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sabato 8 ottobre 2016

Quando i versi di Neruda servono a condire la pasta



Quando i versi di Neruda servono a condire la pasta

Si passa da Dante a Fedez: sono oramai scomparsi i cantori della bellezza Fortuna che uno spot riscopre l’«Ode al pomodoro» dello scrittore cileno...
·         Libero
·         7 Oct 2016
·         ANTONIOSOCCI
«A che serve un poeta in tempi miserabili?», si chiedeva già Friedrich Hölderlin, duecento anni fa. Oggi potrebbe trovare una risposta davvero sorprendente: può servire a magnificare e a vendere la pommarola.
In tv si vede spesso infatti lo spot di un'industria alimentare - che vende appunto passato di pomodoro - dove si declamano i versi di Pablo Neruda in Ode al pomodoro, con una stupenda musica per pianoforte in sottofondo.
Può sembrare dissacrante, ma in realtà quei versi sono davvero suggestivi e lo spot è molto bello: va dato atto almeno all'industria del passato di pomodoro di ricordarsi della poesia. E anche di saperla proporre perché la poesia è un'arte che concerne la musicalità del linguaggio e va ascoltata più ancora che letta.
Ben venga dunque l'industria del pomodoro a ricordarci la grandezza della poesia. Visto che non se lo ricordano i media, l'editoria e soprattutto la scuola che fa detestare la poesia ai giovani, non facendone capire la natura.
La poesia infatti non è prosa messa in una forma bizzarra, ma è come uno spartito musicale: chiunque rimane incantato ascoltando le Quattro stagioni di Vivaldi, ma nessuno (soprattutto se non sa nemmeno leggere le note) sarebbe sedotto dallo spartito cartaceo con i segni sul pentagramma. Ed è proprio questo che fa la scuola: dà agli studenti dei geroglifici… Cosicché i giovani, che per natura sono alla ricerca di se stessi e del senso della vita, finiscono per ignorare e odiare quel prezioso scrigno che parla di loro e delle loro anime.
Non incontrano mai veramente Leopardi, Dante, Baudelaire, Pessoa, Montale, Rimbaud o Saba e Tasso. Devono accontentarsi di Jovanotti, Fedez, Fabio Volo, Maria De Filippi e J-Ax.
Del resto non ci sono più grandi poeti viventi in Italia. Nemmeno poeti «impegnati» come - appunto - era Neruda. Li rimpiango, perché la poesia ha questo di straordinario, che spacca anche le gabbie ideologiche del poeta, perché - quando c'è un vero poeta l'intuizione del mistero della vita e la commozione della bellezza e lo stupore dell'essere e della sua mortalità, prevalgono sulle ideologie.
Così è stato per Leopardi, ma anche per intellettuali comunisti come Neruda o Louis Aragon. Che hanno scritto meravigliose poesie sulla vita, il dolore e l'amore.
Voglio ricordare l'incipit della più bella di Aragon: «Nulla appartiene all'uomo. Né la sua forza/ Né la sua debolezza né il suo cuore. E quando crede/ Di aprire le braccia la sua ombra è quella di una croce/ E quando crede di stringere la felicità la stritola/ La sua vita è uno strano e doloroso divorzio./ Non esistono amori felici…».
Dunque il 750˚ anniversario della nascita di Dante - colui che ha «inventato» la lingua italiana - vede la sparizione dei poeti nel «bel paese là dove 'l sì suona», (Inf. XXXIII, 80).
Il fatto è rimasto pressoché inavvertito, segno che siamo proprio nel «tempo della miseria». Ricordo un tempo in cui i poeti parlavano anche al pubblico popolare, com'è giusto che sia.
Nello sceneggiato dell'Odissea, trasmesso dalla Rai di Bernabei, ogni puntata era introdotta - nientemeno - da Giuseppe
Ungaretti. E lo ricordo ancora, Ungaretti, che recitava in Tv la sua poesia Tu ti spezzasti. E poi in una lunga intervista in bianco e nero con Pier Paolo Pasolini, che fece un'analoga intervista a Ezra Pound per la Rai.
Pasolini stesso è stato un poeta civile dalle intuizioni geniali. Nell'Italia del boom economico e della fine della millenaria civiltà contadina scriveva: «Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d'altare, dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi/ dove sono vissuti i fratelli./ Giro per la Tuscolana come un pazzo,/ per l'Appia come un cane senza padrone./ O guardo i crepuscoli, le mattine/ su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,/ come i primi atti della Dopostoria,/ cui assisto, per privilegio d'anagrafe/ dall'orlo estremo di qualche età/ sepolta. Mostruoso è chi è nato/ dale viscere di una donna morta./ E io, feto adulto, mi aggiro/ più modern di ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più».
Uno dopo l'altro sono scomparsi tutti i nostri poeti. Certo, c'è tanta gente che scrive versi (più di quanti ne abbia letti).
Magari ce ne potrà essere qualcuno che si rivelerà di valore, ma oggi i grandi poeti, quelli che esprimono la coscienza più profonda di un popolo e la più viva intuizione della condizione umana, non ci sono più.
Dovremmo davvero fondare la Società dei poeti estinti, vagheggiata nel film L'attimo fuggente che rappresentava meravigliosamente l'incanto che un classe di adolescenti prova nello scoprire la poesia, grazie a uno strano e suggestivo professore. Quei ragazzi scoprono infatti che i «poeti estinti» nei loro versi sono più vivi dei viventi (o meglio: di noi «morenti»).
All'inizio del mio lavoro mi è capitato di frequentare e intervistare - per mia fortuna diversi poeti.
Ho studiato all'Università con un professore d'eccezione e poeta come Franco Fortini, sono stato amico di Mario Luzi. E poi Carlo Betocchi, Giovanni Testori, Giorgio Caproni, Piero Bigongiari. Ricordo, più di trent'anni fa, il Nobel Czeslaw Milosz e Josif Brodskij a un congresso dei poeti tenutosi a Firenze. Proprio Milosz, lituano-polacco, vissuto esule in America negli anni in cui il comunismo era stato imposto all'Europa dell'est, aveva vivissimo il senso della missione civile e spirituale dei poeti: "Che cos'è la poesia, che non salva/ Né le nazioni né gli uomini…/ La complicità alle menzogne ufficiali/ Una canzone di ubriachi/…Un romanzetto per signorine».
Quando il sindacato Solidarnosc, nella Polonia di Giovanni Paolo II, assestò il primo colpo al sistema comunista, nel 1980, Lech Walesa volle e ottenne che, davanti ai cantieri navali di Danzica, fosse eretto un monumento in memoria degli operai uccisi dalla polizia del regime comunista durante la rivolta del 1970. È composto da tre altissime croci che si stagliano nel cielo, sotto le quali sono incisi proprio i versi di Milosz: «Tu che hai ferito l'uomo semplice/ sghignazzando sulla sua sventura/ E confondendo il bene e il male/ Insieme a quei buffoni che intorno a te si assiepano,/ Anche se tutti ti si prostrassero/ Celebrando la tua saggezza e il tuo valore,/ Medaglie d'oro coniando in tuo onore,/ Felici perché sono, ancora un giorno, salvi,/ Non sentirti al sicuro. Il poeta non scorda./ Uccidilo: ne nascerà uno nuovo./ Saranno scritti gli atti e le parole./ Meglio per te l'inverno, al sorgere del sole,/ Un ramo curvo sotto il peso e la corda».
Sventurate dunque le generazioni che non hanno poeti. Che ricordano. Anche noi, europei dei paesi democratici. Milosz ci vedeva «sottomessi ad ogni moda in vigore», «ad ogni menzogna/ e pensare che erano liberi!». www.antoniosocci.com

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