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lunedì 20 giugno 2016

LA RIVOLUZIONE FRANCESE


LA RIVOLUZIONE FRANCESE
***
Intervista a Pierre CHAUNU:
Come l'89 c'è solo Hitler


tratto da Il Sabato, 29.4.1989, n. 17, p. 72-76
"Un'aula della Sorbona, a Parigi. Fuori un tiepido gennaio. Dentro comincia la prima lezione dell'anno 1989. Sulla cattedra è il professor Pierre Chaunu, una delle autorità per la storia moderna, membro dell'Institut de France, con una sessantina di titoli al suo attivo.
Esordisce in tono sarcastico: "Dunque questa è la prima lezione dell'anno: voi sapete che cadono nell'89 una quantità di anniversari importanti". E snocciola una filza di eventi storici, scientifici, economici, ma neanche una parola sulla Grande Commemorazione, quella che infiamma la Francia da otto anni: "Ho dimenticato qualcosa?" chiede beffardo il professor Chaunu, "no, non mi sembra ci sia altro di importante da ricordare". È stato il Grande Guastafeste del bicentenario della Rivoluzione. Brillante, corrosivo, preparatissimo, ha appena dato alle stampe un libro di fuoco, La révolution declassée, dove fa a pezzi il mito della Rivoluzione dell'89 e soprattutto il conformismo degli intellettuali di corte e la retorica di regime di questo bicentenario. I suoi stessi avversari non osano contestarlo: persino Max Gallo, obtorto collo, lo ha definito "un ottimo storico". Ed è praticamente invulnerabile, non essendo né cattolico, né reazionario (è infatti protestante e liberale). C'è una lunga tradizione liberale di critica aspra alla Rivoluzione, che comincia addirittura a fine Settecento con l'inglese Edmund Burke. Ma Chaunu si è spinto oltre. Ha guidato le ricerche di alcuni giovani e brillanti storici francesi fra documenti e dossier finora rimossi dalla storiografia ufficiale, e ne sono venuti fuori libri esplosivi, sconvolgenti, come quelli di Reynald Secher sul genocidio della Vandea.
Incontriamo Chaunu nella sua casa di Caen.

- Professore, il suo libro è uscito in Francia a marzo, già da alcuni anni lei si è ribellato al coro degli intellettuali e alle ingiunzioni del potere politico, contestando la legittimità di queste celebrazioni. Perché?
- È una mascherata indecente, un'operazione politica che sfrutta le stupidaggini che la scuola di Stato insegna sulla Rivoluzione. Pensi alle bétises del ministro della Cultura Lang: "L'89 segna il passaggio dalle tenebre alla luce". Ma quale luce? Stiamo commemorando la rivoluzione della menzogna, del furto e del crimine. Ma trovo scioccante soprattutto che, alle soglie del '92, anche tutto il resto d'Europa festeggi un periodo dove noi ci siamo comportati da aggressori verso tutti i nostri vicini, saccheggiando mezza Europa e provocando milioni di morti. Cosa c'è da festeggiare? Eppure qua in Francia ogni giorno una celebrazione, il 3 aprile, il 5, il 10. È grottesco.

- Ma è stato comunque un evento che ha cambiato la storia.
- Certo, come la peste nera del 1348, ma nessuno la festeggia. Ad un giornalista tedesco ho chiesto: perché voi tedeschi non festeggiate la nascita di Hitler? Quello è sobbalzato sulla sedia. Ma non è forse la stessa cosa?

- Dica la verità, lei è diventato reazionario. Ce l'ha con la modernità?
- Io sono liberale, con una certa simpatia per l'illuminismo tedesco e inglese. Ma proprio questa è la grande menzogna che pare impossibile poter estirpare: tu sei contro la Rivoluzione, dunque tu sei contro la modernità, sei per la lampada a petrolio e per la carrozza a cavalli. Al contrario. Io sono contro la Rivoluzione francese proprio perché sono per la modernità, per la penicillina, per il vaccino contro il vaiolo. Perché non festeggiamo Jenner che con la sua scoperta, dal '700 a oggi, ha salvato più di un miliardo di vite umane? Questo è il progresso. La Rivoluzione ha semmai bloccato il cammino verso la modernità; ha distrutto in pochi anni gran parte di ciò che era stato fatto in mille anni. E la Francia, che fino al 1788 era al primo posto in Europa, dalla Rivoluzione non si è più sollevata.

- Ma lei lo può dimostrare?
- Guardi, circa trent'anni fa ho contribuito a fondare la storia economica quantitativa, e oggi, con i modelli econometrici, chiunque può arrivare a queste conclusioni. Sono fatti e cifre. Tutte le curve di crescita del mio Paese si bloccano alla Rivoluzione. Era un Paese di 28 milioni di abitanti, il più sviluppato, creativo, evoluto, con un trend da primato: la Rivoluzione, insieme alle devastazioni sull'apparato produttivo, ha scavato un abisso di due milioni di morti, un crollo di generazioni che ha accompagnato il crollo economico. Nella produzione media pro-capite, Francia e Inghilterra, i due Paesi più sviluppati del mondo, avevano rispettivamente, nel 1780, un indice 110 e 100. Ebbene nel 1815 la Francia era precipitata a 60, contro 100 dell'Inghilterra, che da allora non ha avuto più concorrenti. È stato il prezzo della Rivoluzione.

- Ce ne spieghi almeno un motivo.
- Attorno al '93 - e per un decennio - la Francia ha cominciato a vivere al 78 per cento del prelievo sul capitale e per il 22 per cento sulle tasse e le rendite, che non venivano reinvestite, ma consumate, bruciate e rubate per arricchire la Nomenklatura. È stata una dilapidazione spaventosa, un impoverimento storico. Quando Chateaubriand è tornato in Francia, nel 1800, ha avuto un'intuizione fulminante: "è strano: da quando sono partito non hanno più pitturato persiane e porte". Quando le finestre sono sverniciate e le latrine non funzionano può star certo che c'è stata una rivoluzione.

- Ma comunque la Rivoluzione ha spalancato il pensiero umano.
- Oh, santo cielo! Ma è stata una colossale distruzione di intelligenze e di ricchezze. Se lei taglia la testa a Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, a 37 anni, il costo per l'umanità è enorme. Moltiplichi quel caso per cento. Come finì tutta l'élite scientifica e intellettuale? Quelli che non sono emigrati sono stati massacrati. Una perdita gigantesca. Sarebbe questa la conquista della civiltà? Il 43 per cento dei francesi, nel 1788, sapeva firmare, sapeva scrivere. Dopo la Rivoluzione si crolla al 39 per cento, perché si erano sottratti i beni alla Chiesa (che per secoli aveva educato il popolo) e si erano distribuiti alla Nomenklatura.

- E le chiese trasformate in porcili e i tesori d'arte devastati.
- È vero: fecero a pezzi le statue di Notre Dame, distrussero Cluny, e quasi tutte le chiese romaniche e gotiche... Le ripeto: furto, menzogna e crimine, questa è la vera trilogia della Rivoluzione, che ha messo a ferro e fuoco l'Europa. I francesi sono persuasi che la democrazia sia nata nell'89 e che l'umanità abbia imitato loro. È pazzesco! In realtà la sola rivoluzione da festeggiare sarebbe quella inglese del 1668: da lì è venuto il sistema rappresentativo e il governo parlamentare, lo Stato liberale che tutta Europa ha imitato.

- Ma qualcosa di buono ci sarà pur stato: per esempio la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino.
- Quello fu l'inganno più perverso. Le due Costituzioni più democratiche che siano mai state fatte sono quella sovietica di Stalin del 1936 e quella dei ghigliottinatori francesi del 1793. I loro frutti furono orrendi. Al contrario, il Paese che ha fondato la libertà, l'Inghilterra, non ha mai avuto Costituzioni. Delle Dichiarazioni io me ne infischio! E d'altra parte libertà, fraternità e uguaglianza non esistono che davanti a Dio. Le dirò che il miglior giudizio sulla Dichiarazione dei diritti dell'uomo lo formulò Fustelle de Coulange, il più grande storico francese dell'800 e mio predecessore all'Accademia di scienze morali e politiche. Egli disse: questi principi hanno mille anni, semmai la Dichiarazione li formula in modo un po' astratto. Ma una cosa nuova c'è: hanno spacciato dei principi antichi per una scoperta loro e l'hanno usata come un'arma contro il passato. Questo è perverso.

- La conseguenza politica della Filosofia dei Lumi, no?
- No. L'Illuminismo c'è stato in tutta Europa. Kant non era certo da meno di Voltaire. Ma la Rivoluzione c'è stata solo qui da noi. Non si può certo credere che i francesi fossero gli unici a pensare, in Europa. Dunque non c'è un nesso storico. È una menzogna anche parlare di fatalità storica, inevitabile. La persecuzione contro la Chiesa e il progetto di sradicare il cristianesimo dalla Francia ebbe come sua prima causa degli interessi finanziari, non questioni metafisiche.

- Ci spieghi, professore.
- Nel XVII secolo tutti gli Stati europei hanno istituzioni rappresentative. La Francia però, a poco a poco, le lasciò cadere in desuetudine. Per questo divenne una sorta di paradiso fiscale, perché - è noto - non si possono aumentare le imposte senza istituzioni rappresentative. Un esempio: la pressione fiscale fra 1670 e 1780 in Francia rimane ad un indice 100, mentre in Inghilterra sale da 70 a 200, in proporzione. La Francia si trova così ad avere uno Stato moderno, un moderno esercito, 450mila uomini, una potenza di prim'ordine, ma con risorse finanziarie vicino alla bancarotta perché per poterle mantenere come l'Inghilterra dovrebbe aumentare le tasse del 100 per cento.

- Dunque viene chiamata ad affrontare la questione la rappresentanza del popolo, gli Stati generali.
- Sì, i rappresentanti eletti però sono la più colossale assemblea di dementi che la storia abbia mai visto. Irresponsabili. Sfrenati solo nelle pretese, perché nessuno voleva farsi carico dei sacrifici (basti pensare che fra i deputati del Terzo stato c'erano un banchiere, 30 imprenditori e 622 avvocati senza causa). Non capiscono nulla di economia, hanno chiaro solo che a pagare devono essere gli altri. Così cominciano a vedere cosa possono confiscare: prima sopprimono la decima alla Chiesa, che nessuno nel popolo chiedeva di sopprimere perché significava sopprimere i finanziamenti per le scuole e gli ospedali. Si confiscano i beni del clero, donati alla Chiesa nel corso dei secoli, che ammontavano però solo al 7-8 per cento delle terre. Si comincia a diffondere l'idea che la Chiesa nasconda i suoi tesori, si confiscano i beni delle Abbazie.

- E l'operazione si dà pure una maschera ideologica.
- Certo. Si impone la Costituzione civile del clero, perché senza modificare e manomettere la struttura della Chiesa non avrebbero potuto rubare. I beni della Chiesa, che da secoli mantenevano scuole e ospedali, vengono accaparrati da una masnada di 80mila famiglie di ladri, nobili e borghesi, destra e sinistra: è per questo che tuttora la Rivoluzione in Francia è intoccabile! Perché fu una Grande Ruberia a vantaggio della classe dirigente. Il furto ha bisogno della menzogna e della persecuzione perché non era facile imporre ai preti e al popolo il sopruso. Per questo si impose il giuramento ai preti e chi non giurò fu massacrato. La Rivoluzione è stata una guerra di religione.

- E in Vandea cos'è accaduto?
- Il popolo si ribellò per difendere la sua fede. Il Direttorio voleva imporre la coscrizione militare obbligatoria (è una loro invenzione perché fino ad allora solo i nobili andavano a far la guerra e per il tributo del sangue erano esonerati dalle tasse). Nello stesso giorno chiudono tutte le loro chiese. I contadini vandeani si sono ribellati: allora tanto vale morire per difendere la nostra libertà. Hanno imposto ai nobili, assai refrattari, di mettersi al comando dell'esercito cattolico di Vandea e sono andati al massacro, perché sproporzionata era la loro preparazione al confronto di quella dell'esercito di Clébert. Così la Vandea è stata schiacciata senza pietà. Ma vorrei ricordare che sotto le insegne del Sacro Cuore combatterono anche dei battaglioni dei paesi protestanti della Vandea. Cattolici, protestanti ed ebrei affrontarono insieme la ghigliottina, per esempio a Montpellier, per difendere la libertà.

- Ma in Vandea non finisce così.
- Questo è il capitolo più orrendo. Nel dicembre 1793 il governo rivoluzionario dà ordine di sterminare la popolazione delle 778 parrocchie: "Bisogna massacrare le donne perché non riproducano e i bambini perché sarebbero i futuri briganti". Questo scrissero. Firmato dal ministro della Guerra del tempo Lazare Carnot. Il generale Clébert si è rifiutato di eseguire quell'ordine: "Ma per chi mi prendete? Io sono un soldato non un macellaio". Allora hanno mandato Turreau, un cretino, alcolizzato, con un'armata di vigliacchi.

- Fu il massacro?
- Nove mesi dopo il generale Hoche, nominato comandante, arrivò in Vandea. Restò inorridito. Scrisse una lettera memorabile e ammirabile al governo della Convenzione: "Non ho mai visto nulla di così atroce. Avete disonorato la Repubblica! Avete disonorato la Rivoluzione! Io porto alla vostra conoscenza che a partire da oggi farò fucilare tutti quelli che obbediranno ai vostri ordini...". Cosa aveva visto? 250.000 massacrati su una popolazione di 600.000 abitanti, paesi e città rase al suolo e bruciate, donne e bambini orrendamente straziati. A Evreux e a Les Mains si ghigliottinavano a decine colpevoli solo di essere nati a Fontaine au Campte. Questo fu il genocidio vandeano. È questo che festeggiamo?

- Fece scandalo, nel 1983, quando lei, per la prima volta, usò la parola genocidio, imputando la Rivoluzione. Perché?
- I fatti parlano. Nessuno ha saputo negarli. E nulla può giustificare un simile orrore. Ma prima di me, nel 1894, fu un rivoluzionario socialista, Babeuf, che denunciò "il popolicidio della Vandea" (in un libro introvabile che noi abbiamo fatto ristampare). Non c'è differenza alcuna fra ciò che ha fatto il governo rivoluzionario in Vandea e ciò che ha fatto Hitler. Anzi una c'è. Hitler era scaltro e non dette mai per scritto l'ordine di eliminazione degli ebrei. Questi dell'89, oltreché assassini, erano anche stupidi e dettero l'ordine per scritto e lo pubblicarono perfino su Le Moniteur.

- Certe persecuzioni hanno rinsaldato la fede del popolo. Ma questa francese sembra aver cancellato la cristianità.
- Sì, è così. Per 15 anni fu resa impossibile la trasmissione della fede. Un'intera generazione. Pensi che Michelet fu battezzato a 20 anni e Victor Hugo non ha mai saputo se era stato battezzato o no. Le chiese chiuse. I preti uccisi o costretti a spretarsi e sposarsi o deportati e esiliati. Francamente io non capisco come oggi i cattolici possano inneggiare alla Rivoluzione, Altra cosa è il perdono e altra solidarizzare con i carnefici, rinnegando le vittime e i martiri.
Penso che la Chiesa tema, parlando male della Rivoluzione, di sembrare antimoderna, di opporsi alla modernità. lo credo che sia il contrario. E sono orgoglioso che sia stato un Paese protestante come l'Inghilterra a dare asilo ai preti cattolici perseguitati. Infatti non c'è libertà più fondamentale della libertà religiosa."

domenica 19 giugno 2016

HO SCOPERTO L’ADISTEROLO


HO  SCOPERTO L’ADISTEROLO
Claudio Sauro

 Grazie ad alcune osservazioni che mi sono state fatte sull’Adisterolo relativamente alla quantità che conteneva l’Adisterolo 100.000 di Vit A e di Vit D, ed ero convinto che l’Adisterolo 100.000 contenesse 100.000 UI di VIT A e 20.000 UI di Vit D, ho scoperto, leggendo meglio la Scheda Tecnica che è esattamente il contrario. Questo basso dosaggio di Vit A lo rende meno pericoloso ed io prima lo consigliavo una volta alla settimana perché il sovradosaggio di Vit A può essere veramente pericoloso, intendo dire che 100.000 UI tutti i giorni sarebbero troppe. Però 20.000 UI sono una dose accettabile se presa per brevi periodi di tempo. Prima mi ero fissato sul Dibase che contiene solo Vit D, ma l’associazione di una dose ragionevole di Vit A potenzia enormemente l’azione della Vit D soprattutto nei tumori. Pertanto, d’ora in poi la mia preferenza andrà per l’Adisterolo, ho perfino cambiato alcune cose in “UN NUOVO PROTOCOLLO PER I TUMORI” Come per il Dibase anche per l’Adisterolo ci sono varie formulazioni, solo che il Dibase resta sempre e solo Vit D, mentre nell’Adisterolo troviamo sempre l’abbinamento Vit D +Vit A nella giusta formulazione Se guardate la Scheda tecnica dell’Adisterolo troverete  - Adisterolo 10.000 +10.000 UI gocc - Adisterolo 50.000 + 10.000 UI fiale che si possono assumere sia per via iniettiva che per os - Adisterolo 100.000 + 20.000 UI fiale che è quello che io uso nel mio protocollo. - Adisterolo 300.000 (di Vit D) + 20.000 UI (di Vit A) è sbilanciato perché c’è troppa poca Vit A rispetto alla Vit D - Adisterolo 600.000 (di Vit D) + 40.000 (di Vit A) idem come sopra Pertanto l’Adisterolo 100.000 (di Vit D) + 20.000 (di A) è il più bilanciato dal momento che se ne prendiamo sei fiale assumiamo 600.000 UI di Vit D e 120.000 UI di Vit A che è una dose ideale , in caso di tumore, di entrambe le vitamine. L’associazione delle due vitamine, come già detto è estremamente importante, perché si potenziano a vicenda. Adisterolo è facilmente reperibile in farmacia in tutte le formulazioni, non è mutuabile, ma costa pochi euro. E’ curioso che io non l’abbia scoperto prima. Pertanto nel mio protocollo ho cambiato alcune cose ed ho sostituito il Dibase con l’Adisterolo. Quando si ha un tumore, e soprattutto si intraprende la strada della chemioterapia, Vit A e Vit D crollano, ormai ho l’esperienza di centinaia di casi. Per la loro importanza è indispensabile tenerle alte ed in questo giuoca un ruolo determinante l’Adisterolo preso a dosi veramente da cavallo. Non abbiate paura dell’ipercalcemia o di altri effetti collaterali perché non li ho mai visti. Chiaramente per neutralizzare gli effetti tossici della chemioterapia giocano anche le altre sostanze citate nel mio Protocollo. A questo proposito ha fatto un Post magnifico Liborio sugli effetti antinfiammatori ed antitumorali della curcuma http://blog.giallozafferano.it/liborioquinto/la-curcuma-una-spezia-antitumorale-e-antinfiammatoria/ chiaramente ne segue tutto il resto, il Magnesio in particolare, sia sotto forma di Cloruro, che di altri sali quali il Citrato o il Pidolato. Più avanti tratterò dei meccanismi che stanno alla base dell’assorbimento e dell’ingresso nella cellula di questo sale che è indispensabile per 350 reazioni enzimatiche ed è micidiale per i tumori. Potrei dire senza rimprovero che senza le medicine sopra citate e senza Magnesio non si va da nessuna parte nei tumori, intendo dire che tutto il resto ha un importanza marginale. E poi chiaramente si abbini tutto il resto per stimolare il sistema immunitario, a questo proposito l’estratto purissimo di liquirizia meriterà una trattazione a parte, perché sono convinto che abbia un azione potentemente antitumorale https://www.facebook.com/notes/915420101862317/La%20Liquirizia%20(Glycyrrhizia%20Glabra)/977592558978404/

mercoledì 15 giugno 2016

Un legume contro il Parkinson:
la Fondazione Grigioni cerca finanziamenti per coltivarlo




Il 23 novembre si è celebrata la Giornata nazionale della malattia di Parkinson da cui sono afflitte un milione di persone solo in Europa (circa lo 0,5% della popolazione). Un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato dalla degenerazione di cellule nervose (neuroni) situate nella zona profonda del cervello che producono la dopamina, cioè il neurotrasmettitore di messaggi ai neuroni in altre zone del cervello, indispensabile per il controllo dei movimenti automatici di tutto il corpo. Quando questi neuroni si riducono del 50% compaiono i sintomi tipici del Parkinson, ben noti a un largo pubblico; tremore, rigidità muscolare e dei movimenti, riduzione dell’equilibrio con pericoli di cadute.
legume-parkinson-Mucuna_pruriens_flower
La Mucuna pruriens è una pianta angiosperma. Le sue proprietà medicinali variano da afrodisiaco (nell’ayurveda) a cura per il trattamento della malattia di Parkinson, a causa dell’alto contenuto naturale in levodopa.
Come per quasi tutte le malattie neurodegenerative le cause scatenanti del morbo non sono note, mentre si ipotizza una componente ambientale (80%), una genetica (20%) e oggi particolare attenzione è rivolta allo stress. Un fattore generico che, indebolendo il sistema immunitario, favorisce l’insorgere di molte malattie, tra cui forse anche il Morbo di Parkinson. Per i primi cinque-sette anni il morbo è controllabile con terapia adeguata. Tra il 7mo e 12mo anno la malattia si evolve e i sintomi sono controllati con difficoltà. Nell’ultimo periodo i farmaci non riescono più a contenerli e insorgono complicazioni cognitivo psichiatriche.
Se diagnosticato agli esordi, mediante esame neurologico, risonanza magnetica, PET, test farmacologici, il Parkinson può essere ben controllato con il farmaco principe rappresentato dalle dopamine. Dopo alcuni anni di terapia esse scatenano sintomi collaterali negativi. Dalla fine degli anni 70 l’associazione di levodopa con i dopamino-antagonisti li ha diminuiti sensibilmente. In molti paesi in via di sviluppo, come il Ghana, il numero dei malati di Parkinson è in continuo aumento, ma non vengono curati perché il costo delle dopamine, di per sé non elevato, lo è tuttavia per i bassissimi redditi di quei paesi.
La Fondazione Grigioni per il morbo di Parkinson (link),fondata nel 1993 e presieduta dal prof. Gianni Pezzoli, ha avviato una ricerca che ha permesso di scoprire una terapia naturale per il trattamento del morbo: in un legume molto diffuso nel Ghana e in altri paesi africani, laMucuna pruriens, è contenuta una notevole quantità di levodopa. Che può essere utilizzata senza alcun processo industriale. È sufficiente tostare e tritare i fagioli di mucuna e sono pronti per l’assunzione. Evidenti sono i benefici risultati ottenuti rapidamente. La cura per un anno con mucuna pruriens costa 12 dollari.
La Fondazione Grigioni ha lo scopo di trovare i fondi necessari a finanziare la ricerca scientifica nel campo delle malattie neurodegenerative e trovare nuove terapie per l miglioramento della qualità della vita del malato.
Ora la Fondazione chiede l’aiuto di tutti. Si può farlo devolvendo il 5 per mille della dichiarazione dei redditi, apponendo la propria firma e il codice fiscale della Fondazione: 97128900152nell’apposito riquadro.
Per ottenere supporto psicologico e informazioni telefoniche contattare l’Associazione italiana parkinsoniani allo 02.66713111

domenica 12 giugno 2016

Piantaggine Erba Portentosa

DISCERNIMENTO

DISCERNIMENTO
***

"Vagliate ogni cosa e trattenete il valore" ma "non assumete gli schemi del mondo".


Perciò, realisticamente considerando tutto, nulla è emarginato o dimenticato; tutto però è paragonato con quello che appare il valore e viene trattenuto nella sua corrispondenza al valore: trattenete ciò che è bello, ciò che corrisponde al bello ciò che corrisponde all'ideale di bontà, di bellezza e di vero, che è Cristo: ciò che corrisponde a Cristo.

Perché il resto sì che non c'è: ciò che non corrisponde a Cristo non esiste, è menzogna. 
"Non esiste" in senso cattivo: è un nulla cattivo. Gli schemi mondani generano il cattivo, generano la violenza.
La cultura cristiana porta la pace.

Allora la cultura cristiana che cosa rifiuta della falsa cultura cristiana di oggi (che è dentro tutti i documenti, superiori o inferiori)? Un'affermazione ecumenica che prescinda dal paragone con l'ideale dell'esistenza, dall'ideale con cui paragonare tutto; e che prescinda dall'energia della libertà che, di fronte allo schema mondano, ha il coraggio di affermare ciò che le appare di bello e di buono in tutte le cose rispetto a Cristo.

È la valorizzazione di tutte le cose ma in quanto partecipano delle bellezza di Cristo.>

( L. Giussani, Dal temperamento un metodo)

giovedì 2 giugno 2016

Voglio introdurmi al tema di questo incontro con una frase che don Luigi Giussani ripeteva ogni anno all’inizio dei suoi corsi di Introduzione alla Teologia in Università Cattolica: «Io non vi devo convincere di niente e non intendo convincervi di niente; tendo invece a darvi un metodo con il quale misurare la vostra umanità di fronte alle varie proposte in cui vi imbatterete, fornendovi quindi un criterio per scegliere, in primo luogo per prendere posizione di fronte alla mia proposta».
Io vi proporrò, come vedrete, due impostazioni diverse per quanto riguarda il rapporto fra fede e ragione, due impostazioni che hanno preso corpo nel tessuto di quella grande civiltà occidentale di cui ha parlato Benedetto XVI a Regensburg. Queste due visioni, nella loro radicale alternatività, si sono formulate in stretto contatto: non ci sarebbe il razionalismo moderno, se non ci fosse stato il protestantesimo, se non ci fosse stata quella fuga intellettualistica che è poi culminata nel razionalismo, nell’illuminismo, nelle grandi ideologie totalitarie, nei sistemi socio-politici dipendenti da esse. È stata una vicenda complessa, connotata certamente da una contiguità. Queste due visioni non solo nascono vicine, ma si sono anche sviluppate in un rapporto di reciproco condizionamento: l’una influisce sull’altra e viceversa, più di quanto a prima vista non si possa pensare; è certo alla grandezza ed alla limpidità dell’insegnamento di Benedetto XVI che dobbiamo far riferimento per capire un po’ di più quali siano le questioni in atto nell’ambito del nesso fra fede e ragione. Entriamo perciò nel tentativo di delinearle.
CHE COS’È LA FEDE E CHE COS’È LA RAGIONE, NELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE, CLASSICA E CRISTIANA
Direi che c’è una prima grande osservazione, insieme storica, critica e teorica: che cos’è la ragione? O, si potrebbe dire, come si muove la ragione? La ragione infatti è un movimento, è un movimento dell’intelligenza e del cuore, nel quale l’uomo esprime quella strutturale tensione senza la quale non è uomo. Si tratta del movimento indirizzato a comprendere il senso ultimo della realtà. Un uomo, per il fatto stesso che è uomo, si trova alle prese con un cammino; ecco la grande e suggestiva espressione greca: la vita è un odòs, un cammino, un sentiero; l’uomo, in quanto esiste come essere consapevole, è immediatamente alle prese con il grande compito di comprendere la realtà; non innanzitutto di dominarla scientificamente, non di manipolarla tecnologicamente, ma di comprenderla. L’uomo si trova infatti proiettato dentro la realtà, come si entra in un contesto amichevole: la realtà è da lui avvertita come una presenza, non come un oggetto da usare. Nell’entrare in questa presenza occorre una grande capacità di intelligenza, occorre cioè comprendere la realtà secondo tutti i suoi fattori. Ma ci vuole anche un grande rispetto, non si conosce senza rispetto. Meglio, come diceva Sant’Agostino: «Non si conosce senza amicizia».
Noi abbiamo invece ereditato dalla modernità un’idea di natura delimitata in rigidi confini, come se consistesse in un insieme di oggetti, di carattere storico, scientifico, naturale, cosmico, sociale, storico, oggetti che la ragione deve conoscere il più adeguatamente possibile allo scopo di poterli manipolare.
Al contrario la ragione è un cammino verso una realtà che sorpassa l’uomo e di cui l’uomo sente assolutamente la necessità. «Mostrami un’amante, che sia pur bellissima – dice Romeo a Giulietta – a che servirà la sua bellezza se non come un segno, dove io legga il nome di colei che di quella bellissima è più bella?».
L’uomo è alla ricerca del vero, del bene, del bello e del giusto, e in queste grandi domande il suo cuore si propone ogni giorno come una tensione inesorabile. La ragione sostiene questa impresa, si pone al servizio di questa impresa, la ragione si indirizza a rendere possibile all’uomo una conoscenza adeguata della realtà. Per gli antichi filosofi, solo dall’intuizione della verità ultima discendevano poi le regole di conoscenza e di comportamento; da questa intuizione, che i filosofi chiamavano la prima saggezza, nasceva poi la capacità di conoscere anche gli oggetti e di affrontare le questioni particolari.
Io credo che questa posizione conoscitiva di fronte alla realtà debba essere recuperata perché appartiene alla grande tradizione della nostra cultura occidentale. Più precisamente occorre recuperare questo cammino verso il vero o, come ha detto Benedetto XVI a Regensburg, questo domandare greco, in forza del quale si cerca una cosa necessaria a me uomo ma che non coincide con me, che è oltre me, quindi nei confronti della quale l’uomo avverte innanzitutto una inesorabile devozione. Don Luigi Giussani ci ha insegnato che, alla fine, chi più intensamente cammina verso il vero, assume un atteggiamento di preghiera. «Dio, se ci sei, rivelati a me» ha scritto il grande Manzoni; questa è la posizione dell’uomo, non dell’intelligente, non del colto, non del laureato. Questo è l’uomo che, in quanto vive questa tensione verso la verità, tende a realizzare in pienezza la sua umanità, mantenendo vivo il movimento della ragione; l’uomo è un movimento verso il vero; se perde la tensione a conoscere il vero, sprofonda, scende sotto l’umano. La questione in gioco è il movimento della vita; la ragione guida un movimento, non possiede una materia, un insieme di materie giustapposte.
Ora, da questa concezione della vita come movimento, possiamo trarre già una prima conseguenza, imponente sul piano etico, che riprenderemo poi affrontando il tema della violenza: non si conosce senza amicizia e non si vive senza rispetto. Chi cerca il vero, rispetta l’altro che lo sta cercando come lui, anche se lo dovesse cercare secondo una modalità totalmente diversa; chi cerca non si impone; chi cerca compie il suo cammino e dà credito all’altro accanto a lui che fa altrettanto; così diceva papa Benedetto a Regensburg. Dal rispetto reciproco nasce la società, una società della libertà e della democrazia.
Non è innanzitutto perché noi abbiamo la possibilità di leggere i libri dei grandi filosofi che sappiamo mantenere questa posizione umana, capace di rispetto del diverso; è perché questa posizione ci è entrata nel sangue e nelle ossa, costituisce il livello profondo del nostro tessuto culturale, della nostra tradizione; almeno ancora per un po’ di tempo perché non si sa quanto resisteremo sotto l’urto terribile ed eversivo dei mezzi della comunicazione sociale. Se è terribile che vengano distrutti i documenti della grande civiltà dai barbari che si accampano in certe zone del Medio Oriente, è ancora più grave che si attacchi questa concezione di uomo, insita nella tradizione dell’Occidente, una concezione che ha reso possibile quel tentativo di pacifica convivenza civile, di una società rispettosa delle diversità, che connota la nostra storia.
Abbiamo dunque delineato la ragione come un’inesorabile capacità di camminare verso il vero, lungo un cammino che non finisce mai. L’esperienza di questo cammino sopravanza continuamente la domanda di verità che è in me, perchè, quando mi metto a cercare, capisco che la risposta non è in me. Le due cose non sono contraddittorie: cerco il vero, perché senza il vero non sono me stesso, ma il vero non coincide con quello che già penso; se coincidesse con quello che già penso non mi metterei a cercare. Il movimento dell’intelligenza dimostra che l’uomo non possiede quello che pur desidera possedere, come essenziale per sé e per la sua vita.
Benedetto, dopo aver aperto questa grande questione, la porta fino alle sue conseguenze più esistenziali e quotidiane, fino all’amicizia ed al rispetto; 
Ad un certo punto, prosegue Benedetto, c’è stata un’irruzione, le carte si sono scompaginate; si è verificata l’irruzione di Dio, l’irruzione del mistero nella vita dell’uomo. «Quello che voi adorate senza vconoscere, io ve lo porto» annuncia san Paolo agli ateniesi. Da quel momento il mistero non è stato più un dato di realtà riscontrabile ma sfumato, sul fondo della coscienza umana, e quindi tendenzialmente pensato sullo sfondo della natura e della storia. Da quel momento il mistero è una presenza e questo travolge i limiti precedenti; il mistero è un uomo. Sant’Agostino, in una delle sue ultime confidenze, ai discepoli che lo incalzavano per avere una parola conclusiva al termine del suo enorme cammino di pensiero e insistentemente gli domandavano: «Allora, maestro, dicci che cos’è la verità!», dicono abbia risposto: «Un uomo che è presente». Il più grande genio cattolico che sia mai esistito, colui che aveva saputo assumere l’eredità dell’antica cultura, del domandare greco, per aprirla alla cultura della certezza e della Rivelazione, colui che aveva traghettato l’una cultura verso l’altra e reso possibile quell’incontro fecondo che è durato più di un millennio, sollecitato sulla domanda che aveva attraversato tutto il cammino della filosofia antica «Quid est veritas?», ha risposto: «Vir qui adest».
Da qui il mistero non è più un enigma, non è più un implicito; Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui. La fede ha portato nel vivo della storia la risposta, la risposta che Dio ha dato e di nuovo sempre dà, alla grande domanda; le due realtà, la fede e la ragione, si sono incontrate senza fratture, senza opposizioni, senza alternative, perché la ragione ha visto, nell’apparire della novità e della definitività cristiana, il compimento di un cammino che non veniva annullato; al contrario il cammino verso la verità poteva riprendere in maniera più profonda perché la ragione ora non solo si trovava ad affrontare la domanda sul senso ultimo ma era anche chiamata a comprendere il mistero di Cristo.
Fede e ragione distinte, inequivocabilmente, si potrebbe dire anche invalicabilmente, hanno offerto però alla storia dell’umanità una sintesi poderosa in cui si sono reciprocamente potenziate. La ragione ha camminato con più decisione nella sua ricerca perché sapeva che il termine ultimo esisteva; ma non solo esisteva, si era anche comunicato e perciò diventava, esso pure, oggetto di ricerca. Cristo è venuto, ma si deve comprendere; si deve comprendere il nesso fra Lui e Dio, il nesso fra Lui e l’uomo, il nesso fra Lui e la conoscenza, il nesso fra Lui e la realtà, umana e storica; perciò la ricerca non viene assolutamente annullata, ma rifiorisce in termini nuovi. Mai la Chiesa Cattolica ha accettato il fideismo, mai ha avanzato l’ipotesi che l’affermazione della presenza del mistero in Cristo eliminasse qualsiasi tensione a conoscere, ad amare, a costruire.
D’altra parte la fede, che illumina la vita umana di una luce che non viene da noi ma che ci è stata rivelata, acquisisce dalla ragione una straordinaria capacità di giustificazione di sé; la ragione serve alla fede per diventare teologia, cioè per diventare comunicazione delle ragioni profonde della fede, in modo da onorare il grande invito del primo Papa: «Siate pronti in ogni momento a dare ragione della speranza che è in voi».
Di questa sintesi fra fede e ragione il mondo occidentale ha vissuto, di questa sintesi ha goduto, questa sintesi ha sperperato, perché le cose più grandi della vita e della storia possono essere sperperate, da poca intelligenza e soprattutto da poco amore.
Questo è stato il grande sentiero dove ragione e fede hanno convissuto e dove è divenuto possibile il dialogo con altri modi di concepire la fede; infatti, sulla base di questa intesa fra fede e ragione, fino all’inizio dell’età moderna le varie religioni hanno potuto in qualche modo convivere. Sono fiorite anche esperienze significative di rapporti costruttivi con l’islam; basterebbe citare la grande esperienza siciliana dove, per la prima volta nella storia dell’Occidente, su una targa funeraria di un prete, morto a Palermo, troviamo un’iscrizione in lingua greca, latina, araba ed ebraica, a significare evidentemente un contesto di pacifica convivenza; se potevano compartecipare al necrologio di un prete, ciò non poteva che essere segno di rapporti positivi nella vita quotidiana, ben distanti da quell’insopprimibile tensione alla reciproca eliminazione che oggi tutti pensano essere stata l’unica modalità storica di rapporti fra cristianesimo ed islam.
AD UN CERTO PUNTO SI È APERTA UNA FORZOSA CONTRAPPOSIZIONE
Arriviamo così ad un passaggio storico decisivo. Ad un certo momento si apre, forzosamente, sottolineo l’avverbio “forzosamente”, una contrapposizione fra le due realtà, ragione e fede, che fino ad allora viceversa avevano marciato, senza confusione, nella distinzione ma con una grande sintonia. La ragione si è posta come avversa alla fede.
Possiamo dire tutto il male che vogliamo del protestantesimo, ma si deve anche riconoscere che esso nasce come estrema difesa della fede. La ragione nominalistica, che andava diffondendosi ai tempi di Lutero, affermava che la ragione non può riconoscere alcun dato di fede perchè essa maneggia solo parole e pensieri, senza alcun reale aggancio con la realtà delle cose; la ragione allora si esercita solo come critica di ogni certezza, per togliere significato ad ogni affermazione di verità, soprattutto a quelle di carattere religioso. Il razionalismo maturo del Settecento non era niente, in quanto ad energia distruttiva di ogni verità, rispetto al nominalismo del XII e XIII secolo. Di fronte a questo dilagare, Lutero ha aperto una strada a difesa della fede che sembrava assai efficace in forza della sua brevità: noi tiriamo via la fede dalla ragione, la consegniamo al sentimento e la difendiamo in maniera assoluta, garantendole un riparo inattaccabile. Lutero non teneva conto del fatto che un sentimento senza ragione non è nemmeno capace di comunicarsi. Come sempre succede, le strade abbreviate, di fronte ai problemi decisivi della vita e della società, si rivelano presto illusorie.
Con Lutero si introduce nel cammino della cultura occidentale la grande separazione fra fede e ragione: la fede appartiene alla sfera dei sentimenti, delle emozioni, “la fede si sente”. Io mi sento salvato perché, reagendo alla potenza comunicativa della parola rivelata, avverto la sensazione di essere salvato. Se la parola di Dio non suscita in me sentimenti, ciò significa che la salvezza non è per me.
La fede si ritaglia un ambito del vivere estraneo alla ragione; ne consegue che la ragione, separata dalla fede, non ha più davanti a sé il grande compito della scoperta del vero, di questa realtà trascendentale che l’uomo è in grado di indagare, che ci riguarda sommamente, ma che contemporaneamente ci trascende inesorabilmente.
La ragione lascia alla fede il campo dei significati ultimi e si occupa del potere, del potere dell’uomo e del potere della società; il suo problema, esclusivo ed esauriente, diviene quello di assicurare il dominio sulle cose; si tratta di un dominio scientifico, cioè di una conoscenza adeguata degli oggetti, di tutti gli oggetti, e della loro organizzazione. Di qui l’importanza decisiva del metodo, come dice papa Benedetto.
Alla ragione viene demandato il compito esclusivo di perseguire il dominio dell’uomo sulle cose; l’aspetto più virtuoso, più adeguato all’umana natura, di questo dominio dell’uomo consiste nella possibilità di manipolare la realtà per ottenere una vita sempre migliore. È questa una legittima aspirazione da parte dell’uomo, e quindi un legittimo intendimento della sua azione, a condizione che per realizzarlo si abbia sempre rispetto della realtà ed in primo luogo della persona.
Si costituisce così la separazione ideologica decisiva della cultura moderna. Da una parte una ragione senza fede, quindi una ragione senza quell’apertura inesorabile che la fede garantisce alla ragione, perché la situa di fronte al mistero che si rivela e quindi la rilancia oltre il contesto umano, storico. Senza chiederle di dimenticare il contesto, le evita la condanna a rimanere confinata dentro allo spazio ed al tempo, alla materia, al corpo, e la fa camminare verso «la profondità delle cose di lassù» (san Paolo), non essendo le cose di lassù altro che la profondità delle cose di quaggiù.
Dall’altra una fede che indirizza l’uomo verso le cose di lassù, privandole dei nessi con quelle di quaggiù; ma le cose di lassù, sciolte dal rapporto con la realtà storica ed esistenziale, sono condannate a perdere d’interesse per l’uomo reale.
Questa separazione ha avuto effetti decisivi, sia sulla ragione che sulla fede. In primo luogo ha indebolito la fede, facendola diventare oggetto di sentimento, come tale intrinsecamente insicura; infatti è nel giudizio che ogni questione si presenta nella sua oggettività, quindi in grado di durare nel tempo, e la ragione ha appunto la funzione del giudizio. Se l’umanità, o un singolo uomo, non arriva ad essere capace di giudizio rimane in una condizione di assoluta incertezza e di ultima incomprensione della realtà; se la presenza del mistero nella storia è accertata tramite un sentimento, l’uomo rimane di per se stesso incomprensibile e la sua vita rimane priva di senso perché non incontra realmente Gesù Cristo. Gesù Cristo non è un sentimento, è una presenza di fronte alla quale ognuno è chiamato a formulare un giudizio, è il Redentore dell’uomo e del mondo. Da Pietro, nel corso della prima predicazione cristiana, narrata nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, fino al magistero di oggi, la Chiesa ha questo da riproporre continuamente: Cristo, e Lui solo, è la salvezza dell’uomo e del mondo. Di fronte a questo annuncio, di fronte a questa “pretesa” dell’avvenimento cristiano, l’uomo di ogni tempo e di ogni cultura è chiamato a prendere posizione, a decidere se il contenuto di questo annuncio è credibile.
Vedremo poi che conseguenze comporti questa tendenziale resa della fede al sentimento; vediamo ora che cosa ha significato, per l’immagine stessa della ragione, questa sua identificazione con uno strumento di potere, analitico, scientifico, tecnologico. «È come se la ragione si rifugiasse in una stanza chiusa», ha detto Benedetto XVI nel suo discorso agli uomini di cultura francesi, tenuto al Convento dei Bernardini a Parigi; in una stanza chiusa, con le finestre chiuse, senza vedere altro che sé, senza vedere il reale; per vedere il reale occorre spalancare le finestre, guardar fuori.
La ragione moderna, scientifica e tecnologica, si esaurisce in una continua autoanalisi, preoccupandosi solo di incrementare il numero delle cose da conoscere, degli oggetti da sistemare, delle realtà che, di conseguenza, può adeguatamente manipolare. Questo modo di concepire la ragione è nato certamente in ambito scientifico, come metodo di conoscenza della natura; ma in seguito ha voluto far diventare anche l’uomo oggetto della scienza, cioè ha voluto conoscere l’uomo utilizzando il metodo scientifico; è nata così la scienza della società, che si è posta come visione definitiva, in senso razionalistico, dell’uomo, dei suoi rapporti, delle leggi secondo cui vive, delle strutture che realizza.
La teoria adeguata sulla società, l’ideologia sociale, è diventata l’unica possibile verità; l’ideologia contiene la verità sulla persona e sulla società. Ne consegue che la visione ideologica della società, sia in senso marxista, sia in senso fascista, sia in senso nazista, sia in senso liberista, si pone come qualche cosa di indiscutibile; il diverso non ha diritto di esistere. Ecco come si vanifica il rispetto, ecco come si vanifica l’amicizia.
La verità non è più un confronto fra ciò che incontriamo in noi stessi ed il dato che la realtà ci presenta («adequatio rei et intellectus» come afferma san Tommaso d’Acquino, citato da Benedetto XVI) ma è solo la correttezza dell’analisi. Se l’analisi è corretta, non si può che arrivare alla verità.
Ma la teoria ideologica, per poter essere storicamente attuata, ha la necessità che tutti ad essa aderiscano; chi per infinite ragioni – magari la fede – non aderisce al marxismo, o al fascismo, o a qualsivoglia ideologia, deve essere eliminato; non ha identità culturale, non ha dignità sociale. Ma siccome l’identità culturale e la dignità sociale sono espressione della sua vita, non ha neanche diritto alla vita.
La violenza e l’intolleranza non nascono a livello dei rapporti, nascono a livello del giudizio; la violenza è una dimensione intrinseca all’ideologia occidentale. Perché l’Occidente «debole ed assonnato», come dice talvolta papa Francesco, non reagisce alla violenza ideologica dell’islam? Perché all’origine hanno la stessa levatrice; l’unica differenza è che la prima è più evoluta, figlia della cultura illuminista e razionalista, l’altra più rozza e semplicista. La violenza nasce da una deduzione logica.
È ora di finirla di leggere la storia come grande distinzione fra buoni e cattivi: l’atteggiamento etico è una conseguenza della posizione culturale, cioè del giudizio. La storia è indirizzata dallo scontro continuo fra la verità e la menzogna, fra la cultura della vita e la cultura della morte. Certo poi la cultura della morte ha assunto spesso al proprio servizio delinquenti, ladri ed assassini; certamente attorno ai grandi capi delle ideologie moderne e contemporanee si è aggregato un arsenale incredibile di criminali; ma l’ideologia non si spiega a partire dal male, l’ideologia assume il male e lo utilizza. La violenza ideologica è una inesorabile volontà di eliminare il vero, a partire dal presupposto che è vero esclusivamente ciò che la teoria ideologica afferma. Il Concilio Ecumenico Vaticano II scrive nella “Gaudium et spes” una frase terribile, e terribilmente attuale: «In una società senza Dio, cioè dove la fede è eliminata, l’uomo diventa troppo spesso particella di materia o cittadino anonimo della città umana»; la manipolazione ideologica da una parte e quella sociologica dall’altra. La ragione, ridotta a fattore che stabilisce in maniera incontrovertibile l’identità degli oggetti, quindi anche l’identità degli oggetti umani, domina non soltanto la natura, ma domina la storia, domina la società; tanto è vero che questa ragione giunge ad arrogarsi il diritto di creare la società perfetta, in alcuni casi proclamandolo esplicitamente, in altri presupponendolo come sottinteso. Sono le grandi ideologie che hanno affermato la necessità di farla finita con le vecchie società, qualificate come barbare. Perché erano barbare? Da dove viene il concetto di ancien régime totalmente ideologico? Erano barbare perché la Chiesa vi aveva una posizione di rilievo. Queste società diventano moderne e democratiche quando si elimina nel modo più totale la presenza socialmente rilevante della Chiesa. Per questo l’ideologia politica l’ha fatta da padrone per almeno 150 anni e la ragione si è esercitata a stabilire tutte le motivazioni per negare dignità sociale a chi non apparteneva all’ideologia dominante.
Ma l’ideologia, che pur si dice essere morta con la conclusione del XX secolo, è risorta, rinasce sempre di nuovo. Benedetto XVI afferma che l’ideologia delle ideologie che oggi ci domina è la tecnologia, la tecnica intesa come strumento e soluzione di tutti i problemi.
Considerando la realtà per quello che è, quali problemi è in grado di risolvere la tecnica? Il senso della vita e della morte non dipende dalla salute, non dipende dalla ricchezza. Il fatto è che il senso della vita e della morte illumina poi tutto il faticoso cammino che un uomo deve compiere per attraversare tutte le fasi della vita, fino alla sua conclusione. Dal senso che un uomo attribuisce al vivere ed al morire dipende ogni rapporto con gli altri come il rapporto con sé, nella concretezza quotidiana del vivere, a prescindere da quanto il singolo ne abbia esplicita consapevolezza.
Io credo che oggi noi facciamo i conti con questa ideologia violenta, per la quale la violenza è condizione necessaria perché l’ideologia possa affermarsi. Non sono cattivi, sono falsi. Giovanni Paolo II non ha detto che è in atto uno scontro fra cultura del bene e cultura del male, ma fra cultura della vita e cultura della morte, fra cultura dell’essere e cultura del nulla. Noi oggi ci troviamo a vivere le estreme fasi di questa divaricazione fra ragione e fede; la ragione occidentale, la ragione scientifico-tecnologica è una ragione che ha la pretesa di sistemare la realtà dell’uomo e della storia e, di conseguenza, non può concedere all’uomo ed alla storia nessun riferimento al mistero di Dio e quindi al mistero della fede. La ragione tecnologico-scientifica è anticattolica perché, per sua natura, non può accettare che il mistero si sia fatto presente nella storia, proponendosi come punto di riferimento del vivere.
L’ultima, estrema, concessione è quella di affidare alla Chiesa l’ambito delle emozioni. Il pericolo terribile che la Chiesa sta vivendo oggi è di essere confinata al piano delle emozioni. Dicevo in un mio “scrittarello”: «La cultura, l’ideologia, la politica, l’economia le hanno in mano alcuni; voi tenetevi pure le emozioni, perché queste non cambiano la storia». A ben vedere, le emozioni non cambiano, o non maturano, nemmeno le esperienze in cui di fatto hanno più spazio, nemmeno il rapporto fra l’uomo e la donna; il rapporto uomo-donna matura per un giudizio che si rinnova continuamente e che per questo sa anche captare e valorizzare il sentimento.
IL COMPITO PRESENTE È LA TESTIMONIANZA
Vediamo ora, ed è l’ultima osservazione, come reagire a questa violenza dilagante, a questa violenza che ha identificato il proprio obiettivo nel cristianesimo, in quanto ripropone termini che la mentalità dominante considera antichi, desueti, improponibili, superati.
L’attacco alla Chiesa è sempre stato una costante della cultura e della politica laicista, anche se questo attacco non si è sempre configurato nel modo aggressivo e violento in cui lo sta conducendo in questi mesi l’Isis. Quando per esempio uno Stato appena nato, che pretende di rappresentare interamente la nazione ed il popolo italiani, dissolve, nel giro di un giorno, ottantamila opere di carità – perché questo fece il governo liberal-borghese dell’Italia neonata – di che cosa altro si deve parlare se non di attacco violento alla Chiesa?
Quando il Governo francese decretò la separazione della Chiesa dallo Stato e requisì di conseguenza tutti i possessi fondiari della Chiesa francese, che vennero poi svenduti sottobanco a quegli stessi che avevano decretato l’operazione e che di lì a poco se li sarebbero spartiti a prezzi stracciati, l’arcivescovo di Parigi andò all’Assemblea nazionale e disse: «Prendetevi pure i soldi, non è questo il nostro problema; sappiate piuttosto che entro qualche anno non ci sarà più nessuno che si occupi dei poveri francesi; noi infatti abbiamo dato sostentamento per secoli a quella povertà che voi, capi delle pubbliche istituzioni, non solo non avete saputo estirpare ma nemmeno indirizzare ad un contenimento». Queste parole, lette oggi, hanno valore profetico.
Noi oggi siamo di fronte ad una violenza che si formula diversamente, a seconda dei contesti, ma che ha dovunque la medesima giustificazione, l’ideologia. Non so dire quanto sia diffusa, né come sia diffusa l’ideologia islamica, se sia statisticamente maggioritaria, anche perché oggi manca una capacità di interpretazione adeguata del fenomeno islamico. Noi cattolici, per nostra fortuna, abbiamo il Papa che è in condizioni di dare un indirizzo comune ad un’esperienza diversificata, di tenerla insieme; fra i musulmani questo non esiste, per questo l’espansionismo aggressivo del mondo islamico si sta manifestando in forme così difficili da analizzare e quindi da prevedere. Certo, come ogni ideologia, anche il diffondersi dell’islam si connota per l’assoluta intolleranza verso la diversità. Ma se è attualmente il fenomeno di intolleranza più vistoso, non è certamente l’unico.
Al contrario la società moderna e contemporanea esigerebbe, per la sua particolare configurazione, il rispetto delle diversità. L’integrazione non può ridursi a consentire l’ingresso nel nostro territorio di persone di altra provenienza culturale senza preoccuparsi d’altro; l’integrazione esige modalità efficaci di introduzione ai fondamentali criteri del nostro vivere sociale.
La società moderna, con la sua mondializzazione e con la sua multiculturalità, come sostiene da tempo il cardinale di Milano, dapprima un po’ solitario ed ora finalmente con qualche seguito, non è pensabile che non preveda e realizzi adeguate modalità di integrazione; non possiamo guardare alla questione come ad un equilibrio fra maggioranze e minoranze, dobbiamo guardare alla grande sfida del nostro tempo come all’urgenza di trovare il senso della nostra identità, il movimento adeguato della nostra intelligenza, la capacità creativa del nostro cuore, la capacità quindi di tentare ed anche di sbagliare, la capacità di fare il male e di chiedere perdono, la capacità di subire l’ingiustizia e di essere capaci di perdonare. È un mondo vero che deve entrare nelle vene di questo mondo così stanco da una parte e così incontrollabile dall’altra; per questo la lotta non è fra le diverse ideologie.
Evitiamo di imboccare come Lutero la scorciatoia dell’ideologia religiosa, che ci piomba addosso e ci distrugge; noi non contrapponiamo all’ideologia atea l’ideologia religiosa. Noi contrapponiamo alla falsità dell’ateismo, teorico e pratico, la bellezza e la verità della vita cristiana. Noi dobbiamo sostenere pubblicamente tutta la teoria giusta sulla famiglia e guai a noi se non riproponiamo la verità della famiglia cristiana, ma la modalità con cui è possibile riproporla efficacemente è l’esperienza della famiglia cristiana, che nel suo vivere e nel suo muoversi dimostra che si possono vivere rapporti fra identità diverse in modo rispettoso e comprensivo, capace di accoglienza e di costruzione comune. Tutto quello che è stato creato in ambito caritativo, dentro al tessuto stesso della comunità cristiana, non può essere buttato a mare per correre dietro alla moda che ruota attorno alla parola “poveri”; del resto, mentre si parla tanto dei poveri non so quanto si faccia per i poveri realmente.
Il compito non è una contrapposizione ideologica, è una testimonianza, quella testimonianza che ha saputo segnare la vita e la storia dell’Occidente, e con esso di buona parte del mondo, perché Dio ha voluto così. Dio ha preso il piccolo seme che le generazioni cristiane, piene di fede, Gli mettevano davanti e ha voluto dare a questo seme un esito storicamente spettacoloso; altri semi di fede sono stati messi davanti al cuore di Dio, ma alla fine c’è stato il martirio. Il successo e la capacità di incidenza sociale da una parte, il martirio dall’altra, non sono uno la negazione dell’altro, sono due modi misteriosi con cui Dio ci chiama a verificare che la nostra strada è vissuta con verità, con bellezza, con bene e con giustizia. Non è certo un caso che san Giovanni Paolo II, la cui potenza intellettuale e la cui apertura morale sono state universalmente riconosciute, abbia indicato come santi cattolici del terzo millennio padre Massimiliano Kolbe, il sacerdote polacco morto ad Auschwitz, e santa Teresa Benedetta della Croce.
Se Dio ci darà la possibilità di intervenire positivamente e costruttivamente in questo groviglio di questioni e di tensioni, vivremo quella che papa Francesco, alla conclusione della sua prima Enciclica, ha chiamato la scia luminosa. «Se c’è un popolo cristiano presente, si crea nella società una scia luminosa che polarizza la verità e rifiuta il male». Può essere che ci venga dato di ritornare ad essere un fattore propulsivo; in questa prospettiva Benedetto XVI ci ha consegnato una definizione straordinaria: «Siamo una minoranza, ma una minoranza creativa», una minoranza che sa chi è, che ha una sua cultura, che ha un suo ethos, che ha una sua capacità di costruzione, una sua capacità di sopportare la buona e la cattiva sorte, la salute e la malattia, la gioia ed il dolore, come una famiglia, perché la Chiesa è una famiglia.
Dio può concederci di tornare ad essere una presenza che influisce come può chiederci di essere semplicemente, nel silenzio della nostra testimonianza, o addirittura del martirio, testimoni di Colui che ha già vinto la morte ed il male e che quindi ci garantisce la vittoria, una vittoria che si comunica ad ogni uomo ed al mondo solo attraverso la testimonianza.
Vi chiedo che quanto ho detto divenga, soprattutto per i più giovani, un’occasione di confronto. Deciderete poi voi se, a partire dalla vostra umanità, ha più senso quello che ho detto nella prima o nella seconda parte. Deciderete soprattutto se ritenete che quell’irruzione del Mistero nella storia, di cui ho parlato nel primo punto, vada considerata determinante nel passato ed attuale nel presente; ma in primo luogo decidetevi a vivere, perché è vero che è questo un momento in cui la più grande responsabilità che ci è chiesta è quella di essere cristiani e basta.
Foto Ansa – appunti non rivisti dall’autore


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