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sabato 28 aprile 2012

La beatificazione di Giuseppe Toniolo

La beatificazione di Giuseppe Toniolo (1845-1918)
 di PAOLO VIAN 
La beatificazione di Giuseppe Toniolo (1845-1918) è un evento di straordinaria importanza per il cattolicesimo italiano; e non solo per esso. Un padre di famiglia, un docente universitario, un militante cattolico giunge agli onori degli altari: attraverso un cammino incominciato nel 1933 negli ambienti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Un campione dunque dell'Azione Cattolica, che in Toniolo ha visto il modello di un laico fattivamente impegnato nella città secolare, in costante e continua comunione con la gerarchia.
Ma Toniolo supera e oltrepassa le appartenenze di gruppo. Anche allora il mondo cattolico era attraversato, talvolta dilaniato, da anime diverse spesso in aperta competizione, fra l'intransigenza monolitica dell'Opera dei Congressi di Giovanni Battista Paganuzzi e le impazienze innovatrici dei giovani che mordevano il freno finendo in molti casi per approdare politicamente al murrismo più esasperato e idealmente alla deriva modernista. Consapevole dei pericoli e dei rischi di entrambe le posizioni, Toniolo fece di tutto per promuovere e animare, nella carità, un dialogo franco e schietto fra le parti, rimanendo indefettibilmente fedele alla Chiesa e ai suoi vescovi.
Toniolo ha voluto vivere in comunione con i pastori della Chiesa, di cui spesso era amico e collaboratore; non per proteggersi da possibili fulmini ma per muoversi in un ambiente vitale e nella garanzia della verità. Chi poi anche sommariamente sfogliasse le sue lettere si renderebbe conto della vita intensissima di questo intellettuale, di questo accademico che non si è stancato di attraversare l'Italia e l'Europa per sostenere la causa cattolica con tutti i mezzi possibili. E che a costo di massacranti viaggi anche notturni mai mancava alle sue lezioni universitarie a Pisa, per non venir meno ai doveri verso lo Stato e verso gli studenti. Innumerevoli virtù Toniolo ha coltivato in grado eminente. Ma evitiamo di diffonderne un santino, come pure le circostanze indurrebbero a fare, perché la realtà è più bella della rappresentazione agiografica che, con i suoi clichés, finisce spesso per allontanare anziché avvicinare. Chi può legga invece le testimonianze della Positio pisana e si accorgerà di quanta straordinaria umanità sia capace, nella concretezza della quotidianità, una vita totalmente immersa nella fede.
Eppure, quella di Toniolo è una figura rimossa dalla memoria. Gli esponenti del cattolicesimo democratico lo hanno ricordato sino alla generazione di Alcide De Gasperi e, immediatamente dopo, fra i più giovani, di Amintore Fanfani, cresciuto nell'Università Cattolica di Agostino Gemelli, che a Toniolo doveva buona parte della sua ispirazione. Ma dopo di loro venne il diluvio dell'oblio, quasi che la crisi dello Stato liberale, il fascismo e la guerra mondiale avessero cancellato il profilo di un volto riducendolo a un'immagine svanita, più che offuscata, su un muro consunto dal tempo. Nel professore pisano i cattolici italiani potrebbero invece ora riscoprire un esempio di pieno e totale coinvolgimento nella storia con lo sguardo oltre la storia.
Toniolo ha infatti sempre pensato in grande e in profondità, si è confrontato con l'economia, con la società, con le crisi temibili del suo tempo. Si direbbe che nessun aspetto dell'umana convivenza sia rimasto da lui trascurato, dallo sfruttamento degli operai, dei minori e delle donne al rispetto del riposo festivo, dai salari al credito, dalla questione educativa alla ricerca scientifica. Con i suoi sforzi per la Società Cattolica Italiana per gli Studi Scientifici, nata a Como nel 1899, cercò di creare in Italia qualcosa di simile a quello che i cattolici tedeschi, nell'aspro clima del Kulturkampf, avevano messo in campo in Germania con la Görres-Gesellschaft (1876).
Ci riprovò in seguito, fra il 1904 e il 1909, durante il pontificato di Pio X, con un'associazione cattolica internazionale per il progresso delle scienze che, negli anni difficili e arroventati del modernismo e della sua repressione, finì per morire prima di nascere. Ma tutto il lavoro compiuto nella convinzione che la vera scienza non può contraddire la fede e la sua profonda ragionevolezza non andò perduto, perché fecondò padre Gemelli nel dare vita all'Università Cattolica.
Non fu la particolare condizione dei cattolici italiani, ancora necessariamente estranei all'impegno politico, a spingere Toniolo alla riflessione sull'economia e sulla società. Fu piuttosto la convinzione che nessun problema di natura sociale o politica potesse essere affrontato senza studiarne la genesi e la matrice ideale e culturale. Contro un pragmatismo dal corto respiro, contro un empirismo senza prospettive, il nuovo beato ci insegna che tutte le questioni in radice si ricollegano e si riducono alla visione che dell'uomo e di Dio una società elabora; e dunque che su quella frontiera, eminentemente culturale, bisogna combattere la battaglia. Toniolo è sicuramente colui che più ha fatto per sprovincializzare la cultura cattolica italiana, riscattandola dall'angustia delle risentite rivendicazioni post-unitarie per elevarla al dialogo con i movimenti cattolici europei, con i loro pensatori e con i loro protagonisti; e al tempo stesso esponendola alle sfide del confronto con le altre visioni del mondo, di matrice liberale e socialista. A ben vedere, però, la sua lezione non è tanto di contenuto, anche se i disastrosi sviluppi di un'economia svincolata dall'etica sembrano dare singolarmente ragione a chi, nel dicembre 1873, tenne la sua "prelezione" all'università di Padova sul tema "Dell'elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche".
Con la beatificazione di Toniolo i cattolici italiani non guadagnano soltanto, nella comunione dei santi, un valido aiuto e protettore. Hanno l'occasione di riscoprire in lui un esempio e un modello di cui, nelle mutate circostanze storiche, seguire il cammino e soprattutto il metodo: la fedeltà alla storia e alla società, per trascenderle. Perché essere fedeli a Dio è l'unico modo per essere veramente fedeli all'uomo, che nel Padre ha la premessa e il presidio della sua dignità. Toniolo ci ricorda che l'amore e la fedeltà alla storia e alla società - in una parola, all'uomo - sono tanto più veri ed efficaci quanto più nascono dal desiderio di Dio, dal quale assumono regola e sostanza, per non fallire e rovesciarsi nel loro contrario. Come il secolo XX, dopo la morte di Toniolo, avrebbe eloquentemente dimostrato.

(©L'Osservatore Romano 29 aprile 2012)

San Marco Evangelista – 25 Aprile


San Marco Evangelista – 25 Aprile

Marco Evangelista è conosciuto soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di S. Pietro e S. Paolo.

Non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo che, secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo…: «Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo.» (Mc 14, 51-52).
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio” come si legge nella sua prima lettera (5,13): «Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio.»
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco, il cui vero nome era Giovanni, usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagne del Tauro, Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà: «Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme.» (Atti 13,13).
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo. Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco che volle seguirli di nuovo ad Antiochia. Quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo, non fidandosi, non lo volle con sé ; scelse un altro discepolo, Sila, e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro, salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio. L’apostolo parlò di lui ai Colossesi: «Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni – se verrà da voi, fategli buona accoglienza» (Col 4,10) e a Timoteo: «Affrettati a venire da me al più presto… Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero.» (2 Tm 4,9-11)
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro.
Affermatasi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò, in un primo momento, il suo discepolo e segretario ad evangelizzare l’Italia settentrionale. Ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e, dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: « Pax tibi Marce evangelista meus » e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto; qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria, subì il martirio sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni. Ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così, ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
In questo luogo, nell’828, approdarono i due mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista, minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore, ma questa andò distrutta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica. L’attuale “Terza San Marco” fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini, e completata nei mosaici e marmi dal suo successore, Domenico Selvo (1071-1084). La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa, celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica. Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: «Pax tibi Marce evangelista meus», divenne lo stemma della Serenissima.

Il Vangelo scritto da Marco va posto cronologicamente tra quello di S. Matteo (scritto verso il 40) e quello di S. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
Il racconto evangelico di Marco, il più breve dei quattro, è formato di soli sedici capitoli in lingua greca, ed è diviso in due parti. La prima è data dai primi otto capitoli, nei quali riporta le azioni di Gesù, insistendo sul racconto di numerosi miracoli al fine di dimostrare che Gesù è davvero il Figlio di Dio. Sembra che per questo motivo, fin dall’antichità cristiana, sia stato scelto il leone quale suo simbolo perché come il leone con il suo ruggito domina le voci degli altri animali, così Marco proclama forte che Gesù è Figlio di Dio.
Nella seconda parte di preferenza sono presentate le parole di Gesù, che spiegano le condizioni necessarie per seguire il Redentore sino alla morte in croce.

Gianna Beretta Molla,


Gianna Beretta Molla,

 una vita luminosa prima del sacrificio 

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aprile 27, 2012 Benedetta Frigerio
Cinquant’anni fa moriva la donna che sacrificò la propria vita per preservare quella della figlia che portava in grembo. Una storia esemplare testimoniata dai tanti appunti e scritti lasciati sui taccuini e che qui ripubblichiamo.
Cinquant’anni fa, il 28 aprile 1962, moriva Gianna Beretta Molla, medico e madre di quattro figli, proclamata santa da papa Giovanni Paolo II nel 2004. Lo stesso papa che volle beatificarla nel 1994, facendo comprendere a molti che la santità è alla portata di ogni cristiano. E che non è fatta di atti eroici, ma di sì quotidiani alla volontà di Dio. Sarebbe riduttivo, infatti, venerare Gianna solo per l’ultimo sacrificio, quello estremo della vita, accettato per la salvezza del quarto figlio in grembo.
Gianna cresce in una famiglia di tredici figli. Fin da piccola affronta le numerose prove che la vita le riserva alla luce della fede trasmessale dai suoi genitori. Una fede intelligente che riconosce la presenza benevola di Dio in ogni frangente, piccolo o grande.
Scrive Gianna sui suoi appunti all’età di 22 anni, dopo la morte dei genitori avvenuta solo due anni prima: «La vera preghiera è quella di adorazione: riconoscimento della bontà, dell’amore di Dio». E continua: «Il mondo cerca la gioia ma non la trova perché lontano da Dio (…) il segreto della felicità è di vivere momento per momento, e di ringraziare il Signore di tutto ciò che Egli nella sua bontà ci manda giorno per giorno». Gianna ama tutto della vita, scala le montagne, adora le gite, la pittura, la musica. Scriverà al fidanzato: «È meraviglioso quando si è in alto, con un cielo sereno, la neve bianchissima, come si gode e si loda Iddio».
Gianna intanto si è iscritta alla facoltà di medicina. In questi anni prega molto e fa pregare per conoscere la propria vocazione. Lei vorrebbe fortemente partire per il Brasile dove suo fratello Alberto vive la missione sacerdotale. Alberto, infatti, le racconta delle necessità cui deve far fronte ogni giorno. Così in Gianna matura una vocazione missionaria, che non verrà tradita dal fatto che non potrà partite a causa della salute cagionevole in cui il suo direttore spirituale coglie un segno chiaro: «Gianna, perché non pensi a fare famiglia qui?». Anche la ragazza percepisce queste parole come un richiamo. Scrive a proposito della vocazione: «Che cos’è la vocazione? È un dono di Dio. Se è un dono di Dio, la nostra preoccupazione deve essere quella di conoscere la volontà di Dio. 1) Se Dio vuole 2) Quando Dio Vuole 3) Come Dio vuole. Conoscere la vocazione. In che modo? 1) Interrogare il Cielo con la preghiera 2) Interrogare il nostro direttore spirituale 3) Interrogare noi stessi sapendo le nostre inclinazioni».
Gianna coglie nel consiglio del sacerdote una chiamata drammatica, dato che per anni aveva cercato di andare in missione come medico negli ospedali.
Sposa così Pietro Molla e vive il matrimonio come una preferenza di Dio nei suoi confronti. Donando tutta se stessa al marito come voleva donarsi ai poveri. Per Gianna è Dio che sceglie che forma prendere. Non la possiamo immaginare noi. Ma Dio non toglie nulla: il Suo disegno è il migliore per noi. Scrive infatti al fidanzato: «Potessi dirti tutto ciò che sento per te! Ma non sono capace – supplisci tu. Il Signore proprio mi ha voluto bene, tu sei l’uomo che desideravo incontrare». E ancora: «Vorrei proprio farti felice ed essere quella che tu desideri: buona, comprensiva e pronta ai sacrifici che la vita ci chiederà (…) Ora ci sei tu, a cui già voglio bene ed intendo donarmi per formare una famiglia veramente cristiana».
Intanto Gianna continua a lavorare come medico anche se non è d’uso per la sposa di un imprenditore importante. E pure nel lavoro la donna da tutta se stessa a Dio. Scrive nel suo ricettario: «Noi abbiamo delle occasioni che il sacerdote non ha. La nostra missione non è finita quando le medicine più non servono. C’è l’anima da portare a Dio e la nostra parola (dei medici) avrebbe autorità. Ogni medico deve consegnarlo (l’ammalato) al Sacerdote. Questi medici cattolici, quanto sono necessari! (…) Che Gesù si faccia vedere in mezzo a noi, trovi tanti medici che offrano se stessi per Lui. “Quando avrete finito la vostra professione – se l’avrete fatto – venite a godere la vita di Dio perché ero ammalato e mi avete guarito”».
Mentre lavora si occupa dei tre figli e dell’educazione delle giovani dell’Azione Cattolica. Che ammonisce contro il rischio dell’attivismo: «L’apostolato si fa prima di tutto in ginocchio (…) per poter dare dobbiamo avere, cioè dobbiamo possedere Dio (…) Pretendere di essere apostoli, di far parte dell’Azione Cattolica e non partecipare poi al sacrificio del Salvatore del mondo è pura immaginazione e illusione!».
All’età di 39 anni rimane incinta del quarto figlio. Le viene diagnosticato un fibroma all’utero che deciderà di non curare per non mettere a rischio la vita del piccolo. Fa di tutto per salvarsi insieme a lui. Lo chiede nella preghiera, ma dirà al marito: «Se dovete scegliere tra me e il bimbo nessuna esitazione: scegliete, e lo esigo, il bimbo. Salvate lui».
Il 20 aprile del 1962, Venerdì Santo, partorisce con taglio cesareo Gianna Emanuela. Dopo una settimana di sofferenze, in cui non vuole calmanti per rimanere in contatto con il Signore, la donna muore pregando: «Gesù ti amo, Gesù ti adoro. Oh se non ci fosse Gesù che ci consola in certi momenti!». Il 28 aprile la donna muore. Compiendo quanto aveva scitto, quasi presagio, 17 anni prima: «Amore e sacrifizio sono così intimamente legati, quanto il sole e la luce. Non si può amare senza soffrire e soffrire senza amare. Guardate alle mamme che veramente amano i loro figlioli: quanti sacrifici fanno, a tutto sono pronte, anche a dare il proprio sangue purché i loro bimbi crescano buoni, sani, robusti! E Gesù non è forse morto in croce per noi, per amore nostro! È col sangue del sacrificio che si afferma e conferma l’amore». La sua vocazione missionaria, invece, si compirà 28 anni dopo, proprio in Brasile. Gianna intercederà dal cielo, salvando una donna brasiliana incinta, che rischiando la vita insieme al suo quarto figlio si rivolge a lei per ottenere la grazia della vita di entrambi.

SIAMO SCIENZIATI, DUNQUE CREDENTI

SIAMO SCIENZIATI, DUNQUE CREDENTI
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di Francesco Agnoli 28-04-2012

C’è compatibilità tra scienza sperimentale e fede in un Dio creatore? Tra scienza e Chiesa; tra scienza e miracoli? Può un uomo di oggi continuare a credere in Cristo, senza essere ed apparire ridicolo e fuori del tempo? Se ne dibatte spesso, per lo più in termini filosofici. Lo si fa anche in questo libro, discutendo sui Dio, l’a
nima, i miracoli, la Chiesa… Ma soprattutto si interrogheranno gli scienziati, i grandi fisici, astronomi, matematici… e si scoprirà che tutti i padri della scienza moderna hanno creduto in Dio.

Si scopriranno le preghiere di Keplero e di Pascal; gli interessi per la Bibbia di Newton; la fede genuina di Pasteur… Si apprenderà che un monaco, padre Benedetto Castelli, ha fondato l’idraulica ed ha inventato il primo pluviometro; che un , padre Andrea Bina, ha inventato il primo sismografo moderno; che Niccolò Copernico era un religioso cattolico; che il primo teorizzatore del Big bang e dell’espansione delle galassie è stato il sacerdote belga Georges Edouard Lemaître; si apprenderà che il padre dell’aeronautica, Francesco Lana de Terzi, è un padre gesuita, come il “principe dei biologi”, Lazzaro Spallanzani e come un pioniere dell’astrofisica, Angelo Secchi; che il padre della geologia e della cristallografia, Niels Stensen,si fece sacerdote e poi divenne vescovo, e che il fondatore della genetica fu il monaco Gregor Mendel…

Si apprenderà che i matematici Gauss ed Eluero leggevano tutte le sere il Vangelo, che i matematici A. L. Cauchy, Ennio De Giorgi e Maria Gaetana Agnesi si dedicavano, oltre che alla matematica, all’assistenza ai poveri secondo lo spirito cristiano… Forse qualcuno leggerà per la prima volta che le uniche grandi persecuzioni contro scienziati sono avvenute durante la laicissima rivoluzione francese (a danno di scienziati particolarmente devoti, come Luigi Galvani e Paolo Ruffini), e, soprattutto, nell’URSS ateo e comunista, dove chi proponeva teorie scientifiche vere, ma non ortodosse rispetto al marxismo, ha perso il posto e, non di rado, la vita.


Francesco Agnoli, “Scienziati, dunque credenti”, Cantagalli, Siena, 2012 (pagine 185, con inserto fotografico a colori, euro 14) In uscita a maggio

lunedì 23 aprile 2012

TANTARDINI/ Don Giacomo,il Giuss e quella lezione sulla felicità

Roma

TANTARDINI/ Don Giacomo, 

           il Giuss e quella lezione sulla felicità

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Vincenzo Tondi della Mura


lunedì 23 aprile 2012

Ho cominciato a frequentare don Giacomo Tantardini con periodica assiduità dai primissimi anni Novanta, senza più smettere d’incontrarlo. Arrivavo da lui carico delle domande che le vicissitudini della vita solitamente provocano (“cosa fare?”, “come decidere?”, “che comportamento assumere?”, ecc.); tuttavia, finiva che non gliene rivolgevo nemmeno una: guardando i suoi occhi vispi e commossi, vedendolo pregare, partecipando ai suoi silenzi, ascoltando le sue parole, le asprezze delle mie preoccupazioni ben presto si rasserenavano e tutto mi pareva diventare più facile, quasi come quando Peguy, arrivato in pellegrinaggio a Chartres, constatava: “Ecco il luogo ove tutto resta più facile”.
Altre volte, invece, necessitando di un suo giudizio, m’imponevo di porgli il problema per me al momento insormontabile. Specialmente nei primi anni, però, la risposta mi pareva sempre elusiva e comunque non esauriente; dopo avermi ascoltato e dato dei piccoli suggerimenti, la sua insistenza rimaneva un’altra: “Inginocchiati e dì un’Ave Maria alla Madonna e un Gloria al Padre a San Giuseppe”. E così ho imparato a inginocchiarmi e con il tempo ho iniziato a capire.
Una volta, tanti anni dopo, alla vigilia del mio matrimonio, lo ringraziai per l’insegnamento ricevuto e aggiunsi che, forse, era stata propria quella la lezione più grande che era riuscito a offrire ai tanti che aveva incontrato, o che lo guardavano con interesse. Gli si gonfiarono gli occhi di lacrime e mi rispose d’impeto: “È proprio così! Diversamente avrei fondato una corrente di CL; ma non è questo che interessa, non è questo!”.
Veniva in mente una lezione di don Giussani di alcuni anni addietro sul ruolo del maestro: “Un maestro impedisce che la drammaticità sia arrestata in te e stabilisce una lotta dentro di te e l’ambiente, in nome del Destino e, perciò, in forza di una drammaticità che egli per primo ha scoperto e vive. Il maestro sempre commuove e sommuove. Muove le varie parti, di cui sei composto, e una la getta contro l’altra, e tu capisci che le cose non sono ancora a posto. Allora chiedi: «Ma come si fa a mettere le cose a posto?» E il maestro risponde: «Non lo so» - perché questa è l’ultima risposta che si può dare - «lo sa soltanto Iddio, lo sa soltanto Cristo! Perciò mettiamoci in coda, seguiamolo, guardiamolo, stiamo lì attenti e cerchiamo di mettere a posto come siamo capaci»”.
E così, di commozione in commozione, si sono succeduti gli eventi della vita, secondo una linea che, iniziando a guardare con i suoi occhi, diveniva motivo di gratitudine e di silenzio (riecheggiando il brano, caro a don Giussani, del monaco eremita Laurentius: “Mi fu detto: tutto deve essere accolto senza parole e trattenuto nel silenzio. Allora mi accorsi che forse tutta la mia esistenza sarebbe trascorsa nel rendermi conto di ciò che mi era accaduto. E il Tuo ricordo mi riempie di silenzio”).
Al contempo, proprio guardando quel suo sguardo, così attento a non aggiungere nulla a quanto suggerito dalla realtà (“Pietro e il suo successore hanno imparato a lasciare tutta l’iniziativa all’agire del Signore. Hanno imparato che a noi è dato solo riconoscere e seguire quello che il Signore opera”), tante sue insistenze divenivano comprensibili. Risultavano chiare, ad esempio, le ragioni della sua ammirazione verso Montini (“L’arcivescovo che con discernimento evangelico aveva per primo riconosciuto «i frutti buoni» dell’apostolato di Giussani tra gli studenti”) e verso De Gasperi, La Pira, Moro e Andreotti (i quali, ripetendo le parole di Giussani, fra i cattolici in politica erano stati quelli più “attenti al bene comune con competenza reale e adeguata”).
Ricordo la commozione che gli provocò il testo di una lettera che avevo trovato in un libro di storia costituzionale, dove un testimone raccontava il modo mirabile e (apparentemente) casuale con cui era stato formulato il testo dell’art. 7 della Costituzione (“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”). Era scritto nella lettera: “ricordi quella mattina dell’autunno, credo, 1946? In casa Montini, nella biblioteca Montini, La Pira prende un libro: lo apre: viene fuori il testo della Immortale Dei (se non sbaglio) di Leone XIII nel punto ove si distinguono le due sfere Chiesa-Stato. Il testo latino viene tradotto in italiano da Monsignor Montini: il testo italiano viene poi presentato a Togliatti (che lo approva): e diventa così l’art. 7 della Costituzione italiana”.
Tutto nacque così - aggiungeva lui - dal sano realismo di quegli uomini e dalla consapevolezza che, per salvaguardare la libertà dell’esperienza cristiana, occorresse tener conto delle condizioni del potere reale e, dunque, della necessità di conseguire quel compromesso fra le grandi tradizioni culturali, popolari ed economiche del Paese, il cui riconoscimento costituzionale ha poi consentito la pace sociale e lo sviluppo economico.
Per contro, proprio una simile consapevolezza lo induceva a giudicare con scetticismo l’esperienza della Seconda Repubblica; faceva suo quel brano del “De civitate Dei” (V, 17), in cui S. Agostino lamenta come i Romani, se avessero esteso le loro leggi ai popoli assoggettati, realizzando una transizione attraverso un compromesso, anziché compiendo grandi stragi di guerra, avrebbero raggiunto un esito migliore, anche se non ci sarebbe stata alcuna gloria per chi invece avrebbe potuto proclamarsi vincitore.
Nasceva, insomma, dalla gratitudine per l’esperienza di pace sociale, sviluppo economico e libertà religiosa sperimentata dal Paese, quell’ammirazione provata da don Giacomo verso la politica di rispetto della realtà delle cose posta in essere da Andreotti (che ripete di sé: “Ho sempre pensato che i ministri più meritevoli siano quelli che invece di affannarsi nell’ennesima riforma cercano di far funzionare con umiltà il meccanismo che c’è”).
Ammirazione, del resto, ricambiata dall’anziano statista; basti pensare al giudizio reso da quest’ultimo in uno degli ultimi editoriali di 30 Giorni, in cui si legge: “Tornando a don Giussani, l’altra cosa che mi ha permesso di capirlo meglio è stato partecipare molte volte in questi anni alla messa nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura che celebra don Giacomo Tantardini, un sacerdote che ha sempre manifestato nei confronti di don Giussani ammirazione e devozione; presentandolo sempre come il punto di riferimento al quale guardare. Mi è capitato molte volte, da quando sono diventato direttore di 30 Giorni, di partecipare a queste messe del sabato sera, ai battesimi, alle cresime, e ogni volta ho visto qualcosa di unico: studenti e lavoratori, giovani sposi con i bambini per mano che vanno insieme a ricevere la comunione, una cosa veramente paradisiaca. Mi sono chiesto, anche grazie a una fortunata copertina di 30 Giorni del 2008 dedicata a Lourdes, se non fosse poi questo il futuro del cristianesimo, il modello del laicato per i prossimi anni. Di certo mi ha permesso di comprendere ed entrare più in sintonia con le parole ascoltate in passato da don Giussani”.
Ed era proprio così: ascoltare don Giacomo aiutava a comprendere meglio don Giussani. Le parole del primo muovevano da una gratitudine commossa verso il secondo, che gli proveniva anche dall’essersi sentito particolarmente amato. Sicché, quando raccontava di Pietro e Giovanni e di come Giovanni fosse stato il più amato dal Signore, sembrava quasi che raccontasse di sé e della predilezione che Giussani gli aveva portato (“Pietro vuole bene a Gesù più di quanto gliene vuole Giovanni. Ma Giovanni è più amato dal Signore. E si corre più veloci non perché si ama, ma perché si è amati. «Meliorem Petrum, feliciorem Ioannem» dice sant’Agostino. Pietro è più buono, ma Giovanni è più felice. Perché la felicità non nasce neppure dal nostro essere buoni, la felicità nasce nell’essere prediletti. Pietro è più buono di Giovanni, ma Giovanni, essendo più amato, è più felice, ed essendo più felice corre di più”).
E così, diventano ancora più comprensibili e attuali le ultime parole che don Giacomo scrisse nel ricordo di don Giussani: “Giussani è morto il 22 febbraio, giorno in cui la liturgia romana ricordava la Cattedra di san Pietro. Nel breviario si leggevano queste parole di papa Leone Magno: «Le porte degli inferi non possono impedire questo riconoscimento della fede che sfugge anche ai legami della morte. Infatti questo riconoscimento solleva al cielo». Me, per grazia come bambino che guarda domandando. Te, che ora vedi faccia a faccia, nella gloria, Colui che mi hai aiutato a riconoscere e ad amare. Così faccia a faccia ora puoi ottenere dalla Madonna, come mi hai detto in uno degli ultimi incontri per confermare la mia fragile speranza, che si manifesti quale Regina non solo del cielo, ma anche della terra”.


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domenica 22 aprile 2012

UNA GRANDE SUORA

UNA GRANDE SUORA !!!
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Se alla Santa Messa si canta Ligabue

Se alla Santa Messa si canta Ligabue: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”…

21 aprile 2012 / In News
Ma i vescovi e i preti credono ancora alla vita eterna? Spero di sì, ma dovrebbero farcelo capire. Specie nei funerali, in particolare quelli di personaggi famosi.
Ho letto, per esempio, le cronache sul rito funebre del giovane calciatore Piermario Morosini che pure “Avvenire” ha messo in prima pagina con una grande foto notizia e questo titolo: “L’ultimo gol di Morosini. Folla ed emozione ai funerali a Bergamo”. Un altro sommario del giornale dei vescovi diceva: “Lacrime, canzoni e applausi. Commovente il ricordo del suo parroco”.
E’ sicuro “Avvenire” che non ci sia nulla de eccepire proprio su quelle canzoni e sul resto?
Scrivono i giornali che durante la santa liturgia – invece degli inni sacri che accompagnano un nostro fratello davanti al giudizio di Dio – sono state cantate le canzoni di Ligabue.
Dunque in chiesa, mentre davanti all’altare c’era la bara di quel povero giovane, con il dolore dei suoi cari, e si distribuiva la comunione, venivano schitarrate cose  del genere: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”.
Parole di grande spiritualità? Di evidente connotazione cristiana? Altri “immortali capolavori” dello stornellatore emiliano eseguiti durante la liturgia, dicono le cronache, sono stati “Urlando contro il cielo” (che è tutto un programma) e “Non è tempo per noi” il cui messaggio è espresso da queste parole: “certi giorni ci chiediamo è tutti qui?/ E la risposta è sempre sì”.
Tutto questo è accaduto all’interno di un rito liturgico, ciò che la Chiesa ha di più sacro. E mentre l’attuale papa Benedetto XVI si erge (è un caposaldo del suo pontificato) in difesa della sacralità della liturgia, contro invenzioni e contro ogni tipo di abuso.
Ma i vescovi – che in buona parte hanno opposto un muro alla decisione del papa di ridare cittadinanza all’antico rito della Chiesa – non hanno poi nulla da eccepire di fronte a trovate simili nella liturgia.
Del resto non sconcerta solo la scelta canora, tanto più in presenza di un rito funebre. A suscitare interrogativi e perplessità sono anche le parole del parroco e quelle dello stesso vescovo di Bergamo.
Del parroco agenzie e giornali hanno riferito solo lo smisurato panegirico del defunto. Ieri un giornale online aveva addirittura questo sottotitolo: “Il parroco: ‘è stato l’immagine di Dio’ ”. Le testuali parole erano un po’ meno esagerate, ma non troppo: “In questi giorni Piermario è stata l’immagine più bella di Dio perché è stata creatura di pace”.  
A dire il vero la Chiesa prescrive che le messe funebri non siano spettacoli e le omelie non siano elogi biografici del morto, ma una meditazione sull’estrema fragilità della vita, sulla necessità di convertirsi e un’esortazione a pregare per la salvezza dell’anima di quel fratello, perché tutti siamo peccatori e, davanti al giudizio di Dio, come poveri e umili mendicanti, abbiamo bisogno solo delle preghiere dei fratelli e della misericordia del Signore.
Non so se il parroco abbia accennato a queste cose, ben più importanti dell’apologia. Di fatto agenzie e giornali non ne hanno fatto menzione e, soprattutto, neanche il vescovo ha sentito il bisogno di richiamare quei fondamentali.
Il suo messaggio – perché quando ci sono i media è difficile che i prelati facciano mancare la loro voce – è stato anch’esso un panegirico (è riportato nel sito del giornale della diocesi).
Solo alla fine del lungo discorso, composto di 290 parole, ha fatto capolino una volta – e molto formalmente – un fugace accenno alla resurrezione (“vivere nella speranza della resurrezione” per “rendere migliore questo povero mondo”).
Da nessuna parte il prelato spiega che la vita sulla terra è fuggevole, che è una lotta per guadagnarsi la vita eterna, l’unica che vale, che il senso dell’esistenza terrena è questo.
Da nessuna parte ha ammonito sulla serietà delle nostre scelte di fronte alla possibilità della dannazione eterna o della beatitudine.
Da nessuna parte il vescovo ha ricordato a parenti e amici del giovane quella verità, così bella e confortante, proclamata dalla Chiesa nella liturgia, che recita: “ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”.
E’ questa verità che abbiamo bisogno di sentirci annunciare quando siamo sopraffatti dalla morte di una persona amata. Perché significa che abbiamo un’anima immortale e che rivedremo – dopo una breve pausa – coloro che amiamo e addirittura ci sarà restituito il nostro corpo, senza più limiti, lacrime e sofferenze.
Questa impareggiabile consolazione la Chiesa dovrebbe gridarla. Invece i pastori la tacciono.
Così come tacciono il fatto che i nostri cari, proprio perché continuano a esistere e sono davanti al giudizio di Dio e nella purificazione dei propri peccati, hanno bisogno delle nostre preghiere e sacrifici (per esempio hanno bisogno della pia pratica delle indulgenze).
E’ la bellezza della comunione dei santi. Infatti, dopo Cristo, la morte non è più un abisso di lontananza, ma la nostra unione rimane e possiamo continuare ad aiutarci. Dal cielo possono aiutare noi e noi possiamo aiutare loro.
Almeno di fronte alla morte vescovi e preti potrebbero dire una parola cristiana?
Pregare per le anime del purgatorio è addirittura una delle opere di misericordia spirituale (insieme a un’altra: “consolare gli afflitti”).
Forse la vera teologia della liberazione è proprio questa perché la preghiera di suffragio può davvero liberare delle creature, può donare la felicità totale e definitiva a chi ancora soffre in purgatorio.
Questa almeno è la dottrina della Chiesa e si desidererebbe sentirla annunciare e insegnare da vescovi e parroci. Che però, invece di parlare di Dio e della vita eterna, preferiscono spesso strologare delle cose del mondo.
E non secondo l’ottica della dottrina sociale cristiana. In genere vanno dietro alle mode del politically correct.
Quella stessa diocesi di Bergamo di cui si è detto, ad esempio, ha fondato un “Centro di etica ambientale” che di recente ha realizzato un corso per i giovani in cui è stato chiamato a pontificare, sull’educazione ambientale, con il climatologo Luca Mercalli, il cantante Roberto Vecchioni.
E, a riprova che nella Curia di Bergamo si frequentano più le canzonette che la teologia dei Novissimi, il presidente di quel Centro diocesano, don Francesco Poli, come riporta un articolo di Avvenire, ha testualmente affermato: “Immagina un mondo nuovo, cantavano i Beatles. Sono passati 40 anni e me lo ripeto ancora”.
Purtroppo pure sulla cultura canzonettistica questi ecclesiastici lasciano a desiderare, perché quella canzone non era cantata dai Beatles, ma fu scritta (ed eseguita) dopo il loro scioglimento da John Lennon.
E quel brano diventò l’inno del fricchettonismo planetario e del Lennon-pensiero, perché era un colossale sberleffo contro la religione.
Infatti cominciava così: “Imagine there’s no heaven”, cioè “immagina che non ci sia il paradiso”, e continuava “and no religion too”, cioè “e nessuna religione”.
Questo era il sogno celebrato da Lennon in quella canzone. Di certo non avrebbe immaginato di vederlo celebrare pure da curie ed ecclesiastici.
Il povero Piermario Morosini era ed è un caro ragazzo, buono e forte, che merita ben altro e sono grato alla silenziosa suora francescana che nei giorni scorsi, alla Porziuncola, ha lucrato per la sua anima l’indulgenza. Così da regalargli la felicità.
Questa è la pietà cristiana che la Chiesa insegna.

Antonio Socci     da:     http://www.antoniosocci.com/

Da “Libero”, 21 aprile 2012

Sono io, non temete


« Sono io, non temete »
                ***                 

Signore quanto alte sono le onde,
quanto oscura è la notte!
Non vorresti illuminarla
per me che veglio solitaria?

– Tieni saldamente il timone,
abbi fiducia e conserva la calma.
La tua barca è preziosa ai miei occhi,
voglio condurla a buon porto.

Tieni continuamente
gli occhi fissi alla bussola.
Essa aiuta a giungere alla meta
attraverso notti e tempeste.

L'ago della bussola
pur oscillando resta fermo.
Ti mostrerà la rotta
che voglio vederti fare.

Abbi fiducia e conserva la calma:
attraverso notti e tempeste
la volontà di Dio, fedele,
ti guida, se veglia il tuo cuore.

 Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein] (1891-1942),
carmelitana, martire, compatrona d'Europa
Poesia : « Am Steuer » / « Al timone », 1940

I "7" SEGRETI DI UNA PERSONA FELICE:

I "7" SEGRETI DI UNA PERSONA FELICE:

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1. Non vi preoccupate di quello che pensano gli altri di voi (il segreto della libertà)

2. I nostri pensieri più profondi si materializzeranno (il segreto della realtà)

3. Amate e accettate il vostro corpo (il segreto della bellezza)

4. Non parlate male delle persone e non giudicate (il segreto dell'amicizia)

5. Regalate l'amore e amate senza limiti (il segreto dell'amore)

6. Imparate prima a dare e poi a ricevere (il segreto della ricchezza)

7. Pensate di meno, amate di più e sorridete sempre (il segreto della felicità)
♥ (w)


venerdì 20 aprile 2012

È morto ieri sera don Giacomo Tantardini,

Don Giacomo Tantardini: «Giussani mi disse: "In Paradiso sarai vicino a santa Teresa"»

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È morto ieri sera don Giacomo Tantardini, stimato studioso di sant'Agostino e anima del mensile 30 Giorni e del settimanale Il Sabato. Era nato a Barzio nel 1946. I funerali si svolgeranno lunedì 23 aprile a Roma nella basilica di san Lorenzo Fuori le Mura. Pubblichiamo il nostro telegramma e un suo articolo su don Luigi Giussani: «Mi diceva: "Guarda tutti i giorni i giornali"».
in Attualità
20 Apr 2012
È morto ieri sera verso le 21 don Giacomo Tantardini, stimato studioso di sant'Agostino e anima del mensile 30 Giorni e del settimanale Il Sabato. Era nato a Barzio nel 1946. I funerali si svolgeranno lunedì 23 aprile alle 15 a Roma, nella basilica di san Lorenzo Fuori le Mura. 

Il telegramma di Tempi:
Preghiamo la Madonna che accolga in cielo don Giacomo Tantardini e che ci protegga da lassù con la sua gaia fede.
Gli amici di Tempi

Pubblichiamo un articolo scritto da don Tantardini sul mensile 30 Giorni in occasione della scomparsa del fondatore di Comunione e Liberazione, don Luigi Giussani, di cui era discepolo.

Tanti ricordi e pensieri mi vengono in mente e commuovono anche il mio cuore rendendo più semplice il silenzio e la preghiera. Ma dal momento che è il direttore di 30Giorni a richiedermi queste righe prevale il ricordo della stima piena di fiducia che don Giussani aveva nei confronti di Giulio Andreotti. Nell'intervista alla Stampa, come cattolici in politica «attenti al bene comune e con competenza reale e adeguata» Giussani citava «De Gasperi, La Pira, Moro e Andreotti». Era il 4 gennaio 1996, tante cose erano cambiate nelle vicende politiche italiane e anche nelle vicende ecclesiastiche di Comunione e liberazione.

«Il mio seminario»
Così scrivo alcuni ricordi cari, iniziando dal suo ultimo gesto pienamente cosciente quando, accettando di morire per Cristo («Voglio morire per Cristo»), Giussani ha domandato a Julián Carrón, il sacerdote che egli stesso aveva chiamato dalla Spagna per guidare Cl, l'assoluzione all'ultima sua confessione.

Che grazia grande è stato l'essermi confessato da Giussani e l'aver confessato Giussani! Confessandoci così come Gesù ha voluto, come la Santa Chiesa ha stabilito, come nel seminario di Venegono ci era stato insegnato. Sapeva che mi faceva tanto contento quando diceva «il mio seminario». Sapeva bene che era anche il mio seminario. E che quell'insegnamento ricevuto, per cui proprio la Tradizione della fede cattolica poteva condividere con simpatia l'istanza moderna del soggetto, cioè della libertà, era l'ipotesi positiva dello sguardo al mondo di oggi. L'insegnamento del seminario aveva semplicemente confermato le parole della mamma, mentre accompagnava il piccolo Luigi alla messa in parrocchia in quel mattino di marzo: «Come è bello il mondo e come è grande Dio!».

Mi raccontava che monsignor Figini, suo insegnante di dogmatica, il giorno prima dell'ordinazione sacerdotale, lo aveva chiamato per dirgli: «Ti raccomando una sola cosa. Leggi tutti i giorni i giornali». Poi, alzando gli occhi sorridenti verso di me: «No. Non mi ha detto: "leggi". Mi ha detto: "guarda"». E allora gli accennavo che anch'io avevo conosciuto monsignor Figini, quando accompagnavo il mio parroco d'estate a trovarlo alla Culmine di San Pietro (poche case, situate su un passo di montagna a pochi chilometri dal mio paese). A quel tempo ero piccolo ed ero solamente colpito da questo anziano sacerdote che passava i mesi estivi in una canonica di montagna dove la luce elettrica non era ancora arrivata. Poi avrei saputo che a quel sacerdote, che nelle sere d'estate leggeva al lume della lampada a petrolio, Paolo VI avrebbe chiesto di correggere le prime formulazioni della dottrina sulla collegialità da presentare ai padri conciliari. Poi avrei saputo che a quel sacerdote Giussani avrebbe chiesto l'imprimatur ai primi libri di Gs. E Figini dette l'imprimatur senza correggere una parola. Aggiungendo solo che la riscoperta della parola esperienza avrebbe procurato a Giussani sofferenze e incomprensioni. Prima per l'accusa di modernismo. Accusa cui facilmente si poteva rispondere: bastava l'imprimatur di Figini. Poi, negli ultimi decenni, tanti avrebbero opposto, magari inconsapevolmente, esperienza a Tradizione. Come se l'esperienza cristiana non fosse «l'accorgersi della corrispondenza tra l'avvenimento (e quindi la dottrina coi dogmi e i comandamenti) e il cuore». Sorrideva contento quando gli dicevo che questa sua definizione di esperienza giudicava e poneva termine alla grande controversia teologica tra tradizionalisti e théologie nouvelle del secolo scorso. In fondo quel piccolo libro sull'esperienza, con l'imprimatur di Figini, riprendeva ciò che l'apostolo prediletto aveva scritto riguardo ai «seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne»: «Chi va oltre e non si attiene alla dottrina di Cristo non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina possiede il Padre e il Figlio» (2Gv 7. 9).

Anche così si comprende la devozione senza pari che Giussani ha avuto per Montini. L'arcivescovo che con discernimento evangelico aveva per primo riconosciuto «i frutti buoni» del suo apostolato tra gli studenti. Il Papa del Credo del popolo di Dio, cioè della «proclamazione autentica del dogma, sine glossa, con chiarezza». «Il nostro Paolo VI» disse davanti a tutti, durante uno degli ultimi corsi di esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e liberazione.

«Si faceva chiamare Gesù»
Mi hanno detto che, dopo aver domandato di ricevere l'ultima assoluzione, guardando chi era attorno al suo letto, ha chiesto che gli cantassero Noi non sappiamo chi era. Mi hanno detto che ha chiesto più volte di cantargli quel canto anche all'infermiere che lo ha assistito negli ultimi giorni di vita. Come mi ha commosso riconoscere quella gratuita prossimità, quella gratuita predilezione, anche in quest'ultima sua domanda! Non era certamente il canto metafisicamente, culturalmente più profondo. Era semplicemente il canto in cui il nome più caro (la cosa più cara, per riprendere le parole dello starets russo Giovanni) veniva più volte ripetuto: Gesù. «Si faceva chiamare Gesù».

E questo mi riporta a uno dei primi ricordi che ho di Giussani. Fine anni Sessanta. Un'assemblea al Centro Péguy a Milano. Giussani domanda: «Che cosa ci mette in rapporto con Cristo?». Le varie risposte più o meno dicevano tutte: «La comunità, la Chiesa». E alla fine la risposta di Giussani alla domanda di nuovo ripetuta: «Che cosa ci mette in rapporto con Cristo? Il fatto che è risorto». Un seminarista, un prete della Chiesa di Milano non può dimenticare l'annuncio «Christus Dominus resurrexit / Cristo Signore è risorto», che «la voce apostolica del sacerdote» (come dice l'Exsultet ambrosiano) per tre volte ripete nella veglia pasquale. Se non fosse risorto, se non fosse Lui vivo nel Suo vero corpo che gratuitamente si rende presente ai suoi, rendendoli, per Sua grazia, Suo corpo visibile, la nostra fede sarebbe vana, come scrive Paolo (cfr. 1Cor 15, 14.16), e la Chiesa sarebbe un semplice apparato, come scrive Giussani in Perché la Chiesa.

«Si faceva chiamare Gesù». Ricordo quando mi parlò del titolo che aveva suggerito di dare al libro in cui sono raccolte forse le cose più belle che ha detto. Mi disse: «Vedi, mi avevano proposto come titolo "L'affezione a Cristo". Ma io ho suggerito "L'attrattiva Gesù"». E anche quella volta mi ha guardato e ci siamo guardati commossi e grati per la grazia di «una comunanza di spirito» (Fil 2, 1). «Comunanza di spirito» che ha voluto esprimere davanti a tutti con la frase: «L'entusiasmo della dedizione è imparagonabile all'entusiasmo della bellezza». Il nostro sì a Gesù nasce infatti dall'attrattiva che Lui è. E così è possibile sempre dire sì, perché il sì coincide con una domanda: «Vieni!» (Ap 22, 17). Come da bambini avevamo imparato a cantare alla comunione: «Gesù caro, vieni a me, e il mio cuore unisci a Te…».

«Si faceva chiamare Gesù». Un giorno sorridendo mi disse: «Vedi, in Paradiso tu starai vicino a santa Teresa di Gesù Bambino». E io, ridendo: «Se ci sei anche tu vicino». E poi aggiunse: «Quando hai fatto mettere in copertina di 30Giorni la sua frase: "Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me", per me è stato come l'inizio della fine, cioè l'inizio del Paradiso». E così la frase della piccola Teresa di Lisieux l'ha voluta citare davanti a tutti in piazza San Pietro nel suo ultimo incontro con Giovanni Paolo II: «Al grido disperato del pastore Brand nell'omonimo dramma di Ibsen ("Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte m'inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?") risponde l'umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: "Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me"».

«La testimonianza del Figlio di Dio»
Il suo ultimo intervento pubblico è stato letto al Tg2 la sera della vigilia del Santo Natale. Un testo in cui preghiera, poesia e giudizi sulla condizione della Chiesa e del mondo si intrecciavano. Tre parole ricordo ancora come scintille, per usare l'immagine del libro della Sapienza (cfr. Sap 3, 7) tanto cara a Giussani: «… quello che deve rimanere sono le scintille: devono essere acchiappate come lucciole nelle mani di un bambino».

La prima parola: «Un Essere nuovo, in quel luogo, fiorì». Quel fiorì mi ha subito ricordato la frase scritta da Giussani nel lontano 1991 a un comune amico. Una frase di Eraclito: «L'armonia nascosta è più potente dell'armonia conclamata». Cristo è il fiore di Maria. Quante volte un sacerdote ambrosiano, recitando l'inno di Natale di sant'Ambrogio, ha ripetuto: «Fructusque ventris floruit / E il frutto del ventre fiorì».

Seconda parola: «Tutto viene da Lui, ma qui la novità di una vita predomina». Nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, per noi prevale la Sua umanità. Predomina il fatto che Colui che è eterno, rimanendo eterno, ha incominciato a esistere nel tempo. Ricordo il buon Augusto Del Noce che diceva (e ha scritto) che nella teologia di Giussani prevale il tempo sull'eternità. Se il Figlio di Dio non avesse assunto la nostra umanità, se non avesse compiuto nel tempo gesti di un istante che passa, i due ciechi di Gerico non Lo avrebbero sentito passare, e anche noi con loro non avremmo gridato a Lui. «Transit Iesus ut clamemus / Passa Gesù perché possiamo domandare». Così sant'Agostino.

Terza parola: «Nel ricordo e nella memoria di quel Fatto, la testimonianza del Figlio di Dio emerge sempre più forte…». La Sua testimonianza (cfr. 1Cor 1, 6). E subito mi sono ricordato quel 19 marzo 1979, nell'aula magna dell'Università Lateranense a Roma, quando Giussani ha ripercorso tutta la storia di Gs e di Cl per arrivare a un punto «dell'oggi e del domani», a un punto «ultimo»: «Noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi. È il concetto di testimonianza». Queste parole, a pochi mesi dall'inizio del nuovo pontificato, confermavano e anticipavano il cammino della vita di un povero cristiano. Come le parole del Salmo tanto care: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei Tu che agisci» (Sal 39, 10). Come le parole di Giussani quando ha compiuto ottant'anni: «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle. Facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi».

Nella vigilia del Santo Natale le ultime parole pubbliche di Giussani. A dire il vero le sue ultime parole a tutti sono quelle dell'intenzione della santa messa dell'11 febbraio, anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e liberazione, pochi giorni prima che la malattia precipitasse: «Ricordiamoci spesso di Gesù Cristo, perché il cristianesimo è l'annuncio che Dio si è fatto uomo e soltanto vivendo il più possibile i nostri rapporti con Cristo noi "rischiamo" di fare come Lui».

Le parole di Giussani confortano la vita. E quando in questi giorni il Signore dona di pregare per lui e con lui, non è tanto il ricordo delle parole quanto il rinnovarsi di quella commozione che rigava il volto di lacrime perché ci era dato di riconoscere e amare la stessa presenza. Non era bruciata la distanza tra la sua carità e la mia povertà, ma tutti e due eravamo abbracciati dalla stessa grazia. Come erano vere in quei momenti le parole di san Tommaso d'Aquino: «Gratia facit fidem / La grazia crea la fede». Quelle lacrime erano lacrime di letizia («Habet et laetitia lacrimas suas / Anche la letizia ha le sue lacrime», sant'Ambrogio), lacrime di uno stesso riconoscimento («Lacrimae confessionis / Lacrime di riconoscimento», sant'Agostino).

Giussani è morto il 22 febbraio, giorno in cui la liturgia romana ricordava la Cattedra di san Pietro. Nel breviario si leggevano queste parole di papa Leone Magno: «Le porte degli inferi non possono impedire questo riconoscimento della fede che sfugge anche ai legami della morte. Infatti questo riconoscimento solleva al cielo». Me, per grazia come bambino che guarda domandando. Te, che ora vedi faccia a faccia, nella gloria, Colui che mi hai aiutato a riconoscere e ad amare. Così faccia a faccia ora puoi ottenere dalla Madonna, come mi hai detto in uno degli ultimi incontri per confermare la mia fragile speranza, che si manifesti quale Regina non solo del cielo, ma anche della terra.

mercoledì 18 aprile 2012

GAUDÍ, L'ARCHITETTO DI DIO

Giovanni Ricciardi - «Gaudí, l’architetto di Dio. Intervista con Joan Bassegoda i Nonell»

GAUDÍ, L'ARCHITETTO DI DIO
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Giovanni Ricciardi a colloquio con Joan Bassegoda i Nonell

Giovanni Ricciardi che ha curato l'edizione italiana del volume Gaudí – l'architettura dello spirito ha intervistato il prof. Joan Bassegoda in merito all'ispirazione cristiana del grande architetto catalano e all'apertura del suo processo di beatificazione.
L'intervista è compresa nell'Appendice (L'architettetto di Dio) del volume Ares e originariamente fu pubblicata sulle pagine del mensile 30giorni.

Professor Bassegoda, è rimasto sorpreso dall’apertura del processo di beatificazione di Gaudí?
No. La fama di santità di Gaudí (foto) non è una cosa nuova. Alla sua morte, nel 1926, erano moltissimi i testimoni e i collaboratori che lo consideravano già allora un santo. E l’espressione «Gaudí: l’architetto di Dio», che è il motto dell’Associazione per la beatificazione, fu coniata allora. Né mi sorprende che la questione sia rimasta «congelata» per tanti anni. Dopo la morte di Gaudí, venne un periodo difficile. Nel 1931 ci fu la Repubblica, poi la Guerra civile. La Sagrada Familia era rimasta quasi interrotta. Durante la Guerra civile l’hanno bruciata. Poi, dopo la guerra, è venuta la ricostruzione, un processo lungo, c’era scarsità di mezzi. Finalmente, nel 1956, si incomincia la facciata della Passione, e riprende l’opera della Sagrada Familia. Poco prima, nel 1952, era stato commemorato il centenario della nascita di Gaudí. Fu allestita una mostra che girò il mondo e che rappresentò una riscoperta di Gaudí, che era rimasto un po’ in ombra, sia per le note ragioni storiche, e poi perché, quando muore Gaudí, Gropius inaugura il Bauhaus a Dessau, che è la negazione, architettonicamente parlando, di Gaudí.

Lei sottoscriverebbe l’espressione: «Gaudí, architetto di Dio»?
Ràfols, l’autore della prima biografia di Gaudí, che uscì nel 1929, diceva che Gaudí fuori della fede è incomprensibile, se non si ha la fede non lo si può capire. Questa per me è un po’ un’esagerazione. Ma è fuor di dubbio che fu un cristiano esemplare e che visse la fede come il cardine della sua vita e del suo lavoro.

A che cosa si ispira l’architettura di Gaudí?

Gaudí non dipende da una scuola, da uno stile o da un tempo, perché ha sempre cercato la sua ispirazione direttamente nella natura. E, in particolare, nella natura del Mediterraneo. Uno spazio che caratterizza allo stesso modo il Peloponneso e il Camp di Tarragona. La stessa luce, che arriva inclinata a 45 gradi, permettendo un’illuminazione perfetta degli oggetti. E fa vedere chiaramente la realtà. E Gaudí diceva di sé stesso: «Io ho immaginazione, non fantasia». Immaginazione viene da immagine: vedere la realtà delle cose. Le cose come sono, non come la fantasia le elabora. A lui non piaceva la fantasia. Un falegname che lavorava con lui diceva spesso: «Gaudí ha la testa chiara». Quella era la qualità di Gaudí. Aggiungerei: era molto ingenuo, e aveva una grande capacità di osservazione.

In che senso era ingenuo?
Nel senso che aveva un rapporto diretto con la realtà. Aveva, diciamo così, una certa innocenza. Non era capace cioè di una «mediazione intellettuale» di fronte alle cose. Gaudí non è stato mai un intellettuale. Era intelligente, il che è diverso. L’intellettuale gioca con le conoscenze di cui dispone, mentre l’uomo intelligente è quello che guarda la realtà per quello che è. E Gaudí vedeva che la natura fa le cose con assoluta funzionalità: un animale, un albero, una montagna hanno la forma che devono avere e non ne possono avere un’altra. E lui tentava di fare cose funzionali, perché riteneva che la forma più funzionale fosse anche la più bella. Quanto alla bellezza, certo, può essere una questione di gusto, e il gusto è una cosa delicatissima. È chiaro, se uno ha come modello di bellezza i dipinti di Piero della Francesca, la bellezza ideale neoplatonica, così distante dalla realtà... beh, Gaudí è un’altra cosa. È l’esplosione di un’arte diversa, che si pone umilmente «accanto» alla natura.

Quindi c’è anche un atteggiamento di umiltà in questo modo di fare arte...
Gaudí si considerava un «copiatore», non un creatore di forme, perché l’unico Creatore è Dio. Allora cercava le soluzioni nella natura e le trasferiva in architettura. Questa era la sua mentalità, che si potrebbe definire «francescana». È la valorizzazione della creazione, della realtà come opera di Dio, l’idea di unire con un «filo d’oro» la creazione di Dio, la natura, all’architettura.

Gaudí era consapevole del richiamo a Francesco?
Sì, sì, assolutamente. E anche i suoi allievi. Con questo spirito francescano, umile e soprattutto ammiratore della bellezza della natura, Gaudí non ha ripetuto mai una soluzione. Aveva a disposizione una varietà così grande di forme naturali che non aveva bisogno di ripetersi. Al contrario di altri architetti, che trovano una soluzione e la ripetono costantemente.

Lei faceva riferimento al Bauhaus e all’architettura razionalista...
Il movimento razionalista pretende di fuggire dalla complicazione del modernismo, dell’eclettismo e cercare la semplicità. Ma cerca una semplicità che non è «vera», perché le forme cubiche o piane tipiche del razionalismo non esistono in natura. È un’astrazione della forma. Gaudí non è stato mai astratto. Non capiva quello stile.

Eppure molti mettono in relazione l’opera di Gaudí con le teorie di Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia, che influenzò largamente l’architettura del ’900...
Gaudí non sapeva niente di Steiner. Nemmeno sapeva chi era. Figuriamoci se gli interessavano le sue teorie antroposofiche. Era un uomo concreto. L’astrazione gli dispiaceva, gli dispiaceva questo modo di vedere la realtà e ridurla a un’altra cosa. La realtà è così e basta. Parole come antroposofia suonano molto bene, ma sono vuote. Sono giochi dell’intelletto.

Molti però pensano che ci sia una sapienza nascosta nelle sue opere.
Su Gaudí si è detto tutto. Che era templare, che era alchimista, che avrebbe scritto frasi che solo un iniziato alla cabala poteva pronunciare. O che era massone. Sono tutte stupidaggini. Chi non riesce a guardare in modo diretto alla bellezza, è costretto a fare dietrologie. La verità è che a molta gente, e specialmente a certi architetti, preoccupa il fatto che due milioni di persone all’anno visitino la Sagrada Familia. Quale architetto riceve un omaggio come questo, settantasei anni dopo la sua morte?

Non aveva il senso del protagonismo, tipico di molti artisti della sua epoca?
Assolutamente no. Non si è mai fatto pubblicità, non ha mai fatto conferenze. Non aveva tempo per spiegare tutto quello che usciva dalla sua testa. Il professor Cardellac, ingegnere e architetto, diceva che lo stesso Gaudí non sapeva il torrente di idee che era nella sua testa. A Gaudí non si poteva «chiedere» un progetto, perché era come una cascata di idee, che spaventava tutti. Spaventava non questa capacità di creare, bensì di vedere le cose della natura e trasferirle in architettura. Alcune delle sue soluzioni architettoniche sono in realtà cose elementari, ma è straordinario pensare che mai nessuno prima di lui le avesse intuite. E Gaudí le vedeva semplicemente perché era un uomo «ingenuo», un uomo molto innocente, con una grande visione della realtà, con una «proprietà» negli occhi: questa capacità di vedere cose che sono logiche. Le porte della Pedrera, per esempio, hanno maniglie di una forma particolare: un disegno molto originale. In realtà, si tratta semplicemente di una forma anatomica. Se si stringe con la mano un materiale duttile e poi si apre la mano, rimane quella forma. Così, le sedie di Gaudí hanno forme che sono «parallele» al corpo umano, perché vi si adattino e servano alla loro funzione. Il problema per Gaudí non è lo stile, ma la funzionalità.

Quindi il realismo di Gaudí è conseguenza diretta di questo voler imparare dalla natura...
Non «voler» imparare. Imparare direttamente! La natura parla, offre soluzioni, Gaudí le prende e le inserisce nella costruzione. Gaudí diceva che il femore è una magnifica colonna, che permette di camminare: se Dio avesse voluto fare questa colonna in una forma dorica, ionica o corinzia, l’avrebbe fatta. Invece l’ha fatta nella forma di un iperboloide, perché funziona meglio. E con questa forma ha disegnato le colonne della facciata della Passione nella Sagrada Familia.

Le colonne sembrano tese in uno sforzo drammatico...
È così. L’architettura di Gaudí ha una forza espressiva straordinaria. Le pietre di Gaudí parlano. Per questo la sua architettura la capiscono meglio i bambini che gli architetti, perché i bambini non hanno pregiudizi, hanno ancora l’innocenza. Vedono una cosa che è piacevole perché somiglia alla natura, e la natura è piacevole. E non soltanto i bambini, ma in genere le persone prive di pregiudizi. Per esempio, Dalí andava con García Lorca a vedere la facciata della Natività, e García Lorca diceva: «Vedendo questa facciata io sento gridare! Sento gente che grida! Guardo più in alto e aumenta il grido, e si mescola col suono delle trombe degli angeli, e non posso resistere...» e doveva chiudere gli occhi e le orecchie... Era un poeta, che ascoltava le pietre parlare. Un poeta ha questa capacità di capire queste cose evidenti, e anche i bambini ce l’hanno. Ma in alcuni c’è invece un’ossessione, per cui le cose troppo chiare diventano oscure. Non riescono a credere che in Gaudí tutto sia così netto, così facile.

È vero che Picasso detestava l’architettura di Gaudí?
Picasso era un grande artista, ma aveva tutt’altra sensibilità. Io non ho mai letto espressioni d’odio di Picasso contro Gaudí, ma è evidente che non c’era una consonanza fra i due. Fra l’altro, non si sono mai conosciuti, perché Picasso si trasferì a Parigi all’inizio del XX secolo. Invece Dalí era un grande ammiratore di Gaudí.

Eppure anche Dalí sembra molto distante dalla sensibilità di Gaudí...
Certamente, ma bisogna anche dire che il Dalí «privato» era molto diverso dall’immagine che dava di sé all’esterno. Il suo personaggio pubblico era calcolatissimo. Certo, sapeva che andare a Parigi o a New York e parlare di religione cristiana non avrebbe giovato al suo successo. Ed era un uomo che teneva innanzitutto alla sua immagine. Proprio il contrario di Gaudí. Lui non poteva capire questi atteggiamenti da «divo». Era occupato con la sua professione. Per lui l’arte era una cosa molto seria. Non ha fatto altro che costruire. Non si è sposato, non ha viaggiato, se non per andare a vedere i cantieri che dirigeva fuori Barcellona. Non ha scritto. Ha pubblicato, quand’era giovane, un solo articolo, l’unico della sua vita. Non ha mai tenuto conferenze. Aveva una dimensione sacra del lavoro, e una grande umiltà nel vivere sempre a stretto contatto con i suoi operai, ai quali illustrava direttamente il lavoro. Ed era un uomo profondamente devoto. Viveva di Messa, di sacramenti, di rosario, della Sacra Scrittura.

Leggeva assiduamente la Bibbia?
Sì, soprattutto l’Apocalisse. E si vede nelle sue opere, tante volte: i 24 vegliardi, le porte di Gerusalemme con gli angeli, le parole Sanctus, Sanctus, Sanctus sulla Sagrada Familia che salgono elicoidalmente, questo «profumo d’incenso» della parola «Santo». Queste cose lo influenzarono molto.

Oltre alla Scrittura, quali erano i suoi libri spirituali?
Leggeva il Messale Romano, che ancora si conserva. E L’Année liturgique di dom Guéranger, abate di Solesmes. Sulla liturgia ne sapeva più dei canonici. Ne era affascinato, perché la liturgia è una cosa che si fa e che si vede, e che si fa in accordo con l’architettura. Lui leggeva tutti i giorni L’Année liturgique perché gli interessava adattare l’architettura alle esigenze della liturgia. Trovò persino il tempo di seguire un corso di canto gregoriano. Inoltre, la Sagrada Familia è ricchissima di riferimenti alla dottrina. Una volta Bergós, uno dei suoi biografi, lo trovò nel cantiere del Tempio con una cartella in mano. Era la pianta della chiesa con le sue simbologie. E Gaudí disse: «Guarda, in questa cartella c’è tutta la dottrina cristiana». Ed è effettivamente così. Andava a Messa tutti i giorni, recitava il rosario, era devoto alla Madonna.
A proposito della devozione a Maria, è vero che Gaudí avrebbe voluto porre in cima alla Pedrera una statua della Vergine del Rosario e che il proprietario, Pedro Milà, gli negò il permesso?
Questo è un fatto molto interessante. Al signor Milà disse che se avesse saputo che gli avrebbero fatto portare via la Madonna, non avrebbe accettato di costruire la Pedrera. Gaudí aveva una grande devozione per la Madonna. Ed effettivamente, nel progetto esiste un disegno della Madonna nell’angolo.

E Milà non lo sapeva?
Milà era uno snob. Aveva sposato una ricchissima vedova e conduceva una vita molto libertina. Di Gaudí ammirava l’originalità, non certo la devozione a Maria. Comunque non si interessava ai dettagli del progetto. Ma quando vide il modello della Madonna in gesso – l’impresario aveva già fatto predisporre il supporto per collocarla – disse di no, disse che non gli piaceva. E Gaudí se ne andò. Poi, il gesuita Ignacio Casanovas lo convinse a ritornare, ma l’anno seguente Milà licenziò il decoratore che collaborava con Gaudí e Gaudí abbandonò definitivamente la direzione dei lavori. Ha lasciato la Pedrera senza finirla. Poi mandò la minuta dei suoi onorari e Milà fu costretto a ipotecare la casa per pagarlo: 100mila pesetas di quel tempo, una fortuna. Gaudí prese il denaro e lo diede a padre Casanovas perché lo distribuisse ai poveri di Barcellona.

E quando morì, all’ospedale dei poveri, non aveva più un soldo...
Era un suo desiderio, l’aveva detto tante volte. Gli sarebbe piaciuto morire fra i poveri, anche se poi lo portarono all’Ospedale della Santa Croce perché quando fu investito dal tram nessuno lo aveva riconosciuto. C’era già andato qualche anno prima. Per rappresentare «la morte del giusto» nella cappella del Rosario, aveva assistito fino alla fine un moribondo senza famiglia. Il giorno in cui fu investito stava andando a piedi al quotidiano colloquio col padre spirituale, Agustín Mas. Arrivava all’Oratorio di san Filippo Neri, parlava col direttore spirituale, faceva la visita al Santissimo Sacramento e poi andava a casa. Normalmente lo faceva tutti i giorni.

La lezione di Gaudí è recepita oggi?
Assolutamente no. Se guardo a certe chiese di oggi, penso proprio di no. Ci sono cose che si possono fare con la tecnica, ma l’architettura non è soltanto tecnica. Gaudí ha fatto architettura anche senza fare architettura. Nel Rosario monumentale che si trova a Montserrat, gli fu affidato di rappresentare il primo Mistero glorioso: la Risurrezione. Gaudí fece un buco nella montagna e vi collocò davanti delle piante aromatiche. E diceva: «Il giorno di Pasqua, queste piante saranno fiorite. Allora il primo raggio di sole arriverà alla tomba di Cristo, vuota. In quell’ora, i passeri cantano più dolcemente e l’acqua messa sulle piante aromatiche evapora col primo sole. E in quel momento si deve celebrare la Messa dell’aurora». Ha fatto architettura senza colonne, senza pilastri, senza pareti. Un buco nella montagna, e l’immagine di Cristo risuscitato.

A cura di Giovanni Ricciardi