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mercoledì 10 agosto 2016

San Tommaso illustra la virtù della carità


San Tommaso illustra la virtù della carità


S. Tommaso introduce il trattato sulla carità con il seguente interrogativo: “se la carità sia amicizia” (utrum caritas sit amicitia) (Somma teologica,II-II, 23, 1).
E, dopo essersi presentato diverse obiezioni secondo cui la carità non sarebbe amicizia, conclude: “dunque è evidente che la carità è un’amicizia dell’uomo con Dio” (Ib.).
A proposito dell’affermazione evangelica “non vi chiamo più servi, ma amici (Gv 15,15) scrive: “Ora questo fu detto solo per motivo di carità” (Ib., sed contra).
Poi specifica: “Non ogni amore merita il nome di amicizia, ma solo quell’amore che è accompagnato da benevolenza, cioè, quando amiamo una persona in modo da desiderarle qualche bene. Poiché, quando amiamo una cosa non per desiderarle qualche bene, ma allo scopo d’approfittare del bene che v’è in essa, non abbiamo un amore di amicizia, bensì di concupiscenza, come quando diciamo d’amare il vino, il cavallo o altre cose simili.
Ma la stessa benevolenza non basta a darci il concetto di amicizia: si richiede, in più, che, fra i due amici, vi sia una certa reciprocità o amore scambievole, giacché l’amico è amico di colui che è suo amico. Questa benevolenza reciproca si basa su una certa comunicazione di beni (Ib.).
L’amicizia suppone una certa affinità: o di carattere, o di idee, o di professione, o di vita, o di sentimenti, o di volontà... Se in tutto uno fosse diverso dall’altro, i motivi di divergenza e di contrasto sarebbero continui, rendendo impossibile la mutua frequentazione.
Fra gli amici vi è tale affinità da poter dire che l’uno è il prolungamento dell’altro.
Per Aristotele l’amico è un altro se stesso (Etica a Nicomaco, VIII,5.5).
Per questo tutti gli antichi, in particolare Sallustio, Seneca, Cicerone, S. Girolamo, affermavano che l’amicizia o trova uguali o rende uguali (amicitia aut similes invenit aut facit).
A questo punto sorge una difficoltà a prima vista insormontabile: noi per natura non siamo “pari” a Dio, né possiamo conoscere i suoi pensieri, che sono dissimili dai nostri quanto il cielo sovrasta la terra.
Ma Dio ci rende in qualche modo pari a sé mediante la grazia: “L’anima, mediante la grazia, diventa conforme a Dio” (Somma teologica, I, 43, 5, ad 2), in forza della quale diventiamo partecipi della natura divina (2 Pt 1,4).
Un esempio ci aiuta a comprendere questa divinizzazione: il fuoco, quando penetra il legno, lo rende partecipe della sua natura. Analogamente Dio, penetrando in noi per mezzo della grazia, ci rende conformi a sé (Ib., I-II, 62, 1, ad 1).
E così la carità, come vera amicizia, non spinge solo a vivere per il Signore, ma anche a vivere col Signore.
Da queste affermazioni scaturisconodue conseguenze.
La prima, che l’amicizia richiede una certa comunione di vita. Aristotele dice che “il silenzio e la lontananza hanno dissolto molto amicizie” (Etica a Nicomaco, VIII,5.5).
Allora è amico di Dio chi vive in comunione con Lui mediante la grazia.
La seconda, che vi sia una certa identità di volontà. Gli amici hanno un identico volere e disvolere (idem velle et idem nolle). Se uno fa tranquillamente ciò che dispiace all’altro, l’amicizia subisce un contraccolpo e si spezza.
Dice Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e renderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
Per questo San Tommaso scrive: “Il vero amore si esprime e si mostra nelle opere, perché l’amore così si manifesta. Infatti, amare qualcuno, altro non è che volere a lui del bene, e desiderare quello che lui vuole; perciò non ama veramente colui che non fa la volontà dell’amato e non esegue quello che conosce come voluto da lui. Perciò chi non fa la volontà di Dio mostra di non amarlo veramente.
Ecco perché Gesù afferma: ‘Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama’, ossia ha un amore vero verso di me” (s. tommaso,Commento al Vangelo di Giovanni 14,21 (
In Joann. XIV, lect. 5).

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