicò: “Non basta! Perchè nell’amore non ci si può ridurre al minimo indispensabile. L’amore è massimalista”. Sorpreso, il giovane sacerdote ribattè: “Madre, ma io da lei mi aspettavo che mi chiedesse: quanta carità fai?”. E Madre Teresa: “Leggi bene il Vangelo e vedrai che Gesù, per la preghiera, sacrificava anche la carità. E sai perchè? Per insegnarci che, senza Dio, siamo troppo poveri per poter aiutare i poveri”.

Quel giovane sacerdote era don Angelo Comastri, oggi cardinale, che racconta questo significativo episodio nel bel libro scritto con Saverio Gaeta, Dio scrive dritto. L’avventura umana e spirituale di un cardinale (San Paolo, 2012).

[Fonte: Il Timone n. 116]

il male

“Quando voi parlate di scienza della criminologia, voi intendete studiare un uomo dal di fuori, come se fosse un gigantesco insetto, o un fenomeno lontano da noi; mentre il più grande orrore del male sta appunto nel fatto che è così vicino a noi, che è in tutti noi”.
(Gilbert K. Chesterton)

i nostri antenati guardavano al Cielo

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“Non capiremo nulla della storia se non metteremo in conto questa differenza radicale: noi guardiamo alla Terra, i nostri antenati guardavano al Cielo; noi ci aggrappiamo alla vita, loro meditavano sulla morte; noi ci preoccupiamo di far carriera, loro di salvarsi dall’inferno; noi ci confrontiamo con i padroni, loro con il Padre”.
(Vittorio Messori)

Santi Arcangeli

Santi Arcangeli: Michele, Gabriele, Raffaele – Papa Benedetto XVI

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Ma quanto è grande il nostro Papa! Questa sua omelia bisognerebbe stampare e regalarla a tutti i nostri vescovi per fargliela leggere in nostra presenza e imparare a memoria!
Celebriamo questa Ordinazione episcopale nella festa dei tre Arcangeli che nella Scrittura sono menzionati per nome: Michele, Gabriele e Raffaele. Questo ci richiama alla mente che nell’antica Chiesa – già nell’Apocalisse – i Vescovi venivano qualificati «angeli» della loro Chiesa, esprimendo in questo modo un’intima corrispondenza tra il ministero del Vescovo e la missione dell’Angelo. A partire dal compito dell’Angelo si può comprendere il servizio del Vescovo.
Ma che cosa è un Angelo? La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci lasciano scorgere due aspetti. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola «El», che significa «Dio». Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terra. Proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi. Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri – angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio. Se la Chiesa antica chiama i Vescovi «angeli» della loro Chiesa, intende dire proprio questo: i Vescovi stessi devono essere uomini di Dio, devono vivere orientati verso Dio. «Multum orat pro populo»«Prega molto per il popolo», dice il Breviario della Chiesa a proposito dei santi Vescovi. Il Vescovo deve essere un orante, uno che intercede per gli uomini presso Dio. Più lo fa, più comprende anche le persone che gli sono affidate e può diventare per loro un angelo – un messaggero di Dio, che le aiuta a trovare la loro vera natura, se stesse, e a vivere l’idea che Dio ha di loro.
Tutto ciò diventa ancora più chiaro se ora guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi.


C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del «serpente antico», come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche «l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte» (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. È compito del Vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo?
L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1). Cari amici, siate veramente «angeli custodi» delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.
Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38). Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo «sì» alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio. Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano. Nell’Apocalisse dice all’ «angelo» della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3, 20).
Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi. Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo. Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.
San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo viene sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio.

Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere «l’angelo» risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.
«Rimanete nel mio amore»
, ci dice oggi il Signore nel Vangelo (Gv 15, 9). Nell’ora dell’Ordinazione episcopale lo dice in modo particolare a voi, cari amici. Rimanete nel suo amore! Rimanete in quell’amicizia con Lui piena di amore che Egli in quest’ora vi dona di nuovo! Allora la vostra vita porterà frutto – un frutto che rimane (Gv 15, 16). Affinché questo vi sia donato, preghiamo tutti in quest’ora per voi, cari fratelli. Amen.
Omelia di Sua Santità Benedetto XVI
Cappella Papale per l’ordinazione Episcopale di sei Ecc.mi Presuli
Santi Arcangeli: Michele, Gabriele, Raffaele
Basilica Vaticana - Sabato, 29 settembre 2007

sabato 29 settembre 2012


 L’autorità
***
Foto: “L’autorità alla metà del ventesimo secolo ha mutato il suo carattere; essa non si presenta più come autorità manifesta, bensì come autorità anonima, invisibile, alienata. Non c'è nessuno che ordini, né una persona, né una idea, né una legge morale. Però tutti ci conformiamo come o più di quanto non si farebbe in una società fortemente autoritaria. Infatti, non c’è nessuna autorità, al di fuori di «oggetti». Quali sono questi «oggetti»? Il guadagno, le necessità economiche, il mercato, il senso comune, l’opinione pubblica, quel che «si» fa, «si» pensa, «si» sente. Le leggi dell’autorità anonima sono invisibili quanto le leggi del mercato, e altrettanto incontestabili. Chi può attaccare l’invisibile? Chi può ribellarsi contro Nessuno? 
La scomparsa, dell'autorità manifesta è chiaramente osservabile in tutti i campi della vita. I genitori non comandano più; essi formulano con il bambino l’ipotesi che «abbia voglia di far questo». Poiché i genitori stessi non hanno né principi né convinzioni, tentano di guidare i bambini a fare quel che vuole la legge del conformismo, e spesso, essendo maggiori d’età e dunque meno al corrente del «nuovo», essi imparano dai figli qual è l’atteggiamento richiesto. La stessa cosa vale anche negli affari e nell’industria: non si danno ordini, ma si «propone»; non si comanda, ma si persuade e si influenza. Persino l’esercito americano ha accolto molte delle forme nuove di autorità. L’esercito è presentato come si trattasse di un'interessante impresa commerciale; il soldato dovrebbe sentirsi come un membro di una «squadra», anche se rimane l'aspra realtà che egli deve esser addestrato a uccidere e ad esser ucciso. Fino a che c'era una autorità manifesta, c'era contrasto e c'era ribellione contro l'autorità irrazionale. Nel conflitto con gli imperativi della propria coscienza, nella lotta contro l’autorità irrazionale si sviluppava la personalità – e particolarmente si sviluppava il senso dell’io. lo riconosco me stesso come «io» in quanto dubito, protesto, mi ribello. Anche se mi sottometto e prevedo la sconfitta, mi sento «io»: «io», lo sconfitto. Ma se non sono consapevole di sottomettermi e di ribellarmi, se sono guidato da una autorità anonima, perdo il senso di me stesso e divento «uno qualsiasi», una parte dell'«oggetto».
Il meccanismo attraverso cui l’autorità anonima agisce è il conformismo. lo dovrei fare quel che tutti fanno, e perciò devo conformarmi, non essere diverso, non sporgere dalla fila; devo esser pronto e disposto a cambiare secondo i cambiamenti del modello, non devo chiedermi se ho ragione o torto, ma se sono adattato, se non sono «strano», differente. La sola cosa immutabile in me è proprio questa disposizione a cambiare. Nessuno ha potere sopra di me al di fuori del gregge di cui sono parte, benché vi sia soggetto. [...] Come ho indicato sopra, l’autorità anonima e il conformismo automatico sono in larga misura il risultato del nostro metodo produttivo, che richiede rapido adattamento alla macchina, disciplinato comportamento collettivo, gusti comuni e obbedienza senza l’uso della forza. Un altro aspetto del nostro sistema economico, il bisogno di consumi collettivi, è servito come strumento per creare una fisionomia del carattere sociale dell’uomo moderno che costituisce uno dei più evidenti contrasti col carattere sociale del diciannovesimo secolo. Mi riferisco al principio per cui ogni aspirazione deve esser soddisfatta immediatamente, nessun desiderio deve essere frustrato. Il principio che i desideri devono esser soddisfatti senza indugio ha anche determinato il comportamento sessuale, specialmente dalla fine della prima guerra mondiale. Una rozza forma di frainteso freudismo servì a dare la appropriata giustificazione razionale: l'idea che le nevrosi risultino da desideri sessuali «repressi» e che le frustrazioni siano «traumatiche», e perciò meno ci si reprime tanto più sani si è. Persino i genitori preoccupati di dare ai loro figli qualsiasi cosa essi desiderassero per paura che fossero frustrati, acquistarono un «complesso». Disgraziatamente, molti di questi figli, così come i loro genitori, finivano sul lettino dello psicanalista, sempre che potessero permetterselo”.

(Erich Fromm, da “Psicoanalisi della società contemporanea”)

Immagine - "Sera sul viale Karl Johan", di Edvard Munch
“L’autorità alla metà del ventesimo secolo ha mutato il suo carattere; essa non si presenta più come autorità manifesta, bensì come autorità anonima, invisibile, alienata. Non c'è nessuno che ordini, né una persona, né una idea, né una legge morale. Però tutti ci conformiamo come o più di quanto non si farebbe in una società fortemente autoritaria. Infatti, non c’è nessuna autorità, al di fuori di «oggetti». Quali sono questi «oggetti»? Il guadagno, le necessità economiche, il mercato, il senso comune, l’opinione pubblica, quel che «si» fa, «si» pensa, «si» sente. Le leggi dell’autorità anonima sono invisibili quanto le leggi del mercato, e altrettanto incontestabili. Chi può attaccare l’invisibile? Chi può ribellarsi contro Nessuno?
La scomparsa, dell'autorità manifesta è chiaramente osservabile in tutti i campi della vita. I genitori non comandano più; essi formulano con il bambino l’ipotesi che «abbia voglia di far questo». Poiché i genitori stessi non hanno né principi né convinzioni, tentano di guidare i bambini a fare quel che vuole la legge del conformismo, e spesso, essendo maggiori d’età e dunque meno al corrente del «nuovo», essi imparano dai figli qual è l’atteggiamento richiesto. La stessa cosa vale anche negli affari e nell’industria: non si danno ordini, ma si «propone»; non si comanda, ma si persuade e si influenza. Persino l’esercito americano ha accolto molte delle forme nuove di autorità. L’esercito è presentato come si trattasse di un'interessante impresa commerciale; il soldato dovrebbe sentirsi come un membro di una «squadra», anche se rimane l'aspra realtà che egli deve esser addestrato a uccidere e ad esser ucciso. Fino a che c'era una autorità manifesta, c'era contrasto e c'era ribellione contro l'autorità irrazionale. Nel conflitto con gli imperativi della propria coscienza, nella lotta contro l’autorità irrazionale si sviluppava la personalità – e particolarmente si sviluppava il senso dell’io. lo riconosco me stesso come «io» in quanto dubito, protesto, mi ribello. Anche se mi sottometto e prevedo la sconfitta, mi sento «io»: «io», lo sconfitto. Ma se non sono consapevole di sottomettermi e di ribellarmi, se sono guidato da una autorità anonima, perdo il senso di me stesso e divento «uno qualsiasi», una parte dell'«oggetto».
Il meccanismo attraverso cui l’autorità anonima agisce è il conformismo. lo dovrei fare quel che tutti fanno, e perciò devo conformarmi, non essere diverso, non sporgere dalla fila; devo esser pronto e disposto a cambiare secondo i cambiamenti del modello, non devo chiedermi se ho ragione o torto, ma se sono adattato, se non sono «strano», differente. La sola cosa immutabile in me è proprio questa disposizione a cambiare. Nessuno ha potere sopra di me al di fuori del gregge di cui sono parte, benché vi sia soggetto. [...] Come ho indicato sopra, l’autorità anonima e il conformismo automatico sono in larga misura il risultato del nostro metodo produttivo, che richiede rapido adattamento alla macchina, disciplinato comportamento collettivo, gusti comuni e obbedienza senza l’uso della forza. Un altro aspetto del nostro sistema economico, il bisogno di consumi collettivi, è servito come strumento per creare una fisionomia del carattere sociale dell’uomo moderno che costituisce uno dei più evidenti contrasti col carattere sociale del diciannovesimo secolo. Mi riferisco al principio per cui ogni aspirazione deve esser soddisfatta immediatamente, nessun desiderio deve essere frustrato. Il principio che i desideri devono esser soddisfatti senza indugio ha anche determinato il comportamento sessuale, specialmente dalla fine della prima guerra mondiale. Una rozza forma di frainteso freudismo servì a dare la appropriata giustificazione razionale: l'idea che le nevrosi risultino da desideri sessuali «repressi» e che le frustrazioni siano «traumatiche», e perciò meno ci si reprime tanto più sani si è. Persino i genitori preoccupati di dare ai loro figli qualsiasi cosa essi desiderassero per paura che fossero frustrati, acquistarono un «complesso». Disgraziatamente, molti di questi figli, così come i loro genitori, finivano sul lettino dello psicanalista, sempre che potessero permetterselo”.
(Erich Fromm, da “Psicoanalisi della società contemporanea”)

la delusione










la delusione
***
 «Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione. Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato. La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi. Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta. Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono».

(da “Un cappello pieno di ciliegie”, Oriana Fallaci)

Per il ministro Profumo 'l'ora di religione non ha senso'. Io, studente senza fede, vi spiego l'ignoranza di queste parole

Per il ministro Profumo 'l'ora di religione non ha senso'. Io, studente senza fede, vi spiego l'ignoranza di queste parole

pubblicata da Papa Benedetto XVI il giorno Martedì 25 settembre 2012 alle ore 15.49



E' ora di cena quando sento dire al telegiornale: «Credo che l'insegnamento della religione nelle scuole così come concepito oggi non abbia più molto senso. Probabilmente quell'ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica». Parole di Francesco Profumo, pronunciate lo scorso venerdì sera, alla festa di ‘Sinistra, ecologia e libertà’, basando il suo ragionamento su di un dato preciso: «Nelle nostre classi il numero degli studenti stranieri e, spesso, non di religione cattolica tocca il 30%»; di qui la conclusione: «sarebbe meglio adattare l'ora di religione trasformandola in un corso di storia delle religioni o di etica».

Da subito resto perplesso, non tanto per l'idea del gran postribolo delle religioni, ma perchè si è parlato di etica. Mi domando, in una società multietnica e pluralista, permeata profondamente da quel relativismo che toglie sonno al Papa, chi avrà l'ardire di fissare la 'giusta' etica valida a livello universale. La stabilirà il ministro, certamente, per quanto da due millenni nè filosofi nè politici nè preti siano riusciti a convincere il mondo.
Poi mi soffermo sulle ragioni che motivano la proposta, rifletto per qualche minuto; la perplessità cede il passo all'amarezza: ho concluso gli studi liceali classici da poco, ho appena ventun anni, non ho neppure il dono della fede, ma ritengo di dover contestare, sul piano giuridico e culturale, quanto affermato da un Ministro dell'Istruzione della mia Repubblica.

1) 'Sbandata giuridica'

Se Profumo conoscesse il diritto, non sarebbe incorso in un così grave errore d’interpretazione quando parla di anacronismo dell’ora di religione cattolica. Infatti, l'Accordo di Villa Madama del 1984, che rivede i Patti Lateranensi del 1929 firmati da Santa Sede e Regno d’Italia, nell’articolo 9.2 stabilisce:

“Lo Stato, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche”.

Qui sta il punto: la religione cattolica s’insegna a scuola non come ora d’indottrinamento o di catechesi, ma per aiutare a comprendere una componente culturale della nostra storia e della nostra società. A maggior ragione se si vuole favorire l’integrazione di studenti di etnie e credi diversi, è giusto tutelare questo insegnamento. Ecco perchè la scusa degli studenti stranieri non regge. Non regge perchè la cultura di un Paese resta tale, indipendentemente dal credo di chi debba comprenderla tra i banchi di scuola. Sembra calzare a pennello l'allora cardinale Joseph Ratzinger, quando scriveva: «C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza basi comuni, senza punti di orientamento offerti dai valori propri».
2) 'Strafalcione culturale'

Se è chiaro che Profumo non conosce i fondamenti dell'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, il fatto che lo consideri alla strenua del catechismo parrocchiale, e dunque non consono all'ascolto di chi alla Chiesa di Roma non appartiene, dimostra uno sconvolgente vuoto culturale, imperdonabile per un ministro dell'Istruzione. Si, perché già dalle colonne de “L'Espresso” del 10 settembre 1989, il celebre scrittore Umberto Eco, ateo, si domandava: «Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosé? Perché devono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)? Insomma è legittimo e fecondo affermare che la Bibbia ha il diritto di porsi come codice culturale, così come lo sono Platone, Aristotele, Kant, l’illuminismo».  Viene citato Immanuel Kant, lo stesso filosofo che afferma: «Il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà», quasi facendo eco all'immenso scrittore Johann Wolfgang von Goethe, quando dice: «Il Cristianesimo è la lingua materna dell'Europa».

Ecco, c’è una ragione se l’intera cronologia si serve del calendario fatto elaborare da Gregorio XIII e dell’Anno Domini, l’anno della nascita di Cristo, per ricostruire gli eventi storici globali. C’è una ragione se nella nostra letteratura si incontrano autori fortemente spirituali come Francesco Petrarca, Torquato Tasso, Dante Alighieri o Alessandro Manzoni; che le uniche due opere la cui lettura è d’obbligo nei nostri licei, e cioè la "Divina Commedia" e "I Promessi Sposi", siano la prima una delle espressioni più alte e fantasiose della teologia medievale e la seconda il romanzo della Provvidenza.
Caro ministro, lei mi riduce il Cattolicesimo a fatto puramente confessionale, e al contempo mi chiede di studiare il Manzoni, che però mi scrive in 'Osservazioni sulla morale cattolica': «Tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo». 

Meglio poi che non faccia appello a Vittorino da Feltre Pico della Mirandola: si spaventerebbe. Nè vengo a riportarle le conclusioni di scrittori del rango di Fëdor Dostoevskij Lev Tolstoj: li scambierebbe per mistici deliranti.

Capisce quindi, eccellenza, il mio dilemma su se prestare ascolto a lei o agli autori che mi chiede di studiare? Son drammi, mi aiuti, perché mi confonde le idee anche il pittore Marc Chagall, quando confessa: «Le pagine della Bibbia sono l'alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello». Cerco di non badarci troppo, eppure mi sembra proprio che cupole e campanili sovrastino superbamente tutte le città europee, e che la grande maggioranza dei capolavori artistici del Vecchio continente narrino del Cristianesimo e dei suoi protagonisti. Nessuna sorpresa poi, se le due più celebri sculture al mondo siano il biblico Re David di Michelangelo e la Pietà vaticana.

Pare che questo Cristianesimo continui a perseguitarmi persino nella persona del filosofo agnostico Benedetto Croce, che arrivò a scrivere un noto saggio intitolato "Perché non possiamo non dirci cristiani", in cui leggo: «Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta (...). Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto (...). La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell'anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all'umanità. Gli uomini, i geni, gli eroi, che vi furono prima del cristianesimo, compirono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi manca quel sentimento di amore e carità che noi accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana».

E sul filone di Croce si inserisce ancora l'ateo Jürgen Habermas, filosofo, storico e sociologo, tra i massimi esponenti viventi della prestigiosa Scuola di Francoforte, che mi ricorda con schiettezza: «L'universalismo egualitario - da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, coscienza morale individuale, diritti dell'uomo e democrazia - è una diretta eredità dell'etica ebraica della giustizia e dell'etica cristiana dell'amore. A tutt'oggi non disponiamo di opzioni alternative. Continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne».

Ma allora com'è possibile che siamo arrivati a scordarci tutto? Asineria italica? Assenza di memoria? Secolarizzazione? Certamente. Ma anche gli insegnanti di religione non ci fanno una bella figura. Vero che l'impossabilità di compiere una valutazione di egual incidenza come quella del resto dei colleghi non li abbia aiutati nel guadagnarsi la giusta considerazione da parte degli studenti, ma è innegabile che molti di essi (certamente non la totalità) li si è visti tragicamente inadeguati al ruolo preposto, per sciatteria o ignoranza.

Chi si aspettava disquisizioni sull'estetica teologica, la natura dei Dogmi, il problema della teodicea o quello del peccato originale, la Grazia, i Concili e le eresie, la Scolastica, la teologia dei Dottori della Chiesa, la filosofia cristiana e l'apologetica, ecc, ha fin troppo spesso trovato insegnanti che si limitavano a lasciare spazio ad una normale ora di ricreazione, o fiera delle banalità da primo catechismo (neppure da cresima!). E di tutto questo possiamo davverno farne a meno.

Ecco perchè oggi ci tocca non solo difendere l'ora di religione cattolica da ministri che hanno smarrito il senso della storia, ma di reclamarne anche un dignitoso e autentico insegnamento. In nome della nostra stessa identità perchè, come ammonisce il poeta Thomas Stearns Eliot, vincitore del premio Nobel per la Letteratura: «Un cittadino europeo può non credere che il Cristianesimo sia vero e tuttavia quello che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il Cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il Cristianesimo se ne va, se ne va anche la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto».

di Giacomo Diana

venerdì 28 settembre 2012

ateismo

Mi diverto di più a fare il monaco che a giocare in Borsa


In Italia sta per uscire da Jaca Book il libro di Henry Quinson “Degli uomini e degli dei” in cui racconta la sua esperienza sul set dell’omonimo film
Parla Henry Quinson, ex trader convertito, autore di Degli uomini e degli dei , oggi a Torino Spiritualità
Alberto Mattioli
CORRISPONDENTE DA PARIGI
Lo scrittore che visse due volte ha 51 anni. Per Henry Quinson la svolta arrivò a 28, quand’era un trader di successo che a Wall Street maneggiava molti milioni di dollari. Un giorno, nella prima classe di un New York-Parigi, si trovò con un calice di champagne in una mano e la Bibbia nell’altra e capì che doveva scegliere. Scelse la Bibbia. Seguirono cinque anni in un monastero in Savoia, quindici da monaco laico nelle banlieue islamizzate di Marsiglia, diversi libri e due bestseller. Nel primo, Quinson ha raccontato la sua conversione; nel secondo, che adesso esce in Italia (Degli uomini e degli dei, Jaca book), la sua esperienza sul set di Des hommes et des dieux, il pluripremiato film che ha raccontato vita e morte dei monaci di Tibhirine, vittime degli estremisti islamici in Algeria. Quinson ne parlerà domani a Torino Spiritualità. 
 
Monsieur Quinson, chi si è stupito di più della sua conversione?  
«Credo il cercatore di teste di Merrill Lynch, che da tempo mi corteggiava perché passassi da loro. Ricordo la telefonata. Quando gli dissi che mi ero licenziato dalla banca dove lavoravo, fu felicissimo. Gli dissi: non ha capito, non vengo da voi. E lui: è impossibile che qualcuno le abbia proposto di più. Io: non mi hanno proposto di più, mi hanno proposto di meglio. Vado in convento. Seguì un lungo silenzio che definirei monastico. Poi dall’altra parte della cornetta sentii la sua voce che diceva: beh, è una concorrenza che accetto». 

La crisi che attraversiamo è solo economica o è anche spirituale?  
«Non c’è differenza. In realtà questa crisi non è nuova: dura da trent’anni, dallo choc petrolifero. Da allora abbiamo dei budget pubblici mai in equilibrio, una popolazione che invecchia, una crisi ecologica, una crisi industriale, una concentrazione bancaria impressionante e così via. Nei prossimi dieci anni il mondo cambierà com’è cambiato poche volte. Eppure, l’uomo non cambia. Resta un essere essenzialmente spirituale, che continua a porsi le stesse eterne domande. Il mondo andrà avanti anche questa volta». 

Rinunciando all’economia?  
«No, affatto. Semplicemente, dandole il suo giusto valore. Il denaro è un ottimo servitore, ma un pessimo padrone. La gente che crede che sia “realista” pensare solo al denaro mi ricorda Stalin che chiedeva quante divisioni avesse il Vaticano. Però a vincere davvero, nel XX secolo, non sono stati lui o Hitler. Sono stati Gandhi o Martin Luther King. La vera fuga dal mondo non è fare il monaco a Marsiglia, è fare il banchiere a Wall Street. La Borsa o la vita? Scelgo la vita». 

Lei conosce bene l’Islam. Lo scontro è inevitabile?  
«Bisogna meditare Huntington, : i francesi ne parlano molto ma lo leggono poco. L’Islam non è monolitico, è molto più articolato di quel che si crede.È forte demograficamente ed economicamente; intellettualmente, no. Ed è anche un sistema sociale molto concreto. La vera sfida è trovare una nuova convivenza, un po’ come nell’Impero romano quando cominciarono ad arrivare i barbari. Se non si può impedirlo, ha poco senso lanciare allarmi dicendo che saremo divorati. Piuttosto, chiediamoci come sarà la digestione». 

Perché «Degli uomini e degli dei» sia il film che il suo libro, hanno avuto tanto successo?  
«Perché, a differenza di quel che si dice, oggi la spiritualità interessa moltissimo la gente. Idem le religioni, che però devono proporre degli stili di vita pertinenti alla nostra contemporaneità». 

In Francia, però, il cattolicesimo sembra in via di sparizione.  
«La situazione è paradossale. In realtà, la Francia è ancora molto segnata dalla presenza della Chiesa. Ma c’è una frattura fra la spiritualità cattolica, che la gente ammirava in personaggi come l’Abbé Pierre, tuttora popolarissimo e l’aspetto, diciamo così, “vaticanesco” del cattolicesimo. Forse a torto, peraltro». 

Va bene che lo scopo di una vita cristiana non è la ricerca della felicità, ma lei è più felice adesso o quando lavorava in banca?  
«Molto più oggi. Ho avuto dei momenti difficili, anche economicamente. Ma la mia nuova vita ha due pregi: posso dire quel che penso e ho conosciuto persone che, prima, non avrei mai incontrato». 
 

La sconvolgente scoperta della "banalità del male"

                     della "banalità del male"                 

A cento anni dalla nascita di Hannah Arendt una riflessione su uno dei temi centrali del suo pensiero

GAETANO VALLINI
"Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica,   i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire".
A cento anni dalla nascita, avvenuta il 14 ottobre 1906, vogliamo ricordare la filosofa Hannah Arendt soffermandoci su uno degli aspetti fondamentali del suo pensiero, la riflessione sul concetto di "male", che ha influito sull'analisi di uno dei capitoli più terribili della storia del secolo scorso: la shoah.
Di origini ebraiche, nata a Königsberg, nei pressi di Hannover, la Arendt si forma filosoficamente tra Berlino, Marburgo, Friburgo e Heidelberg, avendo come maestri, tra gli altri, Jaspers e Heidegger. Con quest'ultimo discute una tesi sul concetto di amore in sant'Agostino. Arrestata nel 1933, fugge a Praga, poi a Ginevra, a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York. Alla fine della guerra riallaccia i rapporti con Jaspers, ma non con Heidegger, anche per il persistente silenzio di questi sulla sua adesione al nazismo.
Quando scrive il citato brano sul "male assoluto" ne Le origini del totalitarismo (1951), la Arendt non ha ancora vissuto l'esperienza del processo ad Adolf Eichmann, il responsabile della sezione IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei) dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Rsha), catturato nel maggio 1960 da agenti israeliani in Argentina, dove si era rifugiato. Dunque non ha ancora pubblicato il celebre libro La banalità del male (1963) che riporta le cronache sul dibattimento redatte da Gerusalemme per il "New Yorker".
Eppure ha già avviato la riflessione che la porterà più tardi a una definizione che supera e completa quanto affermato nel '51 e appare in qualche modo una sintesi del suo pensiero al riguardo. "È... mia opinione - scrive in una lettera a Gershom Scholem - che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale".
L’'analisi della Arendt parte dall'osservazione di Eichmann, l'anonimo funzionario nazista che ha organizzato con fredda pignoleria e con terrificante efficienza il trasporto di milioni di uomini nei campi di sterminio, ma che si difende davanti alla corte e al mondo sottolineando di non aver mai torto un capello ad un ebreo, essendosi limitato ad eseguire ordini. C'è qualcosa di agghiacciante in questa affermazione di innocenza fatta senza ombra di pentimento: in fondo, dirà l'imputato, si era occupato "soltanto di trasporti". Ma è proprio in questa assenza di consapevolezza della gravità della colpa, nella disarmante dimostrazione di mediocrità intellettuale ad essa sottesa, che la Arendt trova la chiave di lettura che stravolge il concetto stesso di male così come concepito fino ad allora.
Per la filosofa, la banale malvagità di Eichmann, che ne ha fatto uno dei peggiori carnefici della storia, è il frutto semplice e mostruoso della sua "mancanza di immaginazione". Una carenza che si traduce anche in assenza di quella dimensione peculiarmente umana, l'empatia, che fa sì che si ci possa immedesimare nell'altro al punto di essere partecipe delle sue emozioni, siano esse di gioia o di dolore.
La studiosa sostiene che le azioni compiute dall'imputato "erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso". "Non era stupido - sottolinea riferendosi ad Eichmann -, era semplicemente senza idee... Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme". Per la Arendt, è "questo agire in assenza di pensiero il fatto tragico dei nostri tempi". È il pericolo estremo della irriflessività. "Il guaio del caso Eichmann - sottolinea - era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali".
Ciò rispecchia sostanzialmente quanto scrive nel 1985 Primo Levi di Rudolf Höss presentandone il libro autobiografico Comandante ad Auschwitz: "È uno dei libri più istruttivi che mai siano stati pubblicati, perché descrive con precisione un itinerario umano che è, a suo modo, esemplare: in un clima diverso da quello che gli è toccato di crescere, secondo ogni previsione Rudolf Höss sarebbe diventato un grigio funzionario qualunque, ligio alla disciplina e all'ordine: tutt'al più un carrierista dalle ambizioni moderate. Invece, passo dopo passo, si è trasformato in uno dei maggiori criminali della storia umana... Mostra con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un'ordinata vita famigliare, l'amore per la natura, un moralismo vittoriano".
Riconoscere la banalità del male nel singolo esecutore di ordini criminali porta anche a far cadere l'alibi della responsabilità collettiva. Una responsabilità, questa, che finisce per non individuare colpevoli, assolutizzando oltre che il male anche i malvagi, sottraendoli di fatto al giudizio. La Arendt, invece, non riduce i singoli responsabili dei crimini nazisti a pedine manovrate da un destino già scritto. Nonostante tutto ritiene che essi, come uomini, avessero capacità di giudizio. Soltanto decisero di non giudicare, abdicando alla loro capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è.
Dunque, il male non sceglie, si fa scegliere. E si fa scegliere anche da persone "normali". La banalità del male rilevata in Eichmann è di fatto il terribile riconoscimento della "normalità" del male. Una normalità che fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società trovano modo di manifestarsi attraverso il cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle norme ma le applica incondizionatamente.
È questa la sconvolgente verità: il male è umano anche nelle sue forme più aberranti ed estreme, quelle che ai più sembrano impensabili e quindi inspiegabili. Riconoscere questo in un carnefice significa in ultima analisi riconoscere di avere qualcosa in comune con lui in quanto uomini. E ciò per alcuni è inaccettabile.
Martin Buber - che tra l'altro non esitò a definire un "errore di portata storica" l'esecuzione di Eichmann perché poteva "liberare dal senso di colpa molti giovani tedeschi" - affermò di non provare nessuna pietà per il condannato, perché aveva pietà solo per quelli "di cui nel mio cuore capisco le azioni", ripetendo che "solo formalmente" aveva qualcosa in comune, come uomo, con coloro che avevano partecipato alle gesta del Terzo Reich.
Il libro La banalità del male scatenò un putiferio in ambienti ebraici, che vedevano nelle tesi della Arendt quasi un'assoluzione di Eichmann e per contro una neppure tanto velata accusa agli ebrei stessi per le reticenze circa il tragico fenomeno del collaborazionismo (ingenua condiscendenza, almeno in alcune circostanze) al massacro del loro popolo da parte dei nazisti. Ma la Arendt non intendeva assolvere Eichmann. Voleva semplicemente sottolineare il fatto, tremendo, che non bisogna necessariamente essere malvagi per compiere il male. Eichmann, nella sua atroce normalità, costituisce l'espressione più inquietante del nazismo. Egli incarna il tipo sociale più caratteristico del totalitarismo: l'individuo atomizzato della società di massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia vitale in un'organizzazione che ne annulla il giudizio morale.
Allo stesso tempo la Arendt intendeva porre all'attenzione una realtà non meno inquietante, certamente impopolare e scomoda: un'intera società, frutto di una evoluta civiltà, può sottostare ad un totale cambiamento dei riferimenti morali senza che i suoi membri siano in grado di emettere alcun giudizio su quanto sta accadendo. È ciò che Alain Besançon chiama "sregolamento della coscienza naturale e comune", processo che porta a snaturare il rapporto con il reale e quindi alla "falsificazione del bene".
L'analisi di Hannah Arendt sulle interrelazioni tra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato e la capacità di giudizio resta uno dei capitoli più significativi della riflessione filosofica della seconda metà del secolo scorso. Una riflessione in seguito ripresa da altri pensatori e studiosi che hanno indagato ulteriormente sulle motivazioni comuni e quotidiane del male banale.

da:La sconvolgente scoperta della "banalità del male"
 Copyright L'Osservatore Romano
14.10.2006

lunedì 24 settembre 2012

 Le  prime formule del credo
***
Noi sappiamo che nei
primi secoli il sacramento veniva aministrato non
con la formula attuale, ma attraverso una triplice in_
terrogazione sulle fondamentali verità di fede, che
accompagnava una triplice immersione almeno parziale.
Eccola testimonianza di sant'Ambrogio, per la Chiesa
di Milano del quarto secolo:
"Sei  stato interrogato: "Credi in Dio Padre onnipotente?
Hai risposto: "Credo", e ti sei immerso, cioè sei stato sepolto.
Sei  stato interrogato di nuovo: "Credi nel Signore Gesù
Cristo e nella sua croce?". Hai risposto: "Credo, e  ti sei immerso; perciò sei stato sepolto con Cristo.
Chi infatti viene sepolto con Cristo, con Cristo risorge.
Per la terza volta sei stato interrogato:"Credi nello Spirito Santo?". 
Hai risposto: "Credo", e ti sei immerso per la terza volta, perché la triplice confessione cancellasse i molti peccati della
 tua vita passata. (De sacramentis II,20).

Più ricca è la forma battesimale che risulta in uso nella Chiesa di Roma alla fine del secondo secolo al principio del terzo:
«Credi in Dio onnipotente? Credo.
Credi in Gesù Cristo, Figlio di Dio, che per lo Spirito
 Santo nacque da Maria Vergine, fu crocifisso sotto

 Ponzio Pilato, morì, fu sepolto, risuscitò vivo dai
morti il terzo giorno salì al cielo, siede alla destra del
Padre, verrà a giudicare i vivi e i morti? Credo.
Credi nello Spirito Santo, la santa Chiesa e la risurrezione
 della carne? Credo"
(Traditio apostolica49).

Da questo "dialogo" battesimale che con qualche
variante è presente nella pratica di tutte le Chiese dell'Oriente

 e dell'Occidente, è nata la professione di fede 
che a giusto titolo viene detta "apostolica", dal
momento che tutti i suoi enunciati sono ricavati, come 

abbiamo visto nella nostra ricerca e dagli scritti degli apostoli.
Nel quarto secolo, poi per aiutare la fede delle comunità cristiane
 insidiate dal pullulare delle eresie trinitarie, si sono elaborate
professioni più analitiche e ampie, sempre rispettando la struttura 
fondamentale tripartita del Simbolo "apostolico".Così si è configurato il "Simbolo niceno-costantinopolitano ",
 accolto da tutte le Chiese ed entrato in  tutte le liturgie.
Card.  Biffi da "Il cuore dell'annuncio cristiano" ed. Elledici

domenica 23 settembre 2012

Sia benedetto quell’imprevisto che rovina i nostri piani

Sia benedetto quell’imprevisto che rovina i nostri piani

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agosto 26, 2012 Aldo Trento
Padre Aldo, sono in una situazione che non avrei mai immaginato potesse succedere a me. Credevo di avere pianificato tutto, ho terminato la facoltà di Medicina con una media del 30, ho un fidanzato, non manca niente alla mia vita. Avevo tanta forza, sentivo che potevo stravincere, che niente avrebbe potuto fermarmi. Sono sempre stata ossessionata dall’avere la migliore media accademica, a qualsiasi costo, lasciando da parte molte cose. Credevo che questo mi avrebbe portato a essere una professionista di successo e di conseguenza ad avere un buon lavoro nei migliori ospedali, la migliore formazione e una stabilità economica. Fino a quando mi sono trovata, improvvisamente, completamente paralizzata e piena di terrore: ho sperimentato un vuoto enorme, mi è sembrato che tutta la vita incominciasse a cadere a pezzi e mi sono emerse mille domande. Dove sto andando? Qual è il senso di tutto questo? Alla fine, perché tanto studio? Per essere la migliore? Per guadagnare denaro? Perché? Per goderne con chi? Padre, mi sento tanto ingrata per essere così, l’ho capito una volta raggiunto tutto quello che più desideravo e mi sento profondamente triste e sola. Sola anche se ho un fidanzato. Perché? Mi sento completamente incompresa: come può essere che dopo aver condiviso tre anni della mia vita con lui adesso quando lo vedo non capisco di cosa mi parla, non so di cosa parlargli, come se non lo conoscessi? Sembra un incubo, come se mi fossi sposata e un giorno mi fossi svegliata e, guardandolo, mi fossi spaventata: chi è questo che è al mio fianco? Voglio forse creare una famiglia con lui? Educare un bambino? È un’angoscia orribile, perché mi sento schiacciata, completamente soffocata, come se non avessi altra uscita se non sopportarlo, anche se non sono ancora sposata con lui. 
Lettera firmata

Quid animo satis?, si chiedeva San Francesco. Cara amica, non esiste una posizione più umana, più bella, più ragionevole della tua. Vivere intensamente il reale significa fare i conti con queste domande, che sono il tessuto ontologico dell’io umano. All’alba della tua vita hai riposto tutta la tua fiducia, la tua ragione nel vivere per i miti della cultura dominante pagana: il fidanzato, il successo e un corso di studi che ti permettesse di guadagnare denaro. Anche per i tuoi genitori questi erano i pilastri della loro preoccupazione educativa. Infatti, cosa sognano i padri borghesi di oggi per i loro figli? Che siano i migliori. Che abbiano successo, che si sposino e se possibile (qui in Paraguay è una priorità assoluta) che abbiano dei figli. Tu hai già raggiunto una parte di questi progetti: sei medico, sei uscita dall’università con i migliori voti, hai un fidanzato e un ambiente che ti garantisce tutto. Ma non sei felice. Non solo, giudichi la tua vita come un totale fallimento. Ti sei sentita paralizzata e piena di terrore, sperimentando un vuoto enorme, fino al punto da percepire che tutta la tua esistenza stia cominciando a cadere a pezzi, con mille questioni che ti tormentano. È come se improvvisamente un imprevisto fosse entrato nella tua vita, un imprevisto che ha rovinato tutti i tuoi progetti, i tuoi sogni. E questo imprevisto si chiama “cuore”.
Ma non il cuore di cui si parla tanto il giorno di San Valentino o quello che molte volte hai disegnato spedendo una lettera al tuo moroso. Il cuore è un’altra cosa, più profonda e unica. Il cuore non è il sentimento, l’affetto, ciò che mi piace, come tutti siamo abituati a pensare. Il cuore coincide con quella sete di felicità, di amore, di bellezza, di giustizia, di verità che pulsa nello svegliarci alla vita. Il cuore cerca un’altra cosa, più in là di ciò che tocchiamo, vediamo, percepiamo. Il cuore è come l’Icaro di Matisse: cerca l’Infinito.
Già alla tua tenera età, ti sei resa conto che il fidanzato e il successo, ottenuto sudando “sangue”, non solo non compiono le tue attese, ma hanno lasciato nel profondo del tuo essere una terribile delusione, un vuoto mai sperimentato prima. Ciò che ora stai vivendo è l’esperienza di qualsiasi uomo seriamente implicato con la sua vita, con il reale. Non esiste genio umano che non viva il tuo stesso dramma e molte volte la tua disperazione. È il prezzo che uno paga alla vita, alla realtà quando la prende sul serio.
Ma è un prezzo che ti porta in cammino verso la ricerca, come afferma il salmo 62, dell’Unicum che corrisponde alla natura del cuore e che è la ragione stessa della vita: «Oh Dio Tu sei il mio Dio, per te mi alzo, la mia anima è assetata di Te, la mia carne ha ansia di Te, come terra deserta arida senz’acqua».
Tutto è niente, solo Dio è grande. Tutto termina, solo Dio è eterno e il cuore dell’uomo è eterno, perché è creato per Dio.
Cesare Pavese, uno dei più amati scrittori della mia gioventù, dopo aver vinto un prestigioso premio letterario in Italia ha scritto: «Apoteosi ieri a Roma! Ed ora?». E in un altro scritto: «Tutti mi cercano perché sono famoso… ma nessuno è capace di offrirmi un minuto di totale e gratuita simpatia. E da chi non è capace neanche di questo piccolo gesto non accetto neanche una sigaretta». Per Pavese questa delusione, questa sete di Infinito, di amore che non ha avuto la grazia di sperimentare nella sua vita come una definitività, l’ha portato al suicidio. È la vita che chiede l’eternità. Non si può pensare, e sarebbe disumano cadere nell’illusione, che un aspetto compiuto della vita possa risolverla.
La vita nella sua totalità è fatta per l’Infinito, come mi ricordava ogni giorno una ragazza di 17 anni malata di cancro che abitava alla Clinica San Ricardo Pampuri e che quando salutavo mi rispondeva: «Padre sono felice, perché sono benedetta». E benedetta nella sua posizione significa: «Scelta, amata da Dio». Siamo fatti per l’Infinito e l’Infinito non dipende da te. Da te dipende il fatto di riconoscerlo. L’Infinto è l’Essere che ti crea in questo momento, l’oggetto della tua ragione, del tuo cuore che instancabilmente si chiede il perché delle cose, della realtà, della vita. È ciò che permette ai miei pazienti, come Carlos, di terminare i suoi ultimi giorni nella Clinica componendo la sua ultima canzone: “Morire Cantando”. Che commozione mi suscitano, ogni volta che mi vengono in mente, le parole di una poesia di Giuseppe Ungaretti: «Chiuso tra le cose che muoiono (perfino il cielo pieno di stelle finirà) perché desidero Dio?».
È la stessa domanda che ha accompagnato per secoli gli Indios Guaraní che vagavano senza riposo, cercando la terra senza il male che avevano perso per una colpa originale (la metafora della vipera che ha contaminato l’Eden creato da Tupá). Hanno terminato il loro cammino solo quando, grazie ai missionari, hanno incontrato l’Avvenimento cristiano. Cioè quando hanno incontrato Cristo, presenza viva, corrispondente ai desideri umani del cuore. L’uomo, poiché creatura divina, pensato fin dall’eternità dal Mistero, non troverà mai in questa terra la pienezza affettiva, quel desiderio di compimento totale di se stesso. Sant’Agostino lo ha detto molto bene, dopo una vita disordinata alla ricerca della felicità, quando ha affermato: «Il mio cuore è sempre stato inquieto finché ho incontrato Te, oh Signore». Per questo, quando l’essere umano, come nel caso di questa ragazza, ripone la ragione della sua vita negli idoli, precipita nella delusione del niente. L’idolo ha la bocca ma non parla, non comunica, ha gli occhi ma non vede, ha orecchie ma non sente, cioè non percepisce la voce dell’Infinito che chiama la sua creatura per il suo nome.
Le conseguenze della nostra devozione agli idoli, che si chiami mondo, fidanzato, moglie, successo o un’altra cosa, sono il vuoto e la disperazione. Quindi c’è un problema. Tutta la cultura moderna tocca l’uomo, lo influenza, è organizzata per censurare questo grido del cuore, per far tacere le nostre esigenze più profonde, i nostri desideri più potenti come quello d’amore, di felicità, di giustizia, di bellezza, di verità, sostituendoli con altri creati dal potere dominante positivista che “obbliga” l’uomo a fermarsi all’apparenza delle cose. In questo modo, l’essere umano diventa come una marionetta, quando non è schiacciato nella sua dignità. Nonostante ciò, il potere non riuscirà mai a distruggere l’uomo, perché ci sarà sempre un momento in cui il suo cuore, come quello di questa ragazza, si risveglierà e con i suoi battiti spingerà verso la libertà, per cercare la verità di se stesso. La verità di ciascuno è quel bambino che contempliamo nel presepe e che è un fatto vivo, presente oggi nella realtà umana che è la Chiesa. La Chiesa si pone come l’unico baluardo in difesa dell’uomo e della sua dignità, perché quel Verbo che si è fatto carne nella Vergine Maria continua a essere fisicamente presente oggi nella Chiesa, in quei tratti umani trasfigurati dall’incontro con Cristo. I Santi di ieri e di oggi sono l’evidenza della presenza di Cristo, l’unico che può rispondere alla domanda di questa ragazza delusa dall’illusione della carriera e dall’incapacità del fidanzato di riempire la sua fame e sete di amore. Ancora una volta ripropongo la bellissima affermazione di Vittorino, il grande oratore e senatore dell’impero romano convertito al cristianesimo: «Incontrando Cristo sono diventato uomo».
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