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mercoledì 28 agosto 2013

L’unica ragione vera ed eterna della lotta per la verita è l’uomo

L’unica ragione vera ed eterna della lotta per la verita è l’uomo
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"Le assemblee umane hanno un unico scopo: conquistare il diritto a essere diversi, speciali, il diritto di sentire, pensare e vivere ognuno a suo modo, ognuno a suo piacimento. È per conquistare questo diritto, per difenderlo o estenderlo, che le persone si riuniscono. Di qui, tuttavia, ha origine anche il pregiudizio tremendo ma fortissimo che l’unione in nome di una razza, di un Dio, di un partito o di una nazione non sia un mezzo, bensì il senso della vita. No e poi no! L’unica ragione vera ed eterna della lotta per la verita è l’uomo, la sua pudica unicità, il suo diritto ad essere unico”
Vita e destino” di Grossman

lunedì 26 agosto 2013

Ecco perché ho scritto 1984

Ecco perché ho scritto 1984”

Le lettere di Orwell svelano l’origine del romanzo. Un grande scienziato morto di fame per ordine di Stalin

George Orwell e il suo “1984” sono diventati come il prezzemolo. Il romanzo, capolavoro del genere anti utopistico, è tornato in cima alle classifiche delle vendite di libri per il recente scandalo legato ai programmi di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico. Ma “1984” è anche il figlio di un grande equivoco. Si ritiene che Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, il poliziotto imperiale che ha scritto la critica più feroce che si potesse fare contro lo stato di polizia, l’inventore del “Grande Fratello” che faceva il delatore sulle opinioni politiche dei suoi amici di sinistra nella Londra bohémienne, abbia scritto “1984” per denunciare la fine della privacy. Winston Smith, il protagonista del romanzo, è diventato la vittima della invadenza tecnologica. Ma il grande narratore inglese aveva ben altro in mente: Stalin e l’infiltrazione della mentalità totalitaria fra gli intellettuali occidentali. Lo rivelano una serie di lettere contenute nel volume curato da Peter Davison e pubblicato da Liveright.
Scrive Orwell il 18 maggio 1944 a Noel Willmett, esponendogli la genesi del nuovo romanzo: “Gli intellettuali hanno una tendenza totalitaria rispetto alla gente comune. L’intellighanzia britannica si è opposta a Hitler, ma al prezzo di accettare Stalin. Molti di loro sono pronti alla falsificazione della storia”. Intellettuali, scrisse Orwell, capaci di sostenere che “due più due fa cinque”.

Ovviamente “1984” era “1948” alla rovescia. Orwell considerava il suo libro “una fantasia ma sotto forma di romanzo naturalistico”. E molto della deprimente realtà della vita di Smith nel caseggiato “Vittoria”, con il gin e il tabacco dal pessimo gusto, è una descrizione delle miserie del razionamento nella Gran Bretagna del Dopoguerra. La sua relazione con Giulia riflette le difficoltà pratiche per i poveri nel trovare un posto per fare all’amore. Egli vide gli estremi swiftiani del suo lavoro di guerra al ministero dell’Informazione, che era passato alla lode di Stalin nel 1941 e che si svolgeva nel più alto edificio di Londra, la torre della London University. Li vide anche alla Bbc, dove parlava in qualità di antifascista pur essendo un antimperialista e nonostante alcuni dei suoi libri fossero stati messi all’indice. Orwell divenne “la gelida coscienza della sua generazione”, come lo definì il critico V. S. Pritchett.
Rivela Davison, massimo esperto mondiale di Orwell e curatore di questo nuovo epistolario, che a spingere lo scrittore a comporre “1984” fu la testimonianza di un biologo di Oxford, John Baker, alla Pen Conference di Londra nell’agosto del 1944. Baker in quella occasione denunciò per primo in Europa la perversione della teoria di Trofim Lysenko e “la degradazione della scienza sotto un regime totalitario”.
A confermare il caso Lysenko nella genealogia di “1984” è una lettera di Orwell a C. D. Darlington, un noto biologo inglese. E’ datata 19 marzo 1947: “Caro Dottor Darlington, non sono uno scienziato, ma la persecuzione degli scienziati e la falsificazione dei risultati per me segue naturalmente la persecuzione degli scrittori. Ho scritto più volte che gli scienziati inglesi non dovrebbero rimanere indifferenti quando vedono che uomini di lettere sono spediti nei campi di concentramento”. E ancora Orwell a Darlington: “Cercherò di ottenere una copia del suo obituary su Vavilov”. Orwell era ossessionato da questo nome: Nikolai Vavilov.

Sostiene Davison, curatore di queste magnifiche lettere, che “ascoltare John Baker alla conferenza di Londra spinse Orwell a cominciare ‘1984’. Baker espose la perversione della scienza sotto Stalin”. Dalla metà degli anni Trenta, le teorie di Lysenko furono ufficialmente adottate in Unione sovietica ed ebbero diffusione, come ricorda Giuseppe Boffa nella “Storia dell’Unione sovietica”, “obbligatoria e dogmatica”, insieme a quelle dell’accademico Viljams. Queste “teorie” promettevano un miracoloso incremento dei rendimenti agricoli senza bisogno di concimi. Ma l’effetto della loro applicazione su vasta scala fu un totale disastro, dal quale l’agricoltura russa, colpita anche dall’eliminazione dei kulaki, non si sarebbe mai ripresa. Oltre ai danni concreti, riconosciuti solo molti decenni dopo, le teorie di Lysenko furono la base per una campagna ideologica contro la scienza “borghese” che fece molte vittime fra i più prestigiosi scienziati russi dell’epoca. L’impatto fu così esteso che, ancora all’inizio degli anni Settanta in Unione sovietica era ritenuto pericoloso sostenere il valore delle teorie di Johann Gregor Mendel, lo scopritore delle leggi sull’ereditarietà dei caratteri “confutate” da Lysenko.
L’agronomo ucraino Lysenko aveva preteso di sconfessare le leggi di Mendel, bollandole come “superstizione metafisica” e “borghese”. Lysenko era giunto alla fama grazie alla presunta scoperta della “vernalizzazione”, una tecnica agricola che permetteva raccolti invernali da semine estive grazie al raffreddamento dei semi per alcuni periodi. Lysenko credeva di aver stabilito che il fattore cruciale nel determinare la lunghezza del periodo vegetativo non risiedesse nel bagaglio genetico, ma nell’adattamento dei vegetali all’ambiente. Una sorta di Lamarck in salsa marxista.
Lysenko aveva lavorato sul grano allo scopo di modificarne la costituzione e trasmettere caratteristiche nuove alla specie così ottenuta. Nel 1935 enunciò allora una teoria basata sul concetto di “interiorizzazione, da parte delle specie viventi, delle condizioni ambientali esterne”. Su questo principio, la natura è stata giudicata manipolabile dalla semplice volontà. Il sogno era modificare la natura onde assicurare il trionfo della concezione materialistica marxista e quello della produzione “scientifica” sovietica. L’agricoltura sovietica degli “scienziati scalzi” e dell’umile pratica contadina, che seguivano Lysenko e non le astratte teorie della “scienza borghese”, avrebbe trasformato le immense steppe in giardini fioriti.

Non tutti gli scienziati sovietici erano d’accordo con Lysenko ma queste cose, nell’Urss staliniana, si pagavano care. Il botanico e genetista Nikolai Ivanovic Vavilov, a cui Orwell comincia a interessarsi dopo quella conferenza londinese, fu accusato di difendere Mendel e condannato a morte. Analoga sorte hanno conosciuto lo scienziato Nikolai Maksimovic Tulaikov e il biologo Georgii Dmitrevic Karpechenko, arrestati perché accusato di appartenere al gruppo “antisovietico” di Vavilov e fucilati. Contro Lysenko si pronunciò finalmente in pubblico, intervenendo nel 1964 all’Accademia sovietica delle scienze, il fisico nucleare Andrei Sakharov e nel 1965 finalmente Lysenko venne allontanato. Dalla grandiosa scoperta operata da Mendel era passato un secolo esatto. Acquiescenti agronomi e geologi avevano promesso a Nikita Krusciov che si poteva trasformare le steppe in coltivazioni intensive di cotone, ma invece finirono per prosciugare il lago d’Aral, infestandolo di pesticidi.
La “colpa” del grande Vavilov era stata quella di rinvenire nel 1916 una varietà di grano con foglie senza ligule e nel 1918 una varietà di segale primaverile. Era la conferma dell’esistenza di leggi interne ai viventi. Vavilov fu avversato dal potere scientifico, dominato dall’ambientalismo darwiniano di Lysenko. Quel martire della genetica è stato virtualmente ignorato dalla trattatistica occidentale, e per la stessa ragione che lo rese inviso in Unione sovietica, cioè per aver creduto in un sistema dei viventi e nelle leggi interne della forma. Come afferma S. J. Gould, “in tutta la letteratura sulla teoria sintetica Vavilov è citato due sole volte, in meno di un capoverso”.
Orwell però non era soltanto interessato alla vicenda Vavilov in sé ma anche ai cascami che ebbe in occidente, e in Inghilterra in particolare. E’ il caso dello scienziato darwiniano J. B. S. Haldane. Già marxista sin dal 1937, nel 1942 il celebre scienziato entrò nel Partito comunista britannico. Nel 1941 Haldane scrisse del caso Lysenko e Vavilov, dimostrando tutto il conformismo della classe intellettuale inglese: “La controversia è fra uno scienziato accademico, Vavilov, interessato alla collezione di fatti, e l’uomo che vuole risultati, Lysenko. E’ stata condotta in uno spirito fraterno”. Si trattava della giustificazione delle purghe di scienziati. Persino Italo Calvino nel dicembre 1948, a poche settimane dalla “inconorazione” di Lysenko da parte di Stalin, scriveva sull’Unità: “In un paese socialista il progresso della cultura non è staccato dal progresso comune di tutta la società. Bisogna che lo scienziato non si proponga la scienza per la scienza. Il primo criterio deve essere ‘serve o non serve allo sviluppo della rivoluzione’”. In Francia, Louis Aragon firmò l’introduzione a un pamphlet edito dal Partito comunista dedicato alla esaltazione di Lysenko e dei suoi metodi.

Riuscire a produrre nuove varietà di piante diventa lo scopo della vita di Vavilov, perché la Russia, un tempo granaio d’Europa, era diventata incapace di nutrire se stessa. Nel marzo 1939, durante un ricevimento al Cremlino, Lysenko mette in chiaro con Stalin e Berija che Vavilov è “un ostacolo per il suo lavoro a beneficio dell’economia socialista”. Il destino di Vavilov è segnato.
Il 10 agosto del 1940, mentre è alla ricerca di nuove piante sui monti dell’Ucraina, Vavilov viene arrestato dalla polizia segreta di Stalin, l’Nkvd. Sottoposto a duemila ore di interrogatori durante più di quattrocento sessioni, alcune lunghe più di tredici ore, Vavilov viene processato nel luglio 1941 dal collegio militare del tribunale supremo. Il processo dura pochi minuti e lo condanna alla pena di morte, pena commutata in dieci anni di prigione nel gulag di Saratov. Per un anno lo scienziato non esce dalla sua minuscola cella, non può lavarsi, non può andare in bagno, è malnutrito.
Intanto i nazisti avanzano in Russia e il problema dell’autosufficienza alimentare tormenta la Germania nazista e la collezione di Vavilov rappresenta un bottino di guerra prezioso. Ma il tesoro di semi di Vavilov rimarrà al sicuro grazie all’eroico comportamento dei colleghi di Vavilov durante i mille giorni dell’assedio di Leningrado. A quel tempo l’istituto conservava i semi di duecentomila varietà, moltissimi commestibili, eppure nessuno li toccò. Nove ricercatori dell’Istituto Vavilov (come fu ribattezzato nel 1956, dopo la riabilitazione del suo fondatore) preferirono morire di inedia e stenti piuttosto che mangiare i preziosi semi che erano stati affidati alla loro custodia e che, ne erano fermamente convinti, “sarebbero serviti per produrre nuove piante per sfamare il mondo quando la furia devastatrice nazista sarebbe stata inevitabilmente sconfitta”.
Per garantirne la freschezza, i ricercatori erano costretti a piantarli e raccoglierne i frutti. Ma anche nei momenti più cupi dell’inverno, quando migliaia di cittadini morivano di fame per strada, nessuno di loro ha ceduto alla tentazione di arrostirsi una pannocchia. Il primo a morire di fame, seduto alla sua scrivania nel gennaio del 1942, fu l’esperto di arachidi Alexander Stchukin, lo seguiranno il tecnico delle piante medicinali Georgi Kriyer, il capo della collezione di riso Dmitri Ivanov e poi Liliya Rodina, M. Steheglov, G. Kovalesky, N. Leontjevsky, A. Malygina e A. Korzum.

I semi si salveranno nascosti negli Urali, ma non Vavilov. Il 26 gennaio 1943, dopo mesi di torture e patimenti, lo scienziato che aveva investito tutte le sue energie nell’intento di sfamare la Russia moriva ignominiosamente di inedia nel gulag di Saratov, dove venne sepolto in una fossa comune.
Non pago di aver ucciso lo scienziato in un campo di concentramento, il Partito comunista si diede anche alla caccia dei suoi “semi deviazionisti”. Prima di cadere in disgrazia, Vavilov aveva viaggiato in tutto il mondo, riportando in Unione sovietica centinaia di specie che aveva distribuito fra i laboratori di botanica applicata del suo istituto. L’Orto botanico di Sukhumi, aperto nel 1936, ospitava un migliaio di agrumi provenienti da regioni equatoriali del pianeta. Nel 1948 il Comitato centrale avviò “la campagna di purificazione della biologia sovietica da contaminazioni straniere”. Il Partito ordinò all’Orto di liberarsi di tutte le piante “sospette” in quanto frutto di esperimenti “non scientifici”. I ricercatori di Vavilov cambiarono il nome delle piante condannate, cercando di confondere le carte il più possibile. Fu così che l’eredità di Vavilov venne salvata.
Il premio Nobel francese Jacques Monod, fra i pochi in occidente a non inginocchiarsi di fronte a Lysenko, definirà il caso Vavilov “l’episodio più desolante dell’intera storia della scienza
”. Una grande vicenda dimenticata che fu all’origine di uno dei capolavori della letteratura del Novecento. Scriverà Orwell in “1984”: “La scienza, nel suo vecchio significato, ha cessato di esistere”.
Triste presagio dei futuri e falsi scientismi. Dopo George Orwell siamo sempre lì, alle grandi manipolazioni ideologiche con cui i capi dei verri ammansiscono le altre bestie. Lysenko contro Vavilov.

domenica 25 agosto 2013

Il caso galilei



Il caso galilei

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La verità sul “caso Galilei”
…a proposito del Papa che non ha potuto parlare all'università “La Sapienza”…e di tante sciocchezze che si dicono sul processo allo Scienziato pisano
Il triste caso de “la Sapienza” ha fatto tornare alla ribalta il Caso Galilei…e si sentono rievocare i soliti luoghi comuni. Ma come davvero andarono le cose? Questo libretto può essere utile a tutti quei cattolici che non sanno rispondere a tante false accuse che si rivolgono alla Chiesa quando si fa riferimento a quell'avvenimento

INTRODUZIONE
Le proteste per la visita di Benedetto XVI all'università de “la Sapienza” hanno fatto tornare alla ribalta il “caso Galilei”. I 67 docenti firmatari del documento contro l'invito al Papa hanno fatto riferimento ad un discorso pronunciato nel 1990 dall'allora cardinale Ratzinger, in cui, parlando del Caso Galilei, il futuro papa citò alcune parole del celebre filosofo della scienza Paul Feyerabend (1924-1994) – anarchico e ateo, quindi al di sopra di ogni sospetto- in cui si affermava che nel processo allo Scienziato pisano la ragione era dalla parte della Chiesa.
In realtà ciò che capitò a Galilei (1564-1642) non fu causato dalla sua negazione della concezione geocentrica (il Sole che gira intorno alla Terra) quanto dal fatto che la sua posizione si faceva sostenitrice di un nuovo modo di concepire la scienza, un modo in cui la scienza stessa sarebbe potuta divenire l'unica ed esclusiva lettura della realtà. Titus Burckhardt (1908-1984) nel suo Scienza moderna e saggezza tradizionale (1968) scrive a pagina 134: La Chiesa, esigendo da Galileo di presentare le proprie tesi sul moto della terra e del sole non come verità assoluta ma come ipotesi, aveva le sue buone ragioni. (…). L'esaltazione letteraria di Galileo ha fatto nascere in svariati dignitari ecclesiastici una sorta di coscienza di colpa che li rende stranamente impotenti dinanzi alle teorie scientifiche moderne, quand'anche queste siano in palese contraddizione con le verità della fede e della ragione. La Chiesa, si suol dire, non avrebbe dovuto immischiarsi nei problemi scientifici. Eppure lo stesso caso di Galileo dimostra che, accampando la pretesa di possedere la verità assoluta, la nuova scienza razionalista del Rinascimento si presentava alla guisa di una seconda religione. ”
Dunque, la scienza come una sorta di “nuova religione”, ovvero il passaggio dalla scienza allo scientismo . Ma su questo ritorneremo tra pochissimo.
Iniziamo a sfatare alcuni luoghi comuni sul “caso Galilei”. Ci sono sette verità importanti da ribadire . Per quanto riguarda la bibliografia abbiamo attinto soprattutto un prezioso e documentato testo di Enrico Zoffoli, Galileo , Roma 1990.

PRIMA VERITA'
La Chiesa non aveva paura della teoria eliocentrica
A differenza di quanto si dice , Galilei non ebbe i suoi problemi per la teoria eliocentrica (la Terra ruota intorno al Sole), per il semplice fatto che questa teoria non faceva paura alla Chiesa. Già quattro secoli prima di Galilei, san Tommaso d'Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Copernico (1473-1543), astronomo polacco e perfino sacerdote cattolico, morto ventuno anni prima di Galilei, aveva sostenuto la concezione eliocentrica ; e molti contemporanei, perfino esponenti della gerarchia ecclesiastica (tra questi anche pontefici come Leone X e Clemente VII) si mostrarono aperti alle sue tesi. Nella celebre Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana. Lo stesso Galilei era a conoscenza del fatto che la Chiesa non aveva nulla da ridire sull'ipotesi di Copernico. Così scrisse a Cristina di Lorena: (Il trattato di Copernico) è stato ricevuto dalla santa Chiesa, letto e studiato per tutto il mondo, senza che mai si sia presa ombra di scrupolo nella sua dottrina (...) ”. Piuttosto era nel mondo protestante che l' eliocentrismo faceva paura. Riferendosi a Copernico, Martin Lutero (1483-1546) scrisse: “Cadde un giorno il discorso sopra un astrologo moderno il quale voleva dimostrare che la Terra si muove e non già il cielo o il firmamento col Sole e con la Luna, (…) Ma le cose adesso vanno così: chi vuole apparire savio e dotto non deve approvare quello che fanno gli altri, ma deve fare alcunché di singolare e tale che a suo credere nessun altro sia capace di fare. Il pazzo vuole rovesciare tutta l'arte astronomica. ”

SECONDA VERITA'
Galilei ebbe problemi per motivi legati alla filosofia della scienza
Il motivo per cui Galilei ebbe problemi non fu dunque legato alla teoria eliocentrica ma a ragioni di filosofia della scienza.
Galilei, pretendendo presentare l' eliocentrismo non come ipotesi ma come una tesi comprovata, rappresentava un atteggiamento scientista e non scientifico . Mentre l'atteggiamento autenticamente scientifico si serve delle prove, parte sì da un'intuizione, ma sottopone questa intuizione a verifica; l'atteggiamento cosiddetto scientista è il contrario, cioè fa dell'intuizione scientifica, indipendentemente dalla verifica, l'intuizione per eccellenza da preferirsi a qualsiasi altra intuizione, tanto a quella della tradizione quanto a quella del senso comune. Galilei, avendo solo delle intuizioni e non delle prove, pretendeva che la mentalità scientifica, solo perché “scientifica”, potesse essere “giudice” della Rivelazione. Ma la Fede , se può e deve dialogare con la scienza , non può certo dialogare con lo scientismo , che è un'ideologia e che fa della scienza una “seconda religione” secondo la definizione del citato Burckhardt.

TERZA VERITA'
Galilei doveva limitarsi a presentare le sue teorie come semplici ipotesi
San Roberto Bellarmino (1542-1621), che svolse un ruolo importante nel processo a Galilei, non pretendeva che lo scienziato pisano rinunciasse alla convinzione eliocentrica bensì che ne parlasse per quello che effettivamente era, cioè un'ipotesi. Così scrive in una lettera del 12 aprile del 1615 al padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini che appoggiava Galilei : “Dico che il Venerabile Padre e il signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ‘ex suppositione' e non ‘assolutamente', come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. (...) Dico che quando ci fusse ‘vera dimostrazione' che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il Sole non circonda la Terra , ma la Terra circonda il Sole, all'hora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, ed è meglio dire che non le intendiamo, piuttosto che dire che sia falso quello che si dimostra.” Che poi il Bellarmino dica queste cose non improvvisando né formulando “novità”, è dimostrato dal fatto che egli nel 1571 (cinquant'anni prima) scriveva nelle sue Praelectiones Lovanienses : “Non spetta ai teologi investigare diligentemente queste cose (...) . Possiamo scegliere la spiegazione che ci sembra più conforme alle SS. Scritture (...) . Se però in futuro sarà provato con evidenza che le stelle si muovono con moto del cielo e non per loro conto, allora dovrà vedersi come debbano intendersi le Scritture affinchè non contrastino con una verità acquisita. E' certo, infatti, che il vero senso della Scrittura non può contrastare con nessun'altra verità sia filosofica come astronomica (...) . ”

QUARTA VERITA'
Galilei non portava vere prove
Galilei non portava prove convincenti per suffragare la sua ipotesi.
Una prova in realtà la portava, ma era sbagliata. Inviò una lettera al cardinale Orsini dove affermava che la rotazione della Terra intorno al Sole sarebbe provata dalle maree, cioè , secondo lui, il movimento della Terra provocherebbe scuotimento e quindi le alte e basse maree. I giudici però contestarono questa “prova” e dissero giustamente che le cause delle maree dovevano ricercarsi in altro.
Ecco perché il già citato Paul Feyerabend, pur essendo ateo ed anarchico, ha affermato che nel processo a Galilei il rigore scientifico fu più dalla parte della Chiesa che non da quella dello Scienziato pisano.

QUINTA VERITA'
Galilei non subì nulla di eclatante, anzi…
Galilei non subì nulla di eclatante a differenza di quanto molti pensano. Alcuni sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli studenti italiani credono che Galilei subì torture e che fu addirittura arso vivo. I nostri docenti di scuola e di università invece che fare tanta cagnara dovrebbero riflettere sulla scientificità dei loro insegnamenti.
Ecco cosa davvero subì Galilei .
Nel febbraio del 1632 lo Scienziato pisano pubblicò a Firenze il famoso “Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo…” e nell'agosto dello stesso anno, a Roma, se ne proibì la diffusione. Il 16 giugno del 1633 il Sant'Uffizio condannò l'autore. Il 22 giugno dello stesso anno Galilei abiurò e fu condannato a recitare una volta alla settimana i sette salmi penitenziali e al carcere, ma questo fu subito commutato in domicilio coatto. Prima nel Giardino di Trinità dei Monti (alloggio con cinque camere, vista sui giardini vaticani e cameriere personale); poi nella splendida Villa dei Medici al Pincio; quindi a Siena presso l'amico e arcivescovo Ascanio Piccolomini, in seguito a Firenze nella sua casa di Costa San Giorgio e, infine, nella Villa di Arcetri, presso il Monastero delle Clarisse di San Matteo dove vivevano le sue due figlie suore. Di tortura neanche a parlarne.
Lo stesso Galilei fu consapevole della mitezza della pena, tanto che ringraziò i giudici e confessò di aver fatto di tutto per indisporli.
La stessa scelta dell'affezionatissima figlia Virginia di farsi suora (suor Celeste) dimostra la mitezza della pena. Lei che era così attaccata al padre, qualora Galilei fosse stato maltrattato dalla Chiesa, avrebbe avuto il desiderio di consacrarsi?
Galilei, malgrado la condanna, poté continuare a pubblicare e a curare l'amicizia di vescovi e scienziati; e proprio dopo la condanna pubblicò l'opera più importante, “Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze”.
Morì ad Arcetri l'8 gennaio del 1642, assistito da discepoli come Vincenzo Viviani ed Evangelista Torricelli; morì con i conforti religiosi e finanche con l'indulgenza plenaria e la benedizione del Papa.

SESTA VERITA'
Il processo a Galilei deve essere collocato nel clima del XVII secolo
Il processo a Galilei si può capire solo collocandolo all'interno del XVII secolo; secolo tutt'altro che facile. Verrebbe da dire che se lo Scienziato pisano fosse vissuto in pieno XIII secolo non avrebbe avuto i problemi che ebbe.
Iniziamo col considerare che nel XVII secolo il riferimento ad Aristotele non era un riferimento critico, capace cioè di selezionare e discernere (come invece riuscì a fare il vertice della Scolastica e in particolar modo san Tommaso), bensì pedissequo: Aristotele doveva essere accettato integralmente, anche per quanto riguardava la sua visione cosmica.
Inoltre, c'era stato da poco (meno di un secolo) lo scoppio della Riforma, imperversavano le guerre di religione…e il mondo protestante accusava quello cattolico di non amare la Bibbia, di leggerla poco, di non rispettarla. Tutto questo portò, per reazione, anche alcuni ambienti cattolici ad un atteggiamento di protezione letteralistica della Bibbia stessa. Per finire, durante la Guerra dei Trent'anni si erano diffusi i manifesti dei Rosa-Croce, che (come ha ampiamente dimostrato la storica inglese Frances Yeats) furono scritti per riproporre una visione ermetica e magica del reale collegata alla prisca philosophia , da contrapporre alla visione cattolica fatta propria dalla parte asburgica. Ora, la visione ermetica e magica si fonda sul monismo e sulla identificazione del creato con il creatore (panteismo) per cui il concepire la Terra non più al centro poteva, secondo alcuni, avvalorare una concezione infinita e divina dell'universo stesso.

SETTIMA VERITA'
L' uso strumentale del “caso Galilei”
E per finire…la famosa frase che campeggia su buona parte dei libri scolastici, e cioè che Galilei avrebbe detto “ eppur si muove” , in realtà non fu mai pronunciata. Fu inventata da un giornalista italiano, Giuseppe Baretti, a Londra nel 1757.
Una frase ad effetto, che doveva servire per creare il mito di una chiesa arroccata nel suo oscurantismo e quindi incapace ad aprirsi al progresso delle conoscenze scientifiche . Insomma, un uso strumentale del “caso Galilei”.

Paul Feyerband e il Caso Galilei
L'allora cardinale Joseph Ratzinger (siamo nel 1990) lo citò in un suo discorso. Si tratta dell'austriaco Paul Feyerband (1924-1994), filosofo della scienza, allievo di Karl Popper e docente nella celebre università di Berkeley. Il suo pensiero nega qualsiasi regola metodologica, affermando un vero e proprio anarchismo metodologico . Non vi è –egli dice- alcun metodo generale a governare la costruzione e lo sviluppo della scienza, perché essa si avvarrebbe di volta in volta delle regole che ritiene più opportune.
Feyerband è autore di scritti famosi, fra cui Contro il metodo (1975) e La scienza in una società libera (1978).
Dunque, un filosofo tutt'altro che sensibile a tentazioni metafisiche o di assolutismo culturale; un filosofo molto letto negli ambienti cosiddetti “alternativi” e per nulla condivisibile da una prospettiva di filosofia naturale e cristiana. Eppure Feyerband dice delle cose molte interessanti sul Caso Galilei: dice che la Chiesa aveva ragione. Ne parla dedicando un capitolo della sua opera Contro il metodo .
Abbiamo scelto alcuni passaggi del suo scritto, servendoci della traduzione italiana di Maria Sepa, pubblicata sul Corriere della sera del 25.1.2008. Una precisazione: la scelta di questi passaggi non significa che è da condividere tutto, piuttosto è una scelta per evidenziare ciò che sorprendentemente afferma un filosofo anarchico sul “caso Galilei”. Leggiamoli. Le parole di Feyerband sono tra virgolette e in corsivo.
· La Chiesa si attenne alla ragione: “La Chiesa all'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione.
· Il tentativo di “nascondere” le scoperte scientifiche è di sempre: “Oggi la ben più modesta aspirazione dei creazionisti a veder insegnate le loro opinioni nelle scuole, affiancandole e mettendole in competizione con idee diverse, si scontra con le leggi che stabiliscono la separazione tra Chiesa e Stato. Una quantità crescente di conoscenze e tecnologie è tenuta segreta per ragioni militari ed è pertanto esclusa dagli scambi internazionali. Gli interessi commerciali generano le stesse tendenze restrittive. Così la scoperta della superconduttività nella ceramica a temperatura (relativamente) alte, frutto di una collaborazione internazionale, ha indotto il governo americano ad adottare misure protettive. Accordi finanziari possono rendere possibili o interrompere programmi di ricerca, e influire su un intero ambito professionale. Vi sono molti modi di mettere a tacere le persone, oltre a impedir loro di parlare, e oggi li vediamo usati tutti. Il processo della produzione e della distribuzione del sapere non è mai stato lo scambio libero, ‘ oggettivo' e puramente intellettuale che i razionalisti dipingono.”
· Il processo a Galileo è stato montato da una conventicola di intellettuali: “Il processo a Galileo fu uno dei tanti. Non ebbe alcuna caratteristica speciale, se non forse il fatto che Galileo fu trattato con una certa moderazione, nonostante le sue bugie e i suoi sotterfugi. Ma una piccola conventicola di intellettuali, con l'aiuto di scrittori sempre alla ricerca dello scandalo, sono riusciti a montarlo enormemente, così quel che in fondo era solo un contrasto tra un esperto e un'istituzione che difendeva una visione più ampia delle cose ora sembra quasi una battaglia tra paradiso e inferno. E' una posizione infantile e anche ingiusta nei confronti delle molte altre vittime della giustizia del XVII secolo.
· Il processo a Galilei non si è voluto capirlo: Non è l'interesse per l'umanità, sono piuttosto interessi di parte ad avere un ruolo importante nell'agiografia di Galileo. (…) (Questo processo) consistette di due procedimenti, o processi, separati. Il primo si tenne nel 1616. Fu esaminata e criticata la dottrina copernicana. Galileo ricevette un'ingiunzione, ma non fu punito. Il secondo processo si tenne nel 1632-33. Questa volta il punto principale non era più la dottrina copernicana. Fu invece esaminata la questione se Galileo avesse obbedito all'ordine che gli era stato impartito nel primo processo e se avesse ingannato gli inquisitori facendo loro credere che l'ordine non fosse mai stato promulgato. (…) . Il primo processo fu preceduto da voci e denunce in cui ebbero una parte avidità e invidia, come in molti altri processi. Si ordinò ad alcuni esperti di dare un parere su due enunciazioni che contenevano una descrizione più o meno corretta della dottrina copernicana. La loro conclusione toccava due punti: quel che oggi chiameremmo il contenuto scientifico della dottrina, e le sue implicazioni etiche (sociali). Riguardo al primo punto, gli esperti definirono la dottrina ‘insensata e assurda in filosofia' o, usando termini moderni, la dichiararono non scientifica. Questo giudizio fu dato senza far riferimento alla fede o alla dottrina della Chiesa, ma fu basato esclusivamente sulla situazione scientifica del tempo. Fu condiviso da molti scienziati illustri; ed era corretto fondandosi sui fatti, le teorie e gli standard del tempo. Messa a confronto con quei fatti, teorie e standard, l'idea del movimento della Terra era assurda. Uno scienziato moderno non ha alternative in proposito. Non può attenersi ai suoi standard rigorosi e nello stesso tempo lodare Galileo per aver difeso Copernico. Deve o accettare la prima parte del giudizio degli esperti della Chiesa o ammettere che gli standard, i fatti e le leggi non decidano mai di un caso e che una dottrina non fondata, opaca e incoerente possa essere presentata come una verità fondamentale. Solo pochi ammiratori di Galileo si rendono conto di questa situazione.
· Gli aristotelici di allora non sono diversi dagli studiosi contemporanei: “Gli aristotelici, non diversi in questo dai moderni studiosi che insistono sulla necessità di esaminare vasti campioni statistici o di effettuare ‘precisi passi sperimentali', chiedevano una chiara conferma empirica, mentre i galileiani si accontentavano di teorie di vasta portata, non dimostrate e parzialmente confutate. Non li critico per questo (…). Voglio solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano Galileo e condannano la Chiesa, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo era la Chiesa ai tempi di Galileo.”
· Qualsiasi critica al rigore della Chiesa è valida anche verso i moderni detentori del sapere scintifico : “La Chiesa Romana sosteneva inoltre di possedere un diritto esclusivo sullo studio, l'interpretazione e la messa in atto delle Sacre Scritture. I laici, secondo la Chiesa, non avevano né le conoscenze né l'autorità per occuparsi delle Scritture ed era loro proibito farlo. (…). L'atteggiamento dell' American Medical Association verso i professionisti che non ne fanno parte è rigido come quello della Chiesa verso gli esegeti laici, e ha la benedizione della Legge. (…) Qualsiasi critica al rigore della Chiesa Romana è valida anche nei confronti dei suoi moderni successori che hanno a che fare con la scienza. ”
· Galilei sbagliava perché pretendeva spacciare l'ipotesi come verità provata : (…) la Chiesa era assai più moderata. Non diceva: quel che è in contraddizione con la Bibbia interpretata da noi deve scomparire, per quanto siano forti le ragioni scientifiche in suo favore. Una verità sostenuta da un ragionamento scientifico non era respinta. Era usata per rivedere l'interpretazione di passi della Bibbia apparentemente incoerenti con essa . Molti passi della Bibbia sembrano suggerire che la Terra sia piatta. Tuttavia la Chiesa ha accettato senza problemi che la Terra sia sferica . Dall'altro lato la Chiesa non era pronta a cambiare solo perché qualcuno aveva fornito delle vaghe ipotesi. Voleva prove scientifiche. In questo agì in modo non dissimile dalle istituzioni scientifiche moderne, che di solito aspettano a lungo prima di incorporare nuove idee nei loro programmi. Ma allora non c'era ancora una dimostrazione convincente della dottrina copernicana. Per questo fu consigliato a Galileo di insegnare Copernico come ipotesi; gli fu proibito di insegnarlo come verità. “(…) mentre la Chiesa era preparata ad ammettere che certe teorie potessero essere vere e anche che Copernico potesse avere ragione, se sostenuto da prove adeguate, ci sono ora molti scienziati che considerano tutte le teorie strumenti predittivi e rifiutano le discussioni sulla verità degli assunti. La loro motivazione è che gli strumenti che usano sono così palesemente progettati a fini di calcolo e che i metodi teoretici dipendono in modo così evidente da considerazioni sull'eleganza e sulla facile applicabilità, che una tale generalizzazione sembra ragionevole. Inoltre, le proprietà formali delle ‘approssimazioni' differiscono spesso da quelle dei principi di base, molte teorie sono primi passi verso un nuovo punto di vista che in un qualche tempo futuro potrebbe renderle approssimazioni, e un'inferenza diretta dalla teoria alla realtà è, pertanto, piuttosto ingenua. Tutto questo era noto agli scienziati del XVI e del XVII secolo. (…) Il punto di vista copernicano era interpretato dai più come un modello interessante, nuovo e piuttosto efficiente. La Chiesa chiedeva che Galileo accettasse questa interpretazione. Considerate le difficoltà che quel modello aveva a essere considerato una descrizione della realtà, dobbiamo ammettere che la ‘logica era dalla parte di…Bellarmino e non dalla parte di Galileo', come scriveva lo storico della scienza e fisico Pierre Duhem.
· La Chiesa voleva proteggere la scienza dallo scientismo : “Riassumendo: il giudizio degli esperti della Chiesa era scientificamente corretto e aveva la giusta intenzione sociale, vale a dire proteggere la gente dalle macchinazioni degli specialisti . Voleva proteggere la gente dall'essere corrotta da un'ideologia ristretta che potesse funzionare in ambiti ristretti, ma che fosse incapace di contribuire a una vita armoniosa. Una revisione di quel giudizio potrebbe procurare alla Chiesa qualche amico tra gli scienziati, ma indebolirebbe gravemente la sua funzione di custode di importanti valori umani e superumani.”


Il Caso Galilei
di Vittorio Viccardi tratto da Il Timone - n. 1 Maggio/Giugno 1999
E' il paladino della libertà scientifica e il testimone dell'oscurantismo religioso cattolico. Questo nell'immaginario popolare e sui libri di testo scolastici. Ma la verità storica è un'altra. "Eppur si muove!". Chi non ricorda questa celebre frase attribuita a Galileo Galilei che volle così rispondere, ci viene detto, con fiero cipiglio, alla lettura della sentenza di quei feroci inquisitori che lo condannavano per le sue scoperte scientifiche? Gran parte degli studenti ne sono persuasi. Processato, condannato, torturato, incarcerato e, cosi` credono in buona percentuale, anche bruciato sul rogo: questo l'insieme delle cognizioni che la scuola e i mass media ci propinano a proposito dello scienziato pisano. Solo una minoranza esigua, più preparata, risponderà che Galileo è giustamente famoso per aver applicato per primo il metodo sperimentale, tipico della scienza moderna, per aver perfezionato e utilizzato a fini scientifici il cannocchiale, per aver scoperto il termometro, la legge che regola le oscillazioni del pendolo, la montuosità della luna, la natura stellare della Via Lattea, i 4 satelliti di Giove, le anomalie di Saturno, le macchie solari e le fasi di Venere. Diciamo la verità: più che per la sua opera scientifica.
Galileo è noto per i due processi subiti dall'Inquisizione nel 1616 e nel 1633, che lo hanno fatto diventare un paladino della scienza moderna e del progresso ed una vittima dell'oscurantismo religioso e conservatore della Chiesa cattolica. Eccoci dunque di fronte ad una vittima innocente immolata sull'altare di quel cattolicesimo che pretendeva di possedere verità assolute anche in materie scientifiche, ad un martire della scienza, ad un testimone dell'irriducibile contrapposizione tra la Fede religiosa e la scienza. Senza pretesa di esaurire l'argomento, qualche considerazione ci aiuterà ad avere le idee più chiare. In primo luogo: Galileo non si considero` mai avversario della Chiesa, come tenta di convincerci una delle più grandi menzogne che ci siano mai state propinate. Conservo` la fede cattolica fino alla morte, fu amico per lungo tempo di papi e di cardinali, (il cardinale Maffeo Barberini, poi eletto Papa con il nome di Urbano VIII, fu suo grande ammiratore) e da molti religiosi fu protetto e incoraggiato nelle sue ricerche. Quando nel 1611 si reco` a Roma fu molto ben accolto dal padre Cristoforo Klaus (Clavio) e dai gesuiti del Collegio Romano. Fu ricevuto persino da Papa Paolo V, con il quale ebbe un lungo e caloroso colloquio. Qualche mese prima, si era convinto delle fasi di Venere analoghe a quelle della Luna, segno che il pianeta girava intorno al Sole dal quale riceveva la luce. Il sistema tolemaico era cosi` confutato, quello eliocentrico non era certamente dimostrato, e tutto questo non sembrava pregiudicare i suoi rapporti con il mondo ecclesiale. Anzi, mentre i colleghi scienziati, con in testa il famoso Cremonini, accusavano Galileo di vedere "macchie sulle lenti del telescopio", non mancava al pisano l'appoggio dei potentissimi astronomi e filosofi della Compagnia di Gesù (gesuiti), capitanati da san Roberto Bellarmino, generale dell'Ordine dei Gesuiti e consultore del Sant'Uffizio. E ancora. Quando padre Cavini attaccherà Galileo a Firenze, nella chiesa di santa Novella, lo scienziato verrà difeso dal padre Benedetto Castelli, suo discepolo e professore di matematica a Pisa, e dal maestro Generale dei Domenicani, padre Luigi Maraffi. Sara` poi il cardinale Giustiniano ad ordinare al Cavini di ritrattare pubblicamente le sue accuse. Senza dimenticare che a Napoli, un altro religioso, il padre Foscarini, pubblicava un elogio di Galileo e del sistema copernicano (che molti gesuiti dotti approvavano) ottenendo l'approvazione ecclesiastica. E ancora. Anche dopo la sentenza del 1633, che, oltre all'abiura, lo "condannava" a recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali per un periodo di tre anni, fu ospitato nella villa del cardinale di Siena, Ascanio Piccolomini, "uno dei tanti ecclesiastici che gli volevano bene" (Messori).
Quindi, si trasferì nella sua villa di Arcetri, detta "il gioiello", alla periferia di Firenze. Morì con la benedizione del Papa e ricevendo l'indulgenza plenaria, segno che la Chiesa non lo considerava certamente un avversario né lui considerava tale la Chiesa. Proprio una favola quella dell'inimicizia, della contrapposizione invincibile, dell'insanabile rottura tra lo scienziato pisano e la Chiesa cattolica. Una favola che per primo contesterebbe proprio lo scienziato pisano. Non va dimenticato, infatti, che al termine della sua vita movimentata, lasciò scritto che "in tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa". In secondo luogo: la teoria eliocentrica (la Terra e i pianeti ruotano attorno al sole) non fu inventata da Galileo. Già Aristarco di Samo e la scuola pitagorica, cinque-sei secoli prima di Cristo avevano sostenuto fosse la Terra a ruotare annualmente intorno al sole. Questa teoria venne ripresa da Copernico, sacerdote polacco, morto 21 anni prima della nascita di Galileo. Se Copernico decise di pubblicare i suoi studi solo l'anno della sua morte fu per timore di essere dileggiato dai colleghi di studi, non certo da uomini di Chiesa (i papi Clemente VII e Paolo III, cui l'opera di Copernico era dedicata), dai quali ebbe favori e incoraggiamenti. Proprio come accadde a Galileo, che ebbe tra i suoi più fieri avversari i colleghi, peraltro irritati dal carattere tutt'altro che facile dello scienziato pisano, non i religiosi. In terzo luogo: Galileo non porto` alcuna prova scientifica che potesse sostenere senza ombra di dubbio la teoria eliocentrica. Per "provare" che la Terra ruotava intorno al sole sosteneva che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque causato dal movimento terrestre. Ma questo argomento era scientificamente insostenibile. Avevano ragione i suoi "giudici inquisitoriali", i quali sapevano bene che le maree sono dovute all'attrazione lunare. Sentiamo Messori: "In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero". Il Cardinale Bellarmino sosteneva che la teoria eliocentrica, considerata come "ipotesi" scientifica (e ipotesi doveva correttamente considerarsi, fino a quando non fosse stata dimostrata vera) non era da scartare a priori, ma bisognava portare le prove. La posizione del Bellarmino è assai più corretta di quella di Galileo, che senza prove la spacciava per tesi inconfutabile. Anzi, in questo specifico caso, proprio il Bellarmino aveva assunto allora una posizione che la fisica moderna, quella dei nostri tempi, dà per scontata. In quarto luogo: nel processo del 1616 di Galileo non si parla nemmeno. Ma, successivamente convocato al Sant'uffizio, gli fu reso nota la condanna della tesi copernicana e imposto di non insegnarla prima che venisse corretta (quattro anni dopo la teoria fu corretta e qualificata come ipotesi e non come tesi). L'ingiunzione gli venne comunicata privatamente per non esporlo al dileggio dei colleghi. Galileo promise di obbedire (e non lo fece) e venne ricevuto dal Papa in persona. Una "condanna" straordinariamente mite.
Come mite fu la "condanna" subita nel processo del 1633. Galileo non passò nemmeno un minuto in carcere, non venne mai torturato, non gli fu impedito di incontrare colleghi e religiosi (vanno a trovarlo uomini del calibro di Hobbes, Torricelli e Milton), di scrivere, di studiare e di pubblicare, tant'è che il suo capolavoro scientifico - Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze - risale al 1638, cinque anni dopo la condanna. Ci manca ancora un punto. La famosa frase "Eppur si muove" con la quale abbiamo aperto queste considerazioni. Un altro falso storico. Fu inventata a Londra, nel 1757, dal brillante e spesso inattendibile giornalista Giuseppe Baretti. Come si vede, nel caso Galilei abbiamo bisogno di un po' di verità.
BIBLIOGRAFIA
Rino Cammilleri, La verità su Galileo, in Fogli, n. 90, Anno XI, settembre 1984.
Jean Pierre Lonchamp, Il caso Galileo, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990.


sabato 24 agosto 2013

Emergenza uomo

IL TITOLO

Emergenza uomo

di John Waters
20/08/2013 - Il testo dell'intervento di John Waters sul tema della XXXIV edizione del Meeting di Rimini
Immaginate un uomo che cammina in terre selvagge per molti mesi, anni, per tutta la vita. Come in un certo senso abbiamo fatto noi - lungo il percorso dei nostri antenati abbiamo camminato attraverso la giungla per arrivare fino a qui. Questo è l'uomo, ciascuno di noi è così.
Va avanti, raccogliendo frutti dai cespugli, cercando nutrimento dove può, trovando rifugio sotto le roccia e sotto gli alberi. Poi si ferma lungo la via e si accampa. Impara a coltivare le piante ed è continuamente stupito dalla capacità del mondo di provvedere ai suoi bisogni. Da qui deriva un senso di dipendenza. Diventa cosciente che le cose gli sono date - che c'è nella realtà una forza che provvede e protegge. È commosso da questo, ringrazia e altre volte chiede aiuto.
Ma ad un certo punto, immaginate che quest'uomo, che potremmo essere io o te, continui a camminare e raggiunge un posto nuovo, completamente diverso dal luogo attraverso cui è venuto. Un giorno arriva in un edificio. Di fatto è un aeroporto, benché non abbia mai visto nulla di simile e non abbia alcun modo di sapere cosa sia. L'idea del volo umano è per lui straordinario (soprannaturale).
Entra attraverso le porte in qualcosa che di fatto è una macchina che trasporta gente dall'ingresso all'aeromobile e dopo, all'incontrario. Per coloro che hanno disegnato questa macchina e coloro che l'hanno utilizzata, le persone sono delle merci, delle cifre di utilizzo del trasporto aereo, le loro vite misurabili in miglia di volo, quantità di bagagli concessa e numeri passeggeri.
L'uomo giunto dalle terre selvagge è meravigliato da questa macchina. Non riesce a capacitarsi del suo splendore e dell'efficienza con cui muove le persone da un posto all'altro, come le persone non si oppongano ad essere trasportate mentre collaborano di fatto alla loro disumanizzazione. Li guarda mentre rimuovono le loro cinture e scarpe e mentre distendono le braccia per essere perquisiti.
Salta sulla scala mobile e cerca di camminare nella direzione opposta. Nel caffè dell'aeroporto, prende un cornetto dal banco e lo mangia come usava fare con le bacche nelle terre selvagge. Viene ripreso per questo. Gli viene detto: «Vendono frutta nel negozio, da quella parte». Va nel negozio di frutta e prende una mela. Prima di morderla si benedice guardando verso l'alto. La commessa lo guarda con sospetto e chiede: «Cosa stai facendo?». «Ringrazio per la mela», risponde. «Prego», dice la commessa, aggiungendo «ma mi devi pure dare i soldi per la mela». L'uomo continua a fissare lo sguardo in alto e la commessa dice: «Chi pensi che ci sia lassù? Sei matto?».
Ben presto l'uomo incomincia ad imparare che qui le regole sono diverse. Ha bisogno di soldi, ha bisogno di lavorare, così trova lavoro pulendo le scarpe. Ora può comprare cornetti e mele invece di prenderli dal banco. Compra scarpe lui stesso per esercitarsi nel suo nuovo mestiere. Dorme nella sala partenze e se qualcuno gli fa delle domande risponde che il suo aereo è in ritardo. Compra anche un vestito Hugo Boss! Tutti sembrano di casa qui anche se lui nota che la gente cambia ogni giorno. Raramente incontra una faccia familiare a parte le commesse del bar o del negozio di frutta. Fa tante domande alla gente su questa cosa chiamata aeroplano e su questa altra chiamata cornetto. Lo guardano con sospetto. Gli chiedono «Ma dove sei stato? È ovvio è un aeroporto! Questo è il mondo moderno che ci siamo costruiti da noi».
Così impara a non fare domande sciocche o a parlare della sua vita passata, impara a far finta di non essere sorpreso e annoiato come tutti gli altri. Impara che non c'è bisogno di ringraziare alla vecchia maniera perché tutto questo è fatto dagli uomini. Semplicemente dice: «Grazie», e la commessa risponde: «Buona giornata».
Gradualmente l'uomo proveniente dalle terra selvagge diventa parte dell'aeroporto e accetta che tutto è diverso qui. Decide: «Mi piace qui! Mi sento al sicuro. Forse un giorno perfino prenderò un aereo!». E poco a poco si ritrova a conformarsi al nuovo modo di pensare che ha trovato qui. Non chiede più aiuto né si inginocchia in ringraziamento. Perde il suo stupore e la sua gratitudine. Non si sente più dipendente - forse fino al giorno in cui finalmente deciderà di prendere il primo aereo, giorno in cui forse si ritroverà ad invocare Dio perché lo riporti a terra sano e salvo!
Ma cosa è cambiato veramente nella vita di quest'uomo? È ancora lo stesso uomo. Ha scoperto una realtà nuova, ma questa esisteva già senza di lui. Questa ha cambiato la sua vita e alla fine la sua visione delle cose, ma questo non è stato il risultato di un trasformazione avvenuta al suo interno.
Il cambiamento principale è nel suo pensiero. La sua mente è stata cambiata su tutto, perché si sente al sicuro in un luogo che altri uomini hanno costruito. Ma tutti i materiali che gli altri uomini hanno usato per costruire l'aeroporto erano stati dati loro allo stesso modo in cui le bacche erano state date all'uomo nella terra selvaggia. Questi uomini hanno trovato il materiale per il loro aeroporto già nel mondo. Fondamentalmente nulla è cambiato - non ci sarebbe ragione per non ringraziare. Immaginando che le loro vite siano adesso generate da loro stessi essi vivono un'illusione.

Due anni fa a Berlino nel Bundestag, il nostro amato papa Benedetto XVI ha parlato del "bunker" che l'uomo ha costruito per sé stesso per viverci - un bunker senza finestre. Il bunker funziona secondo la logica del positivismo. Ogni cosa deve essere dimostrabile, provabile, verificabile secondo una misurazione empirica. Nel bunker non c'è spazio per il mistero.
Il bunker, come l'aeroporto della nostra storia, è una metafora ma anche una realtà concreta della cultura moderna e della sua logica. Il bunker è in gran parte fatto di pensieri che ci imprigionano in modi particolari di vedere e che anche tengono lontano altri modi di pensare. Il bunker esiste negli atteggiamenti pubblici, educazione, politica, media, cultura popolare, nel mito e nell'immaginario moderni.
Nel bunker ci sentiamo al sicuro. Conosciamo le dimensioni di ogni cosa che incontriamo. Quando qualcosa non funziona possiamo aggiustarla immediatamente. Il bunker elimina la sorpresa, chiudendo fuori i misteri dell'esistenza che spesso sono scomodi. È in questa situazione ci siamo convinti che noi siamo i padroni delle nostre esistenze e dei nostri destini. Nel bunker l'uomo finge di non essere una creatura ma il padrone di sé stesso, avendo creato al suo interno le condizioni per la vita umana.
E tuttavia, diceva papa Benedetto, in questo mondo fatto dall'uomo, le persone continuano ad attingere in segreto dalle materie prime di Dio mentre ne negano le origini.
Il bunker si costruisce tutto attorno a te e in te. Cresce come un organismo che si espande secondo la logica del suo stesso DNA. Io aiuto a costruire il bunker in me stesso e negli altri. Gli unici giudizi (percezioni) che possono fiorire nel bunker sono quelli che sono già forti. Come in un giardino: a meno che non controlli le erbacce non puoi coltivare narcisi e tulipani. Quanto più fragile è il fiore tanto meno sono le possibilità che questo sopravviva.
La storia della società umana mostra che la vita per sostenersi necessita di più di quanto l'umanità sia capace di immaginare o generare. Il bisogno di mantenere un'attenzione (sguardo) sull'Oltre, sull'Infinito ed Eterno, è inciso nell'umanità ed intrinseco alle capacità di immaginazione che ci sostengono e ci spingono. In fondo tutto ciò che l'uomo può creare per sé stesso sono delle false speranze che lo sostengono per un istante per poi invece dissolversi, lasciandolo alla ricerca affannosa della prossima speranza. Il suo "meccanismo" essenziale dipende da una relazione con il Mistero da cui deriva.
L'uomo non può neppure sopravvivere nell'ambiente che si costruisce da sé perché in questo non c'è nulla che lo sorprenda, mentre dovremmo sapere bene che l'uomo dipende dalla sorpresa per la vita del suo spirito. Per questa ragione, per raggiungere il dominio sulla realtà, l'uomo moderno ha cercato di soffocare il suo stesso spirito. Ma questo è controproducente per le macchinazioni dell'uomo, perché i suoi piani avrebbero qualche possibilità di riuscita solo nella misura in cui l'uomo fosse capace di riprodurre in essi la promessa misteriosa che aveva riconosciuto nella realtà pre-esistente. Se il suo stesso desiderio per la trascendenza non è preso in considerazione, i suoi progetti avanzano bruscamente verso il disastro.
La nostra speranza quindi scaturisce da un paradosso della riduzione. La cultura del bunker usa la traccia di desiderio trascendente che continua a risiedere all'interno degli esseri umani. Benché i piani dell'umanità di dominio sulla realtà ripetutamente giungano al nulla o producano disastri, proprio coloro che ripudiano Dio nella gestione della vita pubblica fanno affidamento all'esistenza continua di un desiderio profondo ed inestinguibile nel cuore umano che ci continua a dire che davanti a noi, nel futuro ci aspetta qualcosa di veramente importante
. Vediamo così che quando papa Benedetto diceva che nel bunker si usa la materia prima di Dio non parlava semplicemente di mattoni e calce.

Il bunker può solo sfinirsi nel cercare di replicare le condizioni richieste dal nostro desiderare. Ma non può fornire la risposta. Questo è il significato della attuale crisi anche se normalmente viene definita con termini economici. Fondamentalmente la spiegazione è che abbiamo cercato nella realtà materiale cose che per natura possono solo essere trovate nell'infinito.
Forse ogni tanto si può pensare che i fallimenti e le catastrofi ricorrenti derivanti dall'avventurarsi utopico dell'uomo, possano risvegliare in noi un rinnovato realismo. Potremmo forse nuovamente contemplare la vera destinazione dell'umanità nell'infinito? Non sono sicuro. Da molto tempo sappiamo che la possibilità di perfezionamento della realtà ad opera dell'uomo è un progetto sciocco e pericoloso. Lo Stalinismo, il Maoismo, il Nazismo ci dicono proprio questo. L'Olocausto e l'Apocalisse non hanno restaurato la nostra percezione dell'orizzonte che delimita il calcolo (intrighi) umano. Ma sottilmente abbiamo cercato di spostare il nostro "progetto di perfezione" su un binario diverso, perseguendo l'utopia nella dimensione economica. Tuttavia, nel profondo, siamo come l'alcolizzato che pensa che ci possa essere un modo diverso di trattare la sua ossessione. In apparenza, con alcune condizioni, riconosciamo i limiti e i rischi delle prescrizioni ideologiche, ma sotto sotto cerchiamo un modo diverso per giungere agli stessi fini.
Il desiderio dell'uomo può essere distorto solo fino ad un certo punto. Ultimamente, l'essere umano resta insoddisfatto, ed ogni tentativo di vincere questa difficoltà insuperabile finisce in un'altra catastrofe. Le ambizioni dell'uomo falliranno sempre a meno che non vengano dirette verso una intuizione autentica del destino umano (destinazione dell'uomo). Quindi è chiaro: quello che ci aspetta se continuiamo a seguire questa rotta è il fallimento, la catastrofe, la noia e ciò che viene chiamata depressione, cioè il sintomo più inevitabile di un tentativo di vivere una vita umana fuori dalla sua dinamica naturalmente trascendentale.

Al giorno d'oggi è raro che non si dia per scontato nelle conversazioni pubbliche che la scienza e il progresso rendano la fede una cosa obsoleta.
Questa idea invade anche le menti dei credenti, spingendoli a presupporre che la fede debba necessariamente implicare un certo rifiuto della realtà scientifica. Siamo condotti ad immaginare che la distruzione del sacro nella nostra cultura sia un effetto del "cammino del tempo", della crescente capacità di comprensione umana, dello svelare l'erroneità delle ipotesi del passato.
Ma lo scetticismo moderno non è per nulla una conseguenza del cammino del tempo o del progresso o di una crescente intelligenza. Il problema della fede nella cultura moderna non è dovuto ad una mancanza di evidenza ragionevole, ma alla incapacità di usare i fatti disponibili per rafforzare al massimo la ragione umana. Le forme positivistiche di razionalità usate per eliminare la verità dalla realtà all'interno del bunker ci stanno mutilando, privando della nostra stessa identità, dalla nostra stessa struttura, dalla nostra stessa natura, e quindi della speranza di cui ciascuno di noi ha bisogno per affrontare ed essere in grado di sostenere il viaggio che ci è stato donato.
Gli esseri umani funzionano al meglio con qualche ipotesi di lavoro sulla totalità del reale, una visione di insieme basata sulle possibilità dell'esistenza infinite, assolute ed eterne. È proprio la religione ad offrire una simile ipotesi - ci dà una mappa della relazione totale con la realtà. Se non altro per la semplice ragione che nessun essere umano sia mai riuscito a creare se stesso, ogni uomo è per definizione "religioso" sia che si accetti questa parola o no.

La distruzione della "religione", perciò, è molto più seria della distruzione di una impalcatura morale o di una identità culturale - perché equivale alla perdita della capacità di vivere con il senso del mistero, di guardare al mondo con stupore, ma soprattutto di mantenere la visione che permette alla persona umana di vivere pienamente, di sperare e desiderare ardentemente il totale destino umano. "La religione" permette agli essere umani di accogliere ogni cosa, di aprirsi alla totalità del reale, di vivere la vita. Gli sviluppi culturali recenti hanno fatto in modo di sostituire queste percezioni con concetti ideologici o parziali, ma questi forniscono una consistenza approssimativa - e solo fino a quando il soggetto rimane protetto dentro il bunker.
Io chiamo "de-assolutizzazione" il processo che si svolge dentro il bunker - la riduzione dell'immaginazione umana per sopprimere le sue domande fondamentali riguardanti l'origine e il destino. Se la "de-assolutizzazione" dell'umanità sia una strategia deliberata di interessi potenti per sottomettere e controllare le popolazioni è una domanda interessante ma non è la più urgente. È più importante vedere come funziona nelle nostre culture e trovare dei modi per rovesciarla. Questa è l'emergenza uomo.

Nel suo saggio Il potere dei Senza Potere, Václav Havel ha parlato «dell'era post-totalitaria» in cui la tirannia opera non per coercizione ma mediante persuasione ideologica, che lui descrive come «quasi una religione secolarizzata».
Sembra una esagerazione dire che nelle società democratiche occidentali, con tutti i loro diritti e libertà, noi potremmo sperimentare una qualche forma di dittatura. Ma noi forse stiamo vivendo nelle più efficaci dittature mai concepite, - dittature del desiderio: "tirannie" in cui si sono impossessati dei nostri desideri contro di noi, contro i nostri interessi ultimi, contro la natura ultima e la struttura umana essenziale. E se il meccanismo di controllo ideologico più potente di tutti fosse quello che usurpa questi processi naturali per renderci schiavi, per spingerci gentilmente ad accettare una forma ridotta di libertà?

A volte, invece di andare al parco per una passeggiata, mi ritrovo ad entrare in un centro commerciale e finisco per comparare un abito nuovo, una maglietta, un paio di scarpe nuove o magari un iPhone, di cui non ho strettamente bisogno. Trovo interessante osservare questo processo dello spostamento del mio desiderio.
Dapprima, guardo le vetrine dei negozi e vedo un manichino che indossa un abito nuovo. Dico: «Mi piace quell’abito, probabilmente mi starà bene». E già la fantasia prende il via. Esco dal momento presente ed entro in un' idea di me stesso in un qualche momento del futuro - un momento, nel quale io sarò, in un certo senso, perfetto. Inconsciamente, mentre contemplo quello che penso di comprare, e l’effetto che avrà sulla mia esistenza, sto già guardando al momento in cui avrò raggiunto qualcosa come il massimo della mia capacità di soddisfazione. Sto preparando la via per un momento paradisiaco qui sulla terra.
Ma dopo, guardo la targhetta del prezzo dell'abito e dico: «No, no è troppo!». Quindi c’è una lotta in me tra il prezzo e la fantasia. Così vado via, decidendo di fare a meno del momento di perfezione. Ma il mio andar via manca di convinzione. Infatti, non posso togliermi l’abito dalla mente. È diventato per me simbolo di qualcosa di sproporzionato, qualcosa di profondo nel mio desiderare. Più provo ad eliminarlo dalla mia coscienza e più esso stesso vi fa ritorno. E alla fine, mi ritrovo a dire, «Va beh, non è così esagerato il prezzo, vero?... per qualcosa di così perfetto?… per qualcosa che mi renderà perfetto…». Perché questo è quello che è già giunto a significare. Così me ne vado in giro, come se non avessi una meta. Ma in qualche modo il mio cammino mi porta indietro a passare dal negozio con il miracoloso abito. Guardo la vetrina di nuovo e dico: «Si, è proprio un bell'abito».
Poi mi accorgo di un cartello che non avevo notato prima. Dice: «Oggi sconto de 20%!».
È il mio giorno fortunato! Wow! Se avessi visto l’abito ieri, probabilmente avrei pagato troppo. Domani, forse, avrei convinto me stesso a non comprarlo. Ma oggi è scontato, apposta per me! Devo comprare quest’abito, è scritto! Io posso avere qualcosa che mi porterà la perfezione, e che non costa neanche così tanto come sarebbe potuto costare un altro giorno. Adesso, anche il prezzo è perfetto!
Prontamente, mi accingo a completare l’operazione. Entro nel negozio e dico: «Prenderò l’abito in vetrina». E mentre il commesso prende l’abito, estraggo la mia carta di credito e la tengo pronta. Il commesso dice: «Vuole provarlo signore?». Io so che questo è ragionevole. Potrebbe non andarmi bene dopotutto. Ma allo stesso tempo, voglio fare questo velocemente: uscire dal negozio con il mio acquisto senza inconvenienti. Tuttavia, devo ammettere che il commesso ha ragione, così prendo l’abito e vado nel camerino. L’abito non mi sta così perfettamente come avevo pensato, ma va bene. La mia idea di perfezione si e così risvegliata che sono preparato a passare sopra l’evidenza di una reale imperfezione! Così lo tolgo di nuovo, ed esco leggermente accaldato dal camerino, dò l’abito al commesso e sbatto la mia carta di credito sul bancone. L’operazione è quasi completa, ma già un senso di colpa sta crescendo dentro di me. In qualche parte di me stesso, io so che le cose non sono proprio come vorrei credere. Ma, comunque, ho l’abito nel suo porta-abito, nelle mie mani, e sto andando a casa con il mio pezzo di paradiso.
Il senso di colpa continua ad infastidirmi, ma forse, uscendo dal centro commerciale, vedrò un mendicante, seduto con un bicchiere di plastica davanti a lui. Ah! Frugo nelle mie tasche per cercare qualche spicciolo, e trovo una moneta da due euro. La lascio cadere nel suo bicchiere. E con questi due euro, la mia coscienza si è acquietata per il mio viaggio verso casa. Sono in pace.
Tornato a casa, appendo il mio nuovo abito nell' armadio insieme ai numerosi altri che ho già. Passo sopra la fastidiosa evidenza che minaccia di ribollire nella mia coscienza, che nessuno dei precedenti abiti mi ha portato in Paradiso. Se mi fermo abbastanza per considerare le cose, potrei ricordare che io ho già vissuto questo preciso momento parecchie volte prima, e che non è mai finita come mi aspettavo. Chiudo le porte dell’armadio e vado via.
Poi, il tempo passa, forse una settimana o due. A volte l’abito mi torna in mente e brevemente considero quando lo indosserò, e questo mi provoca una piacevole sensazione. Ma gradualmente il ricordo dell’abito comincia a sbiadirsi, e dopo un po' smetto di pensarci.
In seguito, parecchie settimane dopo, apro l’armadio e, vedendo il porta abito, lo tiro fuori. Oh! Un abito! Apro la borsa con curiosità, ma adesso non provo nessuna eccitazione. È soltanto un altro abito, come i molti altri che già possiedo. La fantasia è evaporata. E’ soltanto un altro abito.
E poi, alcune settimane dopo, arriva l’estratto conto della carta di credito e il senso di colpa ritorna, forse accompagnato da un po’ di vergogna. E non c’è nessun mendicante nelle vicinanze a cui posso dare due euro per comprarmi un po’ di pace.

Questa è la storia del nostro desiderio impazzito. Ci accade perché siamo fatti per la perfezione, ma tendiamo a far conquistare questo desiderio da qualcosa di inappropriato. Impreparati a questo, siamo sempre condannati a cercare la corrispondenza ai nostri desideri dove non è possibile trovarla. A volte un vestito. A volte una borsa. A volte delle scarpe. A volte un iPhone. A volte una macchina, una barca, una villa. C’è sempre lo stesso fattore trainante: l’infinito desiderio per qualcosa che, nel profondo del cuore, sappiamo non essere realmente un abito, o un particolare capo di vestiario o qualsiasi altra cosa che possiamo forse pensare di essere in grado di acquistare.
Di nuovo vediamo che quando papa Benedetto parlava di usare le materie prime di Dio dentro il bunker, non stava pensando semplicemente a cose materiali. I desideri più profondi del cuore umano sono usati anche dal mercato per assicurarsi che le ruote del commercio continuino a girare e che il business continui a crescere e che la gente continui a essere convinta che questa crescita sia la misura del benessere umano e perciò della felicità. Naturalmente dal punto di vista del mercato, dalla prospettiva della continua crescita occorre una garanzia per per tutto questo: che il desiderio non sia mai soddisfatto.
Si potrebbe pensare che, dopo sei vestiti, sette vestiti, nove vestiti, quindici borse, quattro macchine, tre battelli, due ville - tutte le volte scoprendo la stessa cosa - un giorno il consumatore impegnato si fermi a riflettere e dire: «Nulla di questo mi ha soddisfatto». Penseresti che, quanto prima, noi potremmo esclamare: «I vestiti non sono la risposta!» o «le scarpe non sono la risposta!». «Le cose non sono la risposta!». Ma questo non sembra accadere mai per la maggior parte di noi, almeno non definitivamente. Sempre c’è la prospettiva di un'altra seduzione.

L’ammontare di soldi che le nostre società oggi debbono - a volte ad altre società, a volte a gruppi di interesse dentro le stesse - hanno superato la capacità umana di comprensione. Quando vedi questi debiti espressi in un grafico di un economista, come una catena di montagne sulla linea del cielo, questo diventa una rappresentazione visiva del nostro desiderio focalizzato sulle cose sbagliate, come una serie di cisti sulla pelle che suggeriscono che c’è qualcosa di seriamente malato sotto.
Il desiderio umano è scoppiato all’interno dei sistemi costruiti dall’uomo come un uragano all’interno di un villaggio in festa. Per comprendere ancora più pienamente, quindi, noi dobbiamo guardare il nostro desiderio come qualcosa in se stesso e chiederci «per che cosa abbiamo immaginato che fosse questo desiderio?» e «a che cosa questo ci ha condotto?». Il nostro desiderio è diventato così aggressivo che abbiamo di gran lunga superato non soltanto la nostra capacità di ripagare i debiti incorsi nel perseguirlo, ma anche la capacità dei nostri figli e forse perfino quello dei figli dei nostri figli.
Don Giussani e papa Benedetto XVI ci hanno parlato tante volte del danno subito dall’«io» umano nella società moderna Questo richiede un po’ di chiarezza in questo momento storico perché ciò che ho descritto potrebbe essere ritenuto un eccesso dell’ ‘io’ un eccesso nel mettere l'io al centro. Di fatto è strano affermare che, in un epoca che diventa sempre più individualistica, ci potrebbe essere qualche problema con la soggettività umana. Quando ero bambino mi ricordo che ero costantemente stupito dal fatto che io ero una persona dentro qui, nel mio corpo. Sapevo che il mondo aveva una storia prima che io arrivassi, di cui io non avevo fatto parte e adesso, qui, io ero, guardavo fuori, testimoniavo ogni cosa.
Mi sorprendeva che la mia esistenza dovesse accadere in quell'istante. Perché? Presupponevo che altre persone dovessero avere lo stesso senso della eccezionalità della loro presenza qui. A volte domandavo agli adulti se loro provassero lo stesso stupore a essere dentro i loro stessi corpi, a porre queste domande. Ma quando chiedevo loro: «Anche tu ti senti così?», loro scrollavano le spalle o dicevano qualcosa del tipo «non fare domande sciocche». Così mi convinsi di essere l’unico con queste domande, che qualsiasi altra persona fosse,lui stesso o lei stessa, esattamente quello che lui o lei erano per me e cioè una "terza persona" e che io fossi l’unica "prima persona", il solo soggetto in mezzo a una razza di oggetti.
Sono pronto ad essere convinto che la confusione fosse dovuta ad una distorsione della percezione o della prospettiva, ma, in un modo o in un altro, qualcosa di questo tipo è calata su di noi, è diventata vera nelle nostre culture e ci affligge tutti: siamo giunti a pensare a noi stessi come terze persone. Noi siamo diventati più individualizzati, sì, ma il nucleo del soggetto di ogni individuo si è svuotato, ad un livello così profondo che noi non pensiamo più a noi stessi come soggetti primari, ma semplicemente altri oggetti, terze persone singolari. Perfino ai nostri stessi occhi in qualche modo noi siamo cambiati.

Ognuno di noi ha un passaporto, un codice fiscale. Ognuno di noi ha un’identità sociale, che, anche quando ci distingue dagli altri, ci rende come gli altri. Tutte le volte che noi ascoltiamo i programmi di attualità alla radio o alla televisione - ciò di cui parlano e a chi parlano è questa entità resa oggetto, questa parte di noi che è numerata, che è elencata. Prima siamo contribuenti, poi siamo consumatori, dopo elettori, poi, alla fine, cittadini - come se questa fosse l’estensione più piena della nostra umanità - con doveri e diritti, ma con un volto che ha il solo scopo di identificarci in un contesto di sicurezza.
Ascoltando le descrizioni di ogni giorno della nostra realtà, raramente noi sentiamo menzionare un'altra dimensione della nostra esistenza, una dimensione molto più immediata e perfino più ovvia: che noi siamo intelligenze soggettive singolari - miracoli di consapevolezza e testimonianza - che guardano alla realtà per la prima volta nella storia proprio in questo momento, capendo delle cose, testimoniando delle cose, chiedendoci e stupendoci. Se questa dimensione interiore qualche volta appare viene subito trattata come periferica, insignificante, forse perfino un aspetto problematico, come gli adulti che spazzavano via le mie domande quando ero un bambino. Adesso tutta la cultura sembra costruita per deviarmi dalla mia soggettività. Mi incoraggia nel mio auto assorbimento, sì, tollera il mio egoismo, promuove il mio individualismo, ma la mia soggettività, il mio ‘io’, che è lo strumento per comprendere il miracolo della mia esistenza, è trattato come una sorta di eccentricità, come un elemento residuo di un modo di capire le cose precedente e sbagliato, di cui adesso è meglio non parlare.
Ma consideriamo la matematica straordinaria della mia esistenza: che io sia uno di sette miliardi di esseri umani vivi, su questa relativamente minuscola particella di materia, che gira intorno a una piccola stella, in una galassia di milioni di stelle simili, in un universo di forse milioni di milioni di galassie simili. Ed eccomi qua, proprio in questo momento, che vi guardo, chiedendo: «Ma chi sono tutte queste persone?». Non tra 374 anni, non 635 anni fa, ma proprio adesso, in questo momento che sembra essere l'unico ad esistere. La mia esistenza, statisticamente parlando, è così vicina all’impossibile da essere per gli standard terreni, impossibile. Se noi traducessimo queste statistiche in un pronostico di uno scommettitore, ci renderemmo conto che nessuno mai scommetterebbe sulla mia esistenza, la mia esistenza è impossibile eppure io sono qua.
Eppure ogni giorno io cerco la prova che la cultura in cui vivo stia cogliendo la natura di questo miracolo e raramente vedo o sento questo. È straordinario il fatto che abbiamo costruito culture che ci nascondono il miracolo della nostra soggettività, nell’epoca più individualista della storia del mondo.

Cosa sta succedendo? Bene, al fine di creare una società materialistica basata su un’appropriazione indebita del desiderio di perfezione umano è necessario che accada un processo in due fasi.
Primo: si erode la soggettività della persona. Quindi si persuade la persona così ridotta, a ricostruire la sua identità umana in una maniera materiale. Così la cultura in cui viviamo prima ci elimina e poi ci invita a ri-immaginare noi stessi attraverso un vetro oppure proiettati su uno schermo, come se stessimo guardando a noi stessi in una vetrina di negozio, o su un computer, o sullo schermo della televisione o del cinema. Noi esistiamo soltanto guardandoci come in un riflesso o in una proiezione. Noi diventiamo attori nelle nostre stesse esistenze.
Come se il nostro intimo fosse stato rimosso, noi siamo diventati letteralmente delle "non-entità", ma ci viene offerta l’opportunità di ritrovare noi stessi, di ricostruire noi stessi nuovamente nella società. I mattoni di questo processo di costruzione sono le cose che possediamo, le cose che indossiamo, il nostro look, dove viviamo, le macchine che guidiamo. Gradualmente una nuova persona è ricostruita per sostituire il soggetto che era stato soppresso, per sostituire l’"io" che è stato distrutto.
Si può osservare questo processo in maniera molto chiara nei social network in internet, dove i giovani possono conoscere sé stessi soltanto attraverso le riflessioni concesse dagli altri fruitori della rete. Chi io sono dipende da quanti "amici" ho, o a quanti "piace" quello che io dico.
Chi dice che io sono bello?
Senza tale consenso sembra che io non sia nulla. Io non esisto fino a quando non vengo fatto riemergere dall’approvazione degli altri. Non c’è niente dentro di me che afferma chi io sia. Questo è possibile soltanto se io sono disponibile a fornire alla cultura l’obbedienza che questa richiede. De-assolutizzati dalla cultura in cui vivono e respirano, i nostri figli si ricostruiscono nella loro condizione ferita, che deriva dal loro "io"strappato, svuotati della loro soggettività. Si ricostruiscono grazie ai giudizi prodotti da altri, senza accettare nulla di loro stessi a parte ciò che è riconosciuto dalle altre "non entità" diventate oggetto, con cui cercano un rapporto, una comunione, senza sapere cosa cercano.

Secondo strumento vitale del bunker è l’attacco rivolto alla saggezza del passato. È come se la parte di gran lunga più grande della conoscenza e dello sviluppo umano fosse accaduta nel passato più recente - diciamo negli ultimi 15 anni - rispetto al periodo vasto del progresso e dell’evoluzione umana. Il fatto di vivere nel presente permette a chi parla di sostenere di avere intelletto e capacità di comprensione, che secondo lui erano sfuggite ai processi di pensiero perfino dei pensatori più brillanti vissuti nel passato. Anche i più ingenui e ignoranti hanno i titoli per rivendicare una superiorità perfino sulle persone più illuminate tra quelle vissute nel passato.
Chi twitta o manda un sms emana un senso di superiorita mai sentito prima, che gli deriva dalla tecnologia usata. Si sente sicuro nello scartare le conoscenze del passato semplicemente perché a queste si era arrivati senza ricorrere agli strumenti oggi a lui disponibili.
Sant'Agostino nelle sue Confessioni scrisse sul significato del tempo:
«Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch'esso? Se appunto la sua sola ragion d'essere è che non esisterà in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c'è solo in quanto tende a non essere». (da Le Confessioni, libro XI).

In questo brano, sant'Agostino amabilmente ridicolizza la nostra fiducia nel cogliere il significato attraverso le parole. Eppure con alcune frasi agili lui va al cuore di uno dei più complessi enigmi della realtà: la natura del tempo. Milleseicento anni dopo le sue parole emergono dalla pagina come proponendo una questione ancora fresca, nella maniera più chiara. Eppure, al livello del discorso di tutti i giorni, noi nella nostra conoscenza da bunker proviamo una certa superiorità rispetto ad Agostino sulla base della sua insistenza sul riflettere su cose ovvie. Chi ha bisogno di perdere tempo riflettendo sul tempo, quando abbiamo il tempo qui sul nostro iPhone? La stessa esistenza del mio orologio o del mio telefono mi dà un senso di padronanza della conquista del tempo da parte dell'umanità. Ma, in verità, io non ho costruito il mio orologio, il mio iPhone: li ho comprati in un negozio. Non so praticamente nulla di come funzionano, eppure la loro stessa esistenza mi permette di sentirmi intellettualmente superiore a sant'Agostino, perché lui ha vissuto 16 secoli prima di me. Forse se Agostino avesse avuto un iPhone non si sarebbe affannato a scrivere queste cose nelle sue Confessioni. La tecnologia dà a ciascuno di noi un senso di conoscenza, per guadagnare il quale noi non facciamo nulla. Così si accrescono sia il nostro potenziale di scetticismo, sia il nostro disprezzo per la ricerca.
Ci proponiamo di sbarazzarci di tutti i misteri ad uno ad uno, per svegliarci un giorno conoscendo ogni cosa. Così come abbiamo acceso un mutuo col futuro per acquistare quella falsa soddisfazione offerta al nostro desiderio dal mercato moderno, adesso noi prendiamo in prestito ogni conoscenza futura e la conferiamo al presente. Noi ci immaginiamo così vicini all’onniscienza e alla onnipotenza, come se fosse cosa da poco. L’unica cosa che veramente ci stupisce è l' ingenuità dei nostri antenati, il loro senso di essere creati, dipendenti e benedetti.

L’emergenza uomo: ecco accadere nuovamente la storia di Adamo ed Eva. L’umanità stanca della dipendenza dal suo creatore cerca di aprirsi una strada da sola. Ma questo liberarsi è accompagnato da un ulteriore elemento: una ambiguità crescente riguardante l’esistenza stessa di un creatore. Lo scetticismo sembra essere oggi un sintomo di un ragionare intelligente, mentre la fede, nel caso migliore, è un ottimismo cieco e irragionevole. Così di fatto il non credere diventa l’opzione preselezionata, di default, della nostra cultura. L’umanità decide di continuare come se Dio non esistesse - il fatto che Dio ci sia o non ci sia non fa differenza. Per i non credenti questo equivale a "ragione". Per i credenti significa che Dio è diventato una specie di bonus: la sua esistenza aggiunge un aspetto che gratifica gli sforzi dell’uomo, ma ha cessato di essere centrale, al massimo è una consolazione.

Anni fa, quando mi preparavo per la prima Comunione, la prima domanda del catechismo era: «Chi ha fatto il mondo?». La risposta fornita era: «Dio ha fatto il mondo». Perfino allora mi rendevo conto che questa risposta non poteva che essere o vera o falsa. Ma, in qualche modo, l’uomo moderno è riuscito a insinuare una terza opzione, evitando la durezza della scelta. Invece di affrontare la questione l’ha pigramente parcheggiata, come se Dio fosse capace contemporaneamente di esistere o non esistere, posto in una specie di bolla confusa, di cui se ne può tenere conto superficialmente ma senza che Gli venga data una forma o una figura concreta.
Forse la situazione sarebbe preferibile se ci fosse, a livello formale delle nostre culture, un completo rifiuto di Dio. Allora noi saremmo costretti a decidere, ciascuno per se stesso, cos’ è la verità. Ma questo mondo confuso di fede a metà che abbiamo costruito, presenta uno scenario molto più dannoso. Qui Dio è banalizzato, non è preso seriamente, e tuttavia non è totalmente negato. Si crede in Dio a metà e a metà non si crede. In questo c’ è qualcosa di molto peggio che un insulto al Dio putativo: la sospensione delle questioni centrali dell’ esistenza. Se noi direttamente dicessimo «Dio è morto», ci troveremmo a dover affrontare la sua assenza, o non esistenza, e confrontarci con le questioni fondamentali della nostra situazione come meglio possiamo. Ma la nostra soluzione di fede a metà ci permette di mettere da parte tali questioni come se fossero delle discussioni filosofiche astratte o degli argomenti per produrre delle ipotesi in materia religiosa. Non sono domande, invece, che hanno a che fare con l’ umanità nei suoi sforzi di ogni giorno.

L’oscuramento della nostra immaginazione (apertura) religiosa è accaduto come parte di una generale riduzione dell'ampiezza e della capacita del ragionare comune. In questo la situazione umana è esclusivamente definita nei termini del bunker, il che significa: ideologia, politica, economia, psicologia- tutte conoscenze oggettivate in cui una specie di know-how collettivo è capace di spiegare a ciascuno di noi come pensiamo e come ci comportiamo. Una conversazione collettiva costruita in maniera artificiale, esclusivamente in questi termini, influisce sullo sperare e sul desiderare umano, spostando gli impulsi umani più fondamentali dal loro fondamento nella realtà trascendente e schiacciando la capacita degli esseri umani di ragionare adeguatamente per se stessi fuori dalla mentalità comune. Il risultato è stata la divisione dell’ umano che accade all’ interno della persona - ciascun essere umano è diviso in sé stesso, all’ esterno dichiarando obbedienza ad una realtà pubblica secolarizzata, ma internamente morendo di fame, cercando disperatamente mezzi per una conoscenza di sé totale. I testimoni storici che un tempo nutrivano il senso di appartenenza degli uomini in una realtà assoluta adesso sono fatti apparire come insignificanti e improbabili. Sempre più, per esempio, è inutile ripetere semplicemente delle verità religiose perché, così facendo, non si fa altro che consolidare il nuovo dualismo che deriva dalla continua riduzione di entrambe le realtà, quella divina e quella umana. La questione di Dio sembra non importare più perché non riguarda la vita reale.
Mentre le conseguenze di tutto questo, a livello collettivo, possono essere messe da parte, la disintegrazione della conoscenza vitale all’interno del cuore dell'uomo che ne deriva è molto più profonda ed è impossibile sbarazzarsene.
Vorrei, in breve raccontare il modo in cui io essenzialmente giunsi a fraintendere il mio stesso desiderio e la mia stessa libertà, avendo perduto quel senso di stupore che avevo avuto prima.

Da bambino io avevo avuto una relazione con Cristo profonda, appassionata, ma da adolescente divenni attratto dalla promessa di un nuovo tipo di libertà. Questo fu specialmente drammatico durante gli anni ’70 in Irlanda, che si stava trasformando da un luogo grigio e tranquillo in un tipo di cultura effervescente e dinamico, in cui la musica pop e la cultura giovane ci incantavano.
Sembrava che ci fosse una scelta da fare. Cristo e la libertà apparivano in un certo senso contrapposti. Non è che io volessi fare questa scelta e sicuramente non provavo alcun risentimento verso Cristo. Eravamo stati insieme per molto tempo, per tutta la durata della mia infanzia. Eppure ero attirato da questa nuova libertà. Pensavo che forse Cristo non avrebbe gradito di essere associato a questa nuova libertà. Non volevo ferire i suoi sentimenti, sono scivolato via da Lui nella notte e mi sono buttato nella mia nuova avventura.
Nel tempo questo mi avrebbe portato a scoprire qualcosa di fondamentale. Io sviluppai un problema con l'alcol, che di fatto è un altro fraintendimento del desiderio. Perché quello che succede è che tu decidi che questo liquido colorato nel bicchiere è la risposta a tutte le domande e a tutti i desideri, come il vestito nella vetrina del negozio che ti promette il paradiso. Ma sfortunatamente questa risposta è ancora più letale del vestito perché è un veleno che attacca lo spirito dentro di te. Questo è proprio quello che mi é accaduto. Nel dicembre scorso ho avuto un controllo medico e i dottori mi hanno suggerito di fare un angiogramma per vedere le condizioni del mio cuore. Questo consiste nell’ iniettare un liquido blu nelle vene, così da vedere su uno schermo le condizioni dei vasi sanguigni, e ti da una mappa del sistema circolatorio. L’alcol nel tempo mi fornì qualcosa di simile a una mappa - ma una mappa del mio spirito.
Essenzialmente, attraverso la mia esperienza dell’alcol, ho imparato che la mia struttura era definita da un desiderio infinito per qualcosa di grande. Scambiare l’alcol per la risposta, mi rese consapevole del fatto che io ero costruito in un certo modo - che io ero creato, che io ero dipendente, che io non ero fatto da me. Che io ero mortale in un certo senso, ma infinito nel mio desiderio.
Ma per che cosa era il mio desiderio? Ma cosa desideravo?
Io sono stato fortunato per aver incontrato delle persone che avevano fatto un viaggio simile e che mi dissero: «La risposta alla tua domanda è…Dio».
Sul momento risposi: «È da vent’anni che scappo da questo».
Ma rimasi vicino a queste persone e gradualmente incominciai a capire in maniera diversa quello che loro stavano dicendo. Se Dio ti ha fatto, loro mi dicevano, Lui ti a fatto per sé stesso, in relazione a sé. Se questo è così allora negare questo inevitabilmente causerà la tua sofferenza. «E tu hai sperimentato questa sofferenza?».
Si, dissi.
Così incominciai a seguire più attentamente quello che loro stavano dicendo e pian pianino incominciai a vedere me stesso in maniera diversa. Ritornai un po’ come mi ricordavo di essere stato da bambino o come l'uomo della terra selvaggia di cui parlavo prima: bisognoso di aiuto, vagando, domandando, ringraziando, parlando a Cristo che, mi rendevo conto rimaneva, vicino. All’inizio feci questo come un atto di fede, ma senza credere. Ma presto, nonostante il mio scetticismo, notai che la mia vita migliorava: non avevo più bisogno di bere, non avevo più paura.
Questo fu l’inizio del riesame della mia realtà, che mi condusse a diventare nuovamente mendicante - dopo molti anni in cui avevo tentato di essere Dio.

Un paio di settimane dopo che papa Benedetto XVI fece il discorso nel Bundestag, io parlavo a Dublino ad una conferenza di un circolo letterario e l’argomento era il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh, uno dei più grandi poeti cristiani del XX secolo.
Kavanagh si definì sempre un poeta "cattolico" intendendo con ciò che quando lui guardava un uccello, un albero o un fiore, lui vedeva l’entità creata e ciò gli ricordava che lui stesso era creatura.
Ecco un brano dalla sua poesia Innocenza:

Dicono che io ero limitato dalle siepi di biancospino
Della piccola fattoria e che non conoscevo il mondo
Ma io sapevo che l' ingresso alla vita dell’ amore
È lo stesso ingresso dappertutto.
Confuso da quello che amavo
Lo allontanai da me e lo chiamai fossato
Benché lei mi sorridesse con le violette.


Per Kavanagh la poesia non era letteratura, bensì teologia. Lui diceva che la cosa importante di una poesia era il «il lampo», che lui definiva come «l'Altro Mondo che ci informava della sua esistenza». Questo «lampo» accadeva all’improvviso attraverso le parole e, in maniera strana, indipendentemente da esse. Molti anni dopo la sua morte ho conosciuto suo fratello minore, Peter, di cui Patrick mi parlava come «il mio custode segreto».
Peter mi spiegò che una poesia è in realtà una preghiera. Mi disse: «Patrick credeva nella divinità, così ciò che lui sperava era di cogliere un bagliore di questa visione beatifica, di questo luogo soprannaturale. Le parole sono la parte meno importante di questo. In una poesia le parole bruciano in una tremenda trama di qualcosa di insolito».
Ma due anni fa, parlando di queste cose ad un pubblico "de-assolutizzato" in un quartiere elegante di Dublino, mi rendevo conto che tra il pubblico c'erano persone non contente della mia descrizione. In Irlanda non è più di moda per scrittori, poeti o musicisti parlare del «lampo».
Alla fine un uomo mi sfidò e disse: «Questa roba è scaduta disperatamente».
«Sono venuto qui per sentire una lezione su Kavanagh», si lamentò: «Non una lezione sul cattolicesimo».
Io risposi che Kavanagh guardava a se stesso nel modo in cui io lo descrivevo e che ignorare questo voleva dire perdere di vista il suo significato essenziale.
Lui disse: «Oh, siamo stanchi di queste cose, non ti rendi conto che l’uomo è stato sulla luna?».
A quel punto il tempo si fermò. Sapevo di aver appena ricevuto una cartolina dal bunker in quanto questa frase veramente riassumeva tutto quello di cui stava parlando papa Benedetto. «Non ti rendi conto che l’ uomo e stato sulla luna?». Veramente quest’uomo stava esprimendo la certezza del positivismo, la sicurezza datagli dal bunker del fatto che non ci fosse più nessun bisogno di considerare l’ idea di un creatore, o del mistero di sé stesso o della sua vita, o della realtà.
In quel momento io capii che dovevo rispondere. Tuttavia, ricordatevi, anche io ero nel bunker. Le parole che l’uomo diceva avevano senso per me, appartenevano a quel modo "razionale" di pensare che mi era familiare, io stesso potevo soccombergli ad ogni momento.
Quell’uomo stava esprimendo qualcosa che al giorno d'oggi ampiamente professato, è al cuore stesso della cultura dominante nel mio paese come nel resto del mondo.
L’implicazione sta nel fatto che il progresso scientifico aveva esposto la falsità della visione cristiana della realtà e dell’umanità. Oggi raramente questa idea non è sottintesa in qualunque conversazione comune e se siamo onesti, invade anche la mente dei credenti, sussurrando che in fondo si aderisce alle idee religiose nonostante i fatti ovvi dell’esistenza.
«Non capisci che l'uomo é stato sulla luna?».
Io non avevo una risposta, semplicemente aprii bocca e mi uscì una domanda: «Ma tu sei stato sulla luna?».
E lui rispose: «No».
«Quindi che differenza ha fatto per la tua vita il fatto che un altro uomo sia stato sulla luna? le domande del tuo cuore hanno trovato risposta grazie a questa conoscenza?».
L’uomo sembrò confuso dalla domanda, ma anche un po’ arrabbiato, come se io cercassi di imbrogliarlo. Mi rispose che i suo figli e i suoi nipoti avevano da tempo messo via «tutte queste cose».
Io capii. Lui pensava che fosse ovvio per qualunque persona intelligente che, poiché lui aveva visto un uomo camminare sulla luna, ogni cosa fosse cambiata. Non si rendeva conto che questo poteva essere tutto fuorché una posizione razionale, intelligente, di fronte alla realtà.
Ma, dissi io, Neil Armstrong andò sulla luna e ci ha camminato sopra. Poi tornò sulla terra e andò a letto e dormì. Il mattino dopo si svegliò e andò nel suo bagno, guardò nello specchio e vide la faccia di Neil Armstrong che lo guardava. E nonostante avesse camminato sulla luna, aveva le stesse domande che aveva prima di lasciare la terra: chi è quest’uomo? Chi genera la vita dentro questo corpo? Perché Neil Armstrong è qui?
Quando si studia il profilo degli scienziati e degli avventurieri che sono stati degli autentici innovatori nel progresso umano, spesso si scopre che la loro certezza religiosa è stata accresciuta piuttosto che ridotta dalla loro esperienza alla frontiera della scoperta umana. La fede di molti di loro, soprattutto degli astronauti, sembra si sia accresciuta come risultato di incontri più ravvicinati con l’universo. Benché Neil Armstrong non abbia parlato pubblicamente del suo credo personale, è risaputo che fosse un uomo di grande fede, che credeva in un Dio personale. L’ ultimo atto del suo compagno astronauta sull’Apollo 11, Buzz Aldrin, prima che la porta dell’astronave fosse aperta, è stata di tirare fuori una bibbia, calice e vino e pane sacramentali. Prima di fare la storia lui celebrò la Comunione. John Glenn, il primo americano ad orbitare attorno alla terra, disse: «Guardare fuori a siffatto creato e non credere in Dio è per me impossibile».
Lassù questi uomini restarono stupiti. Erano pieni di meraviglia. Ma tutti questi sentimenti di stupore e umiltà ci sono risparmiati nel bunker. Al caldo e al sicuro, noi guardiamo questi eroi dell’avventura umana e giungiamo alla conclusione opposta: che l’onnipotenza umana è ad un passo più vicina e che Dio, perciò, è superfluo.
Coloro che tendono ad affermare le cose in questi termini di solito non prendono parte al progetto umano o all’innovazione scientifica, semplicemente rivendicano, per fini ideologici, i progressi fatti dagli altri. Sono degli osservatori, sono gente che si appropria del lavoro altrui, non dei protagonisti o gente che partecipa. Immaginate la risposta di Dio mentre guarda l’uomo che arriva sulla luna. Non penso che Dio sia duro o si metta a ridere dei nostri sforzi, tuttavia guardando l’ estensione dei cieli che lui ha fatto gli si potrebbe perdonare se ridesse tra sé pensando: «Come è bello che questa gente sia riuscita a lasciare il proprio pianeta!»… Come un padre che guarda il proprio figlio gattonare sul tappeto per la prima volta!

L’attuale senso generalizzato di incombente onniscienza dell’umanità è un artificio della falsa logica. Ogni giorno noi riceviamo delle informazioni che accrescono la nostra sensazione che l’ umanità si stia muovendo inesorabilmente verso l’ onniscienza e l’ onnipotenza. Non appena una nuova frontiera della scienza è annunciata i media estrapolano da questo un giudizio che riguarda la natura più importante dell’ uomo e della sua posizione. Noi riceviamo questo giudizio e possiamo sentirci cambiati o obbligati in qualche modo da questo, eppure noi spesso abbiamo pochissima comprensione della natura del progresso, della scoperta che è stata fatta, che spesso è descritta in maniera frettolosa e approssimativa. La maggior parte di noi non è coinvolta direttamente in nessuno di questi progressi umani. Noi siamo degli osservatori. Tuttavia ogni volta proviamo una piacevole sensazione di soddisfazione perché l’ umanità ha fatto una altro passo da gigante in avanti. L’ idea che il progresso umano cambi la condizione dell’umanità è fondamentalmente per ciascuno di noi un’illusione che ci deriva da un passaparola, da un sentore dell’ onniscienza che si avvicina che di fatto non aggiunge nulla a ciò che sappiamo già.
A volte questo processo ha un effetto in noi nonostante noi stessi, nonostante la nostra determinazione a credere, perfino nonostante la nostra comprensione che la fede in Dio ha avuto una consistenza nella nostra vita. Ogni nuovo annuncio sembra che sia quello definitivo per risucchiare altre energie alla nostra speranza. Noi immaginiamo di non avere alcun modo di metterlo in questione o cercare di rispondervi. Così questo sembra imporre su di noi un giudizio definitivo. Nutre il nostro scetticismo col fiato rubato alla nostra vita.
L’uomo moderno si sente sempre più intelligente, ma rimane immobilizzato davanti alle domande con cui si sono confrontati i suoi antenati nella loro religiosità. Con la sua mente crede di essere parte del grande progetto che si avvicina alla onniscienza umana, ma con il suo cuore si sente escluso da esso. Al massimo sente che è l’unico ad avere i dubbi e che è meglio tenerli per sé.

Ma, amici miei, c’è una buona notizia: nel bunker c’è un aspetto di questo auto-soffocamento che a lungo andare non è sostenibile. L’uomo ha lasciato fuori dal bunker il mistero dell’universo, ma ci porta dentro il mistero con il suo stesso essere.
Anche noi siamo mistero e non possiamo lasciarlo fuori da un muro. Ecco perché è stato necessario sopprimere l’«io» dell’essere umano: l‘«io» è ciò che dà testimonianza al mistero.
Il passo più importante per riguadagnare la nostra soggettività perduta di fronte alle grandi domande dell’esistenza è diventare coscienti del bunker e di essere stupiti nuovamente dalla mia/tua/nostra presenza qui. Perfino nel bunker io posso stupirmi in ogni momento, del miracolo della mia esistenza. Una volta sintonizzato con questa sensibilità, allora ho già cominciato a capovolgere la condizione della mia vita. L’unico modo per andare avanti è di rendere il bunker visibile, di guardare alle sue strutture, alle conseguenze, e come questo è giunto a dominare le nostre vite. E poi di rivolgersi nuovamente verso l’infinito e riconoscere che questo è di gran lunga più reale.
Don Giussani ci dà il metodo nel Senso Religioso, al capitolo 10: «Voglio che immaginiate di uscire dal ventre di vostra madre. Siete appena nati. Chiudete i vostri occhi e immaginate che state per uscire dal ventre di vostra madre!». Don Giussani ci consente di prendere con noi, in questo momento, tutti gli strumenti che possiamo usare per comprendere la realtà, tutti gli strumenti più veri della nostra ragione: la nostra esperienza, l’intelligenza, le emozioni, le intuizioni, ecc. Così vieni fuori, entri nel mondo, in questa stanza. A quale conclusione giungeresti da questa esperienza iniziale di realtà? Qual è la tua risposta quando guardi alla realtà - ai colori, ai movimenti, l’essere, la luce… tutto questo di fronte a me. Che cosa sono queste cose? Chi sono questi esseri?
E quindi poter diventare cosciente di me stesso. Chi mi ha fatto? Io? Cos’è questo io? Per il fatto che io pensi, divento io l’origine di me stesso? Chi sono io? Le mie mani - da dove vengono?
Io non mi sono fatto da me.
Io non faccio nulla.


Questo abbiamo perso: lo stupore di fronte a quello che è, a quello che siamo. Abbiamo bisogno di imparare a cambiare direzione, in ogni momento nel bunker, e ritrovare di nuovo questo stupore. Per comprendere ciò che il bunker ci sta facendo e per percepire, anche parzialmente, quello che il bunker cospira a sopprimere.
La sfida alla ragione al giorno d'oggi non è provare l’esistenza di Dio, ma smantellare le impalcature della falsa logica, che si è frapposta tra noi, e la verità su di noi. A causa di queste riduzioni, che lo ammettiamo o no, il bunker ha reso Cristo un mito, un’idea sentimentale e un poliziotto morale. Questo è un crimine contro Cristo, ma è un crimine ancora più grande contro l’umanità.

Pensate: se rifletteste sul modo in cui pensate, rimarreste colpiti dal fatto che i vostri pensieri sono un dialogo. Voi andate in giro, guidate la macchina, siete seduti a bere un caffè in un bar - qui ora…la vostra mente è in azione - con parole, senza parole? - ma in un modo o in un altro sempre come una conversazione.
E con chi? È come se ci fosse un altro presente. Questo essere o questo rapporto è con me sempre ed è sempre stato qui.
Riflettere un attimo: solo per essere qui, in qualche modo, mi sento amato. Io ho avuto questa sensazione per tutta la mia vita, ma non ero cosciente di esserlo fino a poco tempo fa. Lo davo per scontato o trattavo questa sensazione di serenità e di pace che mi veniva data, come un fenomeno naturalistico. Avevo una comprensione dell’amore di Dio, ma come qualcosa di astratto, distante. Suppongo che per molto tempo io l’abbia confuso con l’amore dei miei genitori, che anche questo ritenevo essere naturale e indistruttibile. Ma ora entrambi i miei genitori sono morti, ciononostante tutto questo continua. Mi sento amato e questo sentimento mi rianima, mi rinvigorisce con una fame inesauribile per la vita e per il vivere. Senza questo senso di amore di cui parlo la vita sarebbe insopportabile e niente nel bunker sarebbe capace di proteggermi.

È giunto il momento per me di dare un nome a questo amore, o altrimenti potrei essere accusato di essere evasivo. Il nome che io do è Cristo, questo è il nome di Colui che mi sostiene.
Io non posso perdere Cristo ma posso trascurare la Sua presenza nel luogo in cui sono. In questa stessa stanza in cui mi trovo da un’ora a questa parte i miei pensieri si sono aperti per includerlo?
Ascoltate…
Perché c’è da addolorarsi della perdita di Cristo? È una questione di mostrare rispetto a Cristo, di onorare la Sua venuta, il Suo sacrificio, di porre omaggio alla Sua Resurrezione? A rischio di provocare disaccordo io direi di no. Se fosse semplicemente una questione di offendere Cristo dimenticandolo, conosciamo abbastanza la Sua personalità per poter vivere con questo rischio. Forse, il giorno del giudizio, potremmo essere capaci di convincerlo di aver avuto una soluzione migliore alla questione del nostro destino!
No - la questione è che, in forza della nostra struttura data e irriducibile, non possiamo funzionare al di fuori della relazione divina che Cristo ci offre.
Non è che abbiamo dimenticato Cristo, ma, come ha osservato Flannery O’Connor, siamo diventati come «tormentati da Cristo». Cristo rimane presente, lo sappiamo. Tuttavia non possiamo testimoniarlo, non possiamo dire il suo nome per paura del sospetto e della condiscendenza. Come Pietro, lo neghiamo fino al canto del gallo. Ma la stessa enormità del dolore che proviamo - inconsciamente o scambiandolo per qualcosa d’altro - costituisce la misura del nostro desiderio per lui. La confusione crescente, la dissociazione, l’alienazione, la solitudine creano un’immagine negativa della pienezza a cui aspiriamo. Cristo rimane presente - forse ancor più chiaramente, nella nostra sensazione della Sua assenza.

Cari amici vi invito ad immedesimarvi in tutto questo
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