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mercoledì 30 luglio 2014

l'uomo

 l'uomo
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Compiuta la sua opera, l'artefice divino vide che mancava qualcuno che considerasse il significato di così tanto lavoro, ne amasse la bellezza, ne ammirasse la grandezza. Avendo, quindi, terminata la sua opera, pensò da ultimo - come attestano Mosè e Timeo- di produrre l'uomo. [...] Ormai tutto era pieno, tutto era stato occupato negli ordini più alti, nei medii e negl'infimi. [...] Stabilì, dunque, il sommo Artefice, dato che non poteva dargli nulla in proprio, che avesse in comune ciò che era stato dato in particolare ai singoli. Prese pertanto l'uomo, fattura priva di un'immagine precisa e, postolo in mezzo al mondo, così parlò «Adamo, non ti diedi una stabile dimora, né un'immagine propria, né alcuna peculiare prerogativa, perchè tu devi avere e possedere secondo il tuo voto e la tua volontà quella dimora, quell'immagine, quella prerogativa che avrai scelto da te stesso. Una volta definita la natura alle restanti cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz'essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell'arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perchè potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto del tutto nè celeste nè terreno, nè mortale, nè immortale perchè tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine.» O somma liberalità di Dio Padre, somma e ammirabile felicità dell'uomo! Al quale è dato di poter avere ciò che desidera, ed essere ciò che vuole. I bruti nascendo, assorbono dal seno materno ciò che possederanno. Gli spiriti superiori furono invece, sin dall'origine, o poco di poi, ciò che saranno eternamente. Il Padre infuse all'uomo, sin dalla nascita, ogni specie di semi e ogni germe di vita. Quali di questi saranno da lui coltivati cresceranno e daranno i loro frutti: se i vegetali, sarà come pianta, se i sensuali, diventerà simile a un bruto, se i razionali, da animale si trasformerà in celeste; se gl'intellettuali, diverrà angelo e figlio di Dio. E se di nessuna creatura rimarrà pago, rientrerà nel centro della sua unità, e lo spirito, fatto uno con Dio, verrà assunto nell'umbratile solitudine del Padre che s'aderge sempre al di sopra di ogni cosa. Chi ammira questo nostro camaleonte, o, anzi chi altri può ammirare di più? 
(Pico della Mirandola)

Contro Maestro Ciliegia 2

 Contro Maestro Ciliegia 2
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 Dagli idoli ci si libera in modo definitivo solo innamorandosi dell’unico vero Dio; i fili invisibili che ci costringono sono tagliati unicamente dall’affetto del Padre. Quando cantiamo la gioia di avere un «solo Signore, Gesù Cristo», inneggiamo anche alla nostra libertà. Proprio perché abbiamo un solo padrone, non ne vogliamo altri. E anche se c’è chi crede di averci in maniera irrimediabile intruppati tra le marionette, in effetti noi restiamo creature radunate all’insegna della libertà; un’insegna che è molto simile a quella degli anarchici e dei radicali, coi quali - quasi - ci troviamo d’accordo: né Dio né padroni né verità eterne, all’infuori dell’unico Dio, dell’unico Signore, dell’unica verità (Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

 "Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?"
È la stessa tattica del serpente nel paradiso terrestre: irridere i doni che già possediamo, presentandoli non come valore ma come limite, non come mezzi di elevazione ma come peso e coartazione della libertà; e insieme far balenare il miraggio di sconfinate ricchezze: «Sarete simili a Dio».
Pinocchio ne resta colpevolmente conquistato. Ma il suo peccato - come quello dei progenitori non sta nel cedere alla lusinga di un tesoro favoloso, quanto nell’averlo ricercato fuori della strada di casa e di aver creduto che si potesse raggiungere la felicità non andando verso il padre ma allontanandosi da lui. In fin dei conti, le promesse del Signore non sono meno sbalorditive di quelle diaboliche: ciò che è aberrante e maligno è il pensiero. che si possa crescere e prosperare, fuggendo dall’amore di chi ci ha creato. (Biffi, Contro Maestro Ciliegia)


 Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua per tutto lo spazio di una lunghissima notte, ci ricorda un po’ Enrico IV a Canossa, salva la debita riverenza alla maestà dell’imperatore.
Una Chiesa troppo accondiscendente è una Chiesa banalizzata. Proprio in ragione dell’immenso amore per l’uomo che palpita in lei, non deve fare troppo la corte al mondo e ai suoi capricci, se non vuole smarrire in un solo momento il fascino e la capacità educativa. Per fortuna, anche nelle epoche che più indulgono a rincorrere i miti del tempo, l’apparato ecclesiastico sarà sempre ritardatario e affliggente a sufficienza, sicché l’autenticità della fede e la serietà dei propositi di chi chiede di ritornare in casa o di chi desidera vivere in consapevolezza la vita ecclesiale saranno sempre abbastanza saggiate.
La Fata in quest’episodio - anche se non compare in prima persona se non alla fine per consolare e perdonare - sembra un’altra volta impietosa; e invece il suo è un modo di amare sul serio e di mirare al bene vero del burattino (Biffi, Contro Mestro Ciliegia)


 Dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano...
e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, invece del volto sognato. È difficile immaginare delusione più cocente.
Questa Lumaca servizievole e inconcludente che, senza essere una personificazione della Fata, abita però la sua casa, ne trasmette i messaggi ed è come ministra della sua volontà - può ben raffigurare tutta l’organizzazione esteriore della Chiesa, che non è parte della realtà profonda del mistero ecclesiale, ma gli è necessariamente connessa, e dunque non può venire ignorata da chi si vuole accostare a questo mistero.
Ogni uomo che cerca il Padre, deve vivere nella Chiesa; e chi vive nella Chiesa, o in prossimità della Chiesa, deve fare i conti con la lentezza, i ritardi esasperanti, le imprevidenze, la sordità dell’apparato ecclesiastico.

Ma tutto questo è scontato, e non deve scandalizzare. Anzi è incluso addirittura in un disegno provvidenziale e trascendente: l’uomo che vuole partecipare alla Chiesa deve un po’ macerarsi nell’impazienza, intanto che le illusioni si disperdono e le intenzioni si purificano. Senza questa prova, ogni ritorno rischia di essere solo una «esperienza» superficiale ed effimera (Biffi, Contro Mestro Ciliegia)


 I carabinieri nel terzo capitolo avevano imprigionato Geppetto che voleva correggere ed educare la sua creatura e avevano lasciato libero di rovinarsi il burattino scavezzacollo, anticipando così i fasti della moderna pedagogia (Biffi, Contro Mestro Ciliegia)

 Quando fu li sentì mancar si il coraggio e, invece di bussare, si allontanò correndo una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla; poi si avvicinò una terza volta, e nulla; la quarta volta prese tremando il battente di ferro in mano e bussò un piccolo colpettino.
Altrettanti sono i rivolgimenti che il Manzoni ravvisa nell’anima dell’Innominato, la notte agitata del suo mutamento, anche se il Collodi qui li elenca con la secchezza di eloquio che si conviene alla natura legnosa del personaggio.


Questa tenzone tra il si e il no nell’anima del peccatore si è combattuta e si combatte innumerevoli volte nel segreto delle case, sulla soglia delle chiese, in prossimità dei confessionali, anche se non è dramma di quelli che è consentito applaudire o recensire. Chi lo vive nel riserbo dello spirito, intuisce di lottare al cospetto dell’universo, nella prospettiva del suo destino, entro il mistero di tutta la Chiesa, anche se non sempre si ritrova nelle disposizioni più adatte per partecipare a pubbliche celebrazioni, come sarebbe auspicio di molti liturgisti dalla vita innocente (Biffi, Contro Mestro Ciliegia)


 Il passaggio dalla colpa alla vita di grazia non si perfeziona se non nel convitto eucaristico, dove la ricchezza trasformante di Dio per mano della Chiesa investe la povertà delle nostre cose, dei gesti, delle parole, delle persone e, strappando ci al mondo, ci inserisce vitalmente nel mistero sacrificale del Cristo glorioso che, unito a tutti i suoi, si affida all’amore del Padre in uno slancio inesauribile di donazione. (Biffi, Contro Mestro Ciliegia)

 Le coreografie moderne, forse nell’intento lodevole di rifuggire dal lezioso, nei ritmi meccanici e nell’angoloso agitarsi degli interpreti, evocano sempre più di frequente gli automi. E sempre più largamente è accolta l’ipotesi antropologica che spiega ogni atto e ogni risoluzione come il prodotto ineluttabile delle forze economiche, dell’istinto sessuale, della cieca volontà di potenza, dei mezzi occulti di persuasione: i «fili invisibili»; e, poiché fatalmente si diventa quello che si è convinti di essere, l’uomo si assimila progressivamente a una marionetta appena rivestita di una illusoria apparenza di libertà. (Biffi, Contro Mestro Ciliegia)


 Che cosa lo rende irriducibilmente diverso e gli impedisce di assimilarsi alla compagnia delle teste di legno? La differenza sta tutta nel fatto che Pinocchio ha un padre, prodigiosa eccezione tra i suoi simili. Se ha un padre, ha un destino filiale; se ha un destino filiale, è designato, pur avendo ancora una struttura legnosa, a una condizione di sostanziale libertà.
Questo è il dilemma che, nel gran teatro del mondo, a tutti viene proposto, anche se non tutti purtroppo se ne avvedono: un burattino che ha un padre, è chiamato a essere uomo; un uomo che ha rifiutato il padre, presto o tardi si conforma ai burattini (Biffi, Contro Maestro Ciliegia)


 La convinzione più semplice e più diffusa asserisce che la condizione di burattino è conseguenza dell’esistenza dei burattinai, sicché basta eliminare questi prepotenti personaggi perché alle marionette subentrino gli uomini. Come in quasi tutti i giudizi, anche in questo c’è qualche parte di vero. Persuasioni simili hanno ispirato e sorretto le molte rivoluzioni e le molte insurrezioni, delle quali è insanguinata la storia del mondo. In Italia invece le rivoluzioni e le insurrezioni si fanno molto di rado, più che altro si festeggiano. Non è un gran male: in realtà il loro risultato più comune è quello di cambiare il burattinaio, e non sempre in meglio. (Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

Arriverà anche per noi il giorno in cui, trascesa la condizione legnosa, saremo liberi da Mangiafoco e da tutti i suoi pari, e non ci sarà più né la tirannia del caso né quella del potere o dell’ economia o della scienza delirante o della tecnica disumana, perché, una volta raggiunta la pienezza della vita filiale, il Padre solo ci basterà. Adesso, in questo transeunte stato di vincolata goffaggine, se non possiamo sottrarci del tutto ai dispotismi del burattinaio, possiamo però addomesticarlo, sottomettendolo alla potenza di Dio (Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

 I tentatori della nostra storia sono due, e l’uno ripete le frasi dell’altro. E anche questo è istruttivo: più che comprovare le sentenze con le argomentazioni, che è arte faticosa e piena di rischi, preferiscono persuadere con l’insistenza martellata degli enunciati.
La Volpe e il Gatto hanno fatto scuola: oggi sono molti che, piuttosto che offrire ragionamenti, propongono burberamente l’iterazione degli asserti. «Te lo ripeto dieci volte, dunque è vero»: pare sia questo uno dei fondamentali princìpi della logica contemporanea (Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

martedì 29 luglio 2014

Fratel Biagio, l'apostolo dei nuovi poveri di Palermo

Fratel Biagio, l'apostolo dei nuovi poveri di Palermo

Una storia di conversione e poi la Missione di Speranza e Carità per senzatetto, immigrati, donne abbandonate e ragazze madri

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di Riccardo Cascioli

«Sta pregando»: i volontari del Banco Farmaceutico che lo hanno invitato al Meeting di Rimini per una testimonianza, mi fermano quando faccio per entrare nel piccolo stanzino all’interno dello stand. Ho solo mezz’ora disponibile per l’intervista e i minuti volano via, mangiati nell’attesa che concluda la preghiera in quello spazio improbabile ricavato nei padiglioni della Fiera di Rimini. Eppure è il momento più importante dell’intervista, perché è ciò che meglio descrive fratel Biagio Conte, un uomo che, a causa della conversione, a Palermo in venti anni ha messo in piedi tre diverse strutture che ospitano e danno un futuro a senzatetto, stranieri dirottati qui da Lampedusa, donne abbandonate e ragazze madri. Alloggi, terreni da coltivare e altre attività artigianali per lavorare e vivere.

Ma tutto ciò ha un’origine, una fonte che si chiama Cristo. Altrimenti, come direbbe papa Francesco, saremmo come una organizzazione non governativa. Ma la Chiesa è altro, è molto di più: la risposta al bisogno di pane, di un tetto, di un lavoro porta con sé la risposta al bisogno più grande che tutti abbiamo: quello della felicità, del significato della nostra vita, delle ragioni per cui vivere.

E quando fratel Biagio finalmente esce da quello stanzino quella risposta ce l’ha stampata in faccia, è il suo volto trasformato da quel Cristo con cui si è intrattenuto fino a un attimo prima. Un volto gioioso, occhi azzurri pieni di luce, una lunga barba nera e un aspetto da profeta dell’Antico Testamento: una veste di tessuto grezzo color verde marcio sotto un mantello di un verde ancora più scuro che gli copre anche il capo; un lungo bastone cui si appoggia per camminare e un grosso rosario che gli esce dal fianco destro. Anche San Francesco ai suoi tempi doveva apparire un po’ in questo modo.

Saluta, stringe le mani, gente arrivata da Palermo lo viene a salutare; quando arriviamo a cominciare l’intervista il tempo non è più molto, ma l’essenziale lo abbiamo già visto. Ma come è accaduto? “Mi hanno sempre colpito le immagini degli ultimi, i poveri, i soli, i più deboli – comincia a raccontare fratel Biagio -, mentre io pensavo alle cose del mondo, alla moda, al consumismo. Mi colpiva fortemente vedere questa grande sofferenza  delle persone nella città, i tanti senzatetto, i bambini che giocavano fra i detriti. Addirittura ho cominciato a sentirmi in colpa perché mi lasciavo trascinare dall’egoismo e dall’indifferenza che domina questa società”.

Indifferenza evidentemente non molto perché quelle immagini di povertà lo seguono continuamente, lo assillano e lo fanno diventare insofferente, triste, depresso.  “Qualcosa facevo - prosegue - davo il mio obolo, ma non mi sporcavo le mani, non mi donavo. Questa è la svolta, il buon Dio mi ha fatto capire che una società che lascia indietro i più deboli non è una società giusta, prima o poi esplode”.

Biagio ha 26 anni, ricerca disperatamente la verità: “Credevo che la risposta venisse dalla scienza, dall’arte, ero un appassionato d’arte”, ma gli mancava il donarsi, come ripete più volte, gli mancava qualcosa che prendesse tutta la sua vita.

Così all’improvviso, o forse per logica conseguenza, la decisione: il 5 maggio 1990 molla tutto, lascia la sua casa e senza dire nulla da Palermo prende la direzione opposta al mare, va verso l’interno della Sicilia, sulle montagne. Vive da eremita per quasi nove mesi. I suoi non lo trovano – e lo cercano anche a “Chi l’ha visto?” – ma lui pian piano ritrova se stesso: “Il buon Dio mi ha fatto percorrere la strada che mi ha cambiato, ho riscoperto la pace, la vera libertà, ho assaporato la vera libertà, non quella che nella nostra società porta alla droga, all’alcol e cose del genere. Il silenzio, il rapporto con la natura mi ha portato a riscoprire me stesso”.

Ecco allora che Biagio parte, altri cinque mesi, stavolta in cammino a piedi attraverso la Sicilia, la Calabria, su su fino ad Assisi, “incontrando i poveri, i vagabondi, gli anziani soli; mi aiutavano i contadini, i pastori”. Poi Assisi, “e qui sento di lasciare ogni cosa materialistica, sento Gesù che mi invita: Seguimi. E io lo seguo, la mia vita è la missione”.

Biagio è un uomo nuovo, diventa fratel Biagio, come Francesco otto secoli prima. Ridiscende l’Italia, convinto di andare in Africa ma arrivato a Palermo - 14 mesi dopo aver lasciato la casa paterna - gli si ripresentano tutti quei volti di poveri e deboli che lo avevano tormentato anni prima e capisce che la sua missione è qui. Ma non torna a casa, neanche un giorno. Comincia la sua nuova vita dalla stazione di Palermo, porta del latte caldo, panini, coperte, ma soprattutto quelli che per tutti sono vagabondi “io li ho chiamati fratelli e sorelle”. E nasce una familiarità.

Con i poveri però, non certo con le autorità, che nel migliore dei casi lo scambiano per un altro barbone, ma vedono con diffidenza e ostilità questo suo mettere insieme i “barboni”. “Ma ogni volta che mi offendevano e mi umiliavano, così come facevano con i miei fratelli, mi rafforzavano”.


E allora, dopo mesi di sofferenza e di condivisione della sofferenza, scrive a tutte le autorità, fa digiuni, alla fine ottiene i primi locali per cominciare una comunità. E’ l’inizio di una storia che dura da oltre venti anni ed è diventata un modello di accoglienza. Per gli oltre mille “fratelli e sorelle” accolti nelle sue case ci sono 500 volontari, associazioni e parrocchie che si danno il cambio per aiutare e organizzazioni che forniscono almeno una parte dei mezzi necessari. Come il Banco Farmaceutico, che ha portato fratel Biagio al Meeting di Rimini, e fornisce alla sua opera una parte dei farmaci donati durante la Giornata Nazionale di Raccolta del farmaco e di quelli che arrivano attraverso le donazioni aziendali.

Ma fratel Biagio non è solo neanche a sostenere questa opera nelle sue fondamenta: ora ha un sacerdote e altri fratelli e sorelle, un nuovo ordine religioso che lentamente sta prendendo forma e che per ora ha il nome della sua opera, Missione Speranza e Carità. Fratelli e sorelle che, come lui, hanno lasciato tutto per servire Cristo nei più deboli, in quelli che una società ingiusta ha lasciato indietro andando incontro alla sua rovina. L’origine della crisi, come lascia intendere fratel Biagio, ma “non è vero che è troppo tardi”, dice, “bisogna rialzare questa società”. Lui un motto ce l’ha: “Sbracciati e datti da fare”, ripete più volte. “C’è tanto da fare, è proprio nella crisi che bisogna mettersi insieme; basta poco, uniamo le forze”. Ma soprattutto “affidiamoci alla Provvidenza”, che è quella che ha permesso la “Missione Speranza e Carità”: dal niente della strada all’opera modello che è oggi.

Del resto a ognuno di noi è affidato un compito. Come riconoscerlo? “In ognuno di noi c’è un eremita – mi dice fratel Biagio prima di lasciarmi -, ma bisogna staccare la spina. Se non staccavo la spina tutto questo non l’avrei scoperto”.

Chesterton il profeta

  Chesterton il profeta
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Basterà un cambiamento minimo nell’attuale clima dell’etica finanziaria, e quando l’astuta e vigorosa mentalità affaristica si sarà liberata dell’ultima paralizzante influenza dei dogmi inventati dai preti, il giornalismo e la pubblicità mostreranno per i tabù di oggi la stessa indifferenza che oggi mostrano per i tabù del medio evo. La rapina sarà spiegata come lo è l’usura, e per tagliar gole non occorreranno più sotterfugi di quanti ne occorrono per dominare il mercato. Le edicole risplenderanno di titoli quali "La falsificazione in quindici lezioni" e "Perché sopportare l’infelicità matrimoniale?", e si avrà una divulgazione dell’avvelenamento pienamente scientifica, quanto lo è la divulgazione del divorzio e del controllo delle nascite.
(Chesterton, Come si scrive un giallo; citato nel blog dell'Uomo Vivo)

Contro Maestro Ciliegia

 Contro Maestro Ciliegia
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Foto: Chiamati dalla Fata, arrivano al capezzale di Pinocchio i medici più famosi del vicinato. I primi due, il Corvo e la Civetta, sono autorevoli, enfatici, in opposizione tra loro e inconcludenti. In essi l’autore raffigura un po’ malignamente la scienza e la sua incapacità di guarire i veri mali dell’uomo. In quanto è da essa esplorato e oggettivato, l’uomo appare qualcosa di meccanico e di scomponibile. Sotto la sua luce curiosa, il mistero dell’uomo scompare, ma scompare anche l’uomo: è analizzato in tutte le fibre e in tutti i processi biologici e psicologici, e così è assimilato a un pupazzo che viene con perspicacia e abilità smontato e rimontato.La scienza arriva a conoscere tutto, ma perché debba esistere il pupazzo e chi sia chiamato a divertire, questo non le riesce di saperlo. Aggiusta tutto, avvalora tutto, ma la «malattia dell’esistenza» - dell’ esistenza in quanto evento sprovvisto di significazione - sotto le cure della scienza non fa che aggravarsi. In questo senso, la scienza, che può essere esaltata come la più spettacolare vittoria dell’uomo sulle cose, diventa la sua più amara sconfitta. Il terzo medico, il Grillo, non interviene nella dotta disputa dei colleghi; la sua diagnosi non è omogenea con quelle finora ascoltate, la sua terapia non ha niente in comune. La speranza dell’uomo comincia dalla severità di una coscienza che non si lasci incantare né dal multiloquio delle questioni alienanti né dai fuochi di artificio della tecnica, ma vada spietatamente al nocciolo della questione, rivelando all’uomo tutta intera la sua esistenziale miseria e proponendogli di cambiare (Biffi, Contro Mastro Ciliegia)

Compare per la prima volta il tema dell’imbestiamento; un tema che è fondamentale in questo libro, e quindi nella, comprensione dell’enigma umano.
Non è garantito all’uomo che resti se stesso; anzi gli è garantito un immancabile mutamento. Sotto un certo profilo, la natura umana come è data all’inizio è solo una piattaforma di partenza, una dotazione di valori perché il gioco cominci, una prima distribuzione di carte che renda possibile la partita.
La vita non è soltanto un cammino su strade diversamente scelte che portano a opposte mète. In questo pellegrinaggio non si cambia solo il paesaggio, si cambia progressivamente il pellegrino.
L’uomo è chiamato a essere soggetto e artefice di un destino che non resta esteriore, ma sboccia e cresce dentro di lui e trasforma - in un senso o nell’altro - l’intelligenza, la volontà, la sensibilità, la carne, le ossa, il sangue. Questo destino può essere di degradamento o di elevazione: l’uomo può imbestiarsi o divinizzarsi; la sola cosa che non gli è data, è quella che in genere preferirebbe: restare quello che è al principio della storia. Se lo potesse, smentirebbe la sua natura essenziale, che implica appunto di dover fabbricare il proprio essere definitivo con la successione delle libere scelte: l’uomo è un dover essere libero
 

(G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

Oh!, se potessi rinascere un’altra volta!...
Pinocchio non lo immagina, ma è anche questa una parola evangelica.
Di fronte al fallimento della sua vita e all’ammissione dolorosa di avere sbagliato tutte le scelte, il sospiro del burattino va al prodigio di una nuova nascita, la sola ipotesi che permetta di rimediare alla rovina di un’esistenza contaminata.
Con le «ragioni del cuore» - anche se è un cuore avvilito e senza speranza, o forse proprio per questo - Pinocchio intuisce che in una condizione tanto compromessa «se uno non rinasce dall’alto non può vedere il Regno di Dio» (Gv 3,3). Non serve l’impegno moralistico di migliorare o una più lucida conoscenza delle cose o una rieducazione della psiche alterata o un rovesciamento delle strutture esteriori: occorre l’irruzione di una realtà diversa, che trasformi dalla radice il nostro essere, ci ri-crei e ci consenta di ricominciare da capo (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)


Pinocchio esce di prigione, accettando i valori culturali prevalenti e facendo l’autocritica: "Sono un malandrino anch’io". Tra tutte le sue disavventure, questa è la più avvilente. Tra il pentimento e l’autocritica c’è un abisso: nel pentimento l’uomo è conquistato dalla forza della verità, della giustizia, della bellezza, che interiormente gli si rivela e, conformandolo all’ideale, penosamente lo conforma anche a se stesso e alla sua vera natura; nell’autocritica l’uomo cede alle dottrine imposte dall’esterno, si adegua agli schemi convenzionali, e, per assimilarsi all’ambiente, si deforma. Nel pentimento l’uomo si arrende a Dio e ridiventa uomo; con l’autocritica l’uomo si arrende all’uomo e si disumana (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

 Senza un giudizio assoluto - del quale quaggiù incontriamo solo pallide e alterate anticipazioni - la nostra vita è mutilata. E senza la prospettiva di questo giudizio, gli atti sono insignificanti e senza sapore, come un gioco d’azzardo giocato senza soldi.
«Dies illa»: noi paventiamo quel giorno. Ma ancor più paventiamo l’eventualità che quel giorno non ci sia e tutto nell’esistenza resti indifferente e vano. Senza il giudizio, non c’è fin d’ora possibilità di misura: che cosa è grande, che cosa è piccolo? che cosa è vero, che cosa è falso? che cosa è giusto, che cosa è ingiusto? Una cosa sola è più temibile di un giudizio definitivo: l’assenza di un giudizio definitivo (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)


 Chi, vittima dei soprusi dei contemporanei, si appella al «tribunale della storia», si appella a una chimera. La storiografia è un compito che i vincitori non spartiscono con nessuno. Non è detto che gli storici siano sempre faziosi, ma sempre lavorano immersi in una società e in una cultura che tirannicamente li condizionano, e molto di rado sono in grado di riprodurre i termini esatti delle questioni del passato. È vero che il presente è figlio del passato, ma è anche vero purtroppo che, sul piano della ricostruzione storica, il passato è figlio del presente e si adegua sempre ai desideri del potere imperante. Forse dalla storia possono essere denunciate le piccole iniquità, gli imbrogli maldestri e le prepotenze di poco conto; ma se la frode è stata compiuta a regola d’arte e se la violenza è stata totale, nessuna rivendicazione è sperabile se non presso un tribunale ultramondano (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

 L’uomo, se parte - giustamente - con la convinzione della razionalità delle cose, ma tenta di dare da solo una spiegazione totale all’enigma dell’ esistenza, approda infine all’assurdità: la ragione, se si rinchiude in se stessa, arriva al suicidio.
Egli baratta la sana e primordiale certezza che debba esistere un Autore dell’universo con l’apparente scientificità e la reale complicazione di panteismi civettuoli o di ateismi desolati: quanto impegno per convincersi di essere orfani! (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)
 


Naturalmente i sacramenti - l’olio e il vino onde lo Straniero, disceso dall’alto della sua cavalcatura, cura oggi misericordiosamente le ferite del malcapitato languente sul ciglio della strada - non serviranno più quando saremo con lui, nella sua patria che sarà diventata la nostra: l’epoca sacramentale - cioè l’epoca della divina ricchezza posseduta nella povertà delle parole e dei segni - cesserà quando la comunione sarà piena e svelata; e ogni nostra piaga sarà rimarginata per sempre (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)

 Ma il «principio sacramentale», che piace poco a noi, piace molto a colui che unico ci può salvare, forse perché è conforme al suo vivo senso dell’umorismo. Egli probabilmente si diverte a vedere che per avere il cuore trasformato uno non debba soltanto dibattere i suoi problemi entro il tribunale dell’anima, ma anche farsi lavare la testa nel battesimo e farsi ungere nella confermazione, così come si compiace di assegnare un uomo come capo e salvatore degli angeli.
Certo il «principio sacramentale» può essere travisato fino a dare origine a una concezione magica, che asservirebbe l’uomo alle cose, ai gesti, alle formule. Ma tra la magìa e il sacramento la differenza è assoluta: nella magia l’uomo cerca di piegare la divinità al proprio volere con mezzi assurdamente sproporzionati; nel sacramento l’uomo cerca di piegare la sua volontà individualista e orgogliosa fino a farla entrare nell’allegro gioco di Dio, che ha deciso di elevare le creature più umili alla dignità di strumenti salvifici per la creatura più alta (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)


 L’uomo che sa rovinarsi da sé, da sé non arriva a salvarsi...
Il Grillo parlante non basta, ci vuole anche la Fata.
La Fata, che pure ha convocato il Grillo al letto del burattino morente, a un certo momento lo trascende e interviene dirett
amente, somministrando il farmaco risanatore. Una Fata che si è dimostrata capace di operare i più strabilianti prodigi, che bisogno aveva di ricorrere a una medicina? Non poteva guarire Pinocchio con la carezza della sua mano o il suono della voce o anche con la decisione invisibile della volontà? Ragionando in astratto, pensiamo che lo potesse. Eppure la Fata non rinuncia all’uso di un rimedio così modesto e casalingo come quello delle misteriose polverine con le quali saggi e occhialuti farmacisti hanno difeso dalle febbri la nostra infanzia, prima che i loro reconditi laboratori diventassero magazzini di scatolette sigillate e perdessero così tutto il fascino dell’arcano. Anche Gesù, per guarire il cieco nato, fa con la saliva un po’ di fango da spalmare sugli occhi. È il «principio sacramentale», per il quale l’azione vivificante che il Padre compie con la mediazione di Cristo, nel Regno dello Spirito che è la Chiesa, passa attraverso le realtà più comuni e più semplici dell’universo, e a noi, che ci riteniamo i giudici di ogni essere, è chiesto di inchinarci a ricevere la vita divina e la salvezza dall’acqua, dall’olio, dal pane, dal vino. (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia)
 


Chiamati dalla Fata, arrivano al capezzale di Pinocchio i medici più famosi del vicinato. I primi due, il Corvo e la Civetta, sono autorevoli, enfatici, in opposizione tra loro e inconcludenti. In essi l’autore raffigura un po’ malignamente la scienza e la sua incapacità di guarire i veri mali dell’uomo. In quanto è da essa esplorato e oggettivato, l’uomo appare qualcosa di meccanico e di scomponibile. Sotto la sua luce curiosa, il mistero dell’uomo scompare, ma scompare anche l’uomo: è analizzato in tutte le fibre e in tutti i processi biologici e psicologici, e così è assimilato a un pupazzo che viene con perspicacia e abilità smontato e rimontato.
La scienza arriva a conoscere tutto, ma perché debba esistere il pupazzo e chi sia chiamato a divertire, questo non le riesce di saperlo. Aggiusta tutto, avvalora tutto, ma la «malattia dell’esistenza» - dell’ esistenza in quanto evento sprovvisto di significazione - sotto le cure della scienza non fa che aggravarsi. In questo senso, la scienza, che può essere esaltata come la più spettacolare vittoria dell’uomo sulle cose, diventa la sua più amara sconfitta. Il terzo medico, il Grillo, non interviene nella dotta disputa dei colleghi; la sua diagnosi non è omogenea con quelle finora ascoltate, la sua terapia non ha niente in comune. La speranza dell’uomo comincia dalla severità di una coscienza che non si lasci incantare né dal multiloquio delle questioni alienanti né dai fuochi di artificio della tecnica, ma vada spietatamente al nocciolo della questione, rivelando all’uomo tutta intera la sua esistenziale miseria e proponendogli di cambiare (Biffi, Contro Mastro Ciliegia)


 La Chiesa diventa essa stessa comprincipio di rinnovazione; umanità salvata e santificata, si fa, in quanto è unita al Salvatore, salvatrice e santificante. Diviene quindi feconda nella misura in cui è sponsalmente congiunta: madre dei nuovi viventi, perché sposa del nuovo e più vero Adamo
 (Biffi, Contro Mastro Ciliegia)

Lidia Macchi è molto più dell’”omicidio della ragazza scout”. Così raccontò in una lettera l’incontro con «uno che si chiama don Giussani»

Lidia Macchi è molto più dell’”omicidio della ragazza scout”. Così raccontò in una lettera l’incontro con «uno che si chiama don Giussani» 

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luglio 29, 2014 Lidia Macchi

Il mistero del nostro esserci, le domande censurate, la forza segreta di quel sacerdote che «parlava di me» in un’aula della Cattolica. «Voglio uscire dalla foresta»


Lidia Macchi, studentessa universitaria varesina attiva nei boy scout e militante di Comunione e Liberazione, venne ritrovata uccisa con 29 coltellate il 7 gennaio 1987 in una radura nei pressi dell’ospedale di Cittiglio, Varese, dove era andata a trovare un’amica. Aveva 21 anni. Lo scorso venerdì 25 luglio, dopo 27 anni che il caso giaceva insoluto presso la procura di Varese e avendolo avocato a sé soltanto otto mesi orsono, il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda ha depositato presso la Corte d’Appello del capoluogo lombardo l’avviso della conclusione delle indagini e una richiesta di archiviazione della posizione di un sacerdote che il pm di Varese Agostino Abate non aveva mai ufficialmente espunto dall’albo degli indagati (vedi per esempio la cronaca dell’Ansa).
Qui di seguito riportiamo la lettera in cui Lidia confida a un’amica la circostanza del suo primissimo incontro con don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. La lettera, risalente agli anni in cui Lidia è già iscritta e frequenta l’Università statale di Milano, proviene dall’archivio personale del direttore di
Tempi e all’epoca fu trascritta e fatta circolare dai ciellini in forma di ciclostilato.

lidia-macchiCarissima Mara,
abbiamo appena appeso il telefono ed io mi sono con amarezza resa conto che in fondo ti ho raccontato solo le cose più banali della mia vita di adesso. A me sta capitando una cosa straordinaria e un po’ confusa ma veramente grande; è come se in me adesso ribollissero con chiarezza un sacco di domande e di desideri sulla vita. Il desiderio d’essere felice, d’essere libera, cioè di trattare con libertà, senza essere schiacciata od appesantita da tutte le circostanze della vita, il desiderio di amare con profondità le persone che mi sono care, gli amici; il desiderio di costruire anch’io un pezzetto di storia perché altrimenti la storia ce la fanno gli altri sulla nostra testa e noi viviamo la nostra vita completamente indifferenti a ciò che accade fuori dal nostro cantuccio, che per quanto comodo è pur sempre meschino e determinato da piccole stupidaggini ed angherie quotidiane.
Ecco è come se la mia incoscienza, il fare sempre solo ciò che istintivamente mi salta in mente, mi avesse profondamente annoiato con la sua stupidità e superficialità. Mai come adesso la vita mi sembra profonda e grande e soprattutto misteriosa.
È proprio un mistero grandissimo che io ci sia, esista, che sia un fragile puntolino su questo pianeta che ruota con leggi straordinariamente perfette intorno al sole, ed il sole non è che un microbo nell’immensità spaziale e temporale del cosmo.
Ma cavoli, basta sollevare gli occhi al cielo di notte per intuire che la vita di tutto questo universo è un mistero grandioso e noi che siamo uomini e abbiamo e possiamo avere la coscienza di ciò, sprechiamo il nostro tempo afflitti da piccole banalità e da piccoli dolori, senza chiederci – perché ci fa troppa paura ascoltarci per un attimo, ascoltare quella voce che parla in noi, che grida che la vita non può non avere un senso – senza chiederci perché ci siamo, perché siamo fatti così uno diverso dall’altro, eppure al fondo, tutti con lo stesso desiderio.
don_giussani-jpg-crop_displayDio mio, ma perché se queste domande e desideri ci sono noi ci rassegniamo, viviamo in fondo disperati cioè non attendendoci niente dal domani, chiudendoci in una gabbia che diventa la nostra tomba al limite concedendoci qualche ricordo nostalgico dei bei tempi? Ma quali tempi! È inutile piagnucolare, siamo noi che per primi abbiamo presuntuosamente rinunciato ad essere seri, a prendere in considerazione tutti i grandi desideri che si agitano in noi, perché ci fa comodo piagnucolare, stare nel nostro brodo, fare dei piccoli e miseri peccatucci per credere che se almeno non siamo santi, beh, un po’ cattivelli però lo siamo; invece i nostri peccati fanno ridere i polli, consistono al massimo nella sensualità, in trasgressioni che in realtà fanno tutti, sono alla portata di tutti, perché in fondo siamo solo dei mediocri. Magari si incontrasse qualche grande peccatore profondamente abbagliato dal male!
E quand’anche io sappia tutto, come funziona l’universo intero, e come faccio a respirare, a camminare, a mangiare, chi si sogna per un attimo di ascoltarti quando ti chiedi chi sei, che cosa ci fai sulla faccia di questa terra? Di queste domande hanno tutti paura e nessuno ne parla… Ma perché oggi ci sei, domani muori, e buonanotte…
Buonanotte un corno! Io ci sono, le domande ci sono e voglio sapere, fossi anche l’unica con questo desiderio, in questo mondo superficiale – perché vuole essere tale – urlerò fino a squarciagola, finché morirò, quello che io sento.
Un mese fa mi è capitato, quasi per caso, di andare alla Cattolica con dei miei amici di Varese e di ascoltare uno che si chiama don Giussani, che faceva una lezione di teologia o morale, qualcosa del genere, perché questi esami lì sono obbligatori, e al posto di parlare dei santi e tutto il resto, parlava proprio di queste domande, con un entusiasmo ed una forza che mi hanno molto colpito e spiegava tutti i procedimenti tecnici e pratici che gli uomini escogitano per non starle ad ascoltare, per fare come se non ci fossero o non fossero importanti. Mi sembrava che parlasse proprio di me e ritrovavo tutti i nostri comportamenti abituali spiegati così chiaramente.
Io ero andata lì quasi per caso perché queste persone di Varese e altre di Milano che lo conoscono, mi avevano invitato ed io sono andata lì pensando di ascoltare le solite cose, e invece no.
È strano perché più delle sue parole, mi ha colpito lui, il suo sguardo profondo e attento, qualcosa di inafferrabile, un uomo libero, aperto, non arrabbiato o irato con la vita. Non so dirti niente di più preciso ma è come se custodisse un segreto, una forza non sua.

Io sento che devo parlargli, che lui non ha calpestato le domande che si agitano dentro di me, avrei molte cose da chiedergli, in un modo o nell’altro devo incontrarlo ancora.
Adesso non mi sembra più di essere sola alla ricerca disperata di qualcosa di cui tutti se ne fregano; è come se qualcuno, facendomi sobbalzare, perché è arrivato inaspettatamente, mi avesse detto: “Ehi, sono qui, non urlare e non disperarti, perché seguendo questa strada usciremo dalla foresta”.

E io voglio uscire dalla foresta, perché la vita è mare, cielo, monti e pianure, case, alberi, volti umani, stelle, sole e vento e noi siamo fatti per questo Infinito che c’è; basta solo guardarsi in giro e per questo seguire questo “Qualcuno” che mi è venuto incontro nel groviglio della foresta e che mi dice: “Guarda lassù tra le foglie, vedi, c’è un pezzettino di cielo blu, blu, usciamo a vederlo”

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Papa Francesco, dieci consigli per vivere meglio ***

Papa Francesco, dieci consigli per vivere meglio
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Lucia Capuzzi e Nello Scavo
Esiste la ricetta della felicità? Forse no, ma papa Francesco prova a sintetizzare in un decalogo alcuni principi che di sicuro possono aiutare le persone a vivere meglio. Ecco i dieci punti elencati nella prima intervista a un giornale argentino, il supplemento “Viva” di Clarín:

1) Vivi e lascia vivere
"A Roma c’è un detto e potremmo prender­lo come principio guida per spiegare tale formula. Vai avanti e lascia che gli altri facciano altrettanto”.

2) Datti agli altri
"Se uno si chiude corre il rischio di diventare egoista. E l’acqua stagnante fa in fretta a diventare putrida".

3) Muoviti con serenità
“La capacità di muoversi con benevolenza e umiltà sono la vera oasi di serenità per la vita. Gli anziani possiedono questa saggezza, sono la memoria del popolo”.

4) Gioca con i figli
“E’ difficile: i genitori vanno a lavorare presto, a volte quando escono di casa i bambini ancora dormono. E’ difficile ma si deve fare”. “Il consumismo ci ha fatto perdere la sana cultura dell’ozio, della lettura, del guardare un’opera d’arte”.

5) Trascorri la domenica in famiglia
“L’altro giorno, a Campobasso, sono andato a una riunione tra il mondo universitario e il mondo operaio: tutti reclamavano la domenica non lavorativa. La domenica è per la famiglia”.

6) Aiutiamo i giovani a trovare un lavoro
“Dobbiamo essere creativi in tale questione. Se non trovano opportunità cadono nella droga”.
7) Rispetta la natura “Si deve rispettare il creato e non lo stiamo facendo”.

8) Scordati rapidamente delle cose negative
“La necessità di parlar male degli altri indica una bassa autostima. Come dire: mi sento così in basso che, invece di tentare di elevarmi, cerco di abbassare l’altro.

9) Rispetta chi la pensa in modo differente
“Il proselitismo religioso è la cosa peggiore che ci sia: paralizza. “Parlo con te, per convincerti”, no. Ciascuno dialoga in base alla sua prospettiva. La Chiesa cresce per attrazione, non per proselitismo”.

10) Cerca attivamente la pace
“La pace, a volte, si confonde con la quiete. In realtà, però, non è mai quiete: è sempre una pace attiva.

domenica 27 luglio 2014

La famiglia: priorità e specificità. Intervento di Fabrice Hadjadj al “Forum della Famiglia” [“Grenelle de la Famille”] -

La famiglia: priorità e specificità. Intervento di Fabrice Hadjadj al “Forum della Famiglia” [“Grenelle de la Famille”] - Parigi, 8 marzo 2014

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Tra le iniziative seguite a “La Manif pour Tous”, che sta portando una vasta azione di contrasto alle politiche francesi antiumane, è da menzionare il “Grenelle de la Famille” (“Forum della Famiglia”). Dal sito - http://www.lamanifpourtous.fr/grenelledelafamille/ - si legge che il Forum ha «l’obiettivo di preparare una legge-quadro sulla famiglia, che costituirà un’alternativa al progetto di legge previsto da parte del governo per la fine dell’anno». Esperti e persone di buona volontà produrranno una sintesi sull’argomento, allo scopo di «definire un nucleo di valori comuni non negoziabili e riferiti alla famiglia».
Tali principi saranno resi noti agli elettori e, «parallelamente, un’equipe di giuristi redigerà, a partire dai principi confermati, un progetto di legge quadro sulla famiglia, che sarà sostenuto da un gruppo di deputati».
Il giorno 8 marzo, a Parigi, presso il Palais de la Mutualité, si è riunito il primo Grenelle. Tra le molte voci autorevoli è da menzionare quella del filosofo Fabrice Hadjadj, ebreo convertitosi nel 1998 al cristianesimo, che ha concluso i lavori con un’acuta conferenza sulle basi metafisiche della famiglia. Qua in basso è riportata la traduzione integrale dell’intervento.

“Che cos’è una famiglia?”
di Fabrice Hadjadj

1. Cos’è una famiglia? È sorprendente che noi siamo qui, insieme, per porre tale questione e alcuni sono tenuti a credere che il nostro approccio non potrà che condurre sia alla ripetizione di cose banali, sia alla complicazione delle cose semplici. Ma non abbiamo altra possibilità, dopo una simile domanda, che di sfondare delle porte aperte o di tagliare i capelli in quattro. E allo stesso tempo, si suppone, le prime evidenze si nascondono sempre nella loro luce. Essa non è come il naso sulla mia faccia, troppo vicino per essere visto; né come il paesaggio cento volte attraversato, così ben noto che svanisce. Ma è, soprattutto, come una sorgente che rischiara e fonda le altre cose, ma che non può, d’altro canto, essere fondata e schiarita da se stessa. Dinnanzi a questa sorgente siamo come dei sonnambuli che vorrebbero guardare il sole in faccia.
Noi tutti proveniamo da una famiglia, siamo tutti riconosciuti da un cognome, abbiamo tutti una certa famiglia d’origine. La famiglia è un fondamento. Ora, se essa è un fondamento, non sapremmo «fondare la famiglia». Se essa si pone al principio delle nostre vite concrete, diviene impossibile giustificarla o esplicarla, perché bisognerebbe richiamare un principio anteriore - e la famiglia non sarebbe più che una realtà secondaria e derivata, non una matrice. I teorici che vorrebbero che la prima comunità umana fosse istituita da un contratto, ratificato tra individui asessuati e solitari, dichiarano essi stessi che si tratta di una finzione, di una ipotesi di lavoro e non di una realtà [1]. Non esiste, a livello umano, un principio anteriore alla famiglia. Non si può dunque esplicarlo o giustificarlo, ma solamente esplicitarne la presenza, che ci sta sempre di fronte.
Ed è per questo che è così difficile contrastare coloro i quali attaccano la famiglia nella sua evidenza. Sostenere che l’uomo discende dalla scimmia è più facile che sostenere che un bambino discende da un uomo e da una donna poiché, nel primo caso, la tesi reclama effettivamente delle spiegazioni (numerose anche), mentre nel secondo non c’è niente da spiegare: non è nemmeno una teoria, ma un dato assolutamente originale, come l’esistenza del mondo esterno. E come provare che il mondo esterno esiste? Come mostrare a qualcuno che il sole è chiaro?
2. E tuttavia il sole svela i colori e quindi, indirettamente, si manifesta. E la famiglia, di cui dobbiamo parlare, rivela e si svela. Dov’è una contesa, questa si rivela. Essa non si rivela che sulle strade, in noi, nelle nostre braghe. Oso dire, piaccia o no, che essa si rivela bene tanto alla Chiesa, che in una serata Lgbt; tanto per la barba di un frate cappuccino, che di una Femen. Dovrebbe essere un angelo colui al quale essa non si manifestasse più.
Tale manifestazione è così convincente che noi assistiamo, negli ultimi decenni, a uno strano ritorno dell’avversione familiare da parte degli stessi che volevano sbarazzarsi della famiglia. Coloro i quali denunciavano la famiglia come l’istituzione repressiva e oppressiva per definizione, vogliono oggi fare del bambino il prodotto di una manipolazione genetica (giacché l’uguaglianza reclama che due femmine o due maschi possano comunque averne, con i propri gameti). Tutto questo è andato ben al di là dell’oppressione o della repressione, poiché ciò significa correre verso una fabbricazione pura e semplice e fare del bambino, dispoticamente, l’oggetto d’una pianificazione, il compimento d’un’astrazione e, più ancora, una cavia da laboratorio. Questa contraddizione prova che non si può decostruire il naturale, ma soltanto costruirne accanto il simulacro, così come si fabbrica un’intelligenza artificiale da quel poco che abbiamo capito dell’intelligenza umana.
3. Cos’è dunque una famiglia? I più ben intenzionati insistono su alcuni elementi definitori. Io ne ricorderei tre:
1) La famiglia è, innanzi tutto, il luogo del primo amore. È fondamentale che i genitori s’amino e che il bambino sia amato: altrimenti la famiglia non potrà che disseccarsi e decomporsi.

2) La famiglia è il luogo della prima educazione. Il bambino vi nasce a partire da un progetto genitoriale responsabile, dove si guarda al suo suo futuro, alla sua edificazione, alla sua qualificazione con la maggiore competenza raggiungibile.

3) La famiglia umana è anche un luogo di rispetto delle libertà. I genitori si sono uniti per un contratto e, attraverso la loro missione educativa, essi contribuiscono non a rinforzare la dipendenza, ma a promuovere l’autonomia del bambino.
Noi insistiamo spesso su queste caratteristiche, poiché badiamo al bene del bambino. Ma così facendo ci perdiamo l’essenza della famiglia sicché, anche se pensiamo di difenderla, affiliamo invece le armi che permettono d’attaccarla. Preoccupandosi troppo del benessere del bambino, ci si dimentica dell’essere del bambino. Attardandosi troppo sui doveri dei genitori, ci si dimentica dell’essere del padre e della madre. Gli elementi che abbiamo da proporre - amore, educazione, libertà - dicono tutto fuorché l’essenziale: sapere che i genitori sono i genitori e il bambino è il loro bambino.
4. Ed ecco la conseguenza fatale: pretendendo di fondare la famiglia perfetta sull’amore, sull’educazione e sulla libertà, quello che si fonda, in verità, non è la perfezione della famiglia, ma l’eccellenza dell’orfanatrofio. Non v’è dubbio: in un orfanatrofio eccellente si amano i bambini, li si educano e si rispettano le loro persone. Vi è anche un qualche tipo di pienezza del progetto genitoriale, poiché prendersi cura dei bambini è il progetto costitutivo di una tale impresa.
Non considerare la famiglia che a partire dall’amore, dall’educazione e dalla libertà, fondarla sul bene del bambino come individuo e non come bambino, e sui doveri dei genitori come educatori e non come genitori, significa proporre una famiglia già defamiglizzata. Perché vi si potrà sempre dire che un padre e una madre possono essere meno amorevoli, meno competenti e meno rispettosi che due maschi o due femmine, e certamente meno efficaci che tutta un’organizzazione composta dei migliori specialisti. Questa organizzazione d’individui competenti potrà passare per la migliore delle famiglie - e la migliore delle famiglie s’identificherà con il migliore degli orfanatrofi.
5. Perché abbiamo così facilmente perduto l’essenza della famiglia? Ma perché il principio della famiglia è troppo elementare, troppo infimo, troppo animale in apparenza; e dunque vergognoso (non si parla forse di «partito vergognoso»?). Voi avete compreso che il principio della famiglia è nel sesso. Sia quando si tratta di una famiglia adottiva, sia nel caso di una famiglia spirituale, o il padre è il padre abate e i fratelli sono i monaci: le alte e pure qualifiche di uso comune giungono primariamente dalla sessualità. I nomi del padre e dei figli si enunciano a partire da questo fondamento sensibile, che è la nostra fecondità carnale.
Ciò avviene poiché un uomo ha conosciuto una donna e dal loro abbraccio, per sovrabbondanza, sono nati dei bambini. Da cui i nomi di famiglia, del padre, della madre, dei figli, delle figlie, delle sorelle e dei fratelli. La parola «fraternità», che completa il motto repubblicano [«Liberté, Égalité, Fraternité», ndr], procede essa stessa dal sesso e dalla famiglia naturale. Quanto alla nota teoria del genere, che crede di poter affermare che la mascolinità e la femminilità non sono che delle costruzioni sociali, poggia anch’essa sulla differenza tra i sessi, senza cui l’idea stessa del maschile e del femminile non potrebbe concepirsi.
6. La famiglia è dunque il primo luogo dove si genera la differenza sessuale, la differenza generazionale e persino la differenza tra queste due differenze. La differenza tra i sessi, a partire dalla fecondità propria alla loro unione, crea la differenza generazionale, che non ha nulla d’analogo con quella sessuale. Il divieto fondamentale dell’incesto è un segnale, ma anche il fatto che quando l’uomo si unisce a sua moglie non cerca primariamente di avere un bambino: cerca prima di unirsi alla moglie e il bambino arriva, sopraggiunge.
La famiglia annoda così cinque tipi di legami: coniugale (dell’uomo e della donna), filiale (dai genitori ai figli), fraterno (tra i figli) - a cui s’aggiungono altri due, spesso ignorati, ma decisivi per inscrivere la famiglia storicamente e politicamente. Il quarto è il legame nonni-nipoti, che permette d’attenuare l’influenza dei genitori e d’aprire i tempi della famiglia rispetto alla tradizione [2]. C’è poi un quinto tipo di legame e cioè il rapporto con i suoceri: esso giunge a nascondere l’ideale di coppia, pur di non trascurare la suocera. Lo potremmo chiamare la «teoria del genere». Attraverso questo legame l’alleanza coniugale si accoppia a un’alleanza, per così dire, tribale e apre lo spazio della famiglia a quello della società.
Ora, la particolarità di questi legami familiari è che non si fondano primariamente su una decisione, ma su un desiderio. E non provengono da una convenzione preliminare, ma da un impulso naturale. Ovviamente, il desiderio dev’essere assunto nella decisione (o piuttosto nel consenso) e la natura si sviluppa attraverso aspetti convenzionali. Ma prima ci sarà qualcosa che scorre attraverso di noi, un dono che viene dall’altro e torna all’altro e, quindi, supera i nostri calcoli. Questo ci porta oltre noi stessi, oltre i nostri progetti individuali (chi può programmare di avere una suocera?), poiché ci si apre al sesso opposto e a un’altra generazione. Così siamo interessati a un’epoca che non è più la nostra.
7. Diciamolo semplicemente: nessun calcolo può avere per risultato una nascita. Nessuno può dirsi onestamente: “Ecco, io sono pronto, sono maturo abbastanza, abbastanza competente per avere un figlio; so perfettamente come diventare un uomo completo; ho il diritto sovrano di portarlo al mondo e di essere il suo padrone”. Come dunque potremmo avere il diritto d’allevare un bambino, quando siamo noi stessi così vili e non comprendiamo il mistero della vita?
Allora non si tratta di un diritto ma di un fatto. Il bambino sopraggiunge secondo un dono della natura, di cui non siamo mai degni realmente. Egli è il frutto di un amore sessuale e non il risultato di un proposito diretto, perché nessuna impudenza umana, tecnica o morale può legittimamente stare all’origine della propria venuta. Se la sua presenza rilevasse una nostra competenza, allora lo domineremmo assolutamente ed egli non sarebbe che un ingranaggio in un qualche dispositivo - una tappa in un percoso - e non l’avvenimento della vita, che comincia e ci oltrepassa sempre. Quando un bambino dice ai suoi genitori “non ho scelto io di nascere”, essi potrebbero rispondere: “nemmeno noi abbiamo scelto; ci sei stato donato e proveremo a cambiare la nostra sorpresa in gratitudine”.
8. Possiamo ora riprendere a parlare dei tre elementi di cui abbiamo parlato in precedenza - l’amore, l’educazione e la libertà - e vedere come questi si specificano in seno alla famiglia, a partire da questo dono che ci oltrepassa.
Prima specificità: l’amore familiare è essenzialmente un amore senza preferenze. Esso non guarda alla scelta né alla comparazione. Ciò è particolarmente vero per il rapporto tra genitori e figli. L’amore dei genitori e dei figli è fondato sulla filiazione medesima e non su delle affinità elettive. Ci si sente molto bene quando il padre è un lettore di Tito Livio, mentre il figlio si dedica ai videogiochi. Mai si sarebbero sognati di trovarsi in un medesimo ambiente. Mai avrebbero formato un club insieme. Ma la famiglia è il contrario di un club elettivo o selettivo. I legami di sangue vi spezzano le catene del partito così come le catenelle del capriccio.
Il bimbo è sempre così come i genitori non avrebbero mai voluto, ma anche come a loro piace e, quindi, sono disposti ad accettarlo incondizionatamente. E i genitori sono sempre ciò che i bambini vorrebbero dagli eroi dei films - Charles Ingalls, per esempio, o Yoda - ma anche quelli che essi amano, nonostante tutto, di quest’amore costitutivo, che precede la coscienza propria di se stessi. I genitori sono dunque coloro da onorare senza condizioni.
La famiglia è ancora l’amore del vecchio rudere e del giovane ottuso - ed è questo che la rende così meravigliosa e ne fa la scuola della carità. La carità è l’amore soprannaturale del prossimo, di colui che non abbiamo scelto o che ci è antipatico, in un primo momento. Tuttavia, i principali vicini - che non siamo stati noi a scegliere e che spesso ci sono insopportabili - sono proprio i nostri parenti.
9. Seconda specificità: nella famiglia, il legame educativo si fonda su di un’autorità senza competenza. Non si aspetta d’essere un buon padre o una buona madre per avere un figlio. In caso contrario, saremmo sempre in attesa. La paternità vi cade addosso, poiché il desiderio si è trasformato in una donna. Che rapporto c’è tra i due? La biologia vi vede una continuità. Ma la fenomenologia (diciamo la lettura dell’esperienza vissuta) mostra una sproporzione radicale, se non una rottura tra il desiderio erotico e l’accoglienza di un bambino. La paternità non è un’anticipazione. È la presenza del bambino che vi dona questa paternità: è lui che vi riveste all’improvviso come di un abito troppo grande.
Si può comprendere, nel caso, la reticenza di chi fabbrica il «migliore dei mondi possibili» [cf teodicea di G. Leibnitz, ndr]: “Come può avere il diritto di crescere un bambino chi si è semplicemente coricato con una donna? Come può concedere una qualunque competenza educativa la sua libido bestiale”? Tale riluttanza conduce fatalmente al regno dei precettori e dei pedagoghi e alla messa al bando dei genitori reali. Il padre è, allora, rimpiazzato dall’esperto e la famiglia dall’azienda professionale.
Ma, nella famiglia, non si tratta subito del progetto educativo, ma di realtà della filiazione. Non è la competenza che vi fonda l’autorità. È l’autorità ricevuta, nonostante le sue debolezze, che si mette alla ricerca di una certa competenza, senza dubbio, ma che possiede anche una propria efficienza, benché paradossale. L’autorità senza competenza ha un valore in se, inestimabile. Da una parte, il padre vi mostra che non è il Padre (con la maiuscola) e che lui stesso è un figlio - e dunque egli deve rivolgersi verso un’autorità più in alto della sua, assieme a suo figlio. D’altra parte, giacché la sua autorità non è solo una competenza, ma un dono, il padre non può fare del bambino la sua creatura, e cercare di formarlo sulla propria scala di valori: deve accoglierlo come un mistero. E in questo consiste l’autorità più profonda, che si distingue da tutte le competenze funzionali. Essa non istruisce il bambino in vista di tale o tale qualificazione particolare, ma gli manifesta il mistero dell’esistenza come dono ricevuto.
10. Infine, la terza specificità, che resta in linea con le precedenti: nella famiglia si esercita una libertà senza controllo. Questa, l’avevamo già visto, non è la libertà d’indipendenza o puramente decisionale, ma una libertà di consenso a ciò che viene donato. Il progetto genitoriale è rapidamente infranto per l’avventura familiare, poiché si tratta davvero di un’avventura e non di una previsione. Tutte le antiche tragedie attestano sempre la messa in scena di storie familiari. Ma c’è anche un fatto ordinario, che appartiene piuttosto alla commedia secondo Molière: i figli o la figlia non hanno padri e madri se non per separarsene, fondare un’altra famiglia e sposare un buon partito, che di solito non è il migliore agli occhi dei genitori.
La famiglia è sempre in eccesso su se stessa, non soltanto per il dono della nascita, ma anche per le alleanze esteriori che produce e verso le quali si dirige. C’è la vostra suocera e quella dei figli: c’è questa estensione, da parente a parente che, secondo Aristotele, costituisce il villaggio e poi la Città.
Questa libertà senza controllo, che vi lancia in un’avventura e, allo stesso tempo, in un dramma, risponde a dei legami che non sono contrattuali. Sarebbe bello non vivere che di contratti e poter aggiustare i rapporti secondo convenienza, e fuggire non appena si avverte la crisi. In alternativa, è possibile cambiare partner, ma non si possono sostituire i bambini. E si può diventare amici di uno più vecchio, ma non si può, senza ipocrisia, diventare amici del proprio padre. Così come la differenza sessuale impedisce la fusione, anche la differenza generazionale blocca il livellamento. Il tutto avviene secondo un ordine causale, con una gerarchia offerta: un patrimonio ereditato, che invita la libertà ad aprirsi alle distinzioni della realtà e non a sprofondare nell’indifferenziazione di una presunta onnipotenza.
11. Possiamo ora approcciare la famiglia nel segreto della sua essenza. Essa non è una cosa tra le altre, ma il focolare. E non un “focolare chiuso”, ma un focolare radiante. Un focolare, pittoricamente, non è un oggetto che appare in una prospettiva, ma il punto dal quale si genera la prospettiva. Un focolare è anche un fuoco, cioè luce e calore e, quindi, un qualcosa non illuminato da qualcos’altro, ma da se stesso e a se stesso manifestato. Voglio dire che la famiglia, prima di essere un oggetto di pensiero, è ciò a partire da cui abbiamo iniziato a pensare. Lo si dimentica spesso, come ci si dimentica il sole, come non fosse chiaro ciò per cui siamo spinti in avanti. Da questo oblio e dalla finzione individualista che ne segue, noi abbiamo la tendenza a dissociare la logica da ciò che è genealogico. Noi poniamo l’uomo come individuo dotato di ragione e rifiutiamo di riconoscerlo come figlio dei suoi padri. Tuttavia è entrambe le cose. La tradizione cristiana ce lo ricorda divinamente. Per essa, il Logos è il nome greco della ragione, ma è pure il nome evangelico del Figlio.
Che cos’è dunque una famiglia? Si può supporlo da ciò che abbiamo detto: la famiglia è il fondamento carnale dell’apertura alla trascendenza. La differenza sessuale, generazionale e la differenza di entrambe c’insegna a guardare l’altro in quanto altro. È il luogo del dono e dell’accoglimento incalcolabile di una vita che si dispiega con noi - e anche malgrado noi - e ci getta sempre più profondamente nel mistero dell’esistenza.
12. È questo il primo luogo dell’esistenza, che è anche il luogo della resistenza. Resistenza all’ideologia, ai ben pensanti, alla programmazione. La famiglia è la comunità originale, offerta inizialmente dalla natura e non istituita soltanto per convenzione. Essa dunque dona sempre, per la sua connessione al sesso, un contrappunto all’artifizio e fornisce uno spazio per quella che può essere definita una verifica.
L’uomo pubblico può coltivare la sua immagine di facciata e mostrare il suo più bel profilo sociale, ma qual è il suo volto in privato, davanti alla moglie e ai figli? Il grande Ercole, che ha vinto i mostri, si ritrova patetico dinnanzi a Deianira. Il giovane genio, che ostenta sicurezza, si vergogna a farsi vedere con sua madre e suo padre, che ne attestano l’origine comune. La volontà di potenza è sempre un ostacolo alla prossimità familiare. Questo perché il totalitarismo, così come il liberalismo e l’impresa tecnologica, così come il fondamentalismo religioso, cominciano sempre con il porre la famiglia sotto tutela, prima di tentare di distruggerla.

Note
[1] Rousseau scrive nell’introduzione del suo “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” (1754): «Cominciamo dunque col respingere tutti i fatti». Ma, all’inizio del “Contratto sociale” (I, 2), non può fare a meno di ammettere il fatto fondamentale: «La più antica di tutte le società e la sola naturale è quella della famiglia».
[2] Penso all’uso greco della papponimia: «Secondo un certo costume, il fatto che un uomo dia al figlio il nome del nonno [papponimia, appunto, ndr], conferma e suppone, ad un tempo, come tutti i genitori ritrovino i loro stessi genitori attraverso i figli. La permutazione simbolica implica come minimo la successione di tre generazioni per fabbricare l’istituto umano» (Pierre Legendre, “Filiation”, Lezione IV, Fayard, 1990, p. 62).
(traduzione dal francese a cura di Silvio Brachetta)

Matrimonio e comunione ai risposati. Spaemann: «La Chiesa non capitoli davanti al pensiero dominante»

Matrimonio e comunione ai risposati. Spaemann: «La Chiesa non capitoli davanti al pensiero dominante» 

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luglio 27, 2014 Robert Spaemann
Riportiamo la riflessione del grande filosofo cattolico pubblicata da First Things. La Chiesa resterà il sale della terra o cederà alle logiche di un mondo in cui il matrimonio vale “finché l’amore non finisce”?
matrimonioIl testo che segue è stato scritto da Robert Spaemann, professore emerito di Filosofia all’Università di Monaco, ed è apparso per la prima volta nel numero di agosto/settembre 2014 della rivista americana First Things.
Le statistiche del divorzio nelle società occidentali sono disastrose. Esse dimostrano che il matrimonio non è più considerato una realtà nuova e indipendente che trascende l’individualità degli sposi; una realtà, come minimo, che non può essere dissolta dalla volontà di uno solo di essi. Può invece essere sciolto dal consenso di entrambe le parti, o dalla volontà di un Sinodo oppure da un Papa? La risposta deve essere “no”, perché Cristo stesso ha dichiarato esplicitamente che l’uomo non può sciogliere ciò che Dio stesso ha unito. Questo è l’insegnamento della Chiesa cattolica.
La comprensione cristiana di ciò che è vita buona pretende di essere valida per tutti gli esseri umani. Tuttavia persino i discepoli di Gesù furono scioccati dalle parole del loro Maestro. «Allora non sarebbe meglio non sposarsi per nulla?», gli replicarono. Lo stupore dei discepoli sottolinea il contrasto fra il modo di vita cristiano e il modo di vita dominante nel mondo. Che lo voglia o no, la Chiesa in Occidente è sulla strada per diventare una controcultura, e il suo futuro ora dipende principalmente da una cosa: se sarà capace, in quanto sale della terra, di mantenere il suo sapore e di non essere calpestato dagli uomini.
robert-spaemannLa bellezza dell’insegnamento della Chiesa risplende solo quando non è annacquata. La tentazione di diluire la dottrina è rafforzata oggi da un fatto imbarazzante: i cattolici divorziano con la stessa frequenza dei non credenti. Qualcosa chiaramente non ha funzionato. È irragionevole pensare che tutti i cattolici divorziati e risposati abbiano iniziato i loro primi matrimoni fermamente convinti della loro indissolubilità e poi abbiano cambiato radicalmente idea nel corso del tempo. È più ragionevole presumere che si siano sposati anzitutto senza comprendere chiaramente cosa stavano facendo: bruciavano i ponti dietro di sé per sempre (cioè fino alla morte), cosicché l’idea stessa di un secondo matrimonio semplicemente non doveva esistere per loro.
Purtroppo la Chiesa cattolica non è senza colpa. I corsi di preparazione al matrimonio cristiano molto spesso non forniscono ai fidanzati un quadro chiaro delle implicazioni di un matrimonio cattolico. Se lo facessero, molte coppie probabilmente non deciderebbero di sposarsi in chiesa. Per altre, naturalmente, una buona preparazione al matrimonio fornirebbe un’utile spinta alla conversione. C’è un immenso fascino nell’idea che l’unione di un uomo e di una donna è “scritta nelle stelle”, che resiste per una forza dall’alto, e che nulla può distruggerlo, “nella buona e nella cattiva sorte”. Questa convinzione è una magnifica ed eccitante fonte di forza e di gioia per sposi che attraversano crisi matrimoniali e cercano di infondere nuova vita nel loro vecchio amore.
Invece di rafforzare il fascino naturale e intuitivo dell’indissolubilità matrimoniale, molti uomini di Chiesa, compresi vescovi e cardinali, preferiscono raccomandare, o almeno prendere in considerazione un’altra opzione, che è alternativa all’insegnamento di Gesù e che rappresenta fondamentalmente una capitolazione al pensiero dominante secolarista.
Il rimedio per l’adulterio implicito nelle seconde nozze dei divorziati, ci viene detto, non deve più essere la contrizione, la rinuncia e il perdono, ma il passare del tempo e l’abitudine, come se la generale accettazione sociale e il sentirci a nostro agio con le nostre decisioni e con le nostre vite avesse un potere quasi soprannaturale. Questa alchimia presumibilmente trasforma il concubinaggio adulterino che chiamiamo “secondo matrimonio” in un’unione accettabile che merita di essere benedetta dalla Chiesa nel nome di Dio. Se la logica è questa, non sarebbe men che giusto che la Chiesa benedicesse anche le unioni fra persone dello stesso sesso.
pupi-avati-un-matrimonio-3L’entropia si serve del tempo
Ma questo modo di pensare è basato su un profondo errore. Il tempo non è creativo. Il suo trascorrere non restaura la perduta innocenza. In realtà la sua tendenza è sempre esattamente l’opposto: ovvero, di produrre entropia. Ogni istanza di ordine in natura è strappata al dominio dell’entropia e col passare del tempo alla fine ricade in suo potere nuovamente. Come dice Anassimandro, «da ciò da cui per le cose è generazione, sorge anche la dissoluzione, secondo un tempo stabilito». Sarebbe sbagliato rietichettare il principio di decadimento e di morte come qualcosa di buono. Non dovremmo confondere il graduale smorzarsi del senso del peccato con la sua scomparsa e la liberazione dalla nostra perdurante responsabilità verso di esso.

Aristotele ha insegnato che c’è maggiore male in un peccato abituale che in una singola caduta accompagnata dal rimorso. L’adulterio è un tipico caso di questo tipo, soprattutto quando conduce a nuove disposizioni, legalmente sanzionate come il “secondo matrimonio”, che sono quasi impossibili da disfare senza grande sofferenza e sforzo. Tommaso d’Aquino utilizza il termine perplexitas per definire casi come questo. Ci sono situazioni dalle quali non c’è via d’uscita che non comporti una colpa di un qualche tipo. Anche un solo atto di infedeltà intrappola l’adultero nella perplessità: deve confessare ciò che ha fatto all’altro coniuge oppure no? Se lo confessa, potrebbe essere ciò che salva il matrimonio e comunque evita una bugia che alla fine distruggerebbe la fiducia reciproca.
D’altra parte, una confessione potrebbe rappresentare per il matrimonio una minaccia ancora più grande che il peccato stesso, ed è per questo che spesso i sacerdoti consigliano ai penitenti di non rivelare l’infedeltà ai loro coniugi. Si noti, a questo proposito, che san Tommaso insegna che non inciampiamo mai nella perplexitas senza un qualche grado di colpa personale e che Dio permette ciò come punizione per il peccato che all’inizio ci ha portati sulla strada sbagliata.
comunione ai malatiGiochi di prestigio sotto l’altare
Restare vicini ai nostri fratelli cristiani nel mezzo della perplexitas del secondo matrimonio, mostrare verso di loro empatia e assicurarli della solidarietà della comunità, è un’opera di misericordia. Ma ammetterli alla comunione senza contrizione e regolarizzare la loro situazione sarebbe un’offesa nei confronti del Santo Sacramento – una in più fra le tante che vengono compiute oggi.

Le istruzioni di Paolo riguardo all’Eucarestia nella prima Lettera ai Corinti culminano in una messa in guardia dal ricevere il corpo di Cristo senza esserne degni: «Chiunque mangia il pane e beve il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore». Perché fra tutte le feste i riformatori liturgici hanno tolto questi versetti decisivi proprio dalla seconda lettura della Messa del Giovedì Santo e del Corpus Domini? Quando in chiesa vediamo tutti i presenti alzarsi e andare a ricevere la comunione domenica dopo domenica, viene da chiedersi: le parrocchie cattoliche sono formate esclusivamente da santi?
C’è ancora un ultimo punto, che di diritto dovrebbe essere il primo. La Chiesa ammette di avere gestito lo scandalo degli abusi sessuali contro i minori senza sufficiente considerazione per le vittime. Nel caso del matrimonio si sta ripetendo lo stesso schema. Qualcuno ha mai parlato delle vittime? Qualcuno parla della donna lasciata dal marito insieme ai suoi quattro figli? Lei potrebbe volere che lui torni, se non altro per garantire il necessario ai figli, ma adesso lui ha una nuova famiglia e nessuna intenzione di tornare.
Intanto il tempo passa. E l’adultero vorrebbe di nuovo ricevere la comunione. È pronto a confessare la sua colpa, ma non vuole pagarne il prezzo – ovvero, una vita di continenza. La donna abbandonata è costretta a guardare mentre la Chiesa accetta e benedice la nuova unione. La beffa oltre al danno: il suo essere stata abbandonata riceve l’approvazione ecclesiastica. Sarebbe più onesto sostituire la formula “finché morte non vi separi” con una che dica “finché non finisce l’amore di uno dei due”: una formula che qualcuno già raccomanda seriamente. Parlare in questo caso di “liturgia di benedizione” piuttosto che di un secondo matrimonio davanti all’altare è un gioco di prestigio ingannevole che getta semplicemente polvere negli occhi della gente.

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