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domenica 28 giugno 2015

Famiglia. Caffarra: «Bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura della città»

Famiglia. Caffarra: «Bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura della città» 

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giugno 19, 2015 Luigi Amicone
«La manifestazione delle famiglie? È un’iniziativa da sostenere, non si può tacere». Intervista al cardinale di Bologna
Il cardinale di Bologna Carlo Caffarra in una foto d'archivio. NUCCI/BENVENUTI - ANSAQuesta intervista al cardinale Carlo Caffarra, tratta dal numero di Tempi in edicola, fa parte della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e della Fondazione Tempi (una proposta che si può sottoscrivere in questa pagina).
Siamo sulla strada. E ci tocca andare senza scodinzolare al primo che passa. E ci getta un osso. E ci vuole accarezzare mentre con l’altra mano gira lo spiedo di una vita umana. Come in un romanzo di Cormac McCarthy. Ci tocca spingere il carrello dentro la pace prenucleare (ma «la guerra avanza», ha ridetto a Sarajevo papa Francesco). «Siamo ancora noi i buoni?». «Sì, siamo ancora noi i buoni». «E portiamo il fuoco?». «Sì, portiamo il fuoco». Il fuoco sotto la cenere. Il fuoco sotto la grande Dissipatio HG di Guido Morselli. E di Maurizio Foglietti. «La vita non ha più senso», ha scritto prima di abbandonarsi a una corda. Il pilota Alitalia che da un attimo di notorietà è trascorso penzoloni in un garage. Povera umanità che tutti vanno a cercare in un momento di celebrità. E poi più nessuno.
Se tra le pietre della Legge il sangue dell’uomo dissecca. Se la verità di oggi è la stessa di ieri ma la Legge l’ha pietrificata. Dalla corrente fredda del nuovo mondo celebrato dai Ceo di Apple e dal Ceo Obama, emergono relitti fonico-visivi che ci tengono compagnia. E sono ciò che di più diretto ci rimanga dei “fratelli uomini”.
Se non ti ribelli alla misura che stabilisce il flusso dell’informazione luciferina che corre come criceto instancabile sulla ruota digitale. Se non ti gratti via la rogna della mimesis con le morte frasi fatte del potere. Se sei connivente con i relitti che parlano a vanvera. Non succede mai niente. A meno che tu abbia il coraggio dello scrittore Giorgio Ponte. «Se negli anni Cinquanta non avrei potuto dire di provare attrazione per persone del mio stesso sesso, non è ammissibile che oggi io debba avere paura di dire che per me la famiglia può essere formata solo da un uomo e da una donna». È così che siamo arrivati a sguainare spade per dimostrare che le foglie d’estate sono verdi.
Chesterton non avrebbe mai immaginato di aver avuto torto in tutto, tranne che nell’aver ragione. Passeranno le unioni gay. E tutto il resto. E saluteranno i funzionari del partito dell’amore seduti sulle tribune accanto alle loro Lady Gaga, marciando al passo dell’oca e nella borraccia il whiskey dell’epilogo giovanneo al referendum irlandese. «Same-sex marriage. Siamo la luce del mondo». Dunque, che resiste a fare al dublinese che è in ciascun europeo il buon Carlo Caffarra, eminenza, arcivescovo e cardinale di Santa Romana Chiesa nella città che già sfolgora di luce neoevangelica irlandese? Dove gli asili sono avanti nell’istruire le femminucce alle emozioni dei soldatini azzurri e i maschietti al gioco delle bamboline?
famiglia-manifestazione-roma-tempi-copertinaVivacità di occhi e di mente. Due anni fa Caffarra presentò a papa Francesco la sua rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Bologna per raggiunti limiti di età. Il Papa rispose per il tramite della Nunziatura apostolica in Italia che «è volontà del Santo Padre che continui ancora per due anni il suo ministero episcopale a Bologna». Ora, dopo essere stato dodici anni alla guida della diocesi, il cardinale è in procinto di lasciare Bologna. Ma che bella persona è questo ultrasettantenne che regge per gli ultimi giorni la cattedra di san Petronio. Sfida il sentimento del tempo con la profezia. E implora in cuor suo: «Fino a quando Signore?».
Dopo il voto del Parlamento europeo che raccomanda il riconoscimento delle unioni e dei matrimoni tra le persone dello stesso sesso (e il sottotesto è: avanti con l’implementazione dell’educazione al gender), siamo venuti a trovarlo. «Unioni gay e gender. Fossero teorie sarebbe più facile il dialogo», ci dice il cardinale. «Poiché le teorie sono ipotesi che non temono di sottoporsi alla prova di falsificazione. E invece sono ideologia. Dunque bramano solo imposizione e non voglio dialogare con chicchessia».
E dunque ci siamo. Dopo il referendum di Dublino e il voto del Parlamento di Strasburgo che raccomanda a tutti paesi dell’Unione l’istruzione di massa al gender e legislazioni matrimoniali gay friendly, viene il momento di allinearsi anche per l’Italia. “Fanalino di coda” dell’Europa, come dice il giornalismo giunto nella fase della sua automatizzazione e immissione nella catena di montaggio fordista. Come con la misericordia, per non essere forzata la scrittura deve rispettare la libertà. Abbiamo trovato Caffarra con un nucleo di pensieri già in canna. E perciò abbiamo schiacciato l’appunto vocale di iPhone e abbiamo lasciato che il cardinale svolgesse liberamente le sue riflessioni. Non abbiamo inventato domande per spezzare un testo che si tiene. Infine, anche i due quesiti dell’intervistatore seguono logicamente i pensieri del cardinale. Sentite qua.
Il tramonto di una civiltà
«Io ho fatto diversi pensieri a partire da quella mozione votata al Parlamento europeo. Il primo pensiero è questo: siamo alla fine. L’Europa sta morendo. E forse non ha neanche più voglia di vivere. Poiché non c’è stata civiltà che sia sopravvissuta alla nobilitazione dell’omosessualità. Non dico all’esercizio dell’omosessualità. Dico: alla nobilitazione della omosessualità. Faccio un inciso: qualcuno potrebbe osservare che nessuna civiltà si è mai spinta ad affermare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E invece bisogna ricordare che la nobilitazione è stata qualcosa di più del matrimonio. Presso vari popoli l’omosessualità era un atto sacro. Infatti l’aggettivo usato dal Levitico per giudicare la nobilitazione della omosessualità attraverso il rito sacro è: “abominevole”. Rivestiva carattere sacrale presso i templi e i riti pagani».

«Tanto è vero che le uniche due realtà civili, chiamiamole così, gli unici due popoli che hanno resistito lungo millenni – e in questo momento penso innanzitutto al popolo ebreo – sono stati quei due popoli che soli hanno condannato l’omosessualità: il popolo ebreo e il cristianesimo. Dove sono oggi gli assiri? Dove sono oggi i babilonesi? E il popolo ebreo era una tribù, sembrava una nullità al confronto di altre realtà politico-religiose. Ma la regolamentazione dell’esercizio della sessualità quale ad esempio noi troviamo nel libro del Levitico, è divenuta un fattore altissimo di civiltà. Questo è stato il mio primo pensiero. Siamo alla fine».
Satana contro le evidenze
«Secondo pensiero, di carattere prettamente di fede. Davanti a fatti di questo genere io mi chiedo sempre: ma come è possibile che nella mente dell’uomo si oscurino delle evidenze così originarie, come è possibile? E la risposta alla quale sono arrivato è la seguente: tutto questo è opera diabolica. In senso stretto. È l’ultima sfida che il satana lancia a Dio creatore, dicendogli: “Io ti faccio vedere che costruisco una creazione alternativa alla tua e vedrai che gli uomini diranno: si sta meglio così. Tu gli prometti libertà, io gli propongo la licenza. Tu gli doni l’amore, io gli offro emozioni. Tu vuoi la giustizia, io l’uguaglianza perfetta che annulla ogni differenza”».

«Apro una parentesi. Perché dico “creazione alternativa”? Perché se noi ritorniamo, come Gesù ci chiede, al Principio, al disegno originario, a come Dio ha pensato alla creazione, noi vediamo che questo grande edificio che è il creato, si regge su due colonne: il rapporto uomo-donna – la coppia – e il lavoro umano. Noi stiamo parlando adesso della prima colonna, ma anche la seconda si sta distruggendo. Vediamo, per esempio, con quanta difficoltà oggi si possa ancora parlare del primato del lavoro nei sistemi economici. Ma qui mi fermo perché non è il tema della nostra conversazione. Siamo dunque di fronte al tentativo diabolico di edificare una creazione alternativa, sfidando Dio nel senso che l’uomo finirà col pensare che si sta meglio in questa creazione alternativa. Si ricorda la Leggenda del Grande Inquisitore?».
«Fino a quando Signore?»
«Il terzo pensiero mi è venuto in forma di domanda: “Fino a quando Signore?”. E allora risuona sempre nel mio cuore la risposta che dà il Signore nell’Apocalisse. Nel libro si narra che ai piedi dell’altare celeste ci sono gli uccisi per la giustizia, i martiri, che dicono continuamente “fino a quando Signore non vendicherai il nostro sangue?” (cfr. Ap 6, 9-10). E così, mi viene da dire: fino a quando Signore non difenderai la tua creazione? Ed ancora la risposta dell’Apocalisse risuona dentro di me: “Fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni”. Che grande mistero è la pazienza di Dio! Penso alla ferita del Suo cuore, diventata visibile, storica, quando un soldato ha aperto il costato a Cristo. Perché di ogni cosa e creatura creata la Bibbia dice “e Dio vide che era cosa buona”. Infine, al culmine della creazione, dopo quella dell’uomo e della donna, “e Dio vide che tutto era molto buono”. La gioia del grande artista! Adesso questa grande opera d’arte è totalmente sfigurata. E lui è paziente e misericordioso. E dice, a chi gli domanda “fino a quando?”, di aspettare. “Fino a quando il numero degli eletti non è compiuto”».

La forza del Redentore
«Ed ecco l’ultimo pensiero. Un giorno, quando ero arcivescovo a Ferrara, mi trovavo in uno dei paesini più sperduti, nel delta del Po. Un posto che sembra la fine della Terra, in mezzo a una di quelle gincane che fa il grande fiume, che va un po’ dove vuole prima di andare in mare. Vi incontrai per motivo di catechesi un gruppo di pescatori, gente che letteralmente passa la maggior parte della sua vita in mare. Uno di loro mi fece questa domanda: “Lei pensi al mondo come a uno di quei vasi cilindrici in cui noi mettiamo i pesci appena pescati, ecco il mondo è questa specie di barile e noi siamo come pesci appena pescati. La domanda è: il fondo di questo barile come si chiama, che nome ha?”. Pensi, un pescatore che pone la domanda che è all’inizio di tutta la filosofia: come si chiama il fondo di tutte le cose? E allora io, molto colpito da questa domanda, gli risposi : “Non si chiama caso, il fondo; si chiama gratuità e tenerezza di uno che ci tiene tutti abbracciati”. In questi giorni ho ripensato alla domanda e alla risposta che diedi a quel vecchio pescatore perché mi chiedo: tutto questo tentativo di sfigurare e distruggere la creazione, ha una tale forza che alla fine vincerà? No. Io penso che c’è una forza più potente che è l’atto redentivo di Cristo, Redemptor Hominis Christus, Cristo redentore degli uomini».

Il compito dei pastori e degli sposi
«Ma faccio un’altra riflessione, suscitata proprio dai pensieri di questi giorni. Ma io, come pastore, come faccio ad aiutare la mia gente, il mio popolo, a custodire nella mente e nella coscienza morale, la visione originaria? Come faccio a impedire l’oscuramento dei cuori? Penso ai giovani, a chi ha ancora il coraggio di sposarsi, ai bambini. E allora penso a cosa si fa normalmente nel mondo comune quando si deve affrontare una pandemia. Gli organismi pubblici responsabili della salute dei cittadini cosa fanno? Agiscono sempre secondo due direttrici. La prima: intanto curano chi è malato e cercano di salvarlo. Seconda, non meno importante e, anzi, decisiva, cercano di capire perché e quali siano le cause della pandemia, in modo da elaborare una strategia di vittoria. Così adesso la pandemia è qui. E come pastore ho la responsabilità di guarire e di impedire che le persone si ammalino. Ma nello stesso tempo ho il grave dovere di avviare un processo, cioè un’azione di intervento che esigerà pazienza, impegno, tempo. E la lotta sarà sempre più dura. Tanto è vero che dico a volte ai miei sacerdoti: io sono sicuro che morirò nel mio letto. Sono meno sicuro per il mio successore. Probabilmente morirà alla Dozza (carcere di Bologna, ndr). Dunque, stiamo parlando di un processo lungo e che ci vedrà impegnati in un combattimento duro. Ma insomma, siamo chiamati a fare entrambe le cose: pronto intervento e lotta di lunga durata, una strategia d’urgenza e un lungo processo educativo».

«Ma chi sono gli attori di quest’ultimo, cioè di un’impresa per la quale occorrerà tempo e capacità di sacrificio? Sono fondamentalmente due, a mio avviso: i pastori della Chiesa, più precisamente i vescovi. E gli sposi cristiani. Per me questi saranno coloro che ricostruiranno le evidenze originarie nel cuore degli uomini».
«I pastori della Chiesa: perché loro esistono per questo. Hanno ricevuto una consacrazione finalizzata a questo, la potenza di Cristo è in loro. “Sono duemila anni che in Europa il vescovo costituisce uno dei gangli vitali, non soltanto della vita eterna, ma della civiltà” (G. De Luca). E una civiltà è anche l’umile, magnifica vita quotidiana del popolo generato dal Vangelo che il vescovo predica. E poi gli sposi. Perché il discorso razionale viene dopo la percezione di una bellezza, di un bene che tu vedi davanti agli occhi, il matrimonio cristiano».
E riguardo all’intervento di urgenza?
«Debbo confessare che io stesso mi trovo in difficoltà. E questo perché non raramente mi viene a mancare l’alleato che è il cuore umano. Penso alla situazione tra i giovani. Vengono e mi chiedono: “Perché dobbiamo impegnarci definitivamente, quando non si è neppure sicuri di arrivare a volersi bene fino a sera?”. Ora, di fronte a questa domanda io ho solo una risposta: raccogliti in te stesso e pensa a che esperienza hai fatto quando tu hai detto a una ragazza o a un ragazzo “ti voglio bene, ti voglio veramente bene”. Hai forse pensato nel tuo cuore: “Dono tutto me stesso a un’altra, ma solo per un quarto d’ora o al massimo fino a sera”? Questo non è nell’esperienza di un amore, che è dono. Questo è nella natura di un prestito, che è calcolo».

«Ora se riesci ancora a guidare la persona a questo ascolto interiore (Agostino), tu l’hai salvata. Perché il cuore non inganna. La grande tesi dogmatica della Chiesa cattolica: il peccato non ha corrotto radicalmente l’uomo. Questo la Chiesa l’ha sempre insegnato. L’uomo ha fatto dei disastri enormi, però l’immagine di Dio è rimasta. Io vedo oggi che i giovani sono sempre meno capaci di questo ritorno in se stessi. Lo stesso dramma di Agostino quando aveva la loro età. In fondo Agostino da che cosa fu commosso alla fine? Il vedere un vescovo, Ambrogio; il vedere una comunità che cantava con il cuore più che con le labbra la bellezza della creazione, Deus creator omnium, l’inno bellissimo di Ambrogio».
«Oggi questo è molto difficile con i ragazzi, però secondo me questo è l’intervento d’urgenza. Non ce n’è un altro. Se perdiamo questo alleato, che è il cuore umano – il cuore umano è l’alleato del Vangelo, perché il cuore umano è stato creato in Cristo in corrispondenza a Cristo –, se perdiamo dicevo questo alleato, io non vedo più strade».
«Un’ultima cosa vorrei dire. Più sono andato avanti nella mia vita, più ho scoperto l’importanza che hanno nella vita dell’uomo, in ordine ad una vita buona, le leggi civili. Ho capito quello che dice Eraclito: “Bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura della città”. Più sono invecchiato e più mi sono reso conto dell’importanza della legge nella vita di un popolo. Oggi sembra che lo Stato abbia abdicato al suo compito legislativo, abbia abdicato alla sua dignità, riducendosi a essere un nastro registratore dei desideri degli individui. Con il risultato che si sta creando una società di egoismi opposti, oppure di fragili convergenze di interessi contrari. Tacito dice: “Corruptissima re publica, plurimae leges”. Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto. Quando lo Stato è corrotto si moltiplicano le leggi. È la situazione di oggi».
«È un circolo vizioso perché da una parte le leggi sembrano appunto ridursi a nastro registratore di desideri. Questo inevitabilmente genera un sociale conflittuale, di lotta, di supremazia del più prepotente sul più debole, cioè la corruzione dell’idea stessa del bene comune, della res publica. Allora si cerca di rimediare con le leggi dimenticando che non ci saranno mai delle leggi così perfette da rendere inutile l’esercizio delle virtù. Non ci saranno mai. Qui, secondo me, noi pastori abbiamo una grande responsabilità, di aver permesso la irrilevanza culturale dei cattolici nella società. L’abbiamo permessa, quando non giustificata. Quando mai la Chiesa ha fatto questo? Quando mai i grandi pastori della Chiesa han fatto questo?».
Non ci resta che domandarle un pensiero sulla giornata del 20 giugno a Roma, dove cattolici e non cattolici manifesteranno perché venga mantenuto intatto a livello legislativo il principio che il matrimonio è tra un uomo e una donna e che il diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre, a essere educato e non manipolato con l’ideologia gender, va salvaguardato da ogni desiderio degli adulti e ogni istruzione di Stato.
«Non ho nessun dubbio nel dire che è una manifestazione positiva perché, come le dicevo, noi non possiamo tacere. Guai se il Signore ci rimproverasse con le parole del profeta: cani che non avete abbaiato. Lo sappiamo, nei sistemi democratici la deliberazione politica è presa secondo il sistema della maggioranza. E mi va bene perché le teste è meglio contarle che tagliarle. Però, di fronte a questi fatti non c’è maggioranza che mi possa far tacere. Altrimenti sarei un cane che non abbaia. Mi preme soprattutto, e ho molto apprezzato che quella giornata sia impostata su questo: la difesa dei bambini. Papa Francesco ha detto che il bambino non può essere trattato come una cavia. Si fanno degli esperimenti pseudo pedagogici sul bambino. Ma che diritto abbiamo di farlo? La cosa più tremenda, il logos più severo detto da Gesù, riguarda la difesa dei bambini».

«Quindi secondo me l’iniziativa romana è una cosa che andava assolutamente fatta. Il giorno dopo il Parlamento magari farà questa legge che riconoscerà le unioni tra persone dello stesso sesso. La faccia. Però sappia che è una cosa profondamente ingiusta. E questo glielo dobbiamo dire quel pomeriggio a Roma. Quando il Signore dice al profeta Ezechiele: “Tu richiama” e sembra che il profeta dica: “Sì, ma non mi ascoltano”. Tu richiama e sarà chi è da te richiamato responsabile, non tu, perché tu l’hai richiamato. Ma se tu non lo richiamassi, sei responsabile tu. Se noi tacessimo di fronte a una cosa così, noi saremmo corresponsabili di questa grave ingiustizia verso i bambini, che sono stati trasformati da soggetto di diritti come ogni persona umana, in oggetto dei desideri delle persone adulte. Siamo tornati al paganesimo, dove il bambino non aveva nessun diritto. Era solo un oggetto “a disposizione di”. Quindi, ripeto, secondo me è un’iniziativa da sostenere, non si può tacere».
Siamo di nuovo sulla strada. E camminando lungo il Corso verso la stazione di Bologna, tra la folla vestita di anarchia di immigrati, accattoni e fatica di cittadini italiani, penso che i vecchi sono vecchi. E va bene. Ma non so quanto sogno della giovinezza ci sia rimasto nelle nostra città, nei nostri templi di cultura e di educazione, di musica e di socializzazione, che l’astuzia interessata degli adulti non abbia spiato attentamente e sospinto in una omologazione menzognera. Forse uomini come Caffarra. Forse i bambini sulla strada. O l’assassino che mutò la reclusione in clausura (io ne conosco almeno un paio). Forse sono loro le Monica, gli Agostino, gli Ambrogio, il seme dei liberatori dell’oggi e del domani.
Foto Ansa

«Appari a me, Signore, perchè tutto è molto faticoso quando si perde il gusto di Dio».

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«Appari a me, Signore, perchè tutto è molto faticoso quando si perde il gusto di Dio». 
(Antoine de Saint-Exupéry)

Lidia Macchi è molto più dell'”omicidio della ragazza scout”. Così raccontò in una lettera l’incontro con «uno che si chiama don Giussani»


Lidia Macchi è molto più dell'”omicidio della ragazza scout”. Così raccontò in una lettera l’incontro con «uno che si chiama don Giussani» 
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luglio 29, 2014 Lidia Macchi
Il mistero del nostro esserci, le domande censurate, la forza segreta di quel sacerdote che «parlava di me» in un’aula della Cattolica. «Voglio uscire dalla foresta»
Lidia Macchi, studentessa universitaria varesina attiva nei boy scout e militante di Comunione e Liberazione, venne ritrovata uccisa con 29 coltellate il 7 gennaio 1987 in una radura nei pressi dell’ospedale di Cittiglio, Varese, dove era andata a trovare un’amica. Aveva 21 anni. Lo scorso venerdì 25 luglio, dopo 27 anni che il caso giaceva insoluto presso la procura di Varese e avendolo avocato a sé soltanto otto mesi orsono, il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda ha depositato presso la Corte d’Appello del capoluogo lombardo l’avviso della conclusione delle indagini e una richiesta di archiviazione della posizione di un sacerdote che il pm di Varese Agostino Abate non aveva mai ufficialmente espunto dall’albo degli indagati (vedi per esempio la cronaca dell’Ansa).
Qui di seguito riportiamo la lettera in cui Lidia confida a un’amica la circostanza del suo primissimo incontro con don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. La lettera, risalente agli anni in cui Lidia è già iscritta e frequenta l’Università statale di Milano, proviene dall’archivio personale del direttore di
Tempi e all’epoca fu trascritta e fatta circolare dai ciellini in forma di ciclostilato.


lidia-macchiCarissima Mara,
abbiamo appena appeso il telefono ed io mi sono con amarezza resa conto che in fondo ti ho raccontato solo le cose più banali della mia vita di adesso. A me sta capitando una cosa straordinaria e un po’ confusa ma veramente grande; è come se in me adesso ribollissero con chiarezza un sacco di domande e di desideri sulla vita. Il desiderio d’essere felice, d’essere libera, cioè di trattare con libertà, senza essere schiacciata od appesantita da tutte le circostanze della vita, il desiderio di amare con profondità le persone che mi sono care, gli amici; il desiderio di costruire anch’io un pezzetto di storia perché altrimenti la storia ce la fanno gli altri sulla nostra testa e noi viviamo la nostra vita completamente indifferenti a ciò che accade fuori dal nostro cantuccio, che per quanto comodo è pur sempre meschino e determinato da piccole stupidaggini ed angherie quotidiane.
Ecco è come se la mia incoscienza, il fare sempre solo ciò che istintivamente mi salta in mente, mi avesse profondamente annoiato con la sua stupidità e superficialità. Mai come adesso la vita mi sembra profonda e grande e soprattutto misteriosa.
È proprio un mistero grandissimo che io ci sia, esista, che sia un fragile puntolino su questo pianeta che ruota con leggi straordinariamente perfette intorno al sole, ed il sole non è che un microbo nell’immensità spaziale e temporale del cosmo.
Ma cavoli, basta sollevare gli occhi al cielo di notte per intuire che la vita di tutto questo universo è un mistero grandioso e noi che siamo uomini e abbiamo e possiamo avere la coscienza di ciò, sprechiamo il nostro tempo afflitti da piccole banalità e da piccoli dolori, senza chiederci – perché ci fa troppa paura ascoltarci per un attimo, ascoltare quella voce che parla in noi, che grida che la vita non può non avere un senso – senza chiederci perché ci siamo, perché siamo fatti così uno diverso dall’altro, eppure al fondo, tutti con lo stesso desiderio.
Dio mio, ma perché se queste domande e desideri ci sono noi ci rassegniamo, viviamo in fondo disperati cioè non attendendoci niente dal domani, chiudendoci in una gabbia che diventa la nostra tomba al limite concedendoci qualche ricordo nostalgico dei bei tempi? Ma quali tempi! È inutile piagnucolare, siamo noi che per primi abbiamo presuntuosamente rinunciato ad essere seri, a prendere in considerazione tutti i grandi desideri che si agitano in noi, perché ci fa comodo piagnucolare, stare nel nostro brodo, fare dei piccoli e miseri peccatucci per credere che se almeno non siamo santi, beh, un po’ cattivelli però lo siamo; invece i nostri peccati fanno ridere i polli, consistono al massimo nella sensualità, in trasgressioni che in realtà fanno tutti, sono alla portata di tutti, perché in fondo siamo solo dei mediocri. Magari si incontrasse qualche grande peccatore profondamente abbagliato dal male!
E quand’anche io sappia tutto, come funziona l’universo intero, e come faccio a respirare, a camminare, a mangiare, chi si sogna per un attimo di ascoltarti quando ti chiedi chi sei, che cosa ci fai sulla faccia di questa terra? Di queste domande hanno tutti paura e nessuno ne parla… Ma perché oggi ci sei, domani muori, e buonanotte…
Buonanotte un corno! Io ci sono, le domande ci sono e voglio sapere, fossi anche l’unica con questo desiderio, in questo mondo superficiale – perché vuole essere tale – urlerò fino a squarciagola, finché morirò, quello che io sento.
Un mese fa mi è capitato, quasi per caso, di andare alla Cattolica con dei miei amici di Varese e di ascoltare uno che si chiama don Giussani, che faceva una lezione di teologia o morale, qualcosa del genere, perché questi esami lì sono obbligatori, e al posto di parlare dei santi e tutto il resto, parlava proprio di queste domande, con un entusiasmo ed una forza che mi hanno molto colpito e spiegava tutti i procedimenti tecnici e pratici che gli uomini escogitano per non starle ad ascoltare, per fare come se non ci fossero o non fossero importanti. Mi sembrava che parlasse proprio di me e ritrovavo tutti i nostri comportamenti abituali spiegati così chiaramente.
Io ero andata lì quasi per caso perché queste persone di Varese e altre di Milano che lo conoscono, mi avevano invitato ed io sono andata lì pensando di ascoltare le solite cose, e invece no.
È strano perché più delle sue parole, mi ha colpito lui, il suo sguardo profondo e attento, qualcosa di inafferrabile, un uomo libero, aperto, non arrabbiato o irato con la vita. Non so dirti niente di più preciso ma è come se custodisse un segreto, una forza non sua.

Io sento che devo parlargli, che lui non ha calpestato le domande che si agitano dentro di me, avrei molte cose da chiedergli, in un modo o nell’altro devo incontrarlo ancora.
Adesso non mi sembra più di essere sola alla ricerca disperata di qualcosa di cui tutti se ne fregano; è come se qualcuno, facendomi sobbalzare, perché è arrivato inaspettatamente, mi avesse detto: “Ehi, sono qui, non urlare e non disperarti, perché seguendo questa strada usciremo dalla foresta”.

E io voglio uscire dalla foresta, perché la vita è mare, cielo, monti e pianure, case, alberi, volti umani, stelle, sole e vento e noi siamo fatti per questo Infinito che c’è; basta solo guardarsi in giro e per questo seguire questo “Qualcuno” che mi è venuto incontro nel groviglio della foresta e che mi dice: “Guarda lassù tra le foglie, vedi, c’è un pezzettino di cielo blu, blu, usciamo a vederlo”.

venerdì 26 giugno 2015

La fede del matematico cattolico che ha anticipato "A beautiful mind"

La fede del matematico cattolico che ha anticipato "A beautiful mind"

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Ennio De Giorgi, primo autore del teorema De Giorgi-Nash: "La Resurrezione è fondamentale nel mio lavoro"



cine © DR






Nel maggio 2015 è morto, con grande attenzione mediatica, il matematico nordamericano John Forbes Nash, famoso per aver ispirato il film A beautiful minde per le sue grandi scoperte matematiche, che gli hanno fruttato anche il Premio Nobel per l'Economia nel 1994.

Nel mondo matematico molti lo ammirano per il teorema De Giorgi-Nash, che si chiama così perché il matematico italiano 29enne Ennio de Giorgi lo sviluppò e lo pubblicò un anno prima dell'americano su una piccola rivista scientifica locale, nel 1956. Era la risoluzione del famoso problema XIX di Hilbert. Nash non lo sapeva, sviluppò una propria soluzione e rimase deluso quando gli dissero che un tale professor De Giorgi lo aveva già risolto.

Probabilmente De Giorgi non avrà mai un film a lui dedicato, perché la sua vita è stata più semplice di quella di Nash, ma da un punto di vista spirituale è stata molto interessante.

Immaginazione, matematica, mente aperta

Il padre morì quando lui aveva due anni, venne allevato dalla madre e all'università scoprì le sue capacità matematiche. Il suo maestro principale, Mauro Picone, gli insegnò ad avere una mente aperta, a presentare obiezioni, fare domande e usare l'immaginazione. “Di fronte alla scienza siamo tutti uguali”, gli diceva perché non si intimidisse di fronte alle autorità accademiche.

Ennio de Giorgi (1928-1996) non si è mai sposato e non ha mai avuto figli, e ha vissuto sempre in grande austerità, insegnando ed effettuando ricerche dal 1959 alla Scuola Normale Superiore di Pisa. A livello matematico, è stato senz'altro il più grande italiano della sua epoca.

Ha riflettuto molto su Dio, sulla morte, sull'amicizia e sulla pace tra gli uomini. Era un cattolico convinto, e negli anni Settanta è stato anche militante di Amnesty International, lavorando per la liberazione di matematici come il russo Leonid Plyushch e l'uruguayano José Luis Massera.

All'epoca Amnesty International, fondata da Peter Benenson, un inglese di famiglia ebrea russa che si era convertito al cattolicesimo, si dedicava a salvare la vita delle persone da entrambe le parti della Cortina di Ferro in piena Guerra Fredda.

Tolleranza sentimentale? No: amicizia reale

In un'intervista concessa a Michele Emmer pubblicata nel 1996, anno della sua morte, De Giorgi esprimeva la propria visione di come la scienza progredisca anche per fattori umani e personali, inclusa la fraternità tra gli scienziati.

“La comprensione e la tolleranza sono due nozioni che spesso si dimenticano quando parliamo di tolleranza. La tolleranza pura e sentimentale è insufficiente. Solo se è unita a comprensione e amicizia permette all'attività umana di progredire. Le scienze in particolare non possono progredire senza intesa e amicizia tra tutti gli scienziati”, spiegava.

La Resurrezione... per fare ricerca!

Applicava poi la questione al dialogo tra le religioni. “L'intesa tra gruppi religiosi presuppone anche che ciascuno spieghi con grande semplicità e naturalezza le proprie idee, i principi religiosi in cui crede davvero. A me, ad esempio, ciò che interessa particolarmente è la proposta della Resurrezione”.

“L'idea della Resurrezione, che la nostra vita non finisca nel breve arco di anni che abbiamo qui, che anche i nostri cari che sono morti vivano ancora in qualche modo, è uno degli elementi fondamentali della mia vita e anche della mia attività di ricerca”, confessava.

“Io sono capace di continuare a studiare, di immaginare cose nuove anche a un'età in cui uno direbbe che è la fine della mia carriera accademica, perché lo vedo come un viaggio in cui, fino alla fine, si deve amare completamente la conoscenza, sperando che questo amore continui in un'altra forma anche dopo la morte”.

La libertà di pensare e di immaginare

De Giorgi, l'uomo che fin da giovane si sentiva libero di fare domande e che da adulto si sforzava di liberare matematici prigionieri, insisteva sul fatto che la matematica era una scienza particolarmente libera e dedita all'immaginazione. Per questo, forse, pensare alla resurrezione e alla vita dopo la morta ampliava la sua prospettiva e la sua voglia di conoscenza.

“Questa combinazione di immaginazione che vola libera nei confini di ciò che studi, con lo scambio di altri voli, di altri scienziati, pensatori, di altre discipline – filosofia, arti, lettere –, è la forza delle matematiche”, affermava.

“Questo è alla base di una delle manifestazioni più forti dell'amore per la conoscenza dal quale nascono la scienza e la capacità umana derivante di comprendere parzialmente il mondo, senza dimenticare la famosa frase di Shakespeare, pronunciata da Amleto a Orazio: Ci sono più cose nel cielo e sulla terra di quelle che sogna la tua filosofia. Questo spiega anche perché in matematica non c'è conflitto tra innovazione e tradizione, le due fonti di tutto ciò che è realmente grande e bello che i matematici hanno fatto. In matematica c'è armonia”.

In varie occasioni affermò che “all'inizio e alla fine abbiamo il Mistero. Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio. A questo mistero la matematica si avvicina senza penetrarlo”.

Cercare la Sapienza

Per De Giorgi, cercare la conoscenza con amore era una conseguenza dell'insegnamento biblico. “Nel libro dei Proverbi, uno dei più antichi della Bibbia, a un certo punto si dice che la sapienza – che è più ampia della matematica – era con Dio quando Egli ha creato il mondo e che questa sapienza deve essere trovata dagli uomini che lo cercano e lo adorano. Le matematiche sono una manifestazione significativa di questo amore per la sapienza”, spiegava.

Il suo discorso all'Accademia Pontaniana di Napoli del 1992 apparve sul quotidiano Avvenire del 29 ottobre 1996, pochi giorni dopo la sua morte, e rappresenta un vero testamento spirituale del grande matematico, ricapitolando le sue inquietudini: l'immaginazione, la creatività, la letteratura, la libertà – anche delle nuove teorie matematiche – e la fiducia nella Resurrezione.



Matematiche e fede, di Ennio De Giorgi, 1992

Sicuramente neanche le più grandi scoperte di questo secolo, le più audaci teorie fisico-matematiche, la relatività general, il Big-Bang, il principio di indeterminazione, gli spazi in infinite dimensioni di Hilbert e Benach, i teoremi di Goedel danno una risposta alle domande fondamentali riferite al mondo, a Dio e all'uomo.

Queste scoperte e teorie, però, hanno avuto un gran merito: hanno liberato lo spirito umano da una concezione angusta della realtà, dalle paure di tutto ciò che appare inaspettato e paradossale, hanno confermato in ampissima misura le parole di Amleto (…).

Volendo spiegare con un esempio, forse inadeguato e semplicistico, il senso di libertà che le nuove teorie hanno apportato alla nostra cultura, direi che se oggi nascesse un poeta dotato del genio di Dante Alighieri non sarebbe costretto a riunire angeli e demoni, santi e condannati, Inferno, Purgatorio e Paradiso nei limiti di uno spazio euclideo tridimensionale, non avrebbe a disposizione come possibili “immagini matematiche” dell'Eternità solo la retta e la circonferenza.

Certamente lo scienziato, come ogni altro uomo, può usare in molteplici modi la sua libertà, può aprire il suo cuore alla speranza o chiuderlo nello scetticismo.

Da parte mia, non ho il genio di Dante o del Beato Angelico ma posso dire che la mia vita perderebbe gran parte del suo significato se rinunciassi alla speranza di ritrovare in qualche modo le persone che mi sono state più care, se non credessi alle parole del Credo «Expecto resurrectionem mortuorum e vitam venturi saeculi» [Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà].





[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

giovedì 25 giugno 2015

Tra le onde

 Tra le onde
***
Sei davvero nella barca della mia vita, Signore?
 Io ho cercato di farti posto, per farti salire a bordo.
 Volevo fossi la mia guida, così che mai potessi rimanere disorientato. 
Ma ora è notte e c'è tempesta. Non ti vedo e forse dormi.
 Onde alte da ogni lato rovesciano il loro peso nella barca.
 Sono i miei peccati e le mie ribellioni mi sembrano cosi imperdonabili e così  pesanti 
 e se una finisce l'altra già arriva, prendendo forza da lontano. 
E' finita per me! Questa volta finirò per affondare!
E dimentico che sei tu il peso della mia barca.
E della mia vita, Superiore al peso dei miei peccati e angosce.
unica forza che "può radicarmi al suolo come la forza di gravità."
se ti supplico e grido , perchè non mi liberi da tutti questi pesi inutili?
ma forse mi ripeti che mi basta. La Grazia.
di credere in te. il sapere che veglierai su di me," da ora e per sempre
quando entro e quando esco"
Dal buio profondo dell'errore e del peccato . O dagli alti e bassi dei miei stati d'animo
Con te vicino, dovrò imparare a convivere con le onde.
Sapendo che passeranno.
Come il cielo e la terra.
Ma non così le tue parole.
Ripetimi che ci sono " acque serene e gentili,
acque di stabilità"
Alle quali mi guiderai. 
Anche se i miei pensieri si agitano  
come i rami al vento
"il nemico ha il tempo contato ...
ma se non credo affondero."

Accresci la mia fede.

lunedì 22 giugno 2015

Vergini come marito e moglie. Lo splendore del matrimonio e della famiglia in un fenomenale dialogo con don Luigi Giussani


Vergini come marito e moglie. Lo splendore del matrimonio e della famiglia in un fenomenale dialogo con don Luigi Giussani
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febbraio 22, 2015 Luigi Giussani - Antonio Sicari
A dieci anni dalla scomparsa del fondatore di Cl, pubblichiamo parte della sua poco conosciuta ma sorprendentemente attuale “conversazione sul matrimonio” con padre Sicari
don-luigi-giussaniDomenica 22 febbraio ricorre il decimo anniversario della scomparsa di monsignor Luigi Giussani. Per gentile concessione dell’editrice Jaca Book, riproponiamo di seguito ampi stralci della sua “Conversazione sul matrimonio” con il teologo Antonio Maria Sicari. Il dialogo è contenuto in Breve catechesi sul matrimonio (1990), libro firmato dallo stesso Sicari.
Per poter dare a questo mio libro sul matrimonio una conclusione viva, ho chiesto a monsignor Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, di poter rivedere con lui, conversando, almeno le pagine più decisive. Il motivo della scelta è per me ovvio: tra tutti i sacerdoti che conosco, nessuno sa parlare, come lui, della verginità cristiana. (…) Questo amore immediato a Cristo – il saper vedere l’intera creazione e gli uomini tutti come segni di Lui, e amarLo attraversando ogni altro amore ed ogni altra affezione – è la «verginità». (…)
Sicari (S.). Vorrei iniziare la nostra “conversazione sul matrimonio” riprendendo la frase di S. Agostino posta in apertura a questo libro: «Quid tam tuus quam tu? Sed quid tam non tuus quam tu, si alicuius est quod es? – Che cosa è così tuo come te stesso? Ma che cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a un altro?». (…) Questo ci porta subito al cuore del problema, al tema della appartenenza nella sua forma più totale e radicale…
Giussani (G.). Sì, questa frase sintetizza, anche per noi uomini, una delle intuizioni più profonde: che il contenuto della propria autocoscienza si svela nella appartenenza a un altro e come appartenenza a un altro. Ciò è evidente soprattutto nel bambino: tutta la coscienza che egli ha di sé è nella appartenenza, sperimentata come un bene, al padre e alla madre. Altrimenti viene impedito lo stesso sviluppo della sua coscienza.
antonio-sicari-breve-catechesi-sul-matrimonio-jaca-book 
S. Parliamo ora della “appartenenza coniugale”, quella che comincia a realizzarsi fin dal primo innamoramento…
G. Per una persona adulta, anche se molto giovane, l’appartenenza a un altro essere umano non è il primum; per prima cosa viene il sentimento di sé, della propria personalità. Quanto più questo sentimento di sé è profondo e vero, tanto più si è capaci di appartenere a un altro. Ma qui scopriamo il segreto più interessante: che per avere un sentimento di sé che sia dignitoso, consistente, operativo – direi quasi “definitivo” della propria persona – bisogna percepire una appartenenza ancora più originale: quella nei riguardi di Cristo, di Uno che ci redime dalla nostra fragilità, dallo sgomento della precarietà. (…)
S. Torniamo per ora alla fase ancora istintiva, ancora immediata e non riflessa: uno sente il bisogno di appartenere totalmente alla persona di cui si va innamorando; come questa prima evidenza può diventare pedagogia a scoprire o a riscoprire quella più radicale appartenenza di cui parliamo? Qual è il cammino da percorrere?
G. La strada unicamente percorribile mi sembra quella dello stupore. Ecco: se nasce lo stupore dell’incontro fatto, in esso è implicito il senso di una Grazia, di un dono. Infatti si tratta di una appartenenza nuova che nasce da circostanze non programmate, non previste. Ma occorre una certa sensibilità, una certa semplicità di cuore per accorgersene. Anche in tal caso, però, non è possibile scoprire tutto il valore di quel presentimento o di quello stupore, se non si incontra un maestro e una compagnia nei quali sia già viva la coscienza che tutto ci è donato da Dio. (…) Nel frastuono di oggi, quello stupore spesso appena accennato, difficilmente riesce ad approfondirsi. Tutto diventa subito abituale, tutto è dovuto, meccanico. Per questo è sempre necessario un incontro ulteriore, l’imbattersi in una realtà già cosciente delle implicazioni più profonde.
S. Una realtà che educhi: una comunità? Un prete? Un’altra coppia di sposi? Una persona consacrata?
G. La comunità cristiana è certo un luogo dove le implicazioni contenute in quel primo stupore possono essere esplicitate: nelle conversazioni, nei raduni, in qualche esperienza in cui si colgono accenti che spalancano un orizzonte nuovo. Ma resta indispensabile poi un incontro personale: non importa che sia un prete, uno sposato o uno che ha scelto di vivere verginalmente; importante è che si tratti di una persona che abbia fatto una vera esperienza affettiva verso Dio. Certo, un prete o un vergine dovrebbero essere più criticamente consapevoli di questo passaggio.
S. Ma questa persona «criticamente consapevole» che cosa (…) deve far percepire a due ragazzi che provano semplicemente lo stupore, la gratitudine per un incontro d’amore accaduto così naturalmente?
G. Dovrebbe far percepire loro due cose. Anzitutto che la stoffa dell’avvenimento, del loro incontro d’amore, è la Grazia: dono fatto da un Altro a cui appartengono il mondo e le persone tutte, e che, attraverso le sue vie misteriose, ha provocato quell’incontro mobilitando un numero infinito di circostanze apparentemente casuali; e in tal modo Egli ha creato “per te” un momento pieno di senso e di sentimento. In secondo luogo, l’educatore dovrebbe far percepire la profezia contenuta in quello stesso incontro: lo stupore cioè promette una appartenenza e un possesso che diventeranno tanto più forti, tanto più ricchi, quanto più saranno vissuti nella obbedienza al grande Signore, scoperto come origine della Grazia.
S. Tuttavia questa duplice scoperta (della creaturalità stupefatta e della promessa di un compimento sovrabbondante) resta a livello di semplice “senso religioso”. Ma come si può far percepire a due ragazzi innamorati anche il volto personale di Cristo?
G. Vedi, (…) se due ragazzi non solo si incontrano tra loro, ma incontrano anche chi svela il loro senso del loro amore, già fanno una esperienza della incarnazione di Cristo: è infatti Cristo che li raggiunge nel mistero della sua Chiesa, nella presenza del suo “testimone” o ministro.
S. Accade però che i ragazzi ti dicano: noi il nostro amore lo sentiamo molto concretamente, mentre l’amore di Cristo è così vago, così “spirituale”…!
G. Che Cristo faccia sentire la sua concretezza corporea, risorta, anche questo è una sua grazia… una grazia che poi verrà sempre più confermata: negativamente dalla percezione dei limiti dell’amore umano, della fragilità, della precarietà inevitabile eppure dolorosa; e, positivamente, dal fatto che è sempre possibile addentrarsi più profondamente in quel segno, in quel “sacramento” che è l’amore tra uomo e donna.
S. Ogni uomo dunque porta in sé una tale profondità, nella quale l’incontro con Cristo si fa sempre più concreto man mano che uno vi si addentra?
G. È una profondità che viene spalancata dall’amore umano, e che Cristo può usare misericordiosamente per farsi percepire. È come l’albore del giorno escatologico, come anticipo di una appartenenza e di un possesso infiniti. D’altra parte in ogni esperienza stabile di amore, nella vita concreta di ogni famiglia, ci si accorge che il possesso è tanto più potente, profondo e vero quanto più viene attuato in un distacco. (…) Il distacco supremo viene raggiunto là dove lo sguardo d’amore si porta direttamente sul Destino dell’altro. Nella vita della famiglia dapprima il distacco è consigliato e quasi esigito dagli inevitabili limiti e dai pesi conseguenti, che tante volte possono anche generare stanchezza e incapacità a perseverare nel rapporto. Ma proprio per attraversare anche questa stanchezza e queste delusioni, proprio per riscattarle, l’unica modalità razionale è quella di seguire la logica ultima dell’amore che è la passione per il Destino dell’altra persona. (…)
S. Se c’è una evidenza naturale che Dio ci ha donato (nel dono stesso della nascita, del nostro esser stati bambini, del nostro aver avuto una famiglia) è proprio questa: che l’appartenenza è una cosa buona e che è proprio essa a rendere possibile la libertà. Che cosa poi interviene a rovinare questa prima evidenza? L’adulto che dice orgogliosamente: libertà significa “non appartenere”, non dipendere da nessuno; appartenere e dipendere sono soltanto umiliazione, schiavitù… Che cosa gli è accaduto?
G. Potremmo vedervi una prova del peccato originale, inteso come ciò che ha reso possibile una tale distorsione. Ma la ragione più immediata è la ineducazione, anzi la contro-educazione: i doni che ci vengono dalla natura, se non diventano evidenti nelle loro ragioni, restano atrofizzati: vengono usati in modo meschino, fragile, oppure senza nessuna discrezione: subiscono, in ogni caso, violenza. E questo succede inevitabilmente quando la realtà umana non incontra Cristo: la natura senza Cristo viene anchilosata, si obnubila, si altera. (…) È piuttosto un plagio operato dalla mentalità dominante; un plagio che innesta la sua menzogna sulla ineducazione, e quest’ultima tanto più si dilata quanto più retrocede l’influsso della Chiesa. Ciò coincide con l’assenza di ragioni, con l’oscurarsi della coscienza, con la sua restrizione. Su questa restrizione poi la società sviluppa il suo potere.
S. È per questo che oggi il potere ha interesse a distruggere i legami familiari stabili?
G. L’interesse del potere è duplice: prima di tutto, distruggendo questa primordiale unità-compagnia dell’uomo, il potere riesce ad avere davanti a sé un uomo isolato: l’uomo solo è senza forza, è privo del senso del destino, privo del senso della sua ultima responsabilità: e si piega facilmente al dettato delle convenienze.
S. Quindi dietro a tutti i cedimenti sociali a riguardo della famiglia (aborto, divorzio, convivenze, permissivismo sessuale ecc.) c’è sempre uno stesso scopo: quello di far dimenticare che libertà e appartenenza sono la stessa cosa…
G. Certamente, perché così l’uomo resta un pezzo di materia, un cittadino anonimo. La famiglia è attaccata per far sì che l’uomo sia più solo, e non abbia tradizioni in modo che non veicoli responsabilmente qualcosa che possa esser scomodo per il potere o che non nasca dal potere. La seconda ragione, più profonda, è questa: che distruggendo la famiglia si attacca l’ultimo e più forte baluardo che resiste naturalmente alla concezione culturale che il potere introduce, di cui il potere è funzione: vale a dire, intendere la realtà atomisticamente, materialisticamente, una realtà in cui il bene sia l’istinto o il piacere, o meglio ancora il calcolo.
S. Io penso che il problema più grave della Chiesa di oggi stia nel modo in cui molti cristiani concepiscono il rapporto tra natura e soprannatura: o in modo spiritualistico (in cui la fede non c’entra con la vita concreta) o in modo moralistico (la fede c’entra, ma solo come sostegno etico di un progetto naturale). In ambedue i casi si dimentica l’innesto sostanziale con cui Dio ha legato assieme ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale, in modo indissolubile, in un unico ordine. Ora a me sembra che proprio per questo motivo il futuro della fede si giochi nella famiglia. Il matrimonio è l’unica realtà naturale che diventa soprannaturale (sacramento) per il solo fatto di essere il gesto di due battezzati. (…) Il matrimonio-sacramento è il punto della storia in cui la realtà naturale e quella soprannaturale più perfettamente si innestano l’una nell’altra senza confondersi, in forza del battesimo, in forza della fede.
G. Vuoi dire che proprio là dove la natura più si esprime, più dimostra di essere stata indissolubilmente legata con la soprannatura…
S. Sì, nella famiglia la natura umana si esprime in tutta la sua concretezza: ogni cosa, anche la più materiale (la casa, il lavoro, il cibo…), tutto viene finalizzato e umanizzato. Per questo credere che il matrimonio è un sacramento suggerisce anche un modo totalizzante di considerare il proprio essere cristiano: impedisce alla radice ogni dualismo, ogni falso spiritualismo. Cosa manca allora nel modo abituale con cui si educano i giovani a capire il sacramento del matrimonio?
G. Manca la fede nella sua vera natura. C’è nel migliore dei casi una preoccupazione morale dignitosa e un vago sentimento di soggezione a Dio. Invece occorrerebbe guardare alla famiglia come all’esempio più impressionante della Incarnazione. (…)
S. Proprio qui io credo che si innesti nel modo più autentico la problematica morale. La morale cristiana non è possibile, non è liberante, se non nasce da uno stupore davanti al dono di Dio, se non è risposta umile e generosa alla grandezza del dono che Dio ci fa. Dunque bisogna prima educare i cristiani allo stupore davanti al miracolo del loro matrimonio. Ma cos’è che fa percepire come buona, percorribile, la concreta legge morale: quella, ad esempio, che governa la vita sessuale?
G. Per amare la morale cristiana e osservarla, bisogna essere coinvolti concretamente nel fatto di Cristo, bisogna che Cristo sia divenuto veramente il Signore di tutti, fino ad amare obbedientemente le leggi che Lui ha messo nella sua creazione. Bisogna che in casa domini Cristo.
S. Eppure è sempre più frequente trovare dei cristiani, anche tra i nostri amici, che sono infastiditi dal fatto che il Papa parli spesso della morale sessuale. Dicono che ormai quelle cose non le capisce più nessuno (…) e non è più possibile partire dall’etica o insistere subito su questo.
G. Io non sono affatto d’accordo. E per due motivi diversi, anche se legati tra loro. Il primo è che il Papa insiste sugli aspetti fondamentali, essenziali per la costruzione di ogni società: il valore della persona, della ragionevolezza, dell’“atto”. Si tratta dell’uomo; è la natura dell’uomo che è in gioco in quei problemi sessuali che sembrerebbero così particolari. Il secondo motivo è che un cristiano, quando riflette sulle indicazioni del Magistero, anche se gli sembra che esso parta da lontano, è costretto subito a ritrovare l’imponenza di Cristo sulla sua vita.
S. Ma è giusto dire che, per una nuova evangelizzazione, è necessario partire non dall’etica ma dall’estetica?
G. Non bisogna semplificare troppo. Proprio questo Papa che spinge alla nuova evangelizzazione parla molto dell’etica sessuale, perché essa tocca ora i punti fondanti, quelli in cui è salvata la dignità stessa della persona umana. E questo è già un fatto profondamente estetico, perché se è salva la santità della persona, allora lo splendore della presenza di Cristo nel mondo colpisce. La morale, quando tocca i fondamenti dell’esistenza, è l’estetica di ciò che è dato, della creazione, del dono. Si tratta di rimettere in gioco lo stupore della creazione, la verità della creazione. La moralità rende la persona sintonica al movimento della creazione in cui essa si trova coinvolta; allora rinasce lo splendore della creazione. Lo splendore è là dove la moralità è salvata.
S. (…) Si dice: bisogna riproporre il fatto di Cristo, non un’etica.
G. Ma se non si giunge a un’etica, non si comprende il fatto di Cristo. Non si è coinvolti nel fatto, se non si entra nel movimento morale che il fatto implica.
S. A volte però si sente dire, anche da persone autorevoli: se fosse per le indicazioni morali, io non starei nel cristianesimo, perché sarebbe solo addossarsi altri pesi. Ci resto perché mi dà gioia, soddisfa le mie esigenze…
G. Io sto nel cristianesimo perché è la verità; perché riconoscere il fatto di Cristo e la sua presenza mi converte, mi sospinge, mi attira a cambiare il mio modo di entrare in rapporto con tutte le cose, mi fa diventare più vero fin nei particolari. Incontrando il fatto cristiano, anche il rapporto affettivo diventa più doloroso e più vero: si accetta una maggiore “dolorosità”, perché lo si vuole più vero. Quando una donna vuole bene ad un uomo, se lui viene mandato dalla sua ditta per sei mesi in America, lei l’attende, è tesa a lui, gli resta unita. Il fatto stupefacente del loro amore, della loro unità è dentro la serietà etica della loro reciproca attesa.
S. Vuoi dire che c’è un livello della questione in cui “etica” ed “estetica” coincidono?
G. Io direi che la vera estetica è quella che nasce da un destino percepito come immanente al movimento della realtà. La vera estetica è sempre etica.
S. È, secondo te, importante predicare anche oggi ai fidanzati la castità prematrimoniale, senza sconti o concessioni di alcun tipo?
G. Ma certo! Perché senza verginità non imparano a possedersi veramente: possedere è amare e, nel gesto, cercare e amare il Destino dell’altro. Il gesto dev’essere determinato dal destino dell’altro. Il gesto si fa se è necessario per adempiere il compito che il Destino assegna.
S. Appunto, ci sono perfino preti che sostengono che i gesti intimi dell’amore sono necessari ai fidanzati, per conoscersi meglio, per prepararsi…
G. È un giudizio squallidamente sentimentale. Il dire che si vogliono bene è un artificio. Voler bene è desiderare il Destino, cioè desiderare che Cristo venga. Ma Cristo viene attraverso le circostanze della vita, integralmente rispettate nella loro natura. E la natura del fidanzamento è la promessa, non l’anticipazione furtiva e limitata. Altrimenti accade proprio quello che dicevamo prima. Dicendo a due fidanzati: «… purché vi vogliate bene!», si separa il Destino dai «fatti». Si sciupa sia il momento estetico che quello etico.
S. Che cosa vuol dire propriamente che «sposarsi significa assumersi la vocazione dell’altro come propria»?
G. Significa che ognuno dei due sposi non può più realizzare il compito che Dio gli ha affidato (cioè, costruire la Chiesa) se non nell’unità con l’altro.
S. Spesso però accade che uno dei due si sottrae volontariamente a questo servizio ecclesiale. Allora l’altro, che pur lo desidera, come può realizzare la sua vocazione?
G. L’unità non è necessariamente corrispondenza. L’unità è la verità del legame con l’altro; è la fedeltà nonostante tutto. Se penso alla fedeltà di certe donne praticamente abbandonate!
S. Quando a un coniuge succede di esser proprio, fisicamente, abbandonato, di restar solo, che senso ha ancora la fedeltà?
G. Il senso si può trovare solo scoprendo l’aspetto “verginale” della propria vocazione. Nota bene che questo aspetto era presente anche prima, anche quando il rapporto perdurava. Era già l’essenza del rapporto coniugale. Nella drammaticità ingiusta dell’abbandono, l’aspetto verginale emerge con una evidenza dolorosa, ma comunque capace di essere salvifica.
S. Come spiegheresti meglio questo valore a chi sente soltanto la ferita dell’abbandono?
G. La vocazione è un compito a favore della Chiesa, che Dio ci affida attraverso le circostanze della vita. Ci sono due compiti fondamentali: il matrimonio che ha la funzione di generare nuovi esseri (questo è il suo significato profondo, anche se oggi molti lo vogliono far passare in seconda linea) e la verginità che ha invece la funzione di richiamare tutti alla “forma ideale”. Per questo chi vive veramente il matrimonio cristiano ha una grande stima di chi nella Chiesa incarna la vocazione verginale. Tornando al caso del coniuge abbandonato: accade che, attraverso la contingenza terribile dell’abbandono, uno è chiamato ad andare fino in fondo al valore su cui il suo matrimonio era costruito: l’essere funzione di Cristo per costruire la Chiesa. Si tratterà allora di vivere l’attesa, apparentemente sterile, con profonda umiltà, accettando una situazione di verginità, che sembra soltanto imposta, in quanto essa non è solo un “incidente”, ma chiede di scoprire la salda radice. È su questa “verginità radicale” che bisognerà costruire la propria pace, la propria missionarietà, il dono di sé alla Chiesa. (…)
S. Molte nostre famiglie cominciano con un buon impeto ideale, ma poi facilmente scadono nell’abitudine, nella stanchezza, nella noia. Cosa è che impedisce all’ideale del sacramento di diventare esperienza quotidiana?
G. Il fatto che l’impeto ideale spesso non è fondato nella fede. Non accade loro quello che diceva Mounier: «Occorre soffrire perché una verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».
S. Prova invece a descrivere una famiglia «fondata sulla fede».
G. Una coppia cristiana nasce, come tutte le altre, dalla affezione. Ma per due credenti l’affezione è il suggerimento di Dio che dice: «Vi voglio insieme». Dunque: che Dio voglia che siamo assieme per affrontare la vita e per camminare assieme verso il destino, questa è l’essenza del perché io ti voglio. In tal caso, la scoperta dei limiti, il rischio dell’abitudinarietà, tutto è sottoposto a vigilanza. La rovina o la povertà di tanti matrimoni cristiani dipendono da una duplice causa: la prima è che i due non hanno veramente iniziato nella fede. La fede era una intenzione, non una ascesi, non una “sofferenza” (nel senso di Mounier) che facesse nascere la verità dalla carne. La verità del loro rapporto è partecipare al mistero di Cristo, fare la volontà del Padre celeste: ma queste cose sono state sentite come astratte o addirittura ripugnanti. In secondo luogo, i due hanno continuato a credere che quello che importava era il loro volersi bene. Invece era importante il cambiamento del loro volersi bene: convertire l’esperienza del loro volersi bene, scendendo nella profondità del fenomeno, fino a scorgervi la Grazia che vi inabita, e assorbirla.
S. Qual è per una coppia, per una famiglia il test che indica se questo cambiamento è davvero avvenuto?
G. Il test è semplice: che nella loro vita non esiste più l’“obiezione” e, dunque, l’abitudine non logora.
S. Quindi, se due persone dicono: «Più il tempo passa, più ci vogliamo bene» è segno che è avvenuta la conversione di cui parli?
G. È una indicazione, ma ancora imperfetta: bisogna inoltre vedere come questo loro amore si rapporta con la Chiesa. Devono avere coscienza che la loro unità implica tutte le famiglie del mondo; e questo si manifesta con una passione perché tutte le famiglie del mondo conoscano ed amino Cristo. Devono avere cioè una tensione “comunionale” e “missionaria”.
S. Non penso che il tuo discorso coincida con quello che attualmente si fa parlando di una “famiglia aperta”…
G. Spesso questa è una espressione usata in senso molto moralistico, sociologico, che non tocca la sostanza del rapporto. La sostanza consiste nel fatto che l’apertura sia passione perché il mistero di Cristo faccia diventare una cosa sola tutti gli uomini, tutte le famiglie. È la passione perché Cristo sia conosciuto. È la passione per la Gloria di Cristo. (…)
S. Quali indicazioni pratiche daresti?
G. Io dico sempre due cose: anzitutto che anche nei momenti peggiori, anche se due coniugi si fossero picchiati un momento prima, che dicano sempre una “Ave Maria” alla Madonna, assieme. Anche se si odiano, che la dicano! In secondo luogo: che si richiamino con l’esempio. Se uno vede l’altro che dice il Rosario, anche se lui è stanco e non ha voglia di dirlo, sente tuttavia un richiamo che gli fa bene. Oppure: uno va a far la Comunione e l’altro no, però è un richiamo. Anche se non sembra, c’è qualcosa che ogni volta li lega assieme. È sempre “preghiera comune”, almeno un po’. Anche la preghiera comune “esplicita” è utile, ma non in modo asfissiante. Non bisogna fare come certi fidanzati che “pregano insieme”, però non pregano loro.
S. Parliamo un po’ dei bambini. Incontrando molte coppie, alcune in crisi, io mi sono convinto che una delle carenze più gravi è questa: trattano i problemi della fedeltà, della indissolubilità del loro legame, come se si trattasse solo di “valori” ideali, di “leggi”. Non hanno mai capito che prima di essere delle “idee” sono dei “fatti”: i figli sono l’indissolubilità vivente della coppia, la fedeltà fatta carne. (…) Il bambino “giudica” tutte le ideologie, tutti i cedimenti che si fanno sul matrimonio. La fatica ad accogliere i figli, la voglia di averne il meno possibile dipende forse anche dalla incapacità dei coniugi di stare fino in fondo di fronte al mistero e al significato della propria unità.
G. La difficoltà ad accogliere i figli nasce dal calcolo: se io sono la misura di tutto, allora è giusto misurare anche i figli (non solo nella quantità, ma perfino nella qualità). La fede invece ci dice proprio il contrario: che io non sono mio, ma di un Altro. Solo da questa persuasione è resa possibile una procreazione responsabile, nella quale entra anche il calcolo, perché la ragione è anche questo. Ma non in modo egoistico. Piuttosto come voglia di “rispondere” nel modo più vero e giusto possibile alle attese di Colui al quale appartengo e per il quale metto al mondo i figli. Il dialogo dei due coniugi è per dare questa risposta: offrono a Dio la loro unità “creativa”, “generosa” (c’entra la parola “generare”) e ricevono il figlio che incarna questa stessa unità. Nel figlio saranno uniti per tutta l’eternità in un modo nuovo, irripetibile, diverso da ogni altro; come dicevi tu: una unità fatta carne, fatta persona. (…)
S. Cosa suggeriresti a due cristiani che si ritrovano con un matrimonio rovinato, per loro stessa colpa?
G. Cercherei prima di tutto di prenderli separatamente e di coinvolgerli in una realtà in cui ritrovino il respiro per l’ideale: in una comunità, in una compagnia. La possibilità di rimetterli assieme è tutta nel farli crescere in una fede viva e operosa: se crescono nella fede, si accorgeranno anche dei sacrifici da fare per riscattare il loro sacramento e cominceranno a desiderarlo, anche se fanno fatica. Altrimenti è un moralismo insopportabile. Una possibilità di ricostruire c’è sempre, se ambedue accettano, in qualunque modo, di crescere. Ma non ci si può abbandonare al caso, sperando che cambino i sentimenti. (…)
S. Capita mai, a te che sei affascinato dal mistero della verginità cristiana, di invidiare qualche coppia ben riuscita di coniugi?
G. Sarei tentato di dire: mai. Ma questo non è giusto. Deve avvenire che un vergine provi una santa invidia davanti a certe coppie di sposi. (Come gli sposi devono prima o poi avere nostalgia della verginità cristiana). Ma l’unica cosa che mi farebbe “invidia” in due coniugi sarebbe una unità splendidamente espressa dal loro rapporto: veder significata con più evidenza quella unità totale con Dio, con Cristo, con tutte le persone, a cui tutti tendiamo con infinito desiderio.
S. Quindi, se tu vedessi due persone molto unite tra loro, questo ti…
G. … Questo si tradurrebbe in un impeto di desiderio di essere io più vero in quello che sono. (…)

Einstein non era bravo in matematica

 Einstein non era bravo in matematica
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"Nel 1943 Einstein risponde così a una bambina di 9 anni di nome Barbara, che gli scrive dicendo di avere difficoltà con la matematica: 'Non preoccuparti se hai difficoltà con la matematica, ti assicuro che le mie difficoltà sono state anche maggiori'. Sembra uno scherzo, ma Einstein non scherzava. Con la matematica si faceva aiutare, se la faceva spiegare da pazienti compagni di studio e amici. Era la sua intuizione fisica a essere prodigiosa...
Hilbert ha lasciato scritto una frase dolce e bellissima, che cattura perfettamente il difficile rapporto fra Einstein e la matematica. La matematica che serviva a fare la teoria era la geometria a quattro dimensioni e Hilbert scrive: 'Un qualunque ragazzetto per le strade di Göttingen capisce la geometria a quattro dimensioni meglio di Einstein. Ciò nonostante, è stato Einstein a finire il lavoro, non i matematici'.
Perché? Perché Einstein aveva una capacità unica di IMMAGINARE come il mondo potesse essere fatto, di 'vederlo' nella sua mente. Le equazioni, per lui, venivano dopo; erano il linguaggio per rendere concreta la sua capacità di immaginare la realtà. La teoria della relatività generale, per Einstein. non è un insieme di equazioni: è un'immagine mentale del mondo, poi faticosamente tradotta in equazioni" (pp. 80-81“Einstein non era un grande matematico. Anzi stentava con la matematica. 
Dal libro di Carlo Rovelli “La realtà non è come ci appare – La struttura elementare delle cose” – Raffaello Cortina Editore.

La profezia di Suor Lucia: «Lo scontro finale tra Dio e Satana è su famiglia e vita»

La profezia di Suor Lucia: «Lo scontro finale tra Dio e Satana è su famiglia e vita»

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La veggente di Fatima lo ha scritto al cardinale Carlo Caffarra. «La Madonna gli ha già schiacciato la testa»

Bambini Madonna Fatima pastorelli Lucia Jacinto  
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Dio contro Satana: l'ultima battaglia, «lo scontro finale», sarà sulla famiglia e sulla vita. La profezia è di suor Lucia dos Santos, la veggente di Fatima di cui il 13 febbraio scorso è cominciato il processo di beatificazione.

LA LETTERA A LUCIA
A raccontarla è il cardinale Carlo Caffarra in un'intervista concessa a La Voce di Padre Pio (marzo 2015). Il porporato ebbe da Giovanni Paolo II l’incarico di ideare e fondare il Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, di cui oggi è professore emerito. «All’inizio di questo lavoro - spiega Caffarra - ho scritto a suor Lucia di Fatima, attraverso il vescovo perché direttamente non si poteva fare. Inspiegabilmente, benché non mi attendessi una risposta, perché chiedevo solo preghiere, mi arrivò dopo pochi giorni una lunghissima lettera autografa – ora negli archivi dell’Istituto».

LA RISPOSTA DELLA SUORA
In quella lettera di Suor Lucia è scritto che lo scontro finale tra il Signore e il regno di Satana sarà sulla famiglia e sul matrimonio. «Non abbia paura, aggiungeva, perché chiunque lavora per la santità del matrimonio e della famiglia sarà sempre combattuto e avversato in tutti modi, perché questo è il punto decisivo».

LA COLONNA PORTANTE DELLA CREAZIONE
La suora di Fatima sosteneva che la Madonna ha già «schiacciato» la testa a Satana. «Si avvertiva - prosegue il porporato - anche parlando con Giovanni Paolo II, che questo era il nodo, perché si toccava la colonna portante della creazione, la verità del rapporto fra l’uomo e la donna e fra le generazioni. Se si tocca la colonna portante crolla tutto l’edificio, e questo adesso noi lo vediamo, perché siamo a questo punto, e sappiamo». 
sources: ALETEIA