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martedì 31 dicembre 2013

L’umano arriva dove arriva l’amore»


Italo Calvino e quella giornata al Cottolengo: 

«L’umano arriva dove arriva l’amore»
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maturità 2013Maturità 2013. Prosegue il viaggio di tempi.it in preparazione dell’Esame di Stato. Dopo Giovanni Pascoli, Gabriele D’AnnunzioLuigi Pirandello, Italo SvevoGiuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba e Salvatore Quasimodo, oggi parliamo di Italo Calvino.
La vita
Nato a Cuba nel 1923, Italo Calvino partecipa alla resistenza partigiana, di cui tracce si vedono nelle prime opere. Poi, nel Secondo dopoguerra, si laurea in Lettere. Inizia la sua fervente attività di romanziere e di collaboratore con quotidiani e riviste. Negli anni in cui va di moda l’intellettuale engagé, specialmente di sinistra, sia in Europa (si pensi a Camus o a Sartre) che in Italia (basti citare Moravia), anche Calvino è iscritto al partito comunista. In seguito ai gravi fatti di Budapest (1956) il 7 agosto 1957 Calvino si dimette dal PCI scrivendo: «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito […]. Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro». Si sposa nel 1964 all’Avana nel 1964. La sua notorietà di scrittore si afferma a livello internazionale. I suoi interessi sono eterogenei e denotano sensibilità per problematiche scientifiche e politiche. Tiene conferenze e continua a scrivere. Dal 1967 al 1980 vive a Parigi. Poi, tornato in Italia, colto da un ictus, muore nel 1985.
La produzione narrativa
Italo Calvino è uno degli scrittori più letti nelle scuole italiane e uno dei classici italiani più venduti nelle librerie. Nella scuola primaria di lui si propongono spesso le novelle (chi non ricorda la raccolta Marcovaldo) mentre nella scuola secondaria di primo grado  si sottopone all’attenzione dei ragazzi la trilogia degli antenati (Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato o Il barone rampante) o i due romanzi dedicati alla Seconda guerra mondiale e alla lotta partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo). La sua sterminata produzione, testimone di una vena di grande affabulatore e di un vivo interesse per lo sperimentalismo nella narrazione, risente dei dibattiti aperti negli anni Cinquanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog) oltre che delle suggestioni dello strutturalismo e del fascino dello progresso scientifico (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar). Se il testo Italo Calvino racconta l’Orlando furioso rivela l’amore che l’autore ha per il mondo cavalleresco e per il capolavoro ariostesco, in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) Calvino si sofferma sulla riflessione letteraria (metanarrativa) ipotizzando differenti incipit per un romanzo.
Noi ci soffermeremo, invece, su un’opera poco conosciuta, La giornata di uno scrutatore. Nel 1953, anno di elezioni politiche, Calvino è segretario di seggio al Cottolengo e ci dà testimonianza di quanto gli accade in un testo datato 1963, che non è certo tra i più noti e pubblicizzati dello scrittore: La giornata di uno scrutatore. «Posso dire che, per scrivere una cosa così breve» racconta Calvino nella prefazione, «ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro. […] Ero candidato del Partito Comunista […]. Così assistetti a una discussione in un seggio elettorale del Cottolengo tra democristiani e comunisti sul tipo di quella che è al centro del mio racconto (anzi, uguale, almeno in alcune battute). E fu lì che mi venne l’idea del racconto, anzi il suo disegno ideale era già allora quasi compiuto come l’ho scritto adesso: la storia d’uno scrutatore comunista che si trova lì, ecc. Provai a scriverlo, ma non ci riuscivo. Al Cottolengo ero stato pochi minuti appena […]. L’occasione di farmi nominare scrutatore al Cottolengo mi si presentò con le amministrative del ’61».

Calvino si cela sotto le vesti del protagonista Amerigo Ormea, intellettuale, pessimista e un poco cinico che si sente adulto, come  chi sa già e conosce già e non ha, quindi, tempo per lasciarsi sorprendere: «Nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». Iscritto al partito comunista, considerato «elemento preparato e di buon senso», ora viene fatto scrutatore proprio in un seggio di un grande istituto religioso: il Cottolengo, chiamato anche la piccola casa della Divina Misericordia, un enorme ospizio, una città nella città, fondata tra il 1832 e il 1842 da un prete per accogliere i minorati e i deformi, quelle creature nascoste «che non si permette a nessuno di vedere». Amerigo si reca al Cottolengo quasi investito di un compito «nella parte d’un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco», quello di verificare le truffe, scoprire i brogli e le prevaricazioni che avvengono in quell’istituzione a vantaggio del Partito democristiano.

Ebbene al seggio Amerigo si sorprende nel vedere insieme i credenti dell’ordine divino e i compagni suoi «ben coscienti dell’inganno borghese di tutta la baracca». In quel seggio elettorale lo scrutatore vede sfilare un’Italia nascosta, il segreto di tante famiglie. Quei corpi deformi sono «il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce». Così, di fronte a quei poveretti, Amerigo si sorprende antidemocratico,  la sua certezza di essere cresciuto con valori incrollabili comincia a vacillare: come può il suo voto di uomo intelligente e cosciente valere come quello di persone lontane dal mondo, lontane dalla democrazia, lontane dal sistema? Nel Cottolengo è, invece, evidente come l’idea di perfezione dell’uomo sia ben lungi dal possedere un benché minimo attestato di attendibilità, la carne di Adamo appare «misera e infetta». Ad Amerigo una geniale intuizione balena per la mente: lì, pur sempre Dio può salvare con la grazia quella carne limitata, la storia sembra essere restituita nelle mani di Dio; per caso il comunismo ha restituito la vista ai ciechi o fatto camminare gli zoppi? Lì, in qualche modo, ciò avviene! Queste domande, queste intuizioni non scansano del tutto l’uomo vecchio, ossia l’Amerigo che ha studiato, uomo di partito e di certezze. Eppure l’inizio di qualche cosa di sorprendentemente nuovo si fa strada nel suo animo.
Ad un certo punto accade qualcosa. Osservando le carte d’identità delle monache si rende conto di una diversità del loro sguardo. «Le monache […] posavano di fronte all’obiettivo, come se il volto non appartenesse più a loro, e a quel modo riuscivano perfette […]. La fotografia registrava quest’immediatezza e pace interiore e beatitudine. È segno che una beatitudine esiste? […] E, se esiste, allora va perseguita? Va perseguita a scapito d’altre cose, d’altri valori,  per essere come loro, le monache?».  Ancora più sorprendente è il fatto che gli idioti completi nelle loro carte di identità appaiono felici. Amerigo inizia a prendere coscienza che in lui la pretesa di essere giusto, di perseguire buoni principi e valori inappellabili ha da tempo sostituito il desiderio di essere felice e ha, per così dire, offuscato il suo animo, lo ha reso triste, dagli occhi lucidi e insensibili. Ebbene quegli idioti hanno un volto felice perché sanno a chi essere grati. Amerigo chiede: «Gratitudine a chi?». Il presidente di seggio risponde: «A Dio nostro Signore e basta». Un uomo deformato del Cottolengo, orgoglioso delle proprie capacità e consapevole del proprio debito di gratitudine, attesta con gioia: «Io so fare tutti i lavori da me […]. Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al Cottolengo facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho sempre vissuto dentro il Cottolengo. Non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente. Grazie alle suore sono riuscito a imparare. Io senza le suore che mi aiutavano sarei niente. Ora io posso fare tutto. Non si può dire niente contro le suore. Come le suore non c’è nessuno». Allora Amerigo si chiede se questa città che ha moltiplicato le mani dell’uomo sia la città dell’uomo intero o se l’uomo in realtà valga quando non consideri mai abbastanza raggiunta la sua interezza. L’uomo vale nella consapevolezza della sua dipendenza e nella tensione del suo sguardo verso l’Ideale. Il Cottolengo diventa la prova e insieme la smentita dell’inutilità del fare, la conferma della vanità del tutto e insieme dell’importanza di ogni cosa fatta da ognuno, una potente testimonianza contro l’ambizione delle forze umane. Lì ad Amerigo appare chiaro come ogni forma dell’agire umano si modelli sulla preghiera, ogni opera che si compia abbia «solo il significato di variante dell’unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia … l’accettare la pochezza umana, il rimettere la propria negatività nel conto di una totalità in cui tutte le perdite si annullano».
Di fronte alla realtà del Cottolengo Amerigo non pensa più al motivo per cui si trova lì (verificare la correttezza delle votazioni), ora gli interessa il confine dell’umano, si interroga quando un essere umano possa dirsi ancora tale. La tristezza attonita di un gigante con la smisurata testa da neonato sembra rispondergli che l’io umano è esigenza di felicità, anche se insoddisfatta. Amerigo si rende conto che di fronte a queste persone si può stare in maniera diversa. Alla vista della letizia di una suora una scrutatrice esclama: «Lei è una santa». Di fronte a questa donna Amerigo riconosce che «vivere come lei, per uno scopo universale (un ideale), sarebbe stato più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare e sarebbe stato possibile ad ognuno esprimere se stesso, la propria carica sepolta, segreta, individuale, nelle proprie funzioni sociali, nel proprio rapporto con il bene comune». Nel perseguire l’Ideale l’io si compie, nell’aderire ad una ideologia l’uomo sfiorisce e si intristisce. La suora ha scelto con un atto di libertà, ha identificato «tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera … Questo modo d’essere è l’amore L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo». Nell’incontro con la suora Amerigo capisce meglio sé e i suoi rapporti e in lui si sviluppa un’intelligenza maggiore. Comprende l’inautenticità del suo rapporto con la fidanzata, Lia, tenuta all’oscuro di tutto, della sua passione politica, delle ragioni del suo impegno sociale. Con il passare degli anni una scontata monotonia si era impadronita del loro rapporto tanto che Amerigo non si aspettava più nulla. Non si era sorpreso neppure della notizia che la sua fidanzata era in dolce attesa. Ora, invece, gli sembra tutto chiaro: «per lo spazio di un secondo (cioè per sempre) gli sembra di aver capito». Quel secondo in cui lui ha compreso può valere un’eternità: per sempre. Ora Amerigo vuole spiegare tutto a Lia.
Quando si incontra una realtà imprevista che contraddice ogni nostra previsione e ci fa pregustare il Mistero di un mondo per noi ancora incognito, si mette in moto il dramma della libertà che può riconoscere come vero e abbracciare quanto è accaduto accompagnando così la nascita dell’uomo nuovo oppure sorprendersi solo per qualche istante per, poi, ritornare nella plumbea routine cui si era abituati con il solito sguardo cinico e disilluso.


Invito alla lettura

Il cavaliere inesistente;
Il barone rampante;
Il visconte dimezzato;
La giornata di uno scrutatore;
Lezioni americane.
Analisi di testo
«L’umano arriva dove arriva l’amore» da La giornata di uno scrutatore, cap. XII.
«Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito d’un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale ma in qualche modo – pareva – rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare. [...] Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una paralisi. Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa, e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi: il figlio aveva l’occhio animale e disarmato, mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato [...].
Interviene nel campo di osservazione di Amerigo una suora, la Madre, che è normalmente adibita al servizio quotidiano nello stanzone, e che sembra tutta compresa nella grazia metafisica della sua vocazione. Anche la Madre sorrise, ma d’un sorriso che era per tutti e per nulla. Il problema d’esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del contadino venuto a passare la domenica al “Cottolengo” per fissare negli occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio. [...] Amerigo torna a pensare alla Madre, e vede nell’amore della Madre per i suoi poveri derelitti qualcosa di simile al suo amore – da comunista – per l’umanità. Si perde in questi pensieri… Ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole. Insomma, alla presenza della vecchia suora si sentiva ancora nell’ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva sempre (sia pur per approssimazione e con sforzo) cercato di modellarsi, ma il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro, era ancora la presenza di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui sconosciuto.
La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato – respingendo il resto del mondo – tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio.
Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».
Comprensione complessiva
  1. Riassumi il passo.
  2. Dividilo in sequenze assegnando loro un titolo.
Analisi di testo
3) La scrittura non concede nulla al gusto esornativo ed estetico, ma nel suo registro lapidario ed essenziale sembra adeguarsi al tono della testimonianza documentaria. Soffermati sulle caratteristiche salienti dello stile in questo brano, sottolinea le espressioni o le parole chiave, le immagini e quant’altro ti sembra significativo per la restituzione dello stupore del protagonista Amerigo Ormea al Cottolengo.
4) Qual è la differenza fondamentale tra il padre descritto nel passo e la suora? Perché la suora è più lieta? Perché appare più libera? Che caratteristiche ha il ragazzo?
Inquadramenti e approfondimenti
5) Nel romanzo La giornata di uno scrutatore Calvino racconta l’incontro del protagonista con una realtà bella che lo sorprende e lo conduce sulla soglia della conversione. Solo la libertà può a questo punto portarlo a intraprendere il percorso della fede. Molti autori dell’Ottocento e del Novecento hanno affrontato questo tema. Soffermati su romanzieri e/o poeti per te significativi.
 (pubblicato su Tempi.it del 13-6-2013)

La conversione di Alessandro Manzoni

La conversione di Alessandro Manzoni

I Promessi Sposi
 Un percorso di rilettura de I promessi sposi, opera che non è soltanto il romanzo più importante che sia stato scritto nella nostra letteratura, ma che rappresenta in forma concreta e incarnata il genio del cristianesimo. Eppure, il romanzo più importante vanta anche il record negativo di essere il meno amato dai giovani che si trovano a leggerlo in un’età forse sbagliata, troppo prematura. Bisogna anche dire che probabilmente gli insegnanti assegnano la lettura dei capitoli a casa più che accompagnare i ragazzi con spiegazioni che introducano alla comprensione e alla bellezza dell’opera.
A scuola è più facile che gli studenti di quinta sappiano ripetere i commenti di critici illustri sul romanzo o il loro giudizio sulla provvidenza manzoniana piuttosto che sappiano dire semplicemente come Manzoni concluda il romanzo. Fate una verifica immediata. Se avete figli che studiano alle superiori, al biennio (ove andrebbero letti I promessi sposi in forma integrale o quasi) o al triennio (almeno un mese è solitamente dedicato allo studio del grande scrittore lombardo), oppure anche alle medie inferiori, chiedete loro che cosa sia la fede per Manzoni. Oppure, in forma più semplice, come si concluda il romanzo? O quale sia il «sugo della storia», per utilizzare l’espressione che l’autore pone al termine dell’opera? Oppure chiedetevi voi lettori, che avete studiato, vi siete diplomati o laureati, se abbiate mai affrontato la conclusione dei Promessi sposi, se vi abbiano mai letto a scuola le ultime quattro pagine del romanzo, quelle che seguono il matrimonio di Renzo e Lucia. Sarebbe interessante condurre una statistica al riguardo tra tutti quanti affermano di aver studiato il romanzo più importante della letteratura italiana. Nel mio piccolo ho condotto una statistica in questi quindici anni di insegnamento al triennio delle superiori (tre in istituti professionali e ben dodici in Licei classici e scientifici). Non mi risulta difficile calcolare la percentuale, perché posso con certezza affermare che ancora nessuno studente, quando mi accingo ad affrontare Manzoni al triennio e chiedo la conclusione del romanzo (che dovrebbe aver già letto al biennio), sia riuscito nell’impresa! Quindi, tra gli studenti che arrivano all’ultimo anno della scuola superiore, nessuno (0 per cento) conosce la conclusione.
Le risposte che più si sono avvicinate, per la verità, sono state queste: il romanzo prosegue per poco e Renzo e Lucia hanno dei figli oppure i due protagonisti non sono così contenti. Tutto qui? Vi sembra possibile che in un anno di scuola il docente non abbia un’ora di tempo per raccontare quanto Manzoni abbia voluto dirci? È un’omissione voluta o casuale? Per approfondire un aspetto della realtà è importante metterlo in relazione con il suo significato, con il senso, quello che Manzoni chiama «il sugo della storia». Il nostro autore, cattolico e realista, non ha voluto scrivere una favola a lieto fine, come potrebbe a taluni sembrare, né tantomeno ha voluto scrivere un’opera moralista. Entrambe le interpretazioni sono una deliberata riduzione della genialità del cristianesimo che emerge dalla lettura del romanzo.
Sui Promessi sposi si è scritto davvero tanto. A riguardo del romanzo e del suo autore Eco ha commentato recentemente: «Il signor Alessandro sembra amare molto i poveretti, ma certo non sa proprio come aiutarli a far valere i loro diritti. E siccome, per l’appunto, era un cristiano assai fervente, tutti hanno detto che la sua morale era che bisogna rassegnarsi e sperare solo nella Provvidenza». Mi chiedo io che cosa abbia compreso realmente l’illustre semiologo e romanziere su I promessi sposi e sull’autore lombardo, colui che è considerato il padre della lingua italiana insieme al grande Dante, che visse fino alla veneranda età di ottantotto anni tanto da essere considerato per decenni poeta vate e riferimento vivente dei valori cristiani da una parte e risorgimentali dall’altra, divenne senatore a vita e fu coinvolto nelle commissioni per l’unificazione linguistica dell’Italia dopo l’unificazione politica.
Nato nel 1785, figlio di Giulia Beccaria e di Pietro Manzoni, Alessandro ha come nonno l’illustre illuminista milanese Cesare Beccaria, l’autore de I delitti e delle pene. Si può dire, a ragion veduta, che Manzoni ha l’Illuminismo nel sangue e nella cultura con cui si forma nei primi decenni. È opinione diffusa che il vero padre di Alessandro sia Giovanni Verri (fratello minore dei più famosi Pietro e Alessandro), con cui Giulia ha una relazione. Ben presto Pietro Manzoni si separa dalla ben più giovane moglie e a soli sei anni Alessandro si ritrova a studiare in collegio, prima dai Padri Barnabiti, poi dai Somaschi. Si forma, così, una cultura illuministica moderna, all’insegna dei filosofi e letterati francesi, e, per contrasto con l’ambiente cattolico in cui studia, cresce anticlericale allontanandosi sempre più dalla chiesa cattolica e dalla fede.
A vent’anni Manzoni si trasferisce a Parigi per incontrare la madre e il nuovo compagno di lei Carlo Imbonati. La trova, però, in lutto per l’avvenuta scomparsa dell’amato compagno. Manzoni comporrà la sua poesia neoclassica più celebre, il carme «In morte di Carlo Imbonati». Ben chiaro è già nel giovane che la ricerca della verità deve essere la bussola che guidi i suoi passi. Nel componimento il defunto Carlo Imbonati lascia ad Alessandro una sorta di testamento spirituale: «Sentir […] e meditar: di poco/ esser contento: da la meta mai/ non torcer gli occhi: conservar la mano/ pura e la mente: de le umane cose/ tanto sperimentar, quanto ti basti/ per non curarle: non ti far mai servo:/ non far tregua coi vili: il santo Vero/ mai non tradir: né proferir mai verbo,/ che plauda al vizio, o la virtù derida».
L’incontro prima con Enrichetta Blondel, che sposerà sia civilmente che con rito calvinista l’8 febbraio del 1808, e poi con il padre spirituale Eustachio Degola porterà Manzoni ad un cammino di fede e alla conversione al cattolicesimo, di cui la celebrazione del matrimonio per la seconda volta, ora con rito cattolico, il 15 febbraio del 1810, potrebbe già essere un chiaro segno. Manzoni sarà sempre refrattario a parlare della sua conversione. L’aneddotica riduce questo cammino lungo, durato qualche anno, al celebre episodio accaduto nella chiesa di San Rocco a Parigi. Durante il matrimonio di Napoleone (2 aprile del 1810) la moglie sviene, Manzoni si perde e in una crisi di agorafobia si rifugia in chiesa a pregare. Ne esce convertito e ritrova la moglie. Ermes Visconti, uno degli amici più intimi di Manzoni, comprende che il cammino di fede di Alessandro è adombrato nella vicenda centrale dei Promessi sposi, la conversione dell’Innominato.
Quasi concomitante alla conversione religiosa di Manzoni è quella letteraria. Nel 1809 lo scrittore lombardo abbandona definitivamente il Neoclassicismo per il Romanticismo. Ha composto in quegli anni «Il trionfo della libertà», «L’Adda», «In morte di Carlo Imbonati». Ora scrive: «Comporrò forse versi più brutti, ma mai così menzogneri». L’abbandono del Neoclassicismo è nel nome della verità. Miti pagani, e leggende classiche lasciano il posto alla produzione cristiana, di cui sono emblematici gli «Inni sacri». Inizia, così, la stagione più prolifica della vita di Manzoni 
Giovanni Fighera

lunedì 30 dicembre 2013

Dio non abbandona nessuno

Dio non abbandona nessuno
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"Quali che siano gli eventi, ricordatevi di due cose: Dio non abbandona nessuno. Quanto più vi sentite solo, trascurato, vilipeso, incompreso, e quanto più vi sentirete presso a soccombere sotto il peso di una grave ingiustizia, avrete la sensazione di un'infinita forza arcana che vi sorregge, che vi rende capaci di propositi buoni e virili, della cui possanza vi meraviglierete, quando tornerete sereno. E questa forza è Dio" san Giuseppe Moscati

domenica 29 dicembre 2013

Harry Wu, il Solgenitsyn cinese

Harry Wu, il Solgenitsyn cinese


Controrivoluzionario, cattolico, reazionario, revisionista: con queste etichette, con queste genericissime accuse, che ricordano le condanne giacobine della rivoluzione francese, e l’articolo 58 del codice penale sovietico, milioni di uomini sono stati e sono rinchiusi a tutt’oggi nei campi di concentramento cinesi, senza processo alcuno.
Il regime li chiama “campi per la rieducazione attraverso il lavoro”, utilizzando la stessa terminologia ingannatrice dei nazionalsocialisti e dei sovietici.
L’unica differenza, scrive Harry Wu, è che i lager sono stati chiusi nel 1945, i gulag hanno continuato per altri decenni, mentre i lager cinesi, sono ancora in perfetta salute, cinquant’anni dopo l’ascesa al potere di Mao. Morirò contento, scrive Harry Wu nella prefazione alle sue straordinarie e imperdibili memorie[1], quando la parola laogai apparirà sui dizionari di tutte le lingue del mondo”; quando l’Occidente non fingerà più di non vedere, per interessi economici e per l’astuta propaganda di quei “nostalgici comunisti di tutti i paesi” che, ancora “occupati a occultare tenacemente il gulag sovietico”, non possono tollerare “l’ulteriore conoscenza della realtà concentrazionaria socialista in veste cinese”.
La storia di Harry Wu è quella di un ragazzo di buona famiglia, il cui padre, banchiere a Shanghai, ha studiato in una scuola cristiana e appartiene alla “classe medio alta occidentalizzata”. Allo scoppio della rivoluzione maoista il padre di Harry non vuole scappare, ma pensa che continuerà a servire il nuovo governo, da fedele patriota. Non sa che la semplice appartenenza alla borghesia costituisce per Mao un peccato originale incancellabile, da pagare tutta la vita con l’emarginazione e la persecuzione. Harry frequenta le scuole dei Gesuiti con grande entusiasmo: “Ciò che più mi affascinava di quella religione straniera -ricorda- era la gentilezza, l’onestà e la serenità dei preti”. Ma ben presto i sacerdoti come padre Capolito, che ha introdotto Wu all’amore per le materie scientifiche, vengono scacciati dal paese, e nelle scuole prendono il sopravvento “due nuovi corsi: uno sulla teoria di Darwin e l’altro sulla teoria di sviluppo sociale marxista”.
Per eliminare i missionari cristiani, per cancellare il buon ricordo che il popolo aveva di loro, il governo comunista provvede a spargere a piene mani calunnie, spiegando che nella chiese della città i sacerdoti, “lupi in abiti religiosi” , ammassavano armi, segno evidente del loro essere “spie ed agenti degli imperialisti”; che negli orfanotrofi gestiti da religiosi i bambini non venivano affatto curati, ma lasciati morire di fame; e, infine, che esistevano “relazioni intime tra preti stranieri e donne cinesi”.
Mentre il mondo intorno a lui cambia vertiginosamente, Wu decide di iscriversi all’Istituto di Geologia di Pechino. Il suo interesse è lo studio, ma ben presto si rende conto che il Partito vuole prendersi la vita dei giovani: le sedute per studiare i documenti del partito si alternano ai saggi autobiografici che ognuno deve scrivere periodicamente per svelare le sue idee, i suoi pensieri e la storia della sua famiglia. Tutto può essere usato contro di te, o perché hai omesso di denunciare il padre “capitalista”, o semplicemente perché non lo deplori abbastanza, o perché non hai ancora una coscienza sufficientemente rivoluzionaria e conservi residui di “mentalità borghese”. In un modo o nell’altro il povero Wu, durante la Campagna dei Cento Fiori, in cui Mao  ha chiesto ai cinesi di esprimersi liberamente sui suoi primi anni di governo, si permette qualche piccola critica all’operato del Partito. Diventa così un “controrivoluzionario di destra”, ed è chiamato a scrivere un’autocritica dietro l’altra, da presentare ai suoi superiori, a partecipare a “sessioni di lotta” in cui deve auto-accusarsi dinanzi ai compagni – ammettendo di essere cresciuto in una famiglia ricca, di aver condotto una vita agiata, di aver dedicato tempo allo sport, inutile per i bisogni delle masse-, e in cui i compagni fanno a gara ad inveire contro la vittima designata di turno.
Il suo destino è dunque segnato: viene inviato in campi di lavoro forzati, senza sapere bene né il perché né la durata della condanna.  Per ben 19 anni vivrà in luoghi dalle condizioni di vita impossibili, aziende agricole e miniere di stato, senza alcun diritto, soffrendo la fame, le percosse, le umiliazioni più terribili, sempre nel terrore di nuove condanne.  Il sistema fa infatti in modo che nei laogai tutti diventino nemici: non si può parlare con gli altri detenuti, formando piccoli gruppetti, altrimenti si viene etichettati come “cricca rivoluzionaria”, con pene durissime; i capi invitano alla delazione, e i prigionieri si accusano a vicenda per dimostrarsi ligi al partito e meritare un boccone in più. Molti muoiono di fame, altri di diarrea, dissanguati, altri si suicidano. Si vive in mezzo ai propri escrementi, spesso rinchiusi in celle piccolissime, dove si sta a malapena, rannicchiati su se stessi. Intere pagine sono dedicate ai tentativi di procurarsi un cavolo o una vecchia carota, di nascosto; agli scavi per rubare i depositi di cibo dei topi; alla descrizione di compagni di prigionia ormai incapaci di controllare gli sfinteri e morti, nelle latrine, di dissenteria. Vi sono descrizioni struggenti di prigionieri che si siedono e iniziano a descrivere e ad immaginare cibi succulenti, vivande saporite, fingendo di assaggiarle, di gustarle veramente.
Eppure, in mezzo a questa disperazione, alla lotta di tutti contro tutti, Wu non si arrende, non si rassegna a perdere ogni umanità, a divenire un bruto attento solo alla sua sopravvivenza: il suo diario è pieno di domande, sul perché di tanto dolore (“Qualcosa dentro di me gridava: dove è il mo Dio, mio Padre? Aiutami. Guidami. Benedicimi”), ma anche di tentativi di alleviare la sofferenza dei compagni, di combattere il proprio egoismo, di rendere più umano il rapporto con gli altri detenuti, di non perdere del tutto generosità e compassione. Ogni volta che acquista una posizione all’interno del campo, e riceve un ruolo di qualche importanza, si accende nel suo animo una lotta immensa: mantenere i privilegi raggiunti, magari a scapito degli altri, oppure rispettare la giustizia? “Avevo perduto i miei privilegi, scrive ad un certo punto, riferendosi proprio ad un gesto di generosità che gli era costato la fiducia del suo superiore, ma avevo riconquistato il rispetto di me stesso”.
Leggere la vita di Wu, non è analizzare la storia della lotta politica allo schiavismo, impossibile in certe condizioni, ma osservare e contemplare la lotta umana, spirituale, di un uomo, in questo caso di un cristiano, che non vuole perdere la Speranza, di fronte al dolore, all’assurdità, all’egoismo che inevitabilmente si rafforza quando si è in condizioni disperate, e che nello stesso tempo vuole contrastare con la sua visione religiosa dell’uomo e della sua dignità, quella concezione materialistica che è all’origine dei Laogai e dello sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo.  La vita umana qui non ha valore -pensa Wu-, non è più importante della cenere di sigaretta sparsa nel vento. Ma se la vita di una persona non ha valore, allora anche la società che foggia questa vita non ha valore. Se la gente non è altro che polvere (secondo il materialismo marxista, ndr), allora la società non vale nulla e non merita di continuare. E se la società rischia di non continuare, tocca a me fare qualcosa per impedirlo. In quel momento seppi che non potevo morire. Ad un certo punto Wu riporta un interessante diaologo con un suo carceriere di nome Yang:
“ ‘Bene’, replicò…Poi il suo tono cambiò. “Ho letto il tuo fascicolo. Sei cattolico?”…Secondo la dottrina comunista si poteva diventare un vero marxista soltanto dopo aver rinunciato a qualsiasi fede in Dio. A partire dal 1950, cristiani, buddisti e musulmani erano stati ferocemente attaccati in una serie di movimenti politici nazionali. Avevo visto alcuni dei miei insegnanti criticati e condannati per aver diffuso il veleno di una fede straniera. Ci si aspettava che i comunisti fossero materialisti e atei, e io sapevo che il capitano Yang mi stava sfidando a ripudiare la mia fede dell’infanzia. “Quando ero piccolo, risposi cauto, sono stato battezzato a scuola”. “Che cosa è il battesimo?”, replicò con sarcasmo. “Non è come un bagno o una doccia?”. Yang era una persona ignorante, ma ora stava giocando con me al gatto e al topo. Anche se ero un suo favorito, percepivo la sua crudeltà. Scuotendo le spalle risposi con noncuranza. “Non ne sono sicuro, ma penso sia una cerimonia seria”. “I cattolici dicono che l’essere umano è stato creato da Dio. Come ha fatto? Ha preso semplicemente della terra in mano e vi ha soffiato sopra, come una specie di magia?”. Per quanto remote fossero ormai le mie credenze cattoliche, mi sentii assalire dalla rabbia e decisi che dovevo mettere fine a quella conversazione. “Lei è un membro del partito”, cominciai, rispettosamente. “Deve per forza essere materialista”. Annuì. “Mi direbbe da dove vengono gli esseri umani?”. Sicuro di sé, sembrò soddisfatto dell’opportunità per educarmi. “Gli uomini, sentenziò, si sono evoluti dalle scimmie”. Mi finsi ignorante. “Allora significa che la scimmia era un nostro antenato?”. “Credo di sì”. “Allora quando vado allo zoo, posso vedere i suoi progenitori?”. La faccia di Yang si rannuvolò. “Una scimmia è una scimmia; i miei antenati sono i miei antenati. C’è qualche collegamento. Non sono esattamente sicuro…”. Anch’io assunsi un’espressione confusa, ma dentro di me mi ritenevo soddisfatto…L’unica differenza tra quest’uomo e le scimmie, pensai, è che le scimmie non fumano sigarette. Per la prima volta riconobbi pienamente i miei sentimenti di disprezzo verso il mio padrone. “Comunque, continuò Yang, il tuo Dio non ti è d’aiuto qui”. “Come lo sai?”, chiesi. “Non può tirarti fuori di qui e non può procurarti del cibo”, riprese Yang. “E’ vero, ripresi cauto, ma non mi ha realmente lasciato solo. E mi offre un altro tipo di cibo”. “A che serve?”, insistette Yang. “Penso che prima o poi lo abbandonerai”. “Un giorno abbandonerò la mia vita corporale, ma non quella spirituale”, affermai serenamente. In quel momento di prova, sentivo la mia  fede in Dio rafforzarsi e riaffermarsi. “Sei molto testardo! Hai una lunga strada da fare per riformarti…”, conclude il capitano Yang.
Nella barbarie più cupa, un uomo che mantiene il senso del divino e della dignità umana, e che, una volta libero, continua a lottare per la giustizia e per la liberazione dei fratelli, è un miracolo di cui stupirsi e di cui ringraziare. Un miracolo che la fede, in questo caso ed in moltissimi altri, ha reso possibile.

[1] Harry Wu, “Controrivoluzionario. I miei anni nei lager cinesi”, San Paolo, Milano, 2008.
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sabato 28 dicembre 2013

Santo e musicista Alfonso Maria de Liguori,

Santo e musicista

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Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato.
L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet). Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere
Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”.
Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.
Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.
Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…. Il Foglio, 27 dicembre

La testimonianza Madre Teresa: «Poveri siete voi»

La testimonianza
Madre Teresa: «Poveri siete voi» 
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Anticipiamo qui il contributo di Dominique Lapierre (nella foto) al volume della manager commerciale Ruma Bose e del consulente aziendale Lou Faust «Madre Teresa. Leader per missione» in uscita per Egea (pp. 154, euro 16,50), un testo nel quale i due autori tentano di estrarre i princìpi della leadership della santa di Calcutta. Attorno a Lapierre ruota anche un altro volume in questi giorni in libreria, «La scoperta della gioia» (Emi, pp. 124, euro 12), nel quale la giovane Serena D’Intino racconta appunto il suo viaggio «in India con Dominique Lapierre».

Indimenticabile Madre Teresa! Fino al mio ultimo respiro continuerò a vedere la suasilhouette in sari bianco orlato di blu in mezzo alle mitraglie della guerra civile libanese. Teneva in braccio un neonato. Tentava di valicare la frontiera tra i quartieri musulmani e cristiani di Beirut. Nessuno era riuscito a impedirle di esporsi a tal punto. Quando apparve allo scoperto in mezzo alle fucilate, accadde qualcosa di straordinario. Le mitragliette, i fucili cessarono di sparare. Si sarebbe detto che un’onda di pace si diffondesse all’improvviso sul campo di battaglia, mettendo a tacere l’odio e la follia degli uomini. Nessuna scena, ai miei occhi, esprimerà mai con tanta forza l’insostituibile carisma della beata di Calcutta come questa apparizione magica su uno dei più terribili campi di battaglia della sofferenza umana.

Quante volte nell’inferno dei quartieri di Calcutta o in quelli, talvolta anche più tragici, del nostro ricco Occidente, ho avuto la fortuna di scoprire gli effetti di questo carisma! All’apparire di Madre Teresa, persone prostrate dalla sfortuna e dalla miseria s’illuminavano subito di un’espressione di felicità, di gratitudine, di fiducia. Come se la sola presenza di questa donna, che incarnava la carità e l’amore, dissipasse le paure, saziasse le pance vuote, ridesse la speranza. Perché questo era il messaggio unico di Madre Teresa: dire agli uomini che soffrono che sono stati creati dalla mano amorevole di Dio, per amare ed essere amati.

Ho avuto la fortuna di scoprire che cosa significasse realmente questo messaggio il giorno stesso del nostro primo incontro, nel 1981. Quel giorno ero in visita alla sua «Casa del Cuore Puro», la prima istituzione che Madre Teresa aveva creato per soccorrere i moribondi di Calcutta, abbandonati nelle strade. Stava lavando le ferite di un uomo ancora giovane, così scheletrico da sembrare un morto vivente. Tutta la sua carne era come fusa. Rimaneva solo la pelle, tesa sulle ossa. Madre Teresa gli parlava con dolcezza in bengali. Non dimenticherò mai lo sguardo di quell’infelice. La sua sofferenza si trasformava poco a poco in sorpresa, poi in pace, la pace di qualcuno che, all’improvviso, si senta amato. Indovinando una presenza dietro di lei, la religiosa si voltò. Mi sentii terribilmente imbarazzato: arrivavo a interrompere un dialogo di cui percepivo l’unicità. Mi presentai. Madre Teresa chiamò un giovane volontario europeo che passava nel vialetto, con in mano una ciotola. «Amalo – gli ordinò, la mano posta sulla fronte dell’infelice –. Amalo con tutte le tue forze».

Rivestì il giovane uomo con la sua biancheria e i suoi fermagli, si alzò e mi fece segno di seguirla verso il piccolo atrio che separava la sala degli uomini da quella delle donne. Là c’era un tavolo con un banco e, al muro, un quadro con un testo calligrafo in inchiostro nero. «La peggior miseria non è la fame o la lebbra – disse – ma la sensazione di essere indesiderabile, rifiutato, abbandonato da tutti».
Queste poche parole riassumono ai miei occhi il valore universale dell’opera di Madre Teresa. Per lei, i poveri non erano solo i milioni di persone che nel mondo hanno fame di pane e di riso. I poveri erano anche i milioni di esclusi, di rifiutati, di abbandonati, di intoccabili, di senza famiglia che hanno innanzitutto sete d’amore, di dignità, di pace, di verità, di giustizia, di speranza; che non sanno più sorridere perché non ricevono mai il calore di uno sguardo o di una mano fraterna. A coloro che nel 1979 le assegnarono il premio Nobel per la Pace, a tutti coloro che, nel corso della sua lunga vita, la coprirono di onori e riconoscimenti per la sua azione umanitaria, Madre Teresa non cessò mai di ripetere che «la più terribile delle malattie che possa mai colpire un essere umano è di non avere nessuno vicino a sé per essere amato. Senza un cuore pieno d’amore e delle mani generose è impossibile guarire un uomo malato di solitudine».
Ed è nel ricco Occidente che Madre Teresa aveva scoperto manifestazioni di questa solitudine. Un giorno, ai giornalisti che la intervistavano dopo il suo incontro con la regina di Inghilterra, disse: «Stasera ho camminato per le vostre vie. Sono entrata nelle vostre case. Vi ho trovato una povertà più grande che da noi, in India: la povertà dell’anima, la mancanza d’amore».

Indimenticabile Madre Teresa! Mi sono spesso domandato dove prendesse quella forza indomabile che, fino al suo ultimo respiro, le fece percorrere il mondo per offrire la dedizione e la qualità d’amore delle sue piccole Missionarie della Carità alle persone in pericolo. Non dormiva che 4 ore per notte e per cibo si accontentava di una o due banane e di un piatto di riso. La sua forza veniva da altrove. Tutta la sua azione, tutta la sua opera trovavano questa forza nella vibrante relazione di fede e di amore che l’univa a Cristo. «È Gesù che ho incontrato nei buchi neri delle bidonville – diceva, Gesù il Dio uomo nudo sulla croce». Questa convinzione Madre Teresa non smise mai di instillarla come un tesoro nel cuore di ciascuna delle sue 4500 piccole sorelle, la inculcò nei milioni di «cooperanti» volontari che sostenevano la sua crociata, la offrì e tutti noi ogni volta che ci ricordava che nel momento della nostra morte «saremo giudicati per la nostra capacità di riconoscere il Cristo in ogni uomo che soffre».

Da qui l’appello che Madre Teresa rivolgeva instancabilmente ai poveri come ai ricchi, ai giovani e ai loro anziani, «affinché ciascuno di noi offra la sua mano per servire Cristo in ognuno dei suoi poveri, e apra il suo cuore per amarlo in loro».

Indimenticabile Madre Teresa! I suoi discorsi di fronte alle platee più diverse, la sua confidenza con le più grandi celebrità del pianeta (la sua ultima foto, a qualche settimana dalla morte, per mano a Diana resterà per me una delle sue immagini più commoventi), i suoi interventi su tutti i luoghi di tragedia, avevano finito per donare a un’umanità inquieta la certezza che la generosità e la solidarietà possono vincere il cinismo, che è possibile restituire agli uomini la fiducia in se stessi.

Sì, indimenticabile Madre Teresa! La ricchezza del suo amore la sua compassione senza limiti, la sua capacità magica di recare l’aiuto più efficace nelle situazioni più disperate, continueranno a guidare i suoi ammiratori e i suoi discepoli sul cammino difficile della carità. A Calcutta e in tutti i luoghi di sconforto del terzo mondo, ma anche a Melbourne, Roma, Londra, Detroit, Marsiglia, Rio, Chicago, Los Angeles, Parigi, l’infaticabile servitrice dei poveri del Vangelo aveva offerto case d’accoglienza, dispensari medici, mense dei poveri.

Una delle mie sorprese maggiori fu scoprire, un mattino, la foto della beata di Calcutta praticamente su tutti i giornali newyorkesi. Aveva appena inaugurato, nel pieno centro di un quartiere «caldo» di Manhattan, un punto di accoglienza per le vittime senza risorse né famiglia di un nuovo male peggiore della lebbra e del rifiuto dei moribondi di Calcutta: l’aids. Madre Teresa aveva dato a questo stupefacente luogo di accoglienza il bel nome di «Dono d’amore». Era andata personalmente a cercare i primi tre «pensionanti» dietro le sbarre del penitenziario di Sing Sing dove si trovavano 250 detenuti colpiti dalla terribile malattia. Chiese la loro scarcerazione al sindaco di New York. «Trovatemi una fattoria in qualsiasi posto e io li ospiterò – disse perorando la loro causa –. Non ho forse già raccolto 178.000 lebbrosi in India in questo momento?»
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Dominique Lapierre

venerdì 27 dicembre 2013

L'amore

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"L'amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile..."
(Theodor Adorno, Minima Moralia, 1951)

"IL PAPA HA RAGIONE: TUTTO DEVE RICOMINCIARE DA CRISTO"

"IL PAPA HA RAGIONE: TUTTO DEVE RICOMINCIARE DA CRISTO"

di Marina Corradi



Quella tonaca nera svolazzante sulla rue Canabière, tra una folla più maghrebina che francese, ti fa voltare. Toh, un prete, e vestito come una volta, per le strade di Marsiglia. Un uomo bruno, sorridente, eppure con un che di riservato, di monacale. E che storia, alle spalle: cantava nei locali notturni di Parigi, solo otto anni fa è stato ordinato e da allora è parroco qui, a Saint-Vincent-de-Paul.

Ma la storia in realtà è anche più complicata: Michel-Marie Zanotti-Sorkine, 53 anni, discende da un nonno ebreo russo, immigrato in Francia, che prima della guerra fece battezzare le figlie. Una di queste figlie, scampate all’Olocausto, ha messo al mondo padre Michel-Marie, che per parte paterna è invece mezzo corso e mezzo italiano. (Che bizzarro incrocio, pensi: e guardi con stupore la sua faccia, cercando di capire com’è un uomo, con dietro un tale nodo di radici). Ma se una domenica entri nella sua chiesa gremita, e ascolti come parla di Cristo con semplici quotidiane parole; e se osservi la religiosa lentezza dell’elevazione dell'ostia, in un silenzio assoluto, ti domandi chi sia questo prete, e cosa in lui affascini, e faccia ritornare chi è lontano.

Infine ce l’hai davanti, nella sua canonica bianca, claustrale. Sembra più giovane dei suoi anni; non ha quelle rughe di amarezza che marchiano col tempo la faccia di un uomo. Una pace addosso, una letizia che stupisce. Ma lei chi è?, vorresti chiedergli immediatamente.

Davanti a un pasto frugale, cenni di una vita intera. Due splendidi genitori. La madre, battezzata ma solo formalmente cattolica, lascia che il figlio frequenti la Chiesa. La fede gli è contagiata "da un vecchio prete, un salesiano in talare nera, uomo di fede generosa e smisurata". Il desiderio, a otto anni, di essere sacerdote. A tredici perde la madre: "Il dolore mi ha devastato. E però non ho mai dubitato di Dio". L’adolescenza, la musica, e quella bella voce. I piano bar di Parigi potranno sembrare poco adatti a discernere una vocazione religiosa. Eppure, intanto che la scelta lentamente matura, i padri spirituali di Michel-Marie gli dicono di restare nelle notti parigine: perché anche lì c’è bisogno di un segno. La vocazione infine preme. Nel 1999, a 40 anni, si avvera il desiderio infantile: sacerdote, e in talare, come quel vecchio salesiano.

Perché la talare? "Per me – sorride – è una divisa da lavoro. Vuole essere un segno per chi mi incontra, e soprattutto per chi non crede. Così sono riconoscibile come sacerdote, sempre. Così per strada sfrutto ogni occasione per fare amicizia. Padre, mi chiede uno, dov’è la posta? Venga, l’accompagno, rispondo io, e intanto si parla, e scopro che i figli di quell’uomo non sono battezzati. Me li porti, dico alla fine; e spesso quei bambini, poi, li battezzo. Cerco in ogni modo di mostrare con la mia faccia un’umanità buona. L’altro giorno addirittura – ride – in un bar un vecchio mi ha chiesto su quali cavalli puntare. Io gli ho dato i cavalli. Ho chiesto scusa alla Madonna, fra me: ma sai, le ho detto, è per fare amicizia con quest’uomo. Come diceva un prete, che è stato mio maestro, a chi gli chiedeva come convertire i marxisti: 'Occorre diventare loro amici', rispondeva".

Poi, in chiesa, la messa è severa e bella. Il prete affabile della Canabière è un prete rigoroso. Perché cura tanto la liturgia? "Voglio che tutto sia splendente attorno all’eucarestia. Voglio che all’elevazione la gente capisca che Lui è qui, davvero. Non è teatro, non è pompa superflua: è abitare il Mistero. Anche il cuore ha bisogno di sentire".

Lui insiste molto sulla responsabilità del sacerdote, anzi in un suo libro – ha scritto numerosi libri, e scrive ancora, a volte, canzoni – afferma che un sacerdote che abbia la chiesa vuota si deve interrogare e dire: "È a noi che manca il fuoco". Spiega: "Il sacerdote è 'alter Christus', è chiamato a riflettere in sé Cristo. Questo non significa chiedere a noi stessi la perfezione; ma essere consci dei nostri peccati, della nostra miseria, per poter comprendere e perdonare chiunque si presenti in confessionale".

In confessionale, padre Michel-Marie va tutte le sere, con assoluta puntualità, alle cinque, sempre. (La gente, dice, deve sapere che il prete c’è, comunque). Poi resta in sacristia fino alle undici, per chiunque desideri andarci: "Voglio dare il segno di una disponibilità illimitata". A giudicare dal continuo pellegrinaggio di fedeli, a sera, si direbbe che funzioni. Come una domanda profonda che emerga da questa città, apparentemente lontana. Cosa vogliono? "La prima cosa è sentirsi dire: tu sei amato. La seconda: Dio ha un progetto su di te. Non bisogna farli sentire giudicati, ma accolti. Occorre far capire che l’unico che può cambiare la loro vita è Cristo. E Maria. Due sono le cose che secondo me permettono un ritorno alla fede: l’abbraccio mariano, e l’apologetica appassionata, che tocca il cuore".
"Chi mi cerca – continua – prima di tutto domanda un aiuto umano, e io cerco di dare tutto l’aiuto possibile. Non dimenticando che il mendicante ha bisogno di mangiare, ma ha anche un’anima. Alla donna offesa dico: mandami tuo marito, gli parlo io. Ma poi, quanti vengono a dire che sono tristi, che vivono male... Allora chiedo: da quanto lei non si confessa? Perché so che il peccato pesa, e la tristezza del peccato tormenta. Mi sono convinto che ciò che fa soffrire tanta gente è la mancanza dei sacramenti. Il sacramento è il divino alla portata dell’uomo: e senza questo nutrimento non possiamo vivere. Io vedo la grazia operare, e che le persone cambiano".

Giornate totalmente donate, per strada, o in confessionale, fino a notte. Dove prende le forze? Lui – quasi pudicamente, come si parla di un amore – dice di un profondo rapporto con Maria, di una confidenza assoluta con lei: "Maria è l’atto di fede totale, nell’abbandono sotto alla Croce. Maria è assoluta compassione. È pura bellezza offerta all’uomo". E ama il rosario, l’umiltà del rosario, il prete della Canabière: "Quando confesso, spesso dico il rosario, il che non mi impedisce di ascoltare; quando do la comunione, prego". Lo ascolti intimidita. Ma allora, tutti i preti dovrebbero avere una dedizione assoluta, quasi da santi? "Io non sono un santo, e non credo che tutti i preti debbano essere santi. Però possono essere uomini buoni. La gente sarà attratta dal loro volto buono".

Problemi, in strade a così forte presenza di musulmani immigrati? No, dice semplicemente: "Rispettano me e questa veste". In chiesa accoglie chiunque con gioia: "Anche le prostitute. Do loro la comunione. Che dovrei dire? Diventate oneste, prima di entrare qui? Cristo è venuto per i peccatori e io ho l’ansia, nel negare un sacramento, che lui un giorno me ne possa rendere conto. Ma noi sappiamo ancora la forza dei sacramenti? Ho il dubbio che abbiamo troppo burocratizzato l’ammissione al battesimo. Penso al battesimo di mia madre ebrea, che, quanto alla richiesta di mio nonno, fu un atto solo formale: eppure, anche da quel battesimo è venuto un sacerdote".

E la nuova evangelizzazione? "Vede – dice al congedo, nella sua canonica – più invecchio e più capisco ciò che ci dice Benedetto XVI: tutto davvero ricomincia da Cristo. Possiamo solo tornare alla sorgente".

Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. "La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro".

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Il giornale che ha pubblicato il reportage:


> Avvenire

giovedì 26 dicembre 2013

il primo beato serbo e il primo martire che camminava sulle sue mani.

Alois è stata un'altra vittima in più di Dachau, una figura sconosciuta che ciononostante si comincia a ricordare. È nato a Radibor Silesia, il quarto tra sei fratelli. Anche i suoi due fratelli maggiori erano sacerdoti. Era stato arrestato per le sue "attività sediziose" contro il regime nazista - la sua influenza "malefica" sui giovani - è stato arrestato e rinchiuso in campo di concentramento. Secondo i dati storici, Alois era un sacerdote molto vitale, lavoratore, pieno di vita e perfino acrobata. Rallegrava i suoi compagni di prigionia camminando sulle mani, sicuramente una figura eccentrica e divertente, per coloro che vivevano nell'inferno di Dachau, come lo si conosce comunemente (P. Sales Hess, "Dachau, eine Welt ohne Gott", Un mondo senza Dio). Era entrato al campo di concentramento il 2 ottobre 1941, dopo essere stato arrestato dalla polizia nazista in due occasioni, essendosi convertito in una "persona pericolosa" per il regime di Hitler e i suoi seguaci. Nel campo di concentramento aveva aderito ad uno dei gruppi di Schoenstatt, di cui i leader erano due sacerdoti schoenstattiani: Josef Fischer ed Heinz Dresbach. E' stato beatificato il 13 giugno 2011.

il primo beato serbo e il primo martire che camminava sulle sue mani.
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È “subdolo” ed ha un’influenza “malefica” sui giovani e per un prete è il miglior complimento, se a giudicarlo così è la Gestapo, che guarda con sospetto e perseguita proprio i preti più entusiasti e che hanno il maggior ascendete sui giovani. La vita di don Luigi Andritzki è tutta qui, se vogliamo, perché è limpida e coerente. E anche breve, perché si esaurisce nell’arco di appena 29 anni, di cui solo 4 di sacerdozio. Di famiglia serba, nasce nel 1914 nella Germania sud-orientale, da genitori insegnanti e buoni cattolici, al punto che, proprio nel buio del regime nazista, ben tre dei loro figli entrano in seminario. Lui, Luigi, è un giovane brillante, sportivo e dinamico quando a 20 anni decide di farsi prete; ordinato nel 1939, comincia ad esercitare a Desdra,mettendo in moto le identiche qualità. Sono soprattutto i giovani a subire il suo fascino, perché sa parlare loro di Dio anche attraverso il nuoto, il disegno e la ginnastica, organizzando partite di calcio e scuole di musica. Proprio per questo i nazisti cominciano a tenerlo costantemente sotto osservazione: parla troppo bene, è troppo critico verso il regime, riesce ad intercettare i giovani ed a farsi seguire. Tutte cose che, messe insieme, costituiscono più di un capo d’accusa nei suoi confronti. “Queste sono solo schermaglie, il peggio deve ancora venire”, dice ai suoi ragazzi a Natale 1940: è pienamente cosciente dei rischi cui va incontro, oltre ad essere un osservatore attento e lucido della situazione politica che sta vivendo. “Fra un paio d’anni saremo ghigliottinati tutti”, dice profeticamente; nemmeno un mese dopo lo arrestano, al termine di una rappresentazione teatrale in cui ha cercato di spiegare ai giovani la fine che faranno i cristiani durante la seconda guerra mondiale. Processato come  “nemico dello stato” e giudicato colpevole di aver sferrato attacchi feroci al governo ed al partito con la sua predicazione ed il suo apostolato tra i giovani, viene condannato a sei mesi di carcere, terminati i quali viene deportato a Dachau. “Considerato il comportamento di suo figlio, si deve purtroppo ritenere che questi continuerebbe a perseverare nelle sue eretiche calunnie contro lo Stato”, scrive la cancelleria di Hitler, respingendo la commovente supplica di scarcerazione inoltrata da papà Andritzki: nella sua lucida perfidia, la Gestapo è pienamente consapevole del coraggio e dell’inflessibilità di don Luigi. Che non si smentisce  neanche nel lager, stringendo con un amico benedettino, nel momento in cui vi entra il 10 ottobre 1941, un patto “eroico”: “Non ci lamenteremo mai. Non abbandoneremo il nostro contegno. Non dimenticheremo neanche per un attimo il nostro sacerdozio”. Il che è più facile a dirsi che a farsi, quando i mesi si protraggono, le umiliazioni abbondano, il cibo è insufficiente, il lavoro forzato sfibra anche i più robusti. A quei poveri esseri strappano via tutto, anche la dignità; solo il sorriso non riescono a rubare dal volto di don Luigi. “Era una specie di don Bosco”, dicono adesso di lui, “curava i malati, sosteneva gli anziani, consolava chi era triste”, naturalmente sorridendo sempre. Fino a che gli restano le forze fa anche l’equilibrista, camminando sulle mani per strappare un sorriso ai compagni di prigionia. “Chi lo vedeva al mattino restava pieno di gioia per tutta la giornata”,dice un testimone, neanche forse accorgendosi della gran bella cosa che sta dicendo di quel prete gioioso. Che a Natale 1942 si ammala di tifo e viene portato in infermeria. Il 3 febbraio 1943 chiede di poter ricevere la comunione e beffardamente il guardiano del reparto gli offre un’iniezione letale. Finisce così la vita breve del prete che sorrideva sempre e che un anno prima aveva scritto: “Se ora non possiamo essere i seminatori cerchiamo di essere almeno il seme, per portare abbondanza di frutti al tempo della raccolta”. Lunedì 13 giugno 2011 don Luigi Andritzki è stato beatificato  a Desdra: è il primo beato serbo e il primo martire che camminava sulle sue mani.

Chesterton: «Il Natale deve andarsene. È assolutamente inadatto al mondo moderno»

Chesterton: «Il Natale deve andarsene. È assolutamente inadatto al mondo moderno» 

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dicembre 26, 2013 Gilbert Keith Chesterton
«Il Natale è un ostacolo al progresso», «è una superstizione», «un relitto del passato». «Ma è veramente necessario continuare a elencare i motivi per lodare il Natale?», si domanda lo scrittore inglese
Spirito del NatalePer gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il brano “Il natale deve andarsene” (1933) della raccolta “Lo spirito di Natale” di Gilbert Keith Chesterton. L’opera, edita da D’Ettoris Editori e pubblicata a ottobre, è a cura di Maurizio Brunetti. 
Il Natale è assolutamente inadatto al mondo moderno. Presuppone la possibilità che le famiglie siano unite, o si riuniscano, e persino che gli uomini e le donne che si sono scelti si parlino. Così, migliaia di spiriti giovani e avventurosi, pronti ad affrontare i fatti della vita umana e a incontrare la vasta varietà di uomini e donne come sono realmente, altrettanto pronti a volare fino ai confini della terra e a tollerare ogni qualità stravagante o accidentale dei cannibali o degli adoratori del demonio, sono crudelmente obbligati ad affrontare un’ora – no: talvolta persino due ore! – in compagnia di uno zio Giorgio o di qualche zia di Cheltenham che non trovano particolarmente simpatici. Non si possono, in tempi come i nostri, sopportare tali abominevoli torture. Una fraternità più ampia, una sensibilità più vera, ha già insegnato a ogni donna giovane e ardente – con sufficiente ricchezza e tempo libero a disposizione – a sentirsi elettrizzata al solo pensiero di fare colazione con un malvivente, di pranzare con uno sceicco o cenare con un Apache a Parigi. È quindi intollerabile che tale sensibilità possa patire il trauma della comparsa inaspettata della propria madre, se non addirittura quella del proprio figlio. Nessuno ha mai neanche ipotizzato che i «Genitori» fossero inclusi in quella bellissima astrazione democratica chiamata «Popolo». Né che il concetto di fratellanza potesse estendersi ai propri fratelli.
chestertonComunque, come dicevo, il Natale è inadatto alla vita moderna: la sua attenzione alla famiglia al completo fu concepita senza tener conto della dimensione e delle comodità dell’hotel moderno; il suo retaggio di rituali prescindeva dall’attuale consuetudine consolidata di conformarsi all’anticonformismo; il suo appello all’infanzia era in conflitto con le idee più progressiste sul concepimento; in base al Natale, i Bright Young Things dovrebbero sempre sentirsi vecchi e parlare come se fossero insulsi. Quella scuola di buone maniere più libera e più schietta, che consiste nell’annoiarsi con chi c’è e nel dimenticare chi non c’è, è irrisa, nella sua prima parte, dalla vecchia abitudine di bere alla salute di qualcuno e di scambiarsi gli auguri, e, nella seconda parte, dall’abitudine di scrivere lettere o spedire cartoline di Natale. Sotto il peso di tali scambi tribali e collettivi, è impossibile preservare la fine sfumatura, la delicata raffinatezza che contraddistingue le maniere moderne: quella in accordo alla quale ci si dimentica del vicino della porta accanto se incontrato per strada e, semplicemente, lo si ignora se è seduto con noi a tavola. Come potevamo aspettarci di estendere una tradizione che si basava sull’ospitalità a quel felice intermezzo nel mondo moderno e alla moda che ha rimpiazzato l’ospitalità con la violazione di domicilio? Qualche variazione di frasario era senza dubbio necessaria: volendo essere precisi e rigorosi, si è chiamato «imbucarsi» quando fatto dalle classi superiori, e «violazione di domicilio» quando fatto dalle classi più umili. Ma il ladro che tracanna il tuo whisky senza che sia stato invitato a berne un bicchiere, e un esponente dei Bright Young Things che tracanna il tuo champagne senza che sia stato invitato a berne un bicchiere hanno inconsciamente unito le loro forze nella grande urgenza, sentita dal mondo più avanzato e progressista, di spazzar via la vecchia superstizione dell’ospitalità.
presepe-vietatoL’ospitalità ha comunque un centinaio di orrende implicazioni. Comporta, per esempio, che la mia casa appartenga più a me più che a un giornalista intervistatore di un’agenzia di stampa miliardaria di Detroit. Per quanto calorosamente e con affetto io possa intrattenere e abbracciare una tale persona, c’è comunque un bizzarro pregiudizio legato alla situazione che frulla nella sua testa – per non dire ciò che accade nella mia –: la vecchia, inspiegabile e raccapricciante credenza di trovarsi nella casa di qualcun altro. Sarebbe senza dubbio liberato da quell’imbarazzo se ci incontrassimo in un grande hotel, o in una sala da tè ancora più grande e impersonale, o in una biblioteca pubblica, o in un ufficio postale, o nei corridoi ventosi di una stazione della metropolitana. I soli nomi di questi luoghi bastano a evocare quel calore più ricco, quella fraternità più piena, quel senso di altruismo fervente a tutti i livelli di rapporto umano, che sopraggiungono una volta che gli uomini abbiano rinunciato alla proprietà privata.
In ogni caso, non è necessario aggiungere altro alla lista delle prove che il Natale non sia adatto a questa vita più piena e più emancipata. Il Natale deve andarsene! È letteralmente inadatto a questo grande futuro che si sta aprendo dinanzi a noi. Il Natale non è fondato sulla grande concezione comunitaria che solo nel comunismo può trovare la sua espressione finale. Il Natale non favorisce veramente una più alta, più salutare e più vigorosa espansione del capitalismo. Non ci si può aspettare che il Natale si adatti alle moderne speranze di un grande futuro sociale. Il Natale contraddice il pensiero moderno ed è un ostacolo al progresso moderno. Radicato nel passato, e persino nel passato remoto, quale utilità può avere per un mondo in cui l’ignoranza storica è l’unica prova evidente della conoscenza scientifica? Nato da miracoli che sono stati raccontati più di duemila anni fa, non può certo aspettarsi di fare colpo su quel robusto senso comune che resiste baldanzoso persino dinanzi all’evidenza più chiara e palpabile dei miracoli che accadono in questo istante.
Adorazione bambinoOvviamente, avendo a che fare con questioni puramente psichiche, non è di alcun interesse per gli psicologi; avendo determinato l’atmosfera morale di milioni di persone per più di sedici secoli, non è di alcun interesse in un’epoca che si occupa di medie e di statistiche. Il Natale è inerente alla più felice delle nascite, ma è il principale nemico dell’eugenetica; porta con sé una tradizione di verginità volontaria, ma non contiene alcuna indicazione pratica per la sterilizzazione obbligatoria. Su ogni punto lo scopriamo in opposizione con quel grande movimento progressivo grazie al quale – lo sappiamo bene – l’etica si trasformerà in qualcosa di più etico e di più libero da tutte le distinzioni etiche. Il Natale non è moderno, il Natale non è marxista, il Natale non è modellato sulla falsariga di quella grande era della Macchina che promette alle masse un’epoca di felicità e di prosperità ancor più intense di quella cui fino adesso le ha condotte. Il Natale è medievale, essendo sorto agli albori dell’Impero Romano. Il Natale è una superstizione. Il Natale è un relitto del passato.
Ma è veramente necessario continuare a elencare i motivi per lodare il Natale? Tutti i suoi doni e le sue glorie sono icasticamente compendiate in un dato già a sufficienza tratteggiato: il suo essere un fastidio per tutte quelle persone che si riempiono la bocca delle assurdità del nostro tempo. È un motivo d’irritazione per tutti gli uomini che hanno perso i loro istinti, la qual cosa corrisponde davvero all’equivalente intellettuale del perdere i propri sensi. È un fastidio perenne per i tutti cafoni: che siano essi magnati dell’industria, o dell’informazione e del giornalismo internazionale, o di ogni altra cosa che appartiene all’odierno paradiso dei cafoni.
È una sfida lanciata alla cafonaggine, perché ci ricorda l’esistenza di un mondo più grazioso fatto di cortesia e rispetto, e di abitudini che postulavano una sorta di dignità nelle relazioni umane. È un rompicapo per i saccenti, i quali – invischiati da un gelido odio in una contraddizione perenne e senza uscita – non sanno decidersi fra il denunciare il Natale perché è una Messa – o, peggio, una mera messinscena papista –, e il cercare di provare allo stesso tempo che si tratta, in realtà, di una festa integralmente pagana, e che, quindi, era un tempo degna di ammirazione, come qualsiasi altra cosa inventata dai pirati della Scandinavia pagana. Il Natale continua a ergersi dritto, integro e spiazzante: per noi rappresenta una cosa ben precisa, per gli altri un marasma d’incongruenze. Il Natale giudica il mondo moderno, perciò vogliono che se ne vada. Infatti sta andando. E forte.

l'amore


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