CONSULTA L'INDICE PUOI TROVARE OLTRE 4000 ARTICOLI

su santi,filosofi,poeti,scrittori,scienziati etc. che ti aiutano a comprendere la bellezza e la ragionevolezza del cristianesimo


venerdì 29 novembre 2013

L’amicizia

  L’amicizia
***
Chi trascura di educare il proprio figlio all'amicizia, lo perderà non appena avrà finito di essere bambino. 
 

Trova il tempo di essere amico: è la strada della felicità.


Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se avesse tutti gli altri beni. 
Aristotele


” L’amicizia nasce nel momento in cui una persona dice ad un’altra: – Cosa? Anche tu? Credevo di essere l’unica – ”
 C.S. Lewis

domenica 24 novembre 2013

SE I GIOVANI NON DICONO PIU’ “TI AMO!”

SE I GIOVANI NON DICONO PIU’ “TI AMO!”

***

22 novembre 2013 / In News
Prima la “scoperta” dei femminicidi. Poi quella della prostituzione minorile a Roma e non solo. Si è detto che sono patologie della nostra società.
Ma la fisiologia dei rapporti affettivi, ciò che oggi consideriamo la normalità, qual è? Siamo certi che sia sana e felice?
Mi ha colpito una lettera – rimasta senza risposta – di uno studente del primo anno di liceo classico, uscita su “Repubblica”. Era titolata: “Perché tra noi liceali non si usa più ‘ti amo!’ ”.

PAROLONI?

Lo studente, Marco D.G., scrive: “ho notato che le parole ‘ti amo’ stanno progressivamente scomparendo tra i giovanissimi: diverse persone le ritengono ‘paroloni’, fastidiosi, estranei, barocchi e patetici”.
Poi spiega che i suoi coetanei, i quali non usano più queste espressioni d’amore, lo fanno “per motivazioni molto tristi”.
Che lui riassume così: “l’amore, a questa età, non esiste, non è importante, non deve essere importante. Sarà qualcosa che verrà più tardi. Dopotutto, mi dice una mia cara amica a proposito delle sue vicissitudini, ‘se smetti di amare vuol dire che non hai amato’. Tutti ragionamenti  in larga parte appoggiati e incentivati da parenti, più o meno stretti. Questo modo d’agire non vuol dire sminuire gli amori di quest’età? Non è sbagliato?”.
Può essere giusto il realismo di chi fa capire al figlio adolescente che la “cottarella” è solo una piccola scintilla dell’immenso mistero che è l’amore. Ma la lettera dello studente forse coglie anche un altro fenomeno: un cinismo diffuso.

RIDOTTI A CORPI

Dopo un’epoca che ha inflazionato la parola “amore”, applicandola assurdamente a una guerra dei sessi che ha lasciato e lascia a terra morti e feriti (non solo in senso metaforico), si è passati a un tale scetticismo che quasi esclude in partenza la “folle” possibilità di amare ed essere amati.
Così abbiamo una giovane generazione ipersessualizzata a cui è precluso l’amore vero e perfino l’uso della parola amore, mentre tutti gli usi del corpo sono permessi, anzi sono imposti come obbligo: alcune liceali intervistate da “Porta a porta”, lunedì, spiegavano come sia diventata una vergogna sociale essere ancora vergini a 16 anni.
Si vuole che sia una generazione di corpi senz’anima. E’ il prodotto della generazione del ’68 e della sua unica, vera rivoluzione: la rivoluzione sessuale (che poi è il vertice del consumismo contro cui, a parole, si battevano).
E questo è l’esito: il panorama di rovine che abbiamo davanti, un colossale discount planetario del sesso che ha l’aspetto di un campo di battaglia cosparso di feriti, di schiavi e di schiave.

LIBERTA’ O DEVASTAZIONE?

La famosa “liberazione sessuale” aveva promesso la felicità. Ma quella che vediamo è una società ammalata, infelice e violenta. E che non sa più cos’è l’amore. Tanto che consiglia di “rassegnarsi” già a 17 anni.
Si avvera la “profezia” di Max Horkeimer, il fondatore della Scuola di Francoforte, che, pur provenendo dal marxismo, dette ragione all’Humanae vitae di Paolo VI sostenendo che “la pillola”, cioè la trasformazione della sessualità in consumo di corpi sempre disponibili, come una merce di supermercato, sarebbe stata “la morte dell’amore” e quindi dell’eros, trasformando Romeo e Giulietta “in un pezzo da museo”.
Questa devastazione sta davanti agli occhi di tutti. Mi ha colpito, ad esempio, ciò che, qualche settimana fa, ha scritto Piero Ottone nella rubrica che tiene sul “Venerdì di Repubblica”.
Ottone, come si sa, dopo il licenziamento di Spadolini, nel 1972, diventò direttore del “Corriere della sera” per portare clamorosamente a sinistra, in sintonia con la ventata rivoluzionaria, l’antico giornale della borghesia liberale (è appunto per questo che Indro Montanelli si sentì costretto ad andarsene e a fondare “Il Giornale”).
Ebbene, Ottone, da distaccato osservatore, qualche settimana fa ha scritto: nel giro di mezzo secolo, il costume sessuale è cambiato in modo sensazionale (…). Libertà sessuale, un segno di progresso, dunque?”.
Il suo giudizio è opposto: “si può vedere nella libertà oggi imperante (…) il segno della graduale disintegrazione della civiltà… L’abolizione delle regole, il ritorno alla licenza assoluta è un nuovo segno di declino”.
Questa è oggi la sua pesante sentenza: “disintegrazione della società”, “declino”. Ma non avevano promesso – con l’abbattimento dei tabù – il paradiso in terra?
Eppure già allora qualcuno l’aveva predetto e continua a ripeterlo. Ma oggi come ieri si prende gli sberleffi e gli anatemi di quel “progressismo adolescenziale” che – come dice papa Francesco – è al servizio del “pensiero unico”.
Però non basta lamentare l’oscurità dei tempi. Io voglio qui testimoniare – soprattutto pensando allo studente di cui ho citato la lettera all’inizio – che, nonostante tutto, ci sono luoghi dove il grande abbraccio dell’amore vero fra uomo e donna si insegna, si scopre e si vive.

GIUSSANI SULL’AMORE

Mi ha colpito, durante una presentazione del mio libro “Lettera a mia figlia”, ascoltare un giovane sacerdote, don Andrea Marinzi, che paragonava la mia primogenita e la vicenda che sta vivendo da quattro anni, alla figura della Maddalena quando, nel Vangelo, per il suo Gesù, ruppe il vasetto d’alabastro contenente un preziosissimo olio profumato per ungere i capelli del Maestro, tanto amato, “e tutta la casa si riempì di quel profumo”.
Don Andrea attribuiva a don Giussani questa immagine e l’altroieri ho trovato proprio questa sua pagina nella biografia che gli ha dedicato Alberto Savorana. E’ la cosa più bella – secondo me – che sia mai stata scritta sull’amore umano.
A quel tempo, attorno al 1952, Giussani era un giovane prete che non aveva ancora iniziato la storia di CL, ma – confessando in una parrocchia di Milano – attirava l’interesse di molti studenti.
Lui restava però colpito dalla superficialità dei loro legami affettivi senza nostalgia, da quel passare da una ragazza all’altra inseguendo soltanto un piccolo piacere effimero. E non la donna amata, non l’amore della vita.
Per questo annota in un suo appunto che così:
il senso della vita si ottunde e il cerchio resta chiuso, freddo, attorno a noi: egoismo. Non si cerca più la persona per la quale sola l’anima si spacca e si apre: si dona. Si sacrifica… La Maddalena spaccò il vaso di alabastro: ‘sciupò’ il profumo, lo donò. Ogni dono è perdita. Amare veramente una persona appare come uno sciupare: se stessi, energie, tempo, calcolo, tornaconto, gusti. Gli altri, al gesto della Maddalena, scrollarono il capo: ‘pazza! Senza criterio! Senza interesse!’. Ma in quella sala solo lei ‘viveva’, perché solo amare è vivere (…). Quell’aprirsi ad altri: agli altri, a tutti gli altri – attraverso la scorza rotta del proprio io, solitamente c’è un viso che ha funzione di spaccare la corteccia del nostro egoismo, di tenere aperta questa meravigliosa ferita, quel viso è il suscitatore e lo stimolatore del nostro amore; il nostro spirito si sente fiorire di generosità al suo contatto, ed attraverso a quel viso si dona, a fiotti, agli altri, a tutti gli altri, all’universo”.
Si può pensare che sia utopistico ciò che scrive Giussani, si può ritenere che nessuno sia capace di amare così, ma non si può negare che tutti, proprio tutti, nel profondo del cuore desiderano essere amati così.
E che questo miracolo sia possibile lo fa intuire la conclusione di Giussani, facendo intravedere Gesù Cristo:
quel viso è il riverbero umano di Lui. Se quel viso è lontano, la sua nostalgia, oh, non intorpidisce l’attività. La vera nostalgia di lui è la più dinamica malia, è il più potente richiamo alle energie perché compiamo il nostro dovere così da renderci più degni di chi amiamo. Soffrire per Ciò”.
Questi sono i maestri di umanità di cui abbiamo bisogno, noi, i feriti di questo campo di battaglia che è la modernità.
Giussani, papa Francesco, uomini che ci affascinano mostrando cosa sono l’amore, il perdono e la grandezza dell’essere uomini e donne. E’ così che ci sorprende la gioia. Quella autentica.

Antonio Socci

Da “Libero”, 22 novembre 2013

Bergoglio: rispetto per i gay, ma la famiglia è altra cosa

Bergoglio: rispetto per i gay, ma la famiglia è altra cosa
***
a di Massimo Introvigne16-11-2013
Argentina, matrimonio gay
Tutte le volte che chi scrive, e tanti altri amici, manifesta in pubblico la sua opposizione alla legge liberticida sull’omofobia e ai progetti di legge sul «matrimonio» omosessuale, si alza sempre la manina di un oppositore che ci accusa di essere «contro il Papa», citando – non sempre con le parole esatte – la sua famosa frase, nell’intervista sull’aereo che lo riportava a Roma dal Brasile, secondo cui se una persona omosessuale «cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?». A prescindere da qualunque valutazione e opinione sulla modalità di comunicazione e i rischi delle interviste, l’affermazione è coerente con il «Catechismo della Chiesa Cattolica», che del resto Papa Francesco aveva richiamato – come fa spesso – nella frase seguente di quello stesso dialogo con i giornalisti.
Alle persone in quanto persone, comprese quelle omosessuali, si applica l’evangelico «Non giudicate per non essere giudicati» (Mt 7,1), che non è certo un’invenzione di Papa Francesco. Lo stesso Gesù che invita a non giudicare, di fronte a chi si macchia di peccati che scandalizzano anche i bambini, esclama: «È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» (Lc 17, 1). Certamente Gesù non è in contraddizione con se stesso. Non lo è la Chiesa e non lo è il Papa, quando da una parte invita a non giudicare le persone omosessuali come persone, dall’altra richiama al «Catechismo», il quale insegna che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» e «in nessun caso possono essere approvati» o fondare riconoscimenti giuridici (n. 2357). E si tratta dello stesso «Catechismo» che al n. 2358 ammonisce che le persone omosessuali «devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione».
Contraddizione? No. Qui c’è, al contrario, l’essenza stessa dell’annuncio cristiano, che da una parte applica il «Non giudicate» del Vangelo alle persone in quanto tali, dall’altra giudica gli atti e le loro conseguenze sociali. La Chiesa accoglie con compassione e delicatezza la donna che ha abortito, ma condanna l’aborto. Accoglie nella comunità – lo ha spiegato tante volte Benedetto XVI – i divorziati risposati, ma condanna il divorzio. È la gloria e la grandezza, ma anche il carattere esigente e difficile, del cristianesimo.
Va ringraziato dunque il vaticanista Sandro Magister per avere attirato l’attenzione, in relazione a polemiche recenti, su una lettera che il cardinale Bergoglio indirizzò il 5 luglio 2010 – tre anni fa – al dottor Justo Carbajales, Direttore del Dipartimento dei Laici della Conferenza Episcopale Argentina, il quale aveva organizzato per il 13 luglio una Marcia per la Vita e la Famiglia che voleva opporsi alla legge sul «matrimonio» omosessuale, poi sventuratamente approvata dal Parlamento argentino. Magister fornisce un link al testo pubblicato dall’agenzia dei vescovi argentini in lingua spagnola. Il testo non è mai stato tradotto in italiano, e ne propongo quindi la traduzione integrale:
«Caro Justo,
La Commissione Episcopale per i Laici della Conferenza Episcopale Argentina, nell’esercizio della libertà propria di tutti i cittadini, ha preso l’iniziativa di organizzare una manifestazione contro la possibile approvazione di una legge sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, riaffermando nel contempo la necessità che ai bambini sia riconosciuto il diritto ad avere un padre e una madre, necessari per la loro crescita ed educazione. Con questa lettera dedidero dare il mio appoggio a questa espressione di responsabilità del laicato.
So, perché me lo avete detto, che non sarà un evento contro nessuno, perché non vogliamo giudicare quanti pensano e sentono in modo diverso. Senza dubbio, più che mai, di fronte al bicentenario [dell’Argentina] e con la certezza di costruire una nazione che deve includere la pluralità e la diversità dei suoi cittadini, sosteniamo chiaramente che non si può considerare uguale quello che è diverso e che in una convivenza sociale è necessario accettare le differenze.
Non si tratta di una questione di semplice terminologia o di convenzioni formali relative a una relazione privata, ma di un vincolo di natura antropologica. L’essenza dell’essere umano tende all’unione dell’uomo e della donna come realizzazione reciproca, come attenzione e cura, come cammino naturale verso la procreazione. Questo conferisce al matrimonio la sua elevatezza sociale e il suo carattere pubblico. Il matrimonio precede lo Stato ed è la base della famiglia, che è cellula della società precedente a ogni legislazione e precedente perfino alla Chiesa. Da questo deriva che l’approvazione del progetto di legge in discussione significherebbe un reale e grave regresso antropologico.
No, il matrimonio di un uomo e di una donna non è la stessa cosa dell’unione di due persone dello stesso sesso. Distinguere non è discriminare, al contrario è rispettare. Differenziare per discernere è valutare in modo propio, non è discrimimare. In un’epoca in cui si insiste tanto sulla ricchezza del pluralismo e della diversità culturale e sociale, è davvero contraddittorio minimizzare le differenze umane fondamentali. Un padre e una madre non sono la stessa cosa. Non possiamo insegnare alle future generazioni che è la stessa cosa prepararsi a un progetto di famiglia assumendo l’impegno di una relazione stabile tra uomo e donna e convivere con una persona dello stesso sesso. Stiamo attenti a che, cercando di mettere davanti un preteso diritto degli adulti che lo nasconde, non ci capiti di lasciare da parte il diritto prioritario dei bambini – gli unici che devono essere privilegiati – a fruire di modelli di padre e di madre, ad avere un papà e una mamma.
Ti affido un incarico: da parte vostra, nel linguaggio ma anche nel cuore, non ci siano aggressività e violenza contro nessun fratello. I cristiani si comportano come servitori di una verità, non come suoi padroni. Prego il Signore che con la sua mansuetudine – quella mansuetudine che chiede a tutti noi – vi accompagni nell’evento. Ti chiedo per favore di pregare e far pregare per me. Che Gesù ti benedica e che la Vergine Santa ti custodisca».

Fin qui la lettera dell’allora cardinale Bergoglio. Essa mostra con perfetta chiarezza il pensiero dell’attuale Pontefice, che è quello della Chiesa e del «Catechismo». Da una parte, «non vogliamo giudicare quanti pensano e sentono in modo diverso». Dall’altra, abbiamo il diritto e il dovere come cattolici e come cittadini di giudicare gli atti – non possiamo sostenere e insegnare che l’unione stabile dell’uomo e della donna «è la stessa cosa» rispetto allo stare insieme di due persone dello stesso sesso – e di giudicare le leggi, opponendoci fermamente a quelle che manifestano un «reale e grave regresso antropologico».
Il Papa c’insegna uno stile, che ancora una volta è quello richiamato dal «Catechismo»: «mansueto» nell’evitare toni urlati o volgari e nel non giudicare le persone in quanto tali, fermo nel difendere una verità in cui è in gioco l’essenziale della questione antropologica. È lo stile della nostra battaglia, e del nostro sì alla famiglia.

La carità, non la filantropia. Federico Ozanam, professore di speranza cristiana alla Sorbona

La carità, non la filantropia. Federico Ozanam, professore di speranza cristiana alla Sorbona

***

Ozanam, professore alla Sorbona

Cos’è per lui la carità? Egli la distingue da una semplice filantropia: «La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a meno d’un anno d’esistenza posseggono già grossi volumi di verbali. La filantropia è un’orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d’ornamento e che si compiace di guardarsi nello specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore».


di Daniele Premoli 

253265_626684090693931_1059473669_nGià prima dei continui appelli di papa Francesco a «toccare la carne di Cristo» e a uscire dalle chiese, da alcuni visti come una colossale novità nella bimillenaria storia della Chiesa; ebbene, già prima di questi, alcuni figli obbedienti della Chiesa hanno preso sul serio l’esercizio della carità. La Chiesa è piena di tali esempi, e qui vorrei presentare una di queste figure, sconosciuta ai più: il Beato Federico Ozanam, fondatore delle Conferenze di san Vincenzo de Paoli. Ben più noto è certamente un “figlio spirituale” del Beato Ozanam, membro della Conferenza di San Vincenzo a Torino: il (beato anch’egli) Piergiorgio Frassati!

1 Apologetica e carità: gemelle siamesi legate dal cuore

Frederic 5aFederico Ozanam nacque a Milano il 23 aprile 1813 da Jean Antoine, medico ed ex-ufficiale dell’esercito napoleonico, e da Maria Nantas, figlia di un commerciante lionese. È nella famiglia che Federico apprenderà a servire Dio mediante la carità ai più poveri: la madre organizzerà a Lione una “Societé des Veilleuses”, per sostenere le ragazze in difficoltà, operaie, vedove, inferme. Il padre, invece, che era medico, visita i poveri nelle loro soffitte; e fu proprio lì che, nel maggio 1837, verrà trovato morto.
Nel 1831, dopo la maturità classica, Federico parte per Parigi: frequenterà il corso di Diritto alla Sorbona, per obbedire al padre che lo vorrebbe avvocato. La sua passione tuttavia è quella letteraria, tanto che è conservata una lunga lettera scritta ad un cugino in sette lingue (latino, greco, francese, tedesco e spagnolo, italiano ed ebraico). Nel 1839 è dottore in Diritto e – per assecondare la sua passione – in lettere.
Il soggiorno a Parigi, tuttavia, sarà per lui una grande “croce”: «Quanto a me, potrei stare meglio? Una bella camera, una buona tavola, una piacevole società, delle conversazioni quasi sempre istruttive e spesso divertenti con il mio ospite… Ebbene, mi credi felice? Oh no, non lo sono poiché si è creata in me una solitudine immensa, un grande malessere. Separato da coloro che amavo non posso mettere radici su questo suolo straniero. E Parigi mi disgusta perché non vi è vita, fede, amore, dove la freddezza mi gela e la corruzione mi uccide». La Francia del tempo, infatti, è ancora intrisa degli ideali della rivoluzione francese: ideali laicisti e anticlericali. Un professore universitario, Emmanuel Bailly, per rispondere alle sfide degli anticlericali, decide di riunire intorno a sé alcuni studenti cattolici per discutere argomenti di storia, di diritto, di letteratura, di filosofia: sono le conferenze di storia. In esse, Federico diventa leader indiscusso… Ma accade un imprevisto.
Laicità e santità
Laicità e santità
Una sera, alcuni studenti atei attaccano quelli cattolici. Ascoltiamo la stessa descrizione di Federico: «Voi che vi vantate di essere cattolici, cosa fate concretamente? Dove sono le opere che dimostrano la vostra fede e che possono farla da noi accettare e rispettare?”. Essi avevano ragione. In verità noi pensammo che in questo rimprovero vi fosse purtroppo del vero, perché non facevamo nulla.  Fu allora che noi dicemmo a noi stessi: ebbene, all’opera! E che le nostre azioni siano in accordo con la nostra fede. Ma cosa fare? Che cosa fare per essere veramente cattolici, se non fare quello che più piace Dio? Soccorriamo dunque il nostro prossimo come faceva Gesù Cristo, e mettiamo la nostra fede sotto la protezione della carità».

2 Due estranee: carità e filantropia

San Vincenzo de' Paoli
San Vincenzo de’ Paoli
In quegli anni, operava a Parigi una suora, della congregazione delle Figlie della Carità fondate da San Vincenzo dei Paoli. Suor Rosalie – questo era il suo nome – era diventata a 29 anni superiora del convento di Parigi, dove aveva fondato un dispensario, una scuola, una farmacia, un asilo nido, una casa di assistenza per le giovani operaie. Ma soprattutto visitava e faceva visitare dai suoi figli spirituali i poveri, lì dove essi abitavano. Al suo seguito, Federico e alcuni suoi compagni iniziarono le visite ai poveri. Il 23 aprile 1833, con altri cinque amici, fondò la Conferenza della carità, che volle intitolare a San Vincenzo de Paoli. Scrive: «Bisognava formare un’associazione di mutuo incoraggiamento per i giovani cattolici, dove si trovasse amicizia, sostegno, esempi. Ora il legame più forte, il principio di una vera amicizia, era carità e la carità non può esistere senza spandersi all’esterno; è un fuoco che si spegne in mancanza di elementi e l’alimento della carità sono le opere buone. Se noi ci diamo appuntamento sotto il tetto di poveri, serve più a noi che a loro, per diventare migliori e più amici».
Ozanam (2)Cos’è per lui la carità? Egli la distingue da una semplice filantropia: in una lettera a Léonce Curnier, del 23 febbraio 1835, dice: «La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a meno d’un anno d’esistenza posseggono già grossi volumi di verbali. La filantropia è un’orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d’ornamento e che si compiace di guardarsi nello specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore».
E, in un altro passo: «La sapienza della Chiesa e la sincerità del suo amore per i poveri risplendono precisamente nel fatto che essa conosce troppo l’estensione dei loro mali ed è troppo compenetrata dei loro dolori per credere di riuscir mai a mettervi fine. Ecco perché riabilita una condizione che non spera di sopprimere, ecco perché circonda la povertà col rispetto della terra e le promesse del cielo».

3 Una vita per i ricchi

Ritratto di Fredric Ozanam
Ritratto di Fredric Ozanam
Ma l’apostolato di Federico non si indirizzava esclusivamente ai poveri. Lo abbiamo lasciato laureato in diritto e lettere; lo ritroviamo ora, a pochi mesi dalla laurea, docente di diritto commerciale all’università di Lione. Il 9 ottobre 1840 è nominato professore di letteratura straniera alla Sorbona, incarico che manterrà sino alla primavera del 1852. Le sue lezioni, seguitissime, vengono così descritte: «quelli che non hanno udito l’Ozanam professore, non conoscono ciò che vi è di personale nel suo ingegno. Preparazioni laboriose, ostinate ricerche nei testi, erudizione accumulata con grandi sforzi, e poi uno splendido improvvisatore, una parola affascinante e colorita, tale e quale era suo insegnamento. Preparava le sue lezioni come un benedettino e le pronunziava come un oratore: una doppia fatica nella quale si logorò la sua ardente costituzione che finì per spezzarsi». Così dirà nella sua ultima lezione: «È proprio sulla cattedra che logoriamo la nostra salute e consumiamo le nostre energie. Io non mi rammarico di ciò perché la nostra vita vi appartiene, noi ve la dedichiamo fino all’ultimo respiro e ve la stiamo donando. Quanto a me, signori, se muoio io sarò contento di farlo vostro servizio».
Tentiamo di capire perché Federico tenga tanto all’insegnamento. Egli intende annunciare gli ideali cristiani ai suoi studenti. Nel suo ultimo discorso, citato prima, afferma: «Non so se ci ritroveremo un altro anno. Ma quale che sia la durata del mio insegnamento, delle mie forze, della mia vita, non avrò perduto il mio tempo se vi avrò fatto credere al progresso attraverso il cristianesimo; se in tempi difficili, avrò saputo rianimare nelle vostre giovani anime la speranza, che non è soltanto l’ispiratrice del bello, ma il principio del bene, che non ci fa soltanto produrre belle opere, ma compiere grandi doveri. Necessaria all’artista per guidare la sua penna o i suoi pennelli, la speranza non lo è meno al giovane padre che fonda una famiglia o al lavoratore che getta il suo grano nel solco, per la celeste parola di colui che ha ordinato: Seminate!».
1005933Svolge così un vero apostolato culturale, articolato sia nella ricerca scientifica e nella docenza universitaria che nella educazione alla gioventù: «La verità non ha bisogno di me, ma io di lei. La causa della scienza cristiana e la causa della fede, è quello in cui credo nel profondo del mio cuore; e in qualunque umile modo l’avrò saputo servire, avrò impegnato degnamente gli anni che mi sono concessi sulla terra». Per lui, la verità coincide con la fede cattolica. La cattedra universitaria diveniva così un pulpito di apologia della fede ed esempio pratico di carità.
«Voi avete dei discepoli ricchi. Quale utile lezione per fortificare i cuori immobili, quale benefico spettacolo per mostrare loro dei poveri, mostrare loro nostro Signore Gesù Cristo non solo in immagini dipinte dai più insigni maestri, o su altari risplendenti d’oro e di luce; ma mostrar loro Gesù Cristo e le sue piaghe nelle persone dei poveri! Spesso abbiamo parlato della debolezza, della frivolezza, della nullità di uomini anche cristiani nella nobiltà di Francia e Italia. Ma io sono certo che sono così perché una cosa è mancato nella loro educazione: una cosa che loro non si è affatto insegnata, una cosa che essi conoscono soltanto di nome e che occorre aver visto soffrire dagli altri per imparare a soffrirla quando presto o tardi verrà. Questi giovani signori devono sapere che cos’è la fame, la sete, un granaio spoglio. Bisogna che essi vedano dei miserabili, dei genitori malati, dei bimbi piangenti. Bisogna che li vedano e li amino. Tale vista risveglierà qualche palpito nel loro cuore, altrimenti questa generazione è perduta».

Politica: potenza dell’oro, potenza della disperazione

Il giorno della beatificazione, nella GMG di Parigi 1997
Il giorno della beatificazione, nella GMG di Parigi 1997
Il 1848, in tutta Europa è l’anno delle rivolte. È anche l’anno che ci mostra il Federico politico. Un politico dichiaratamente cattolico. A febbraio fonda con altri intellettuali cattolici un giornale intitolato L’Ere Nuovelle, per «introdurre lo spirito cristiano nelle istituzioni repubblicane». In un articolo scritto a settembre, Federico indirizza alla gente dabbene queste parole: «si è detto alle persone dabbene che erano state loro a salvare la Francia: avete cancellato la rivolta, ma rimane un nemico che non conoscete abbastanza, del quale non vi piace sentir parlare e del quale ci siamo decisi a parlar di oggi: la miseria».
Si rivolge al clero: «Voi vi accogliete caritatevolmente l’indigente che bussa alla vostra porta; ma è venuto il tempo di occuparsi di più di quegli altri poveri che non mendicano, che vivono ordinatamente del loro lavoro e ai quali non si assicurerà mai il diritto al lavoro ed il diritto all’assistenza». Ai ricchi, agli industriali e ai banchieri: «riaprite le fonti di quel credito di cui accusate l’esaurimento. Fate l’elemosina del lavoro e fate anche quella dell’assistenza». Ai politici: «non pensate di aver fatto abbastanza avendo votato dei sussidi che finiscono per esaurirsi, avendo regolamentato le ore di lavoro, quando il lavoro è ancora soltanto un sogno».
portoazanam (1)Scrive al fratello: «dietro la questione della Repubblica che interessa a pochi, se non alle persone colte, ci sono le questioni che interessano il popolo, e per le quali si è armato: le questioni dell’organizzazione del lavoro, del riposo, del salario. Non bisogna credere che si possa sfuggire a questi problemi. Se pensiamo che soddisferemo il popolo dandogli delle assemblee primarie, dei consigli legislativi, dei nuovi magistrati, dei consoli, un presidente, ci sbagliamo di grosso. E fra 10 anni, e forse anche prima, ci sarà da ricominciare». Anni prima aveva esposto lo stesso pensiero: «La questione che divide gli uomini dei nostri giorni, non è una questione di forme politiche, è una questione sociale: si tratta di sapere chi avrà la meglio, se lo spirito di egoismo o lo spirito di sacrificio; se la società non sarà altro che un grande sfruttamento a profitto dei più forti o la consacrazione di ciascuno al bene di tutti. Si sta preparando una lotta e questa lotta minaccia di essere terribile: da una parte la potenza dell’oro, dall’altra la potenza della disperazione. Tra questi due eserciti nemici dobbiamo precipitarci noi, se non per impedire, almeno per attenuare lo scontro».
Nell’aprile 1848, pressato dei suoi concittadini lionesi, e Federico tenta l’impegno politico e si candida per l’assemblea nazionale. Il suo è un grande programma di riforme: sostegno ai diritti del lavoro, misure per la disoccupazione, salario minimo, promozione delle associazioni tra operai imprenditori, sistema di imposte progressivo, impulso ai lavori di pubblica utilità, libertà di parola, d’insegnamento, di culto. Ma il suo è un programma troppo audace e non viene eletto, pur ottenendo 15.000 voti.

5  Finire di pregare e di vivere

La divina liturgia
La divina liturgia
Tutto questo, tuttavia, non fece bene alla salute di Federico. Dal 1850 la sua vita è un viaggio continuo tra Parigi e i luoghi con un clima più mite, come la sua amata Italia. A conclusione di questa presentazione vorrei sottolineare la grande vita di fede di Federico. Lo animava un grande amore per l’Eucarestia, per la Liturgia, per la Chiesa. Sua moglie ci assicura di non averlo mai visto svegliarsi o addormentarsi senza pregare. Pregava in ginocchio prima di andare a tenere le sue lezioni. Consacrava ogni giorno mezz’ora alla meditazione. Assisteva alla messa durante la settimana il più spesso possibile e, negli ultimi anni della sua vita, tutti i giorni. Egli viveva senza interruzione alla presenza di Dio. Il giorno dei suoi quarant’anni, il 23 aprile 1853, egli scrive il suo testamento: «rimetto la mia anima a Gesù Cristo, mio Salvatore, spaventato dai miei peccati, ma fiduciosa nella divina misericordia. Ho conosciuto i dubbi del secolo presente, ma tutta la mia vita mi ha convinto che non c’è riposo per lo spirito e il cuore se non nella fede della Chiesa e sotto la sua autorità. Se assegno qualche valore ai miei lunghi studi, è perché mi permettono di supplicare quelli che amo a restare fedeli a una fede nella quale ha trovato la luce e la pace».
In una lettera scritta al suo medico, così afferma: «so che il mio male è grave, ma non disperato, che ci vorrà molto tempo per guarire e che posso anche non guarire, ma mi sforzo di abbandonarmi con amore alla volontà di Dio e dico, sfortunatamente più con le labbra che col cuore: voglio quello che tu vuoi, voglio come tu vuoi, voglio per il tempo che tu vuoi, voglio perché tu vuoi» Di lì a pochi mesi, Federico morirà: è l’8 settembre 1853.
La tomba del beato Ozanam, nella cripta della chiesa di San Giuseppe al Carmelo, a Parigi
La tomba del beato Ozanam, nella cripta della chiesa di San Giuseppe al Carmelo, a Parigi
Nel 1997, durante la GMG di Parigi, Giovanni Paolo II beatifica Federico Ozanam, presentandolo con queste parole: «uomo di pensiero e di azione, Federico Ozanam è per gli universitari del nostro tempo, professori e studenti, un modello di impegno coraggioso capace di far udire una parola libera ed esigente nella ricerca della verità e della difesa della dignità di ogni persona umana. Sia per loro anche un appello di santità».

sabato 23 novembre 2013

VIVERE LA FEDE

VIVERE LA FEDE

***

Incontro con i Seminaristi della Sicilia

27 ottobre 2013

Francesco Ventorino

  1. 1.    Cinismo o mendicanza
George Steiner un grande pensatore contemporaneo, un ebreo che si autodefinisce agnostico, parla di “un punto di non ritorno” cui l’uomo si è avvicinato, nei campi della morte che hanno contraddistinto il secolo scorso:
Morendo di sete, un prigioniero guarda il suo tormentatore versare lentamente per terra un bicchiere di acqua fresca: «Perché lo sta facendo?». Il boia rispose: «Non c’è “perché” qui», manifestando con una concisione e una lucidità provenienti dall’inferno, il divorzio fra umanità e linguaggio, fra ragione e sintassi, fra dialogo e speranza. Parlare e scrivere erano diventati, in quel baratro della storia, un’espressione dell’assurdo e del disastro. Non rimaneva niente, stricto sensu, da dire (G. Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, Varese 2003, p. 258).
Questo processo che ha portato l’uomo moderno dalla luce della fede al buio della ragione, là dove è impossibile distinguere il bene dal male, è stato descritto mirabilmente nella enciclica Lumen fidei di papa Francesco:
2. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce [quella della fede] potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo «nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo». E aggiungeva: «A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga». Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione (Lumen fidei, nn. 2; 3).
Ma l’uomo moderno è definito nello stesso tempo da una struggente domanda di significato e di eterno. Anche nel nostro contesto culturale, infatti, tante persone sono alla ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo, come ha scritto Benedetto XVI nella Porta fidei:
La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di “ciò che vale e permane sempre” Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro (Porta Fidei, n. 10).
Questa posizione è efficacemente espressa in poemetto di Pascoli, Il cieco, un testo che si può considerare il più “definitivo” rispetto al pensiero del poeta. In esso si immagina un mendicante, un girovago cieco guidato dal cane. Ma il cane muore e allora l’uomo rimane nel buio assoluto di fronte a qualcuno la cui presenza però sente e ammette.
Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede,
invisibile. Sé dentro sé cela.
Sogghigni? piangi? m’ami? odii? Siede
in faccia a me. Chi che tu sia, rivela
chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
o si compiange della mia querela!
Egli mi guarda immobilmente, e tace.
O forse una mi vede, una m’ascolta,
invisibile. È grande, orrida: il vento
le va fremendo tra la chioma folta.
Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento,
dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
sopra la palma, che mi guarda, e tace.
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
cansar l’abisso che mi sento ai piedi…
di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
tra un nero immenso fluttuar di mare».
Così piangeva: e l’aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.
Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d’oblìo, volgeva; fin ch’ – io so la strada –
una, la Morte, gli sussurrò – vieni! –[1]
«Ed egli stava, irresoluto, a bada / del nullo abisso», della realtà senza senso. «O tu che ignoro e sento, / dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!», «Chi che tu sia, [...] parla dunque».
Il Verbo si è fatto carne, Dio ha parlato e ha detto: «Misericordia, Pietà, Amore»; il grido profetico del genio ha avuto risposta: venne fra i suoi e i suoi non se ne sono accorti. Ma l’uomo senza quella risposta rimane nella vita ultimamente irresoluto, anche se febbrilmente pieno di iniziative, a guardia del nullo abisso. Perché, realmente, non c’è una terza possibilità fra ciò che è accaduto duemila anni fa e la tragica e magnifica immagine dell’uomo di questo bellissimo poemetto.
Il grido di Pascoli di fronte alla enigmaticità ultima del reale non può essere evitato se non nel caso che l’uomo incontri colui che ha parlato. Al di fuori dell’incontro con Cristo questo è l’unico atteggiamento interamente umano. In questo non si ravvisa una negazione religiosa; anzi si esprime la verità del cuore dell’uomo. La mendicanza è, dunque, la dinamica obbligatoria della natura umana quando prende coscienza di se stessa. Si tratta, infatti, di una fedeltà alla originalità della propria natura. In questa drammatica impossibilità coscientemente riconosciuta di risposte esaurienti che la ragione possa dare si ravvisa una inconsapevole profezia dell’imprevedibile avvenimento di Cristo.
  1. 2.    L’incontro cristiano svela la verità su Dio e sull’uomo
Benedetto XVI ha scritto nella sua prima Enciclica, Deus caritas est:
All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con un Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò una  direzione decisiva (Deus caritas est, n.1.).
La fede incomincia, dunque, con un fatto che ha la forma di un incontro, l’incontro con una persona che si riconosce come eccezionale, cioè corrispondente al proprio cuore come nessun altro, che stupisce e che porta a chiederci: “Chi è costui?”.
È l’eccezionalità e quindi la corrispondenza al cuore che si sperimenta nell’incontro con Cristo che porta a fidarsi di lui, anche a causa della grandezza inestimabile del suo messaggio o della dottrina divina che egli rivela.
Questa esperienza costituisce la verifica della sua affidabilità, verifica che dà fondamento ragionevole all’atto della libertà con la quale poi a lui ci si affida e si accoglie la verità che egli rivela. La libertà, infatti, è la capacità di volere il bene, cioè la pienezza della soddisfazione del desiderio del cuore, quella soddisfazione che si pregusta nello stare con lui.
Questa è l’esperienza che hanno fatto i primi che si sono incontrati con Gesù. Due persone, Giovanni e Andrea, che dopo essere stati un pomeriggio a casa sua, ne escono con la convinzione di avere incontrato il Messia (Gv 1, 35-51). E da lì una serie di inviti fra di loro e di incontri con Lui. “Persone che senza esserselo mai immaginato seguono per curiosità quell’uomo, stanno con lui fino a sera, dimenticando persino di andare a lavorare, rimangono così impressionate che riportano come vera un’affermazione fatta forse da lui stesso che rispondeva a tutte le attese del loro tempo” (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 56): “Abbiamo trovato il Messia”.
Nel tempo e nella convivenza con quell’uomo l’intuizione di quella eccezionalità diventa una certezza profonda: “Nel Vangelo dunque viene documentato che il credere abbraccia la traiettoria della convinzione in un successivo ripetersi di riconoscimenti, cui occorre dare uno spazio e un tempo perché avvengano” (Ibid., p. 59). Il miracolo delle nozze di Cana si impone agli inizi di questa progressiva auto rivelazione di Gesù (Gv 2, 1-12).
Nel tempo e nella convivenza con Gesù i suoi discepoli hanno fatto la scoperta di un uomo senza paragone. “Le cose, il tempo e lo spazio gli obbediscono senza alcun apparato «magico». Egli ottiene ciò con una manipolazione della realtà del tutto «naturale», come di chi è padrone della realtà stessa. Il Vangelo nota che giungeva a sera «stanco di guarire», avendo cioè senza interruzione esercitato il suo potere sulla realtà fisica” (Ibid., p. 60). (Lc 5, 17-26).
La sua intelligenza, inoltre, sventava ogni tentativo di metterlo in fallo, come nel caso del tributo a Cesare o della donna colta in flagrante adulterio (Mt 22, 15-22; Gv 8, 1-11); ma il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti ogni giorno, “era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è nulla che convinca l’uomo come uno sguardo che riconosca ciò che esso è, che scopra l’uomo a se stesso” (Ibid., p. 62). Come nel caso della Samaritana o nell’incontro con Zaccheo. (Gv 4, 1-12; Lc 19, 1-10). “La capacità di cogliere il cuore dell’uomo è il miracolo più grande, il più persuasivo” (Ibid.,p. 63).
Ma in Gesù i suoi testimoni hanno potuto vedere non solo quello sguardo potente e intelligente, ma anche uno sguardo buono. “È difficile che una persona potente sia veramente buona” (Ibid., p. 63). È commovente il suo incontro con la vedova di Naim e quello con la peccatrice nella casa di un fariseo (Lc 7, 11-17; Lc 7, 36-50).
Tu non puoi dire: “Questo uomo è Dio”. Non puoi vedere tu se uno è Dio o no; ma dalla eccezionalità dell’esperienza di rapporto con questo uomo, tu trai la conseguenza che ti devi fidare di questo uomo: “Se non mi fido di questo uomo non mi fido più neanche dei miei occhi. È impossibile che questo uomo menta”.
La ragione, dunque, non può dimostrare la divinità di Cristo, perché la divinità in quanto personalmente presente in una realtà umana non è oggetto proprio della ragione. La ragione può soltanto arrivare a riconoscere che si trova di fronte a qualcosa di eccezionale. Non può arrivare a definire chi è Gesù Cristo; ma proprio l’eccezionalità di quella presenza è la ragione per la quale si può facilmente credere a lui quando parla della sua divinità.
Il cristianesimo è, dunque, la conoscenza attraverso un testimone umano di una cosa che umanamente non si può sapere, cioè la conoscenza del mistero di Cristo e attraverso di lui del mistero di Dio e del mistero dell’uomo, del senso e del destino della nostra esistenza.
La fede ‒ scriveva san Tommaso d’Aquino ‒ è in noi l’inizio della vita eterna, in quanto ci introduce alla conoscenza di Dio[2]. La fede cristiana è, infatti, quella grazia che soccorre l’indigenza costitutiva dell’uomo, per la quale egli non riesce da sé a soddisfare l’esigenza della propria ragione, cioè conoscere l’essenza misteriosa della causa ultima di sé e della realtà tutta. In questo senso, la fede è l’inizio gratuito della risposta a quel desiderio naturale di vedere Dio posto nel cuore dell’uomo quasi come una promessa del suo compimento.
Il cristianesimo si rivolge, dunque, a questa esigenza di verità che è nella natura del cuore dell’uomo: la verità sulla propria origine e sul proprio destino. La Chiesa ha da dire a tutti una parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia. L’annuncio cristiano del Verbo fatto carne, morto e risorto, realizza quello che nella coscienza di ogni uomo emerge talora come presentimento o profezia. Cristo risorto conclama che tutto nella storia è redimibile, che non si perde nulla nel vortice degli eventi.
In una intervista rilasciata nel 1983 ad una televisione svizzera, il mio grande amico don Luigi Giussani lanciava questa provocazione:
Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede.
Bisogna riconoscere, infatti, che solo nel volto di Gesù crocifisso, morto e risorto si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità, è possibile incontrarlo oggi. L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva, perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! Quale forma ha preso per noi l’incontro cristiano? Come ne siamo stati illuminati e convinti? Sono domande che vengono prima di quelle che riguardano la nostra vocazione particolare se non vogliamo di rischiare di diventare dei preti senza fede.
Tommaso d’Aquino ha scritto che «al loro destino di felicità gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo»[3] e per questo «la grazia prima ha colmato la sua umanità e da lì è derivata a noi»[4].
La scoperta di Cristo come centro del cosmo e della storia elimina la paura e fa sentire all’uomo una capacità di contatto dominatore su tutto: «Omnia vestra sunt, vos autem Christi, Christus autem Dei (Tutto è vostro, voi poi siete di Cristo e Cristo è di Dio)»[5].
  1. 3.    Il definitivo nel presente
Scusatemi se mi servo ancora di un testo di don Luigi Giussani:
Dice l’inizio del diciassettesimo capitolo del Vangelo di san Giovanni, che contiene l’ultima preghiera di Gesù prima di andare al Getsemani: «È venuta l’ora, glorifica il Figlio tuo come il Figlio tuo ha glorificato Te. Tu gli hai dato nelle mani il potere su ogni uomo [su tutti gli uomini], affinché dia la vita eterna a coloro che Tu gli hai dato nelle mani. E la vita eterna è questa: che conoscano Te solo vero Dio e Colui che hai mandato, Cristo». È venuta l’ora. E da allora questa frase indica ogni giornata della storia che passa, perché la definitività del tempo è incominciata con la glorificazione di Cristo che risorge. La morte e la risurrezione di Cristo iniziano l’era nuova che noi possiamo riconoscere e godere come una caparra – dice la liturgia – in attesa della manifestazione finale. Ma una caparra è della stessa natura della promessa intera. Per questo la vita del cristiano è come il grande realizzarsi dell’avvenimento di Cristo, ed è morte e risurrezione[6].
Ogni cristiano, ogni battezzato, porta in sé il destino cui sono destinati tutti, ma è stato scelto per incominciare a “comprendere” Cristo dentro il tempo e lo spazio. La consapevolezza di questa scelta genera gratitudine e affezione, e quindi una flessione della vita che ad essa si conforma.
Ogni cristiano, dunque, anticipa in sé l’“eschaton”, perché la fine della storia si avrà nel riconoscimento da parte di tutti proprio di questo, che Cristo è l’unico Signore del mondo. Il battezzato è colui che è chiamato ad anticipare nel tempo questo giudizio finale, questo riconoscimento finale. Ecco il significato del vivere “escatologicamente”, cioè del vivere nel presente l’“eschaton”, vivere nel presente il fine della storia. Questo riconoscimento di Cristo, ripeto, ha dentro di sé una gratitudine per essere stati scelti: “Perché io? Perché hai scelto me?”.
Da questa gratitudine e da questa affezione nasce la morale. La moralità è una tendenza della nostra vita a conformarsi, per gratitudine e per affetto, a Colui che ci ha scelti. È proprio dell’incontro con una presenza eccezionale il desiderio di una imitazione. L’eccezionale, infatti,  è ciò che corrisponde al cuore e pertanto, se lo vedo realizzato in qualcuno, desidero essere come lui.
Siamo chiamati ad anticipare il destino di tutti: è la grazia di poter vivere il definitivo nel presente, la grazia di non perdere tempo dietro ciò che non rimane, di poter consumare la vita per ciò che resta, per il vero Signore, Colui che è il  salvatore della mia umanità. Il cristiano, in definitiva, è colui che è chiamato a conoscere e a vivere già nel presente la realtà: Cristo è la realtà della storia e della vita; la realtà!
Ecco perché la fede non è un sentimento. La fede non è neanche uno stato d’animo. La fede è una intelligenza. Nel Battesimo è stata collocata dentro il nostro essere una potenzialità di intelligenza nuova. La fede è una luce.
È ciò che viene insistentemente affermato nella Lumen fidei di papa Francesco:
È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una “favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”. Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce (Lumen fidei, n. 4).
Con la fede, dunque, inizia una nuova vita dentro la vita di prima, una nuova chiamata, una vocazione dentro ogni altra precedente, come ci mostra questo passo decisivo della prima lettera ai Corinti:
Per il resto, a ciascuno come il Signore ha dato in sorte, ciascuno come Dio ha chiamato, così cammini. Così dispongo in tutte le comunità. Uno è stato chiamato circonciso? Che non si tiri il prepuzio. Uno è stato chiamato col prepuzio? Che non si faccia circoncidere! La circoncisione è nulla e il prepuzio è nulla […]. Ciascuno rimanga nella chiamata in cui fu chiamato. Sei stato chiamato schiavo? Non preoccupartene. Ma se puoi diventare libero, piuttosto fa uso. Chi è stato chiamato schiavo nel Signore, è un libero nel Signore. Allo stesso modo, chi è stato chiamato libero, è schiavo del messia [7]
Giorgio Agamben ha fatto giustamente notare che il senso della Klesis (chiamata) paolina «indica la particolare trasformazione che ogni stato giuridico e ogni condizione mondana subiscono per il fatto di essere posti in relazione con l’evento messianico. Non di indifferenza escatologica si tratta, quindi, ma della mutazione, quasi dell’intimo spostamento di ogni singola condizione mondana in virtù del suo essere “chiamata”». Il suggerimento di rimanere nella propria condizione non esprime indifferenza, ma «il suo essere essenzialmente e innanzi tutto, una chiamata della chiamata. Per questo essa può aderire a qualunque condizione; ma per la stessa ragione, essa la revoca e mette radicalmente in questione nell’atto stesso in cui vi aderisce»[8].
Per far comprendere meglio questo concetto Agamben fa riferimento ad una altro passaggio della prima ai Corinti, dove Paolo dà «la definizione più rigorosa della vita messianica»:
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è contratto; il resto è affinché gli aventi donna come non aventi siano e i piangenti come non piangenti e gli aventi gioia come non aventi gioia e i compranti come non possedenti e gli usanti il mondo come non abusanti. Passa infatti la figura di questo mondo. Voglio che siate senza cura[9].
E così lo commenta:
Hos me, «come non»: questa è la formula della vita messianica e il senso ultimo della klesis. La vocazione chiama a nulla e verso nessun luogo: per questo essa può coincidere con la condizione fattizia in cui ciascuno si trova chiamato; ma, proprio per questo, essa la revoca da cima a fondo. La vocazione messianica è la revocazione di ogni vocazione. In questo senso, essa definisce la sola vocazione che mi sembra accettabile. Che cos’è, infatti, una vocazione, se non  la revocazione di ogni concreta vocazione fattizia? Non si tratta, naturalmente di sostituire una vocazione più vera a una meno autentica: in nome di che cosa si deciderebbe per l’una piuttosto che per l’altra? No, la vocazione chiama la vocazione stessa, è come un’urgenza che la lavora e scava all’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa. Questo ‒ e nulla di meno che questo ‒ significa avere una vocazione, vivere nella klesis messianica[10].
La vocazione messianica, dunque,  è «la revocazione di ogni vocazione», non nel senso che si sostituisce alla altre, ma nel senso che la vocazione a seguire Cristo diventa il vero significato di ogni altra vocazione: «è come una urgenza che la lavora e scava dall’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa». Pensate alla vocazione al matrimonio: solo nella sequela di Cristo essa diviene vera nel dono reciproco fino al sacrificio supremo che è quello di morire per la salvezza dell’altro. E la sequela di Cristo la scava dentro, in profondità, e la libera da ogni incrostazione mondana nel concepire e nel vivere l’amore dei coniugi e con i figli.
Infatti, più avanti l’autore fa notare che l’hos me paolino si conclude con una frase: «passa infatti la figura, il modo di essere di questo mondo»[11], che così commenta: «tendendo ogni cosa verso se stessa nel come non, il messianico non la cancella semplicemente ma la fa passare, ne prepara la fine. Esso non è un’altra figura, un altro mondo: è il passaggio della figura di questo mondo»[12].
Vivere la vocazione messianica ‒ conclude Agamben ‒ significa fare uso di questo mondo senza mai farne oggetto di proprietà. La «nuova creatura» non è che l’uso della vecchia: «se uno è nel messia, nuova creatura: le cose vecchie sono passate accanto, ecco sono diventate nuove»[13].
Questo è il compito del cristiano nel mondo: la trasfigurazione di tutte le cose, usandole non come proprie, ma perché esse manifestino il potere che Cristo ha di sottomettere a sé tutto[14]. La vocazione cristiana è una chiamata ad anticipare in qualche modo la fine della storia, quando sarà chiaro chi è il vero signore del mondo secondo la profezia mirabile contenuta nella seconda lettera ai Tessalonicesi:
E allora sarà rivelato il senza legge (ànomos), che il Signore abolirà col soffio della sua bocca e renderà inoperante con l’apparizione della sua presenza . (parousìa)[15].
Dare testimonianza a Cristo: questo è il senso della vita cristiana, o della vocazione messianica, come la chiama Agamben. Nella Lumen fidei troviamo riaffermata questa urgenza per il nostro tempo:
La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere quella felicità che promette. Credere o non credere in Lui sarebbe allora del tutto indifferente. I cristiani, invece, confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo[16]
Dare testimonianza a Cristo! Questo è possibile in qualunque condizione. Spesso l’amore alla forma che nella nostra vita deve prendere la gloria di Cristo ci fa dimenticare questo scopo. Spesso siamo più attaccati a questa forma che a Lui.
La forma vocazionale non la scegli tu. Questa è un’affermazione di importanza grandissima e, da qualunque parte vi venisse un altro suggerimento sarebbe un tradimento della vostra vita. La vocazione te la dà Cristo.
Diceva il Papa ai seminaristi, ai novizi e alle novizie, nel discorso che abbiamo già citato:
Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra. Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”. Non mi piace questo! Non va! Ma è la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore. Sento qualcosa dentro, che mi inquieta, e io rispondo di sì. Nella preghiera il Signore ci fa sentire questo amore, ma anche attraverso tanti segni che possiamo leggere nella nostra vita, tante persone che mette sul cammino[17].
Se veramente volete vivere quello che Cristo vi chiede, dovete preoccuparvi solo di mantenere il cuore disponibile a quello che Lui vorrà da voi. Il vero atteggiamento di chi si prepara a ciò cui Cristo l’ha chiamato è la domanda che Lui gli faccia vedere e realizzare quello che ha pensato per la sua vita. La vocazione non si identifica con una forma immaginata da noi. La vocazione non è un’immagine che piace, ci può essere anche quella, ma non è determinante; essa è ciò che decide Cristo per noi.



[1] G. PASCOLI, Il cieco, in ID., Poesie, Garzanti, Milano 1994.
[2]  «Fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica¸II-II, 4, 1, c.). Anche altrove la fede viene da lui definita come «praelibatio futurae visionis» (In III Sententiarum, 23, 2, 1, ad 4); o «inchoatio quaedam vitae aeternae» (De Veritate, I 14, 2, c).

[3] TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, III, 9, 2, c.
[4] Ibid, I-II, 108, 1, c.
[5] I Cor 10, 31.
[6] L. GIUSSANI, “Fede ieri e oggi”, Tracce, febbraio 2008, p. 1.
[7] I Cor 7, 17-24.
[8] G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 28.
[9] I Cor, 7, 29-32.
[10] G. AGAMBEN, op. cit., p. 29.
[11] I Cor 7, 31.
[12] G. AGAMBEN, op. cit. p. 30.
[13] 2  Cor 5, 17.
[14] Fil 3, 21.
[15] 2 Tess. 2, 8.
[16] FRANCESCO, Lumen fidei,  17.
[17] ID, Incontro con i seminaristi, i novizi e le novizie, Aula Paolo VI, 6 luglio 2013.

giovedì 21 novembre 2013

l’Uomo, trasformato in uno sciocco

l’Uomo, trasformato in uno sciocco
***

Sì, questo sarà il loro segno:
il segno del fuoco che si spegne,
e l’Uomo, trasformato in uno sciocco,
che non sa chi è il suo signore,
Anche se arriveranno con carta e penna [uno strano esercito, che non ha armi, ma solo carta e penna!]
e avranno l’aspetto serio e pulito dei chierici,
da questo segno li riconoscerete,
dalla rovina e dal buio che portano;
da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone,
da un cieco e remissivo mondo idiota,
troppo cieco per essere disprezzato;
dal terrore e da storie crudelidi una macchia segnata nelle ossa e nelle stirpe,
dalla vittoria dell’ignavia e della superstizione,
maledette fin dal principio,
dalla presenza di peccatori,
che negano l’esistenza del peccato;
da questa rovina silenziosa,
dalla vita considerata una pozza di fango,
da un cuore spezzato nel seno del mondo,
dal desiderio che si spegne nel mondo;
dall’onta scesa su Dio e sull’uomo;
dalla morte e dalla vita rese un nulla,
riconoscerete gli antichi barbari,
saprete che i barbari sono tornati.

Chesterton 1911["La ballata del cavallo bianco" - Raffaelli editore - pagine 155-156]