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giovedì 31 marzo 2016

Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure



Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure
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«La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio»

Enzo Jannacci (Foto Rai)
MILANO - Ci vorrebbe una carezza del Nazareno» dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui, come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale».

È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo?
«Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».

Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile?
«Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».

Sono considerazioni di un genitore o di un medico?
«Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...».

Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro?
«Bisogna stare molto vicini a questo padre».

Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte?
«Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».

Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza?
«Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina».

Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo?
«Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».

Che cosa?
«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».

Fabio Cutri
06 febbraio 2009

domenica 27 marzo 2016

Fu così che in un freddo mattino, il 30 marzo 1955 (…) entrai nel Museo Puskin, salii al primo piano e mi avvicinai alla Madonna Sistina. (…) Il ricordo di Treblinka aveva invaso la mia anima, e in principio non riuscii a capire… Era lei [la Madonna] che camminava scalza con passo leggero sul suolo pulsante di Treblinka, dal punto di scarico dei convogli alla camera a gas. La riconobbi dall’espressione del viso e degli occhi. Vidi suo figlio, e lo riconobbi dall’espressione straordinaria, non infantile. Così erano le madri e i bambini a Treblinka (…).

Nella primavera del 1945 la Madonna vide il cielo del Nord. Non venne da noi come un’ospite, come una straniera di passaggio, ma con i soldati e gli autisti calcò le strade dissestate dalla guerra: lei è parte della nostra vita, è una nostra contemporanea. Conosce tutto: la nostra neve, il fango gelato dell’autunno, la gavetta ammaccata dei soldati piena di sbobba scura (…). È contemporanea della collettivizzazione totale. Eccola che va, scalza, col suo piccolo bambino, viene caricata sul treno. Che lunga strada l’attende, da Obojan’, vicino a Kursk (…) fino alla tajga, alle paludi boscose oltre gli Urali (…). Sì, è proprio lei.

La vidi nel 1930 alla stazione di Konotop: si avvicinò al vagone del treno rapido, scura dalla sofferenza, sollevò i suoi occhi straordinari e disse senza voce, con le sole labbra: pane…

La incontrammo nel 1937: stava in piedi nella sua camera, teneva in braccio il figlio per l’ultima volta, gli diceva addio, lo guardava attentamente in volto, poi scendeva le scale deserte di un palazzone muto… Sulla porta della camera era stato posto un sigillo di ceralacca, giù l’aspettava un’automobile di Stato. (…)

Noi esseri umani certo l’abbiamo riconosciuta, e abbiamo riconosciuto il suo bambino; lei è uguale a noi, il loro destino è anche il nostro, madre e figlio rappresentano l’umanità dell’uomo. (…)

Guardando la Madonna Sistina noi conserviamo la fede che la vita e la libertà sono una cosa sola e non c’è niente di più alto dell’umano dell’uomo.

(Vasilij Grossman, La Madonna Sistina, 1955)

venerdì 25 marzo 2016

Voglio che tu sia, senza fine, di Luigi Giussani

Voglio che tu sia, senza fine, di Luigi Giussani

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Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /08 /2014 - 14:04 pm | 

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi la trascrizione di un dialogo con don Luigi Giussani pubblicato il 30/8/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/8/2014)
Nell’immagine, don Luigi Giussani con alcuni ragazzi di Gs
durante un ritiro a Varigotti nei primi anni sessanta. 
Foto di Elio Ciol – tutti i diritti riservati
Metti una sera (del 1983) in campagna, a conversazione con un gruppetto di giovani di Monte San Savino, piccolo borgo tra le colline toscane. Dove un uomo che oggi ha quasi ottant’anni (e che, come aveva scritto a vent’anni in una lettera a un amico, ha avuto una sola ossessione, quella del “Io non voglio vivere inutilmente”) era stato invitato a parlare da ragazzi di un mondo ancora contadino, ma già irretito dal potere delle ideologie e delle mode omologanti dell’epoca. La non episodica persuasività in azione di un carisma che ha educato decine di migliaia di ragazzi. Al quietismo religioso? No, alla felicità laica. Da un dialogo con don Luigi Giussani.
Paolo Pecciarini. Una cosa particolare vorremmo che emergesse questa sera: la parola vita. Vorremmo chiedere a don Giussani, cioè ad un amico più grande, come è possibile ritrovare tutto il valore vero della vita nel quotidiano, cosi che si realizzi la nostra felicità.
Don Luigi Giussani. Prima di tutto dobbiamo avere la sincerità di ricordarci l’amore alla vita e il desiderio di soddisfazione di felicità: quando abbiamo cantato prima “ ma l’amaro, I’amaro che c’è in me sarà mutato in allegria”… dobbiamo avere la sincerità, grandi e piccoli, di affermare che questo è il progetto, il programma che non si può eliminare mai. Viviamo per il desiderio di contentezza, di soddisfazione, di felicità.
Che l’amaro si muti in allegria è l’ispirazione, il criterio in tutto quello che facciamo: scegliamo un cinema invece di un altro, scegliamo una compagnia invece che un’altra, ecc. Ci rassegniamo a studiare o a lavorare purché l’amaro ad un certo punto sia mutato in allegria. Questo è giusto. Infatti è ciò che rivela, come diceva il nostro padre Dante, la natura dell’uomo. Dante infatti dice ad un certo punto: “ciascuno confusamente un bene apprende per il qual si queti l’animo e desira…”. Ognuno confusamente intuisce un bene nel quale l’animo si quieti, vale a dire, nel quale raggiunga una soddisfazione intera cioè la parola che solo religiosamente si può pronunciare con serietà: la parola felicità. “… E desira…” desidera e questa è l’arte fondamentale della vita; è come la scintilla che accende il motore per ogni azione e ognuno si sforza, vi tende a fatica. Questa è la natura dell’uomo secondo la tradizione cristiana.
La frase più carica di sfida che abbia detto Cristo è stata quella che pronunciò in certe circostanze, quando disse: “Che importa se tu prendi tutto quello che vuoi e poi smarrisci te stesso?” oppure “Che darà l’uomo in cambio di sé?” Ma che importa se l’uomo …. Ecco, diceva Leopardi: “forse se avessi io l’ale da volar su le nubi e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia….” Leopardi è vissuto 150 anni fa e l’uomo adesso è arrivato a salire oltre le nubi con i jet, numera le stelle ed erra di montagna in montagna; si può dire che dopo 150 anni sia più felice?
Un “io” sorpreso dalla gioia
La domanda resta inesausta perché la natura dell’uomo è in rapporto con qualcosa di infinito e non c’è niente da fare.

Provate a pensare all’astronauta che arrivasse per primo sulla stella Andromeda, poi torna fra gli osanna di tutti va a casa e trova che la moglie lo ha tradito. Se non è un cinico, senza sensibilità e senza umanità e pieno di infelicità, la prima cosa lo tocca – la gloria, il riuscire a fare qualcosa di grande – ma la seconda cosa lo tocca proprio come “io” e il senso di insoddisfazione e di incompletezza che ne deriva distrugge. C’è un nucleo dentro tutta la realtà cosmica, un nucleo che è come un niente ma è un niente che vale più di tutto il cosmo messo assieme, quando uno dice “io”.
E’ giusto che il criterio della vita sia questo: “Che l’amaro sia mutato in allegria”. E non diciamo che questa è una illusione! C’è stato uno, nei primi anni dopo la morte di Cristo, uno che è ben noto storicamente, un uomo formidabile, che ha girato tutto il mondo di allora sostenuto da una forza personale incandescente e comunque raramente incontrabile nella storia: si chiamava Paolo e scrive “Io sono pieno di gioia nella mia tribolazione”. Prima di lui Dio disse la sera in cui l’avrebbero preso per ammazzare: “lo vi ho dato quello che vi ho dato affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. E’ proprio questa la parola con cui il fatto cristiano sfida il mondo e tutte le teorie possibili e immaginabili: la possibilità della gioia è esclusivamente un fenomeno cristiano, perché la possibilità della gioia implica che la vita abbia fatto un incontro nel quale abbia trovato la certezza, nonostante tutta la propria fragilità. La quale, non solo rimane, ma aumenta come consapevolezza: il senso del proprio niente e soprattutto il dolore acuto della propria incoerenza di quello che si chiama peccato.
Nonostante tutto questo, anzi, mentre tutto questo senso del proprio limite fisico e morale, psicologico ed etico permane, aumenta una capacità di certezza, un’esperienza di certezza come un’evidenza, una certezza sulla quale si fonda la vita e il tempo come continuo e sereno e lieto recupero, ripresa. Non per nulla il mistero cristiano principale è la Pasqua, che è il fatto della resurrezione, che vuol dire passaggio dal negativo al positivo: questa stupefacente capacità che il fatto cristiano ha di rendere positivo tutto.
E’ una frase di quell’uomo di cui accennavo prima, Paolo: “tutto – dice ad un certo punto nella sua lettera – coopera al bene per coloro che tendono a Dio”. E Sant’Agostino, che aveva fatto una lunga esperienza a riguardo aggiunge: “ Etiam mala”, anche i nostri mali, anche i nostri peccati, anche i nostri errori. Ecco, questa proposta e questa speranza è ciò che ci fa superare l’impaccio e non ci fa sentire vergognosi ad affrontare chiunque, come io stasera affronto voi che al 99% non conosco ma che avete con me una consanguineità che supera qualsiasi consanguineità di altro ordine, quale desiderio, quale natura di quel desiderio a cui io ho accennato prima, quel destino di felicità cui ho accennato prima; e ancora di più il fatto che tutti ci troviamo dentro quell’alveo benedetto che è la tradizione cristiana, l’annuncio cristiano, vale a dire il grido di sicurezza, la promessa, la promessa di positività alla vita.
Cristo, Uno tra noi, in questo mondo
Perciò nella tua domanda, la prima cosa che vorrei sottolineare è la giustezza della combinazione vita e felicità; non una astrazione giovanilistica, non un sogno adolescenziale ma una proposta reale alla vita reale. Mi dispiace che io, evidentemente, non mi sono organizzato a queste domande, ma avessi portato soltanto un po’ di quelle lettere che metto da parte, basterebbe leggerne tre o quattro di adolescenti, giovani, vecchi, di figli o di genitori, sempre da condizioni eccezionalmente disagiate (ma comunque questo può essere sentito anche come una affermazione gratuita) è esattamente la sfida, per usare il termine messo a tema, che la tradizione cristiana attraverso questa mia voce fessa e questa mia pronuncia che vi deve far orrore, è la sfida che fa alla vita di ognuno di voi, che abbiate i capelli bianchi o siate appena sbucati dall’oscurità dell’infanzia.

Ma la seconda cosa, che ho già toccato senza accorgermene, è che questa sfida non può venire, non viene da sé. Un solo Uomo in tutta la storia del mondo, in tutta la storia del pensiero, della religione, Uno solo ha osato dire: “Io sono la Via, la Verità, la Vita”. I più grandi nomi hanno detto: “io vi indicherò la strada”, come Buddha, come Mosè, come Maometto, “io vi guiderò per la strada che un Altro mi indicherà”. Un Uomo ha osato dire: “ Io sono la Via, la Verità, la Vita”. Ho chiesto un Vangelo per leggervi questo piccolo brano, Capitolo IV del Vangelo di San Luca. La storia è risaputa almeno negli anziani perché Gesù era stato per trent’anni uno come tutti gli altri, improvvisamente comincia a far parlare di sé, esce dal suo paese e per le strade, per le piazze, comincia a discorrere e la gente si raggruma vicino a lui.
Possiede un potere strano per cui gli ammalati sono guariti, tutta la Galilea, tutta la regione ne parla e quelli di Nazareth, suo paese natale, il paese dove svolge i suoi trent’anni di vita, si lamentano: “perché non li ha fatti da noi questi miracoli? Era uno come tutti gli altri! Perché non li ha fatti da noi?” ed erano pieni di risentimento verso di Lui. Un certo giorno, un certo sabato, Gesù ritorna. Siamo ancora agli inizi, ma ritorna nel suo paese come gli era normale perché seguiva la vita di tutti. Perché questa è la cosa colossale dell’annuncio cristiano: è che Dio è diventato una compagnia normale, una realtà umana, si è fatto realtà umana come compagnia alla nostra vita umana, perciò faceva come tutti gli altri e il sabato entrava nella sinagoga. C’era lì il “sacrestano”, l’inserviente e prendeva dal secchione, prendeva un rotolo della Bibbia e chiunque avesse voluto, alzando la mano, poteva uscire, leggere un pezzo e commentarlo. Era questo il primo sistema che Cristo usò per cominciare a dire quello che voleva dire, perché lui leggeva quelle cose e tutti restavano stralunati perché lui le interpretava in un modo assolutamente inusitato ma che faceva restare a bocca aperta, tanto che la gente diceva: “E’ cosi”. “Gesù ritornò in Galilea. Egli insegnava nelle loro sinagoghe. Si recò un sabato a Nazareth dove era stato allevato e secondo il suo costume entrò nella sinagoga e si alzò per leggere. Gli fu presentato il volume del profeta Isaia e svolto che l’ebbe – era un rotolo trovò il passo dove stava scritto: “Lo Spirito del Signore è su di me, per questo Egli mi ha consacrato, mi ha mandato ad annunziare la buona novella ai poveri – il senso della vita! Non una scoperta rischiosa degli intellettuali o dei filosofi, ma una saggezza di ogni persona, anche dell’analfabeta – ad annunziare la liberazione ai prigionieri, il recupero della vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, a proclamare per tutti il momento favorevole del rapporto con Dio”.
Questo brano di Isaia era uno dei pezzi della Bibbia che i Farisei indicavano come profetici, era uno dei pezzi che si riferivano al Messia. Arrotolato quindi il volume lo restituì all’inserviente e si sedette. Gli sguardi di tutti i presenti erano fissi sopra di Lui ed Egli cominciò a dire loro: “oggi si è compiuta questa scrittura in mezzo a voi: Io sono il Messia; questa profezia si è adempiuta”.
Questa è la prima sfida, il primo momento dialettico di Cristo con la società in cui era nato. Il primo gesto della Sua missione in che cosa consisteva? In una promessa: che i ciechi vedano, che il cuore sia liberato, che la gente sia confortata, che gli zoppi camminino. E’ una promessa innanzitutto per questo mondo, di una vita più umana in questo mondo. Anzi, la teologia cattolica spiegherà meglio questo nella morale, dicendo che chi vivrà in modo umano questo mondo potrà godere per l’eternità, felice: è il concetto di merito.
Questa è l’idea centrale di tutti i discorsi del Papa. Questo Papa ha scoperto nella sua vita personale, e adesso lo insegna a tutti, una cosa per cui la tradizione cristiana relegata nella soffitta o chiusa nell’aria misteriosa, strana e incomprensibile dei gesti sacramentali o della pietà, chiusa dentro le mura delle chiese: questo annuncio di Cristo, questa presenza di Cristo, il Papa l’ha come afferrata e riportata al suo posto. Il suo posto è nella nostra carne, nelle nostre ossa, è nella nostra vita di tutti i giorni, è nella nostra esigenza di amore, nella nostra esigenza affettiva, è nel rapporto con i figli e con i genitori, è nei rapporti tra ragazzo e ragazza, è nel rapporto con il libro che si studia, con la curiosità che fa indagare, con la necessità che fa lavorare, col gusto di costruire, con lo sguardo con cui si guarda lo spettacolo di queste vostre colline in un tramonto come quello di stasera.
Unica regola: il coraggio di un’amicizia
Questo cambia, e da questo si capisce, capisco che ci sei perché mi cambi, mi cambi la vita, non con un tocco di bacchetta magica, ma come in un cammino. Perché se noi fissiamo un fiore oppure il grano appena spuntato dalla terra, prima di mutare, se noi lo stiamo ad osservare non cresce più, non lo vediamo crescere. Ma dopo un mese, due, tre, la pianta è più grande, dopo un po’ di mesi è quello che è: è il grano che si trebbia. La vita non si vede mai salire, si vede che è già salita. Come quando ero piccolo: c’era una pianta in giardino e mia mamma mi metteva vicino alla pianta e segnava all’inizio dell’anno, con un coltellino dentro la scorza, a che punto ero arrivato; e l’anno dopo mi metteva vicino alla pianta e col coltellino segnava dove ero arrivato due centimetri, quattro, cinque di sviluppo. La vita non si sorprende nel suo moto, la si sorprende nel suo effetto. E cosi la Fede: “questa – dice Giovanni – è la vittoria che vince il mondo, la Fede”. Vince non con le armi, vince nel senso che ne afferra il significato, la gode nel gusto profondo, l’accetta e la porta nella sua “politica di prova”.

Volevo dire che la seconda cosa implicita necessariamente nella risposta alla sua domanda e da esplicitare è che la promessa di felicità è soltanto Dio che la può fare agli uomini e questa promessa Dio è venuto a farla. Si è preso uno di noi per farci questa promessa e c’è un solo modo per capire se è vero o no: seguirlo, vale a dire cercare nonostante le migliaia di interruzioni colpevoli, di distrazioni naturali, di incoerenza e di fragilità che rientrano nella nostra giornata, cercare di vivere con Lui, camminare umilmente con il tuo Dio. E’ questo che noi abbiamo l’ingenuità ed il coraggio di dire al nostro compagno di banco, o alla persona che troviamo per la prima volta in un salone di una festa. Perché come si fa a voler bene ad una persona senza desiderare che questo avvenga per lei, che questa promessa sia a lei tesa e che l’esperienza del suo adempimento riempia la sua vita, come si fa a voler bene? E impossibile! Ecco, insegniamo a voler bene al compagno di banco, al compagno di lavoro, insegniamo a voler bene all’individuo che ci siede vicino in treno o sul pullman che ci porta al lavoro. E’ dunque per una umanità “più umana” una rinnovata fedeltà cristiana. Ma il cristianesimo è la vita, è una vita perché vivere un’amicizia, cioè vivere una compagnia di uno vicino è una vita, il rapporto tra una madre e suo figlio è una vita; non si può ridurre a delle formule o ai momenti in cui dà il bacio. Quando facevo i capricci mia madre mi diceva: “guarda, invece di darmi il bacio fai del bene, ascoltami” e magari quella sera il bacio non lo voleva. Perciò è realmente come un’osmosi, un rovesciare dentro di noi, un lasciare che si rovesci dentro di noi, una sensibilità, una mentalità, un atteggiamento, un sentimento della vita diverso. Il Cristianesimo è questo.
L’avventura di una vita da Uomini
Dicevo che il Papa è il grande annunciatore di questa ripresa. L’anno scorso, quando ci siamo radunati a Rimini e Lui ha osato venire a un Meeting in mezzo a tanta gente, ci lasciò un impegno, l’impegno fu questo: che lavorassimo, ci sacrificassimo e pregassimo perché avvenisse sulla terra la civiltà della verità e dell’amore. Civiltà vuol dire una umanità vissuta, rapporti che creano la vita di un paese e prima ancora la vita di una famiglia, la vita di una compagnia; civiltà e questo, non riguarda l’aldilà, perché all’aldilà noi andremo attraverso il merito di queste cose. Altrimenti la nostra vita non avrà avuto, appunto, merito cioè senso, dignità.

Una ragazza. Io ed alcuni miei compagni di scuola abbiamo un problema con un nostro insegnante. Questo insegnante ha la grandissima capacità di distruggere quello in cui noi, giovani di 18 anni, crediamo: la nostra voglia di vivere, la nostra felicità e quelle poche o tante certezze che abbiamo. Ora Lei ci ha detto che la cosa più importante è far sì che “l’amaro che c’è in me sia mutato in allegria”: come è possibile questo per noi della nostra classe? Come è possibile che quelle cinque ore in classe siano un tempo di costruzione e non di distruzione?
Don Luigi Giussani. Innanzitutto mi permetto di dare un giudizio: un adulto che cerchi di distruggere le certezze dei giovani è un delinquente nel senso letterale del termine e, nel migliore dei casi, un egoista accanito che non ha altro gusto che proiettare se stesso sulla fragile tela di chi non può rispondere. Ma abbiamo mica detto che tutto coopera al bene, anche il male? Allora vorrà dire che tutto ciò che il vostro insegnante opera come tentativo di distruzione delle vostre certezze, vi dovrà aizzare di più a rendere ragione di queste vostre certezze. Ma siccome ognuno da solo è come impotente, e fragile, sentirete la necessità di mettervi insieme. E siccome anche il mettervi insieme può essere impacciato perché la somma di tante debolezze può aggravare la questione invece di risolverla, voi sentirete la necessità che la vostra compagnia sia guidata, aiutata da persone che abbiano fatto il cammino, abbiano vissuto in loro stesse gli interrogativi e le fatiche che voi vi sentite addosso; e perciò sentirete la necessità che la loro esperienza aiuti la vostra inesperienza.
Io dico sempre che la natura le cose più necessarie della vita le ha rese facilissime: infatti fra cento donne un bambino riconosce subito sua madre. Per vivere, la cosa più necessaria è la certezza, senza certezza uno non si muove. Anche sant’Agostino osservava argutamente che l’affermare che tutto è incerto è una contraddizione filosoficamente, razionalmente, perché per affermare che tutto è incerto bisogna affermare con certezza almeno una cosa: che tutto è incerto. Perciò per affermare che tutto è incerto bisogna contraddirsi, non lo si può dire naturalmente, razionalmente, è impossibile dirlo. Allora le certezze che riguardano l’esistenza hanno un accento, hanno un volto che immediatamente si rivela.
Cristiano, ovvero “chi ha ragione”
Supponiamo che entri in classe un professore e vi dica: “Questo qui è un libro” e tutti dite: “già è un libro”. “Ecco, guardate l’equivoco della nostra conoscenza: se uno non s’accorge del libro è come se il libro non ci fosse. Vedete dunque che è la ragione che crea il libro”. E’ un professore, diciamo, idealista. Dopo lui si ammala, viene il supplente e vuol partire dallo stesso punto, dice: “Questo è un libro, tutti abbiamo l’impressione che sia un libro ma dimostratelo, come fate ad essere certi che è un libro e che non sia un vostro pensiero?”. E questo è un professore con posizione scettica, come il tuo insegnante. Poi si ammala anche lui e allora viene il supplente del supplente, magari uno appena sfornato dall’università, entra dentro e domanda: “Cosa vi hanno spiegato?”. “Ci hanno detto del libro”. “E’ chiaro che questo è un libro! E’ evidente o no che questo è un libro?”. “Si, la nostra prima evidenza è che questo è un libro. Ma se uno non s’accorge che c’è è come se non ci fosse. Allora vedete che la conoscenza è l’incontro della nostra ragione con una realtà”. Questa è la filosofia cristiana. Allora amica mia, tu hai per natura un criterio per capire quale dei tre ha ragione: è quello che più si avvicina all’evidenza della tua conoscenza. Perciò l’atteggiamento del tuo insegnante io l’ho chiamato delittuoso, perché è una forzatura psicologica, non è una spiegazione.

Ad ogni modo quello che mi interessa sottolineare sono questi due criteri: 1) le certezze fondamentali; 2) l’amore di chi ti vuol bene.
L’intuito per capire queste due cose la natura te lo dà tranquillamente. Mettendovi insieme, guidati, usate questi due criteri e vedrete come riuscirete a smobilitare anche l’attacco che il vostro insegnante fa alla vostra conoscenza, e così ne uscirà un bene, vale a dire che voi uscirete da quegli anni forti, più consapevoli. Guardate che san Pietro scrivendo ai primi cristiani dice: “Sappiate rendere ragione a chiunque di quello in cui credete”. E’ un invito ad essere razionali, ragionevoli, perché “la fede – diceva San Paolo – è ragionevole ossequio a Dio”. Non per nulla lo ha detto Giovanni Paolo II davanti all’UNESCO: “Senza la fede la ragione è perduta dagli uomini; l’uomo di oggi è smarrito; ha smarrito la certezza della ragione”. Perché se Cristo è Redentore dell’uomo…. Cosa vuol dire che Cristo è Redentore (le prime parole con cui Giovanni Paolo II ha intitolato la sua prima Enciclica)? Redentore vuol dire che dà all’uomo la capacità di essere veramente uomo, di saper amare veramente la donna, di saper amare veramente i figli, di saper amare veramente l’amico, di saper amare veramente l’altro uomo, di saper amare veramente se stesso… amare se stesso, sì perché una delle cose più difficili che io trovo in questo rapporto con decine di migliaia di giovani che ho avuto e che ho in questi anni, la cosa più faticosa è quella di aiutare ad amare se stessi, aiutare i giovani ad amare se stessi. E questa è la prima imitazione che dobbiamo a Dio perché noi non ci siamo fatti da noi, è una sorpresa. E’ una sorpresa che in questo momento io ci sia. Vale a dire è un dono. E’ un dato si direbbe in termini scientifici, ma in termini umani e drammatici è un dono.

L’esercizio della libertà
E se voglio tagliare il rapporto con Dio rimane qualcosa di più grande di me che è solo il potere nel senso materiale del termine. E se aboliamo il rapporto con Cristo ci rendiamo schiavi dell’intellettuale di turno, che è servo del potere e a cui il potere da fama e in base ai cui dettati crea la mentalità della gente, con tutti gli strumenti che ha in mano. Così viviamo in una grande era di schiavi, di alienati mentali. E’ per questo che la caratteristica della gioventù di questi ultimissimi anni, distrutte tutte quante le utopie del ’68 (come ha detto il Papa a Milano), o le utopie delle ideologie, non aspettandosi più nulla da nessuno, la caratteristica della gioventù di questi anni è quella di adottare facilmente, come unico sistema di vita, l’adesione alla propria istintività, la posizione radicale, il suo istinto, la propria reattività.

Perciò l’uomo o dipende da qualcosa di più grande di sé – e qui sta la libertà da ogni uomo, anche da se stesso – oppure è schiavo del potere, di qualunque natura e qualunque esso sia. E quanto più il progresso tecnico si incrementa, tanto più questo è un pericolo definitivo. Su questo il Papa ha messo più volte in allarme il mondo: la perdita dell’umano. Io, quando discuto con i miei ragazzi dico: “Ma capite da dove prendete il vostro concetto di libertà? Lo prendete dall’aria, dalla mentalità comune: il vostro concetto di amore dell’uomo e della donna lo prendete dalla mentalità comune, l’idea del vostro rapporto con i genitori la prendete dalla mentalità comune. Ma come, le cose più importanti per la vostra vita le prendete dalla mentalità comune? Siete alienati! Mentre è dal di dentro di voi stessi, è dalla coscienza di voi stessi che l’illuminazione deve venire, che il criterio per determinare questi valori deve essere scoperto”. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Salonicco, che erano i più disastrati, tutti disoccupati, sottoccupati, (era la comunità più povera di allora, della prima cristianità) proprio in una lettera a loro ho trovato la più bella definizione di critica. In nessun filosofo nella storia della filosofia l’ho trovata più bella di questa, dice: “Vagliate ogni cosa, trattenete il valore, ciò che è vero, ciò che val la pena”. Ma quale è il criterio per discriminare e per trattenere? Dove l’ho pescato il criterio? O lo peschi nella tua natura, oppure sei vittima del potere altrui. Il delitto più grande nella traiettoria educativa della gioventù per noi che abbiamo la responsabilità, a mio avviso, è quello di non aiutare a far passare la fede il cui contenuto è stato dato dal papà, dalla mamma, dai preti, dalle suore, una volta dalle maestre (che adesso insegnano l’inverso). Ma occorre far passare questa tradizione attraverso quello che in greco è indicato con una parola che a noi sembra scettica mentre è una parola bellissima: crisi. Crisi è una parola italiana che deriva dal greco, che vuol dire “vagliare”, vagliare per capire il valore. E’ come se la natura facesse i bambini con una bisaccia dietro, analogamente all’antica favola di Esopo delle due bisacce: quella davanti e quella dietro. Invece noi ne abbiamo una sola dietro e in questa bisaccia papà, mamma, suore, preti, zie, nonni ci mettono dentro quello che a loro sembra più buono per noi e così il bambino cresce fino a sette, otto, nove, dieci anni con il bagaglio di quello che gli è stato dato: “me lo ha detto la mamma” è il criterio fondamentale”, giustamente, perché per natura è cosi. Ma a una certa età la stessa natura dà istinto di prendere questa bisaccia e di portarla davanti per dire “portarla davanti” in greco si usa la parola che in italiano ha dato origine al termine “problema”; deve diventare problema quello che mi è stato dato e rovistando, cioè mettendo in crisi quello che mi e stato dato, io posso capire qualsiasi valore; valore vuol dire “val la pena”, cioè ciò che val la pena per la mia vita. Se uno non fa questo processo, ciò che ha imparato non diventa mai convinzione o deve aspettare le batoste della vita a quaranta, cinquanta, sessanta anni. Ma così si perde la giovinezza, vale a dire si perde la costruttività della propria fede e questa, a mio avviso, è la descrizione della cristianità intera oggi.
Una questione di soddisfazione
Perciò è urgente che la fede ritorni ad essere l’incontro in cui la ragione trovi la risposta ai suoi inappagabili interrogativi. Ma non sono questioni filosofiche grandiose, anche per chi ne ha necessità; sono le risposte implicite nel canto che abbiamo fatto in principio: “ma l’amaro, l’amaro che c’è in me sarà mutato in allegria”. Questa solitudine tra i miei compagni, questa amarezza di quando sono umiliato in cui non sento l’aiuto di nessuno, questo disagio di quando vedo papà e mamma che si comportano in un certo modo fra loro, quando la casa non è più dimora, quando la realtà sociale tenta di distruggere, come ha detto prima lei, ciò su cui io possa con serenità costruire; ecco, è qui dove deve giungere la risposta della fede; la fede deve dimostrare di essere capace di risposta a questi livelli.

Dalla prima ora di scuola nel mio liceo, mi sono fatto il proposito di ripetere questa frase del Vangelo perché mi sembra il centro di tutta la pedagogia cristiana. La frase è questa: “Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù”. Allora dicevo in scuola: “Ma ragazzi, fin quando ve ne infischiate della vita eterna vi capisco perché non avete ancora sufficiente forza di immaginazione, di serietà; ma se vi infischiate del centuplo quaggiù siete proprio dei fessi”. “Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù” vuol dire che amerete cento volte di più vostra madre, vostro padre, i vostri figli, la vostra donna il vostro uomo, i vostri compagni di banco, la vita. Per questo ho capito quello che dice Cristo: che il giudizio sarà sulla testimonianza che avremo dato. Perché non c’è nessuna cosa più buona per l’uomo, di qualunque stirpe o nazione, che trovare delle persone la cui umanità è stata resa più umana dalla fede, che vuol dire che la vita ha un senso possibile, pertinente i giorni del cammino, pertinente le cose che gremiscono di desideri il nostro cuore quotidianamente, che fanno vibrare i nostri rapporti. E’ venuto a Roma il cristianesimo … il fatto cristiano deve ridire quello che è, ma qui è la domanda con cui concludiamo: duemila anni fa l’hanno trovato là che parlava dal pulpito della Sinagoga, in quella piazza in cui c’era un gruppo di gente a cui ha detto: “chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù”. Era gente che pendeva dalle sue labbra perché, dice il Vangelo: “Nessuno ha mai parlato come questo uomo”. Ecco, duemila anni fa in quella piazza…. E ora come facciamo a trovarlo, come facciamo a incontrarlo? Perdonatemi, ma quando la nostra vita, nel pensiero, nel cuore nella sua modalità esteriore viene mossa, commossa, cambiata dalla sua parola, dal suo annuncio allora noi comprendiamo che Egli è presente.
In filosofia si dice che un essere è presente dove agisce; se si sente un rumore in una stanza silenziosa vuol dire che c’è qualche cosa che è presente, anche se non la si vede che è presente, e infatti lo è. “Io Padre ti prego che siano una cosa sola affinché il mondo si accorga che Tu mi hai mandato” . Lui ha preso dimora fra di noi e rimane fino alla fine dei tempi e il volto di questa sua presenza se duemila anni fa era un corpo, il suo corpo come il nostro, questo corpo si è come dilatato nel mondo, nel tempo, nello spazio, assimilando a sé tutti coloro che hanno cercato di andargli dietro. Egli è presente in coloro e attraverso colore che Gli dicono: “Ti credo, aiutami a seguirti”. Più precisamente Egli è presente attraverso il fenomeno che si avvera immediatamente quando uno cerca di seguirlo che si unisce all’altro che cerca di seguirlo. Questa è l’unità dei credenti.
Il miracolo dell’unità
Stasera, anche nella scempiaggine della banalità una Realtà si muove, una Presenza ci sfida, ci provoca. Nella mia scuola – così concludo e così iniziò la mia esperienza – quando facevano le assemblee erano divisi tra comunisti e monarchico-fascisti, destra e sinistra secondo le parole che ormai non hanno più veramente senso. Stavo andando a casa a mezzogiorno, tutto pensieroso e dicevo: “Ma i cristiani non ci sono?” e ho doppiato quattro ragazzetti che non erano neanche del liceo, erano del ginnasio, e ho detto loro: “Ma voi siete cristiani?”. Loro mi dissero un po’ stralunati: “Si”. Allora io li investii dicendo: “Ma come, siete cristiani? E dove si vede in scuola? Su milleduecento sarete battezzati in millecento, ma il cristianesimo dov’è? Che cristiani siete?”. La volta dopo, nell’assemblea, uno di quei quattro ragazzetti di cui ricordo i nomi, anche se tre sono già morti, uno che si chiamava Franco si alzò e disse: “Noi cattolici …”
presentando una terza mozione. Da quel momento, in quella scuola dove non si parlava mai di cristianesimo e Chiesa, per dodici anni (tanto quanto ci sono stato io che posso testimoniarlo) non c’è stato nessun contenuto più vibrante di diatriba, di dialettica, di attrattiva, di iniziativa che il cristianesimo. Da quando alcuni cristiani si sono mossi insieme. Perché questo è il miracolo attraverso cui Cristo dimostra la sua presenza: l’unità dei cristiani.

Costruttori di un mondo nuovo
Provate a pensare se in un paese, quelli che vanno in chiesa, la cosiddetta Parrocchia, veramente vivessero una unità tra di loro! Vivere l’unità tra di noi vuol dire che ognuno condivide il bisogno dell’altro. San Paolo diceva: “Sapete che siete membra gli uni degli altri”, con quella espressione che tutto l’internazionalismo di questo mondo non ha mai saputo immaginare! “Sapete che siete membra gli uni degli altri”, l’unità dei cristiani, degli uomini, il miracolo assoluto che è impossibile all’uomo. E’ impossibile essere unito all’altro uomo, essere unito al proprio fratello, è impossibile! Tanto è vero che l’uomo saggiamente fa una lotta spietata in tutto il mondo perché si affermi che anche il rapporto tra l’uomo e la donna non è un’unità.

Comunque, almeno alcuni accenti del desiderio profondo che ci anima, e che anima ormai centinaia di migliaia di gruppi, oltre che di persone, sono emersi; il desiderio profondo comunque è quello di collaborare ad una umanità più umana, a una civiltà nuova della verità e dell’amore. “Civiltà” come dice il Papa, e per far questo c’è un’unica strada: quella di rendere finalmente viva, vivente, cioè aderente alla vita, incarnata nella vita, la fede in Cristo.
Perciò possiamo sbagliare un milione di volte, ma questo intendimento è cosi giusto e cosi grande che attraverseremo il milione dei nostri errori. Perciò i grandi aiutino, non ci condannino.

giovedì 24 marzo 2016

Il nostro Getsemani alla ricerca di Dio

Come Cristo ci insegna a dire Abbà-Padre

Il nostro Getsemani alla ricerca di Dio

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Alessandro D€'Avenia


«Sono terribilmente infelice. Se credi che una preghiera possa essere efficace (non scherzo), prega per me e vigorosamente». Così scriveva Charles Baudelaire a sua madre il 18 ottobre del 1860, dall’inferno spirituale da cui cercò di uscire negli ultimi anni della sua vita. Ogni uomo ha la sua notte. Ed è proprio in quella notte che trova Dio, perché la notte lo lascia nudo e senza risorse di fronte all’insufficienza di tutto e di se stesso. Dalla ferita inguaribile della propria radicale solitudine emerge l’unica preghiera vera, perché è la vita stessa a farsi supplica: voglio essere da te salvato, perché io da solo, ora che mi conosco, non posso. Dante, nel suo viaggio, si perde nella selva oscura, nella notte tra il giovedì santo e il venerdì santo dell’anno giubilare. 



A quella notte dedica i primi versi del poema, il 'la' notturno al suo percorso di salvezza. Secondo molti commentatori è proprio la notte tra il giovedì 24 marzo e il venerdì 25 marzo che vede coincidere (come quest’anno) venerdì di Passione e Annunciazione. A quella notte del 24 marzo Dante dedica un verso che in undici sillabe scolpisce tutte le nostre notti: «la notte ch’io passai con tanta pieta». La 'pieta' è la parola che Dante usa per indicare, con perfetta polisemia, da un lato la paura della tenebra e dall’altra proprio la misericordia che lo raggiunge in quella tenebra, perché Maria lo soccorre mandando Lucia, Beatrice, Virgilio a recuperarlo. 



Non può che essere così se la luce del giorno che gli fa sperare salvezza è quella del venerdì 25 marzo, data in cui nella tradizione medievale Dio creò il mondo e lo ricreò poi con ilfiat di Maria. La notte che ogni uomo e donna attraversano per trovare Dio, la notte che gli esperti di vita spirituale attribuiscono ai santi come passaggio dolorosissimo e necessario, in cui l’uomo si sente dannato dalle sue sole forze e trova in Dio la sua unica e radicale speranza di salvezza, come chi sta cercando l’aria sott’acqua dopo essere naufragato. Nel Vangelo, che è la forma di ogni storia umana, essendo Cristo il Dna di ogni vita, questa notte deve essere tutte le nostri notti ed è per questo che in questa notte Cristo cade per terra nella sua selva, dalla quale si vede Gerusalemme, tra i contorti rami degli alberi d’ulivo, che preannunciano il tormento del legno della Croce. 



Cristo, solo e triste fino alla morte in questa sua notte, il senso di tutte le notti degli uomini, chiede compagnia ad altri uomini, tre in particolare che, gravati da sonno e paura, si addormentano: la solitudine di Cristo non è lenita da nessuno, nessun uomo può raggiungerlo neanche standogli a fianco. Cristo sperimenta su di sé le conseguenze del peccato, viene applicata alla sua natura divina l’assoluta estraneità della morte, come un veleno che egli beve volontariamente, così da renderlo inefficace, dopo averne subito tutte le conseguenze. Il sudore è di sangue, perché l’essere viene sradicato dalla sua identità immortale e si sente morire in vita, donandosi alla morte. In questa notte, Cristo si trova faccia a faccia con il Padre, e lo chiama come nessun ebreo ha mai fatto, a dimostrazione che lui è l’unigenito figlio del Padre: lo chiama col nomignolo affettuoso dei bambini: Abbà, Babbo, Papino. L’uomo-Dio ha paura, per questo tutti gli uomini possono avere paura di ciò che li fa morire, possono avere paura di morire come le ragazze dell’autobus spagnolo, come i cittadini di Bruxelles. Cristo non elimina la paura, ma ci permette di abitarla: l’invito più frequente di Dio quando entra nella storia è 'non temere'. 



Un non temere che non elimina il nostro tremare di fronte alle difficoltà della vita, alle cadute, agli errori, alla nostra radicale solitudine quando la vita ci frusta. Ma lui può dirci di non temere, perché ha parlato con Abbà: ho paura di morire, gli ha detto, ma non sia fatto quello che voglio io, ma quello che vuoi tu. Salvami tu, perché io non so come fare, mi fido di te, ora che tutto sto per perdere, i miei si sono addormentati e Gerusalemme brilla nella notte come il più terribile patibolo. Nelle tue mani mi rifugio. È la notte della 'pietà' che Pascal sperimentò proprio scoprendo che il sudore di sangue di Cristo lo riguardava: «Quelle gocce di sangue le ho versate per te» (Pensieri, VII, 533); è la notte che Dante paragona proprio a un naufrago che si aggrappa alla terra, e si volge a guardare l’acqua mortifera. È ogni notte questa, la notte di un amore che si frantuma, la notte di una perdita irreparabile, la notte di chi scopre che le cose si rovinano e non corrispondono mai al nostro desiderio di infinito... 

Grazie a quella notte noi possiamo attraversare le nostre, perché solo nella nostra notte impariamo a dire Abbà, l’unico nome che ci salva dalla notte, che spezza la nostra solitudine e ci raggiunge proprio lì dove ci sentivamo irreparabilmente soli e perduti, perché solo quella supplica radicale ci porta dritti nel cuore della Misericordia. «Miserere di me, gridai a lui», urla Dante a chi era già lì, Virgilio, inviato da Maria che aveva prevenuto il suo urlo notturno, urlo che così si svela essere non una richiesta ma la risposta adeguata a un’azione preventiva del Padre-Abbà, che ci attira a sé, più che mai, nei nostri Getsemani.

domenica 20 marzo 2016

ASCORBATO DI SODIO

ASCORBATO DI SODIO
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Queste considerazioni le faccio dopo aver presentato “UN FILMATO RIVOLUZIONARIO”. In effetti il concetto che viene introdotto è veramente rivoluzionario nel senso che la Vit C può essere usata come il primo chemioterapico in assoluto perché il più efficace ed il più selettivo. Il Dr. Domenico Mastrangelo fa tutta la storia della Vit C, da quando è stata scoperta fino ai giorni nostri. Stupisce il venire a sapere che già nel 1949 medici la utilizzavano per la cura dei tumori, non solo ma con ottimi risultati. Era uscito anche un testo che documentava centinaia di casi di guarigione di tumori con la Vit C fatta per via endovenosa. Per via orale può essere usata altrettanto bene ma si devono utilizzare dosi veramente ciclopiche, da 20 a 40 gr perché l’acido –Lascorbico non viene completamente assorbito. Un suo sale invece viene assorbito molto meglio perché molto più idrosolubile e si tratta dell’ASCORBATO DI SODIO. Per farlo è semplicissimo, basta sciogliere in mezzo bicchiere di acqua 1 cucchiaino di BICARBONATO DI SODIO ed un cucchiaino di VIT C. Io vi consiglio di sciogliere il tutto in un recipiente abbastanza grande di succo di arancia o di limone, ho detto un recipiente abbastanza grande perché la schiuma che si produce se il bicchiere è piccolo rischierete di vederla colare sul pavimento. E’ importante il succo di agrumi perché avrete anche BIOFLAVONOIDI, VIT P e SALI MINERALI oltre ad una certa quantità di VIT C naturale.  Una volta in circolo il l’ASCORBATO DI SODIO libererà il sodio e vi resterà solo la VIT C o ACIDO-L-ASCORBICO. E poiché viene maggiormente assorbito non sarà più necessario assumerne 20-40 gr ma molto meno , io credo 5-10 gr. E’ un metodo per evitare le endovenose di VIT C. Io sono profondamente convinto che sia validissimo. La quantità di SODIO che si introduce è irrisoria e non può avere nessun effetto sulla pressione arteriosa dal momento che corrisponde a pochi grammi di sale da cucina. Il meccanismo con cui agisce la VIT C sui tumori è semplicissimo. Poiché è una molecola che assomiglia tantissimo a quella del glucosio viene scambiata dalla cellula tumorale come glucosio (la cellula tumorale si alimenta solo di glucosio). Una volta entrata nella cellula tumorale la VIT C assorbe un elettrone dal ferro di cui la cellula tumorale è ricchissima e si comporta come un PRE-OSSIDANTE. Cioè l’elettrone che ha ricevuto dal ferro lo cede all’acqua formando in tal modo ACQUA OSSIGENATA. Questa danneggia gravemente tutti i meccanismi endocellulari della cellula tumorale e la spinge all’apoptosi (al suicidio). Questo meccanismo è stato verificato fin dal 1949, successivamente è stato riconfermato da PAULING (premio Nobel)il quale ha pura portato un ampia casistica di malati terminali di cancro che hanno ricevuto un miglioramento con l’uso della sola VIT C. Dice il Dr. Domenico Mastrangelo che noi viviamo in uno stato di pre scorbuto se consideriamo la quantità irrisoria di VIT C che assumiamo. Infatti l’uomo ed i primati ed alcune cavie hanno perso l’enzima per sintetizzare la VIT C. Tutti gli altri animali hanno questo enzima ed infatti non vanno soggetti rarissimamente a tumori. Solo gli animali in cattività vanno soggetti a tumori ed a malattie infettive (anche se in percentuali molto inferiori alle nostre), ma questo dipende dal mangime pieno di conservanti che gli somministriamo.. Un animale in condizioni normali, a parità di peso, sintetizza 13 gr di VIT C al giorno, ma in condizioni di stress ne può sintetizzare fino a 50 gr. Questo ci dice l’importanza che ha la VIT C nel mantenere la salute ma ci dice anche che le tabelle che ritroviamo sui testi della quantità di VIT C necessaria (di pochi milligrammi) non sono corrette. Chiaramente nonostante le prove concrete portate da illustri ricercatori le CASE FARMACEUTICHE hanno sempre ignorato questi studi sulla VIT C, anzi hanno prodotti degli studi (artefatti) per dimostrare che la VIT C non serve a nulla. Resta da spiegare perché gli animali ne producano così tanta. Introducendo l’ASCORBATO DI SODIO sia chiaro che non escludo gli altri metodi che sono stati usati per curare i tumori. Ad esempio l’ASCORBATO DI POTASSIO della cura Pantellini può essere benissimo associato all’ASCORBATO DI SODIO. L’ASCORBATO DI POTASSIO infatti deve essere usato in dosi molto basse ed ha un meccanismo di azione diverso. Il Dott. Luigi Garzillo mi pare abbia appena fatto un post sulla cura Pantellini. Pertanto oltre alla VIT D che finora abbiamo ampiamente trattato si può associare anche la VIT C oltre ad altre vitamine e principi che abbiamo elencato (Vit A, Vit K, Vit B6, magnesio, zinco, aloe, curcuma, ecc). Il fatto che PANTELLINI nonostante l’ampia casistica che ha riportato di guarigioni non è stato minimamente preso in considerazione. L’Oncologia continua con i suoi citotossici che fanno perdere i capelli alla prima seduta e questo dice tutto di quanto possano far bene.. Mentre la VIT D secondo il ricercatore GARANT agisce sulla prime e seconda fase del tumore (oltre che sulla prevenzione) la VIT C agisce nelle fasi conclamate e terminali, proprio quando le cellule hanno perso ogni direzionalità e si alimentano solo di glucosio. Questo della VIT C è veramente rivoluzionario ed è allucinante che i CENTRI ONCOLOGICI non la prendano in nessuna considerazione.  Ma chiaramente ci sono grossi interessi di mezzo e questo spiega tutto. Quindi per una CHEMIOTERAPIA NATURALE potremmo indicare il seguente protocollo:

-          VIT D ad alte dosi, io consiglio ormai 300.000 UI al giorno per sei giorni  (1 milione ed 800 mila UI)da continuare con 300.000 UI al mese. Non avrete solo una prevenzione dei tumori (oltre che la cura dei tumori di 1° e 2° grado) ma anche una prevenzione delle malattie degenerative, articolari, allergiche e cardiovascolari).

-          VIT C meglio come ASCORBATO DI SODIO ( si mescola 1 cucchiaino di VIT C con 1 cucchiaino di BICARBONATO DI SODIO, meglio in succo di arancia o di limone), 5-10 gr al giorno che corrispondono a tre-sei cucchiaini da te delle due sostanze che vanno mescolate in un recipiente grande

-          ASCORBATO DI POTASSIO, circa 1 gr al giorno sciolto in acqua o in succo di frutta.

-          ALOE ARBORESCENS del padre Zago , due cucchiai al giorno.

-          Compresse di CURCUMINA da 300 mg, tre cp al giorno.

-          TE VERDE più tazze al giorno (contiene Epigallato di Epigallacatechina (EGCG) un potente vasocostrittore dei vasi tumorali (determina necrosi del tumore per apoptosi.

-          ZINCO OSSIDO 10 mg/die è un potente immunostimolante

-          LE BRASSICACEE sono dei potenti antitumorali. Fra queste spicca in particolar modo il RAFANO RUSTICANO e la RAPA sia bianca (Brassica Rapa ) che la RAPA ROSSA o barbabietola rossa (Beta Vulgaris Rubra) e la Verza. La Rapa e la Verza  hanno una potente azione antitumorale. Pare che tale azione sia dovuta a glicosidi solfocianici (sinalbina, gluconasturzina ecc), sia a gruppi S-H che hanno azione del tutto simile all’allicina. I glucosidi solfocianici sono comuni nelle crucifere ed hanno un azione apoptosica, cioè favoriscono la morte delle cellule tumorali

-          - L'Aglio con i suoi prodotti solforati naturali ha dimostrato di essere uno dei più potenti antitumorali in natura; i primi studi consistenti risalgono ai primi anni 60 e sono stati raccolti dal farmacologo Cattorini (oltre 100 studi); però l'aglio occorre mangiarlo crudo alla dose di 30 gr al giorno (diventa tossico solo sopra i 700 gr)

-          Magnesio: il magnesio può essere assunto anche come cloruro di magnesio; è la forma più naturale, quella che si trova nell'acqua del mare; un cucchiaino da caffè al giorno meglio al mattino prima di colazione con molta acqua.

-          Il Selenio è già pronto in erboristeria o in farmacia in tavolette dosate, 1/die è un ottimo anti radicali liberi e quindi anche anti infiammatorio; agisce in sinergia con tutti gli altri anti infiammatori ed anti radicali liberi.L'ora della somministrazione è indifferente

-          Nell'alimentazione si devono eliminare le proteine animali, ad eccezione del pesce, e sostituirle con le proteine dei legumi, fagioli, lenticchie ceci. Un ottima cosa è mangiare a colazione un frullato di frutta (frutti vari e di stagione), a pranzo un insalata mista con rucola , insalatina, fagioli, tonno, salmone, olive snocciolate e condita con olio di oliva extra vergine (in abbondanza), oppure pasta integrale seguita da verdura mista e da pesce, a cena un minestrone di verdura con molti fagioli e lenticchie. Si usi spesso anche aglio e cipolla. Fra i pasti, come spuntino, si può usare qualche frutto senza esagerare. E' buona cosa eliminare gli zuccheri semplici ( con qualche eccezione), gli alcolici e gli alimenti in barattolo. Si possono usare invece liberamente gli alimenti surgelati. Ad esempio, per i legumi, si possono cuocere all'inizio della settimana, fare delle porzioni da consumare durante la settimana. Per riscaldarli si può usare liberamente il forno a microonde. Lo stesso discorso vale per i minestroni di verdura. Si usi spesso la verza tagliata sottile e condita con olio e sale; meglio ancora se a questa si aggiunge un po di cipolla (tagliuzzata) o uno spicchio d'aglio. Per le bevande non si usino bevande troppo zuccherate (es CocaCola), meglio l'acqua fresca naturale. Per il caffè si usino pure due caffè al giorno purchè non si zuccheri troppo. Le spezie si possono usare liberamente, in particolare quelle aromatiche ( timo, origano, salvia, maggiorana) sono molto salutari. Si usa l'olio di oliva extra vergine in abbondanza perchè ha una spiccata azione anti-tumorale.
dr. Claudio Sauro - Chemioterapia naturale

sabato 19 marzo 2016

Olio di cocco: qualità benefiche, risparmio, innumerevoli usi



Olio di cocco: qualità benefiche, risparmio, innumerevoli usi
del dr. J. M. Mercola
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Per millenni l'olio di cocco � stato utilizzato come prodotto dietetico e cosmetico. Si tratta di un potente distruttore di ogni tipo di microbo: virus, batteri, protozoi (molti potenzialmente nocivi). L'olio di cocco � oltretutto un naturale apportatore di grasso di alta qualit�, fondamentale per una salute ottimale dell'organismo.
Circa il 50 per cento del grasso contenuto nell'olio di cocco � acido laurico, elemento estremamente raro in natura. L'olio di cocco contiene acido laurico pi� di qualsiasi altra sostanza sulla Terra.
Il nostro organismo converte l'acido laurico in monolaurin, un monogliceride capace di distruggere i virus lipido rivestiti come HIV, herpes, influenza, morbillo, batteri gram-negativi e protozoi come la Giardia lamblia. Di certo � uno dei motivi che rendono l'olio di cocco cos� utile in medicina, sia nell'uso esterno che in quello interno.
L'olio di cocco � composto da acidi grassi a catena media (MCFAs) i quali sono facilmente digeribili e le cui membrane cellulari sono facilmente incrociabili. Gli MCFAs sono immediatamente convertiti dal fegato in energia, anzich� essere immagazzinati sotto forma di grasso. Ecco perch� consiglio l'olio di cocco come ideale sostituto dei carboidrati non vegetali.
L'olio di cocco viene assorbito senza fatica dal sistema digestivo e non produce picchi di insulina nel sangue, quindi per ottenere un immediato apporto energetico si pu� semplicemente ingerire un cucchiaio di olio di cocco, o aggiungerlo al cibo.
Per incrementare la presenza dell'olio di cocco nella propria dieta, si pu� sostituirlo al dolcificante per il the o il caff�. Dal momento che tra le sue propriet� vi � quella di migliorare l'assorbimento delle vitamine liposolubili, si pu� assumerne un cucchiaio per rafforzare l'efficacia delle vitamine assunte tramite il cibo o durante un trattamento specifico.
L'olio di cocco � ideale per tutti i tipi di cottura, in quanto resiste a temperature molto elevate senza subire deterioramenti, come invece avviene in molti altri tipi di oli (l'olio di oliva, per esempio, proprio per questo motivo non � adatto alla cottura).
Inoltre, l'olio di cocco non diventa rancido, il che � un enorme vantaggio se lo si utilizzi per intrugli fatti in casa. E' provato che dopo essere stato conservato a temperatura ambiente per un anno, l'olio di cocco non denoti il minimo irrancidimento.
Benefici generici per la salute apportati dall'olio di cocco.L'olio di cocco offre una lunghissima lista di benefici per la salute, se viene incluso nella dieta quotidiana. Oltre alle propriet� antimicrobiche, � utile per:
- Supportare la salute del cuore ed una corretta funzione tiroidea
- Apportare benefici al cervello
- Rafforzare il sistema immunitario
- Fornire un ottimo carburante all'organismo
- Rinforzare a accelerare il metabolismo quando si ricerca una perdita di peso
- Mantenere la pelle sana e giovane
Ma l'olio di cocco ha anche un numero impressionante di altri usi, dalle applicazioni topiche di bellezza, ai trattamenti di primo soccorso, alla pulizia in generale.
L'olio di cocco pu� sostituire decine di prodotti di bellezza e cura del corpo.
Un articolo di Delicious Obsessions elenca anche non meno di 122 usi creativi dell'olio di cocco, di cui 21 ricette per la cura della pelle.
Di seguito vado ad elencarne alcuni.
- Strucco: imbevendo di olio di cocco un batuffolo di cotone pulito o un panno umido.
- Detersione viso: massaggiando viso e collo con un cucchiaio di olio di cocco su viso e collo.
- Scrub corpo: mescolando parti uguali di olio di cocco e zucchero di canna biologico in un barattolo di vetro e applicandolo sulla pelle asciutta prima della doccia o del bagno.
- Scrub viso: al posto dello zucchero, mescolando l'olio di cocco con bicarbonato di sodio o farina d'avena.
- Lozione per la rasatura: applicando un sottile strato di olio di cocco sulla zona da radere. L'acido laurico contenuto nell'olio di cocco servir� anche come antisettico per eventuali tagli da rasatura.
- Idratante per il viso ed il corpo: sia da solo, che mescolandolo con l'olio essenziale preferito (assicurarsi di utilizzare un olio essenziale di alta qualit� per l'applicazione topica). E' possibile produrre una crema idratante soffice e spalmabile anche a basse temperature frustando l'olio di cocco con un miscelatore elettrico
- Antirughe: se applicato localmente l'olio di cocco aiuta a ridurre segni e rughe sottili, contribuendo a mantenere i tessuti connettivi forti ed elastici.
- Crema per le cuticole: una piccola quantit� di olio di cocco strofinata intorno alle cuticole ammorbidisce le zone secche.
- Deodorante: una piccola quantit� di olio di cocco applicata sulle ascelle aiuta a tenere a bada gli odori, grazie alle sue propriet� antibatteriche. Se si preferisce, � possibile aggiungere una piccola quantit� di bicarbonato di sodio, o creare un vero deodorante usando olio di cocco, bicarbonato e polvere di radice. Ulteriori info nel seguente video (lingua inglese con sottotitoli in automatico attivabili su YouTube)
Il sito Delicious Obsessions elenca altre ricette per la preparazione di deodoranti a base di olio di cocco.
- Olio da bagno: Aggiunto all'acqua nella vasca da bagno vostro bagno aiuta a idratare la pelle secca causa di pruriti (rimuovere i residui dal fondo della vasca per evitare successivi scivolamenti). Assicurarsi che l'acqua sia pi� calda di 25 gradi Celsius per evitare che l'olio si solidifichi.
- Sapone: l'olio di cocco � uno degli ingredienti fondamentali di molte ricette per la preparazione di sapone fatto in casa.
- Burrocacao: sia applicando una piccola quantit� di olio di cocco, cos� come � sulle labbra, oppure realizzando un sostituto del burrocacao attraverso una delle molte ricette presenti online.
- Dentifricio: Miscelato al bicarbonato di sodio l'olio di cocco pu� sostituire il dentifricio. Il bicarbonato di sodio pulisce delicatamente, mentre l'azione antibatterica dell'olio di cocco pu� mantenere sotto controllo i batteri nocivi.
- Repellente per insetti nocivi: una miscela di olio di cocco con oli essenziali di alta qualit� pu� aiutare a tenere a bada gli insetti nocivi se applicato sulle porzioni di pelle esposte alle punture. Tra gli oli da miscelare si consigliano: menta piperita, melissa, rosmarino, olio di albero del the, citronella, geraniolo, olio di erba gatta e / o estratto di vaniglia chiara.
Amico dei capelli.L'olio di cocco � anche noto per i suoi effetti benefici sui capelli. La maggior parte delle donne che ne fatto uso lo utilizzano come balsamo pre-shampoo. Basta massaggiare l'olio di cocco sui capelli asciutti e lasciare in posa per circa un'ora o pi�. Si pu� anche lasciare agire per un'intera notte, indossando una cuffia per proteggere il cuscino dalle macchie. Applicato in questo modo l'olio contiene il danneggiamento della superficie del capello da cui derivano  indebolimento e rotture. Se applicato come trattamento pre-lavaggio, una piccola quantit� di olio di cocco � in grado di penetrare in profondit� nel fusto del capello rendendolo pi� resistente al lavaggio.
Benefici per la salute orale.Come accennato l'olio di cocco miscelato al bicarbonato di sodio diventa un semplice, economico, ma efficace dentifricio. E' anche un'ottima alternativa per chi desideri un dentifricio senza aggiunta di fluoro, ma non ha intenzione di spendere di pi�.
Un'altra tecnica per la salute orale in cui l'olio di cocco si rivela molto utile sono gli sciacqui. Questa tecnica ha ridotto significativamente il mio accumulo di placca, cosa che mi permette di andare meno spesso dall'igienista dentale.
Lo sciacquo con l'olio � una pratica che risale a migliaia di anni fa, avendo avuto origine con la medicina ayurvedica. L'olio di sesamo, tradizionalmente consigliato per questo scopo contiene una concentrazione di oli omega-6 relativamente elevata. Pertanto, a mio avviso l'olio di cocco � di gran lunga pi� adatto all'uso, oltre al fatto che nella mia mente ha un sapore migliore.
E' sufficiente sciacquare energicamente la bocca con l'olio, proprio come si farebbe con un collutorio. E' necessario far lavorare l'olio in bocca per un periodo di 15 minuti. Chi sia ossessivo come me e cerchi il massimo risultato pu� proseguire anche per 30-45 minuti. Questo processo permette all'olio di 'tirare fuori' batteri, virus, funghi e altri detriti. Il momento migliore � al mattino prima di mangiare la prima colazione, ma pu� essere fatto in qualsiasi momento. Io cerco di farlo due volte al giorno. Una volta fatto, � necessario sputare l'olio e sciacquare la bocca con acqua. Evitare di deglutire l'olio in quanto si ingerirebbe una sostanza popolata dai batteri e qualsiasi altra potenziale tossina e detrito appena rimossi.
Se fatto correttamente, lo sciacquo comporta una notevole pulizia, disintossicazione ed effetti curativi, non solo per la bocca ma per tutto il corpo. Candida e Streptococchi popolano comunemente la cavit� orale; germi che possono contribuire all'accumulo di placca e carie, oltre a infezioni secondarie ed infiammazioni croniche in tutto il corpo. Lo sciacquo con olio di cocco pu� contribuire a ridurre il carico tossico totale sul sistema immunitario, impedendo la diffusione di questi organismi dalla bocca al resto del corpo, tramite il flusso sanguigno.
Olio di cocco alla riscossa.Oltre tutti gli utilizzi descritti finora, l'olio di cocco merita anche un posto nell'armadietto dei medicinali, sempre per via della sua attivit� antimicrobica e anti-virale. Ad esempio, l'olio di cocco pu� essere utile nel trattamento di:
- Infezioni dell'orecchio. Un paio di gocce in ciascun canale uditivo. In caso di olio soliifcato si pu� facilmente liquefare mettendone una piccola quantit� in un bicchiere o altro piccolo contenitore e poi immergendo quest'ultimo in una tazza d'acqua calda.
- Eruzioni e irritazioni cutanee, tra cui la varicella e herpes zoster: Basta applicare una piccola quantit� sulle zone anatomiche interessate.
- Infezioni fungine, come piede d'atleta e tigna, miscelandolo con un p� di olio di origano o di olio di albero del the.
- Punture di insetti, punture di api, herpes labiale con la stessa miscela descritta sopra.
- Epistassi: pu� aiutare se applicato regolarmente all'interno delle narici
- Emorroidi: per un risultato pi� efficace aggiungere un p� di olio essenziale di lavanda.
- Secchezza vaginale.
- Massaggio perineale: le donne in gravidanza possono utilizzarlo per massaggiare quotidianamente il perineo, a far capo da circa un mese prima del parto, per contribuire a ridurre le probabilit� di strappi e / o la necessit� di una episiotomia.
- Anti-pidocchi: l'olio di cocco � pi� efficace della permetrina contro i pidocchi. Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista European Journal of Pediatrics una combinazione di olio di cocco e anice � risultata quasi due volte pi� efficace della lozione permetrina comunemente prescritta per il trattamento dei pidocchi.
Non � meraviglioso vedere come la natura offra tante soluzioni efficaci per molti dei nostri mali? E lo fa in un modo spesso pi� efficace dei nostri intrugli chimici!
Usi sorprendenti dell'olio di cocco nella gestione domestica.
Ultimo ma non meno importante, l'olio di cocco pu� essere usato per espletare una serie di funzioni domestiche normalmente svolte da alternative pi� costose e potenzialmente tossiche.
1 Disinfettare il tagliere in legno. Da usare ogni volta che il legno comincia a sembrare secco.
3 Utilizzare come smalto metallico. E' consigliato testarlo prima su una piccola area.
4. Idratare e ammorbidire la pelletteria come si farebbe con altri prodotti da negozio.
5. Lubrificare cerniere cigolanti e meccanismi con olio di cocco, al posto di altri prodotti.
6. Pulire e lucidare i mobili in legno. Sempre meglio testarlo prima su una piccola area.
7. Lubrificare le corde della chitarra.
8. Rimuovere i residui di sapone con un panno inumidito con una piccola cucchiaiata di olio di cocco. Spruzzare la zona con aceto bianco e infine asciugare con un panno privo di lanugine.
10. Pulire mani e pennelli dopo l'uso di vernici a base d'olio, in luogo dell'acquaragia.
11. Pulire il cruscotto dell'auto con una piccola quantit� su un panno morbido e privo di lanugine.
12. Pulire e disinfettare la dentiera applicando un sottile strato di olio di cocco se non � in uso. Sciacquare prima dell'uso.
13. Pulire e lucidare le foglie delle piante d'appartamento strofinandole con una piccola quantit� di olio di cocco su un panno privo di lanugine.
14. Rimuovere la gomma da masticare da qualsiasi zona, compresi tappeti e capelli.

mercoledì 16 marzo 2016

Testori amava i ciellini perché «non si scandalizzano di me»

Testori amava i ciellini perché
 «non si scandalizzano di me»
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«Sono vicino a quelli di Cl perché se io dicessi loro tutte le porcate che ho fatto, direbbero: “Solo questo?”. L’uomo può compiere qualunque cosa, ma è prima di tutto figlio di Dio»
testoriI
Improvvisamente, è tornato forte e dolce Giovanni Testori, drammaturgo, poeta, scrittore, storico dell’arte, pittore, una meraviglia d’uomo. C’è sempre stato tra noi, Testori, a 19 anni dalla sua morte. Grazie al lavoro geniale di Giuseppe Frangi, infatti, la sua memoria è un torrente d’amore-dolore incessante. Ma stavolta Testori è proprio apparso a Boris Godunov, e ha parlato dell’esperienza da lui vissuta in Cl. Non trionfalismo, ma un richiamo di possente umiltà. Disse con la sua voce nebbiosa: «Io sono sempre stato un cattivo cristiano, in certi momenti financo disperato. Però sono nato in una famiglia cristiana… Mia madre, morendo ridiede peso, grembo, latte a questo mio povero modo di essere cristiano. Quando scrissi quegli articoli (sul Corriere, nel 1978, ndB), nessun vescovo, cardinale, uomo politico Dc mi contattò. Mi telefonarono invece, caro Godunov, quattro ragazzi: “Siamo di Comunione e Liberazione. Vorremmo parlarle”. E sono venuti nel mio studio. La cosa che mi ha stupito è che non erano nulla di tutto ciò che si dice che siano. Non mi hanno mai chiesto niente: né come fosse la mia povera vita, né quali fossero i miei errori. Ma mi hanno accolto – e io credo di averli accolti – come amici. Io non sono di Cl, ma sono vicino a Cl per una cosa: perché hanno questo senso dell’amicizia, questo senso dell’umanità, dell’integrità della fede. Questi ragazzi sono tutti d’un pezzo. Poi fanno anche loro degli errori, per fortuna, ma hanno questa rocciosità per quel che riguarda l’uomo, l’altro, il fratello, di qualunque idea egli sia, di qualunque stortura – Dio solo sa le storture che avevo e ho io. Loro non chiedono niente, non domandano conto di niente».
Testori, tenendosi con le mani la grande crapa dove brillano azzurrissimi gli occhi, continuò: «Vorrei ricordare qui che don Giussani mi raccontava in segreto il momento in cui ha scoperto il senso più abissale della sua posizione di prete e di uomo. Poco dopo essere stato ordinato, in una delle prime confessioni, si trovò di fronte a un giovane che non riusciva a parlare. Don Giussani lo esortava: “Non c’è niente che tu abbia fatto che non possa essere perdonato”. Ma l’altro faceva fatica, e don Giussani, con le parole che riesce a tirare fuori dalla sua fede e dalla sua umanità, lo invitava fraternamente. A un certo punto sentì questo giovane dire: “Ho ucciso un uomo”. Don Giussani stette lì un attimo, un’eternità, e poi rispose: “Solo uno?”. Mi raccontava quindi che lì capì che cosa siano la carità, la fraternità, l’amore, che cosa sia il perdono. Il ragazzo scoppiò a piangere. Da allora divennero, credo, amici; il ragazzo andò a confessare alle autorità il suo gesto e divennero amici».
Testori, preparandosi a risprofondare in cielo, finì: «Ora, io sono diventato amico di quelli di Cl perché se io dicessi loro tutte le porcate che ho fatto, risponderebbero: “Solo questo?”. Perdete tutto, ma non perdete questo senso “oltre tutto”, questa umanità che non si scandalizza di niente, questo sapere che l’uomo può compiere qualunque gesto, essere di qualunque parte, ma è prima di tutto uomo, figlio di Dio, creatura redenta da Dio diventato uomo. Se perdiamo questo, perdiamo il senso dell’Incarnazione: il senso totale del nostro essere cristiani. Come mi diceva don Giussani, l’integrità, la solidità, la fede, sono niente senza carità, senza amore. Devo ringraziare questi ragazzi di questa capacità di amore e umanità, perché arriverà il momento in cui la leggeranno anche quelli che oggi non la sanno leggere. Ma se anche non la leggeranno, non importa: l’importante è offrire». (Boris ha ritrovato queste parole in Dove la domanda si accende, Itaca). Ciao Testori, torna presto!


Leggi di Più: Testori e l'amicizia con don Luigi Giussani e Cl | Tempi.it 

sabato 12 marzo 2016

Preghiera di Michelangelo

 Preghiera di Michelangelo
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Anniversario della nascita di #Michelangelo
Caprese, 6 marzo 1475 - Roma, 18 febbraio 1564

  "Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio:
tra ’l foco e ’l cor di ghiaccia un vel s’asconde
che ’l foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all’opre, e fa bugiardo ’l foglio.
  I’ t’amo con la lingua, e poi mi doglio
c’amor non giunge al cor; né so ben onde
apra l’uscio alla grazia che s’infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.
  Squarcia ’l vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tuo luce, al mondo spenta!
  Manda ’l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch’io arda
il cor senz’alcun dubbio, e te sol senta."

Michelangelo Buonarroti, Rime, 85

Michelangelo, Particolare dell'autoritratto anamorfico presente nel Giudizio Universale, Cappella Sistina, 1545-61.

Albert Einstein e il suo amico frate (italiano e musicista)

Albert Einstein e il suo amico frate (italiano e musicista)

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Analizzare  e studiare la vita e il pensiero di Albert Einstein è affascinante per più motivi: anzitutto per la singolarità del personaggio e per l’acutezza di tanti suoi giudizi non solo sulla fisica, ma anche sui fatti contemporanei, dal nazismo al comunismo, al materialismo consumistico del primo Novecento; in secondo luogo perchè il ritratto che ne esce è quello di un uomo in divenire, anche nel suo rapporto con la fede e con Dio (rapporto che non rimane sempre uguale, come spesso sembra di capire da varie biografie, ma anzi si approfondisce sempre più, con il tempo).

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Ci sono almeno tre Einstein: il giovane infervorato che scrive canti religiosi
e mangia secondo le regole dell’ortodossia ebraica; l’uomo matura che ama, in verità senza ben conoscerlo, Spinoza, ha un forte senso religioso svincolato da qualsiasi credo “ufficiale” e  preferisce occuparsi del suo popolo come popolo, senza riferimenti alle sue radici bibliche; l’uomo che, soprattutto a partire dall’ascesa del nazismo, si fa sempre più domande su Dio, la legge morale ecc. sino a divenire un grande ammiratore della Bibbia, un sostenitore dei valori morali cristiani, un estimatore di Gesù e della Chiesa, un nemico dello scientismo, un uomo spaventato riguardo a certe evoluzioni del sionismo…
Einstein si rivela anche, tra le altre cose,un amante dell’Italia e un amico di un frate italiano, padre Odorico Caramelli,a cui rimarrà legato tutta la vita, sino a presentarlo anche ad altri suoi familiari, che si legheranno a lui, come la figliastra prediletta, Margot Einstein(“quando Margot passa, diceva di lei Albert, fa nascere i fiori”).
Di seguito una rievocazione di Einstein da parte del padre Caramelli:
“…L’ho conosciuto qui, tanti anni fa. Candido. Come un bambino… Umilissimo, di una umiltà naturale e spontanea. E se pure non era cattolico, andava volentieri in chiesa perché gli piaceva stare con Dio, in cui credeva. E’ venuto spesso a san Francesco. Prima mi ascoltava suonare, poi si decise e portò un violino e, strimpellando come sapeva fare lui, si faceva accompagnare da me all’organo. Di notte scendeva nel bosco del convento, e, seduto sul muricciolo della cisterna etrusca, suonava alla luna. Una volta, dopo che lo ebbi accompagnato in una Sonata di Bach, si commosse tanto che mi buttò le braccia al collo, quasi in pianto…”.
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Cartolina con dedica di Einstein a padre Caramelli
Qui invece un brano di una lettera di Albert Einstein al Caramelli, due anni prima di morire:
Caro padre ora che lei è tornato dal suo lungo viaggio mi si offre l’opportunità di esternarle dal profondo dell’animo la mia riconoscenza per tutte le gentili premure che Lei ha avuto per mia cugina durante la sua malattia, alleviandole la sofferenza. Quando da giovane venni in Italia ho potuto constatare con gioia quali sentimenti alberghino nell’animo del popolo italiano. Inoltre da più parti mi è stato riferito che durante gli oscuri tempi del fascismo e del dominio di Hitler, molte persone hanno rischiato la vita per soccorrere le vittime della persecuzione. In questa straordinaria situazione ove la solidarietà umana è tutto, i suoi compatrioti si sono rivelati i più onesti e i più nobili tra le genti da me conosciute durante la mia lunga vita. Queste caratteristiche si armonizzano con lo sviluppato senso di quella bellezza, tanto forte in voi che si rivela in tutte le manifestazioni della vita. Avrei preferito scrivere in italiano, ma non sono più capace”.
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La statua della Madonna scolpita da Margot e regalata al convento di padre Caramelli, a Fiesole
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Il convento francescano di Fiesole, frequentato da Einstein