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giovedì 28 settembre 2017

Emil Cioran senso religioso

Emil Cioran

senso religioso

Emil Cioran

La lettera inedita che qui segue è estratta dal carteggio tra Emil Cioran e il musicologo e teologo rumeno George Balăn, ora pubblicato dalle edizioni Mimesis in Tra inquietudine e fede. Corrispondenza (1967-1992).

Parigi, 6 dicembre 1967
Caro Signor Balăn,
la ringrazio per la lettera e le riviste. Conoscevo il suo articolo su Bayreuth perché ricevo “Contemporanul”. Se avessi assistito al festival, avrei reagito quasi come lei: è inconcepibile condividere il culto di un “dio” così prolisso e assillante. Credo abbia fatto bene a prendere le distanze. Mi interessa ciò che afferma circa la compatibilità tra la fede e l’inquietudine.
È giusto che rimanga stupito di tutte le mie riflessioni in cui sottolineo la separazione quasi assoluta dei due atteggiamenti. Non dimentichi però che tutta la mia vita è stata una ricerca frenetica, accresciuta dalla paura di trovare. Tale anomalia prorompe soprattutto in ambito religioso. Sono certo di aver cercato Dio, ma sono ancora più certo di aver fatto di tutto per non incontrarlo. Un amico francese un giorno mi ha detto che sono come un Pascal che inventerebbe qualsiasi ragione per non credere. Lei però potrebbe obiettare: «In tali condizioni, perché leggere i mistici e discutere di loro? Perché trattare il problema religioso?».
Potrei darle molte risposte, ma farò riferimento soltanto a una, la principale, almeno per quanto mi riguarda: non dal bisogno di certezza, né da un impulso interiore e neppure dalla curiosità metafisica mi sono imbattuto in Dio; l’origine di tutte le mie grida verso di Lui, come anche di tutto il sarcasmo con cui l’ho glorificato, deve essere ricercata in un sentimento di totale e opprimente solitudine, al termine del quale Dio automaticamente, per così dire, appare. Non sarebbe mai apparso nella mia esistenza se la mia solitudine non fosse stata più grande di me. Ma poiché era al di là delle mie forze, era necessario che vi fosse qualcuno che mi aiutasse a superarla. Ciò non ha niente a che fare con la fede; è il frutto passeggero di uno di questi momenti difficili, quasi insopportabili, il cui segreto ho conosciuto e conosco ancora. Ecco perché una delle cose che intendo meglio, tuttora, è la preghiera – vale a dire le ragioni che spingono verso di essa, la terribile lacerazione dalla quale deriva.
Spesso ho paragonato i miei attacchi di solitudine a quelli che attraversa un assassino dopo l’omicidio. Forse le ho già detto che una delle opere che ho letto maggiormente in gioventù è Macbeth. Interpretata perfettamente, con la necessaria passione e profondità, una tale opera mi condurrebbe letteralmente alla follia; credo che non potrei neanche sopravvivere allo spettacolo... Fortunatamente per me, gli attori non sono degni di tale testo. Ho inviato a M[ircea] E[liade] la locandina rossa, poiché appariva anche lui e il suo nome. Si farà illusioni; bisogna che lo informi del divieto. Avrei dovuto tra l’altro farlo fin dall’inizio, perché era evidente che la cosa non si sarebbe realizzata. Se credessi ancora nella Trasfigurazione... dovrei tornare in patria per vedere cosa hanno fatto con le mie “idee”... Lei sottolinea giustamente, con ironia, la mia situazione; ma tutta la storia non è che questo, e nient’altro. Mi sono illuso scrivendo, non so in quale libro, sulla «santità e il ghigno dell’assoluto». Il termine “ghigno” non è appropriato se non rispetto alle considerazioni storiche ecc. ecc. Sono contento che le cose siano andate bene in occasione del suo viaggio in Transilvania.
Con molta cordialità.

martedì 26 settembre 2017

LA MORMORAZIONE

LA MORMORAZIONE
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LA MORMORAZIONE
"La mormorazione è un vizio volontario che fa morire la carità" - S. Pio da Pietrelcina

Uno dei peccati per cui Padre Pio negava l’assoluzione era quello della mormorazione o maldicenza nella quale incorrono spesso anche quelli che si reputano cristiani praticanti. Egli si mostrava severo con quelli che, forse senza rendersene conto del tutto, offendevano la giustizia e la carità. Disse ad un penitente:«Quando tu mormori di una persona vuol dire che non l’ami, l’hai tolta dal tuo cuore. Ma sappi che, quando togli uno dal tuo cuore, con quel fratello se ne va anche Gesù». Nella mormorazione oltre a mancare di carità si esprimono giudizi, contravvenendo a quanto dice Gesù: «Non giudicate». In effetti, a volte non riflettiamo sul fatto che il comandamento “non uccidere” non riguarda solo l’omicidio vero e proprio; si può “uccidere” anche con le parole, con le ingiurie, con le maldicenze e con la mormorazione. Capita spesso, a lavoro, con gli amici, dal parrucchiere, al bar, di essere coinvolti in conversazioni che più o meno velatamente mirano a screditare terze persone, mirano cioè al pettegolezzo. Il cristiano dovrebbe interrompere queste conversazioni, invitando gli altri a fare altrettanto e spiegandone il motivo. Il confine tra “chiacchiere innocenti”, supposizioni maliziose, dicerie, insinuazioni e malignità è labile e sottile, cammina su un terreno scivoloso, lavora sottilmente, con conseguenze drammatiche. Mormorazioni nella maggior parte dei casi basate sul ‘sentito dire’ e dunque senza fondamento, che oltretutto normalmente avvengono di nascosto, sottovoce e alle spalle, si rivelano spesso assai dannose, perché minano la dignità e la credibilità delle vittime, viaggiano a gran velocità in ogni direzione e intaccano la serenità di chi ne è stato fatto oggetto (e in genere anche delle persone a lui prossime). Il pettegolezzo che oggi viene definito – nei media, nei social network, su internet – con il termine di “gossip“, quasi a volerne dare un’accezione più accettabile e divertente, che ne sminuisce il significato negativo, mi ricorda tanto il modo di agire del serpente. E siccome per combattere il serpente occorre avere buone armi, conviene rispolverare la lettera di Giacomo, che dice senza troppi giri di parole: “la lingua è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio!”(3, 8-12). Oppure si può tornare alla penitenza che il buon San Filippo Neri diede alla donna pettegola: A una donna che si accusava di frequenti maldicenze, San Filippo Neri domandò: “Vi capita proprio spesso di sparlare così del prossimo?”. Molto spesso, Padre”, rispose la donna. “Figliola, il vostro errore è grande. E’ necessario che ne facciate penitenza. Ecco cosa farete: uccidete una gallina e portatemela subito, spennandola lungo la strada da casa vostra fin qui”. La donna ubbidì, e si presentò al santo con la gallina spiumata. “Ora”, le disse Filippo, “ritornate per le strade attraversate e raccogliete ad una ad una le penne della gallina…”. “Ma è impossibile, Padre”, ribatté la donna; “col vento che tira oggi non si troveranno più”. “Lo so anch’io”, concluse il santo, “ma ho voluto farvi comprendere che se non potete raccogliere le penne di una gallina sparpagliate dal vento, come potrete riparare a tutte le maldicenze gettate in mezzo alla gente, a danno del vostro prossimo?" Questo piccolo aneddoto della vita di san Filippo Neri evidenzia come dettagli che trascuriamo si rivelano in realtà fondamentali. Rendere noti gli errori altrui a terzi è molto grave, in particolar modo quando si evita di parlarne col diretto interessato. Innanzitutto, viene elusa la necessaria correzione fraterna, che rappresenta sempre, oltre ad un confronto schietto e sincero, una reciproca occasione di crescita spirituale e umana. È poi evidente come, qualora sia presente un’espressa volontà di ferire, denigrare, offendere l’altra persona, avvenga qualcosa forse anche peggiore della violenza fisica. Sappiamo tutti quanta sofferenza può causare l’uso malvagio delle parole: utilizzarle come arma di offesa rivela una insidia ben peggiore di tante altre cattive azioni molto più visibili e concrete e – per questo motivo – molto più facili da individuare e contrastare. In conclusione, quando pensiamo agli errori altrui il silenzio è d’oro, e se lo stesso silenzio lo utilizziamo per un esame della nostra coscienza e per riavvicinarci a Dio, è ancora più prezioso.

domenica 24 settembre 2017

funghi Shiitake





 funghi Shiitake

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I funghi Shiitake fanno parte  della specie Lentinula edodes, e sono un fungo commestibile nativo dell’Asia orientale. Colmo di vitamine del gruppo B, questo piccolo fungo è ricco di proprietà antivirali, antibatteriche e antifungine. Aiuta a controllare il livello di zuccheri nel sangue e riduce efficacemente le situazioni infiammatorie all’interno dell’organismo.
E’ ricco inoltre di componenti chimiche che proteggono il nostro DNA dai danni ossidativi. Il lentinano (un polisaccaride antitumorale) ad esempio guarisce il danno ai cromosomi causato dai trattamenti anti-tumorali. L’eritadenina invece (un aminoacido unico) si ritiene abbia un effetto ipocolesterolemizzante e supporti quindi la salute cardiovascolare. Studi dimostrano infatti che l’integrazione di eritadenina diminuisce in modo significativo la concentrazione di colesterolo nel sangue.

I funghi Shiitake sono altresì singolari poiché contengono tutti gli 8 aminoacidi essenziali, insieme ad un acido grasso particolarmente importante chiamato acido linoleico. Esso aiuta con la perdita di peso e lo sviluppo muscolare, beneficia la crescita delle ossa, migliora la digestione e riduce le allergie alimentari e le intolleranze.

I 10 benefici dei funghi Shiitake

Per centinaia di anni è stato un importante fonte di cibo e grazie ai suoi benefici sulla salute viene da sempre considerato in erboristeria un fungo medicinale. Menzionato in libri scritti migliaia di anni fa, lo Shiitake è il secondo più famoso fungo nel mondo e il terzo commestibile più largamente coltivato. Presenta una struttura corposa e versatile e un sapore legnoso, il che lo rende perfetto per zuppe insalate, piatti di carne o semplicemente saltato in padella. Al giorno d’oggi la distribuzione è capillare e lo si trova perciò nella maggior parte dei negozi di alimentari.
Osserviamo quindi insieme nel dettaglio i suoi molteplici benefici.

1. Supporto al sistema immunitario

I funghi Shiitake hanno l’abilità di sostenere il nostro sistema immunitario fornendo una serie di importanti vitamine, minerali ed enzimi. Uno studio del 2015 valutò un campione di soggetti tra i 21 e i 41 anni per determinare se i funghi shiitake potessero effettivamente incrementare la funzionalità del sistema immunitario umano (1).
I risultati suggerirono che consumare Shiitake migliora la funzionalità delle cellule e l’immunità intestinale e riduce notevolmente gli stati infiammatori.

2. Promuove la salute cardiovascolare

i funghi Shiitake hanno dei composti sterolici che interferiscono con la produzione di colesterolo nel fegato. Essi contengono inoltre dei potenti fitonutrienti che aiutano le cellule a non attaccarsi alle pareti dei vasi sanguinei evitando cosi accumuli e placche. Aiutano perciò a mantenere un’ottimale pressione sanguinea e a migliorare la circolazione (2).

3. Un aiuto naturale contro il cancro

I lentinani presenti negli Shiitake guariscono il danno ai cromosomi causato dai trattamenti anti-tumorali (come spiegavamo inizialmente). Questo suggerisce che gli shiitake potrebbero essere usati come un potenziale trattamento naturale antitumorale.
Nel 2006 uno studio valutò la potenzialità di una frazione di etilacetato presente nei funghi shiitake. I risultati dimostrarono che grazie alla loro composizione chimica, questi funghi erano in grado di inibire la crescita delle cellule tumorali. Essi infatti inducono con successo l’apoptosi, ovvero il processo di morte programmata delle cellule (3).

4. Utile per gengive e cavo orale

Uno studio del 2011 ha testato le proprietà antimicrobiche degli Shiitake su pazienti affetti da gengivite. La gengivite è un infiammazione dei tessuti gengivali caratterizzata da gonfiori, arrossamenti e sanguinamenti, causata da accumuli di una bio pellicola di microbi sul margine gengivale.
L’efficaca del fungo è stata comparata a quella di colluttori a base di clorexidina. All’interno del cavo orale ci sono 8 organismi chiave, che sono stati studiati prima e dopo il trattamento. I risultati indicano che i funghi Shiitake abbassano il numero degli organismi patogeni senza compromettere quelli che invece preservano il benessere orale a differenza della clorexidina che ha un effetto più limitato su ogni organismo buono o cattivo che sia (4).

5. Combatte l’obesità

Alcune componenti degli Shiitake sono ipolipemizzanti, ovvero riducono i livelli di grassi nel sangue. Queste componenti sono l’eritadenina e i betaglucani (fibre alimentari solubili che ritroviamo anche nell’orzo, nella segale e nell’avena). Studi scientifici riportano che i betaglucani aumentano il senso di sazietà, riducendo cosi l’assunzione di cibo. Ritardano quindi l’assorbimento dei nutrienti e riducono i livelli di lipidi nel sangue.
Uno studio del 2011 esaminò gli effetti degli Shiitake sul livello di grassi nel plasma, sulla disposizione dei grassi, sull’indice di massa grassa e sull’efficienza energetica (5).
I ratti venivano nutriti per sei settimane seguendo una tabella dietetica ricca di grassi che portò un significante guadagno di peso corporeo. Quelli con un alta integrazione di Shiitake nella stessa dieta subirono un aumento di peso del 35% inferiore a quelli che assumevano poche o medie quantità di fungo. Inoltre i ratti nutriti ad alte dosi di Shiitake ebbero un forte decremento di massa grassa e un andamento minore di accumulo di grassi. I ricercatori conclusero che i funghi Shiitake potessero prevenire l’aumento di peso, i depositi di grasso e trigliceridi nel sangue quando aggiunti ad una dieta ricca di grassi.
Questo naturalmente incoraggia uno sforzo ad effettuare studi anche sugli esseri umani per la prevenzione e il trattamento di obesità e relativi disordini metabolici.

6. Promuove la salute della pelle

Quando si assume selenio insieme alla vitamina A ed E, si riduce sensibilmente la formazione di acne e la conseguente formazione di cicatrici. 100 grammi di funghi shiitake contengono 5,7 milligrammi di selenio, circa l’8% della dose giornaliera consigliata, il che significa che questo fungo è un trattamento naturale contro l’acne.
Inoltre lo zinco presente negli Shiitake promuove la funzione immunitaria e riduce gli accumuli di diidrotestosterone o DHT (un metabolita biologicamente attivo dell’ormone testosterone, formato anzitutto nella prostata, nei testicoli, nei follicoli dei capelli e nelle ghiandole surrenali). L’accumulo di DHT è uno dei fattori primari della calvizie negli uomini (il DHT si lega al bulbo pilifero del capello, atrofizzandolo) e partecipa allo sviluppo dell’acne.

7. Fonte di vitamina D

Sebbene la vitamina D sia meglio ottenuta dal sole, gli Shiitake forniscono una discreta quantità di questa vitamina essenziale. La Vitamina D infatti è cruciale sia per la salute delle ossa, sia per la riduzione del rischio di infarti, diabete, malattie autoimmuni e alcuni tipi di cancro. E’ vitale inoltre per l’assorbimento e la metabolizzazione di calcio e fosforo.
Per di più, assumere discrete quantità di vitamina D riduce il rischio di sviluppare artrite reumatoide, sclerosi multipla e asma.
Un suggerimento più ampio: i funghi in generale, il salmone non di allevamento, i latticini freschi e le uova sono le fonti migliori di vitamina D.

8. Una sferzata di energia e sostegno cerebrale

Il fungo Shiitake è un’ottima fonte di vitamina B che aiuta a supportare la funzione adrenalinica e trasforma i nutrienti del cibo in energia disponibile. Le vitamine del gruppo B inoltre aiutano il naturale equilibrio ormonale e riducono la confusione mentale a favore di concentrazione e attenzione durante tutta la giornata, migliorando anche le funzioni cognitive.

9. Combatte l’avanzata dei radicali liberi

Nel 2005 una ricerca presentata dell’American Chemical Society ha dimostrato che all’interno dei funghi Shiitake sono contenute concentrazioni superiori di L-ergothioneine rispetto a una delle due fonti dietetiche precedentemente ritenute più alte come ad esempio: il germe di grano. Esponendo potenzialmente che questi funghi sono uno degli alimenti più salutari al mondo.

10. Facili da usare in cucina

In cucina i funghi shiitake sono molto versatili e si prestano bene in tanti tipi di pietanze. In commercio possono essere acquistati sia crudi che secchi, ma è consigliabile prenderli freschi e  scegliere i funghi dalla consistenza compatta,  liscia e omogenea.
Devono essere conservati in frigorifero o in un ambiente comunque abbastanza fresco all’interno di un contenitore ermetico per massimo una settimana.
Se invece abbiamo comprato i funghi secchi è possibile anche congelarli, sempre sigillati.
Di questi funghi è preferibile il consumo del cappello, poiché gli steli sono solitamente troppo fibrosi per il consumo e vengono spesso utilizzati per la preparazione di brodi vegetali proprio perché ricchi di sostanze nutritive.
I funghi freschi devono essere risciacquati con cura e molto bene per eliminare possibili impurità accumulate, essendo già molto porosi questi assorbono acqua molto facilmente.
Tradizionalmente i Funghi Shiitake vengono utilizzati per la preparazione della zuppa di miso, ma sono un componente per i vari contorni,  per insalate, carne e pesce.

Dati nutrizionali del fungo Shiitake

Per quanto riguarda la sfera nutrizionale, 100 grammi di shiitake contengono circa:
  • 34 calorie
  • 0.5 gr. grassi
  • 6.8 gr. carboidrati
  • 2.5 gr. fibra alimentare
  • 2.4 gr. zuccheri
  • 2.2 gr. proteine
  • 4 mg. niacina (19% dose giornaliera raccomandata)
  • 1.5 mg acido pantotenico (15% dose giornaliera raccomandata)
  • 0.2 mg vitamina B6 (15% dose giornaliera raccomandata)
  • 0.2 mg riboflavina (13% dose giornaliera raccomandata)
  • 18 unità internazionali di vitamina D (4% dose giornaliera raccomandata)
  • 0.2 mg manganese (12% dose giornaliera raccomandata)
  • 112 mg fosforo (11% dose giornaliera raccomandata)
  • 5.7 mg selenio (8% dose giornaliera raccomandata)
  • 0.1 mg rame (7% dose giornaliera raccomandata)
  • 1 mg zinco (7% dose giornaliera raccomandata)
  • 304 mg potassio (6% dose giornaliera raccomandata)
  • 20 mg magnesio (5% dose giornaliera raccomandata)
  • 0.4 mg ferro (2% dose giornaliera raccomandata)

Controindicazioni ed avvertenze:

I funghi contengono una discreta dose di purine, dei composti chimici che si scompongono nell’acido urico. Una dieta ricca di purine potrebbe incrementare i livelli di acido urico nel corpo e portare a gotta (una malattia del metabolismo caratterizzata da attacchi ricorrenti di artrite infiammatoria acuta con dolore, arrossamento e gonfiore delle articolazioni, causati dal deposito di cristalli di acido urico in presenza di iperuricemia) In presenza di sintomi indicativi di gotta, limitare l’assunzione e consultare il vostro medico curante.
Alessandra Mattia
Pluriennale esperienza nel settore della medicina naturale, traduttrice, appassionata di scrittura creativa, sostenitrice della vita rurale e dell'autosufficienza.

venerdì 22 settembre 2017

Milioni di persone hanno deciso di non amare più un essere umano

Milioni di persone hanno deciso di non amare più un essere umano
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"Milioni di persone hanno deciso di non amare più un essere umano. È meglio amare un cane, un gatto, un pappagallo; è meglio amare una macchina, poiché sono cose che si possono dominare benissimo, laddove nessuna di esse tenta di dominare te. È qualcosa di semplice, non è qualcosa di complesso come potrebbe esserlo con gli esseri umani.......
....La gente si innamora dei cavalli, dei cani, di ogni tipo di animale, delle macchine e degli oggetti in genere. Come mai? Perché essere in amore con gli esseri umani è diventato un vero e proprio inferno, un perenne conflitto: un continuo punzecchiarsi, un vivere l’uno alla gola dell’altro. "

Osho

Serva di Dio Dorothy Day Laica, Fondatrice

Serva di Dio Dorothy Day Laica, Fondatrice

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Brooklyn, USA, 8 novembre 1897 - New York, USA, 29 novembre 1980 

giovedì 14 settembre 2017

sulla bellezza Dostoevskij

 sulla bellezza Dostoevskij 
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(e Rainer M. Rilke: "La bellezza è l'inizio del tremendo").

"La bellezza!
Non posso tollerare che un uomo, per giunta di cuore nobilissimo e di alto ingegno, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con quello di Sodoma.
E ancor più terribile è quando, con l’ideale di Sodoma già nell’animo, non rinnega l’ideale della Madonna e il suo cuore ne arde, ne arde veramente come negli anni puri della giovinezza.
No, è vasto l’uomo, persino troppo vasto; io lo ridurrei.
Ecco, lo sa il diavolo che cosa realmente è!
Quel che alla mente pare una vergogna, per il cuore non è che bellezza.
Ma in Sodoma vi è bellezza? Credimi, è proprio lì che risiede per la grande maggioranza degli uomini – lo conoscevi questo segreto o no?
E’ spaventoso che la bellezza sia non solo una cosa terribile, ma anche misteriosa.
Qui è il diavolo a lottare con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini".

(F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov – libro III – “i lussuriosi”)

Julián Carrón: "Emergenza educativa"

Julián Carrón: "Emergenza educativa"


AIC propone il testo dell'intervento di Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, all'incontro di presentazione del libro di Antonio Polito "Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli" (Rizzoli, 2012) a cura del Centro Culturale di Milano, lo scorso 25 gennaio 2013 a Milano. Leggi di seguito il testo dell'intervento di Julián Carrón: Ringrazio prima di tutto Antonio Polito per questo invito di cui mi sento veramente onorato. Il libro che presentiamo oggi (Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, di Antonio Polito) è un grido, una provocazione, una domanda: ma dove stiamo portando i nostri figli?
Tanti genitori si ritroveranno in questo interrogativo. È una domanda che in non pochi casi diventa preoccupazione, e a volte angoscia, perché molti non sanno da che parte girarsi, dove guardare per uscire dall’’impasse in cui a volte si trovano. Questo è un segno palese della confusione che domina il nostro tempo, in cui pure abbiamo visto nascere, crescere, svilupparsi tante cose belle, tante conquiste della scienza, ma alla cosa più cara, i nostri figli, non sappiamo offrire qualcosa di veramente significativo affinché possano orientarsi in mezzo alla confusione in cui si trovano a vivere. Siamo davanti al libro di un osservatore acuto, che coglie la sfida più grande che la società si trova ad affrontare, cioè la sfida educativa, rispetto alla quale le altre, quella economica, sociale e politica, non sono che conseguenze. Ma Antonio non identifica solo la sfida, ma anche l’’origine di essa: i padri. O, più genericamente, gli adulti siano essi padri, educatori, maestri o preti , che non sono stati in grado di offrire un’’ipotesi di risposta all’’altezza del bisogno dei figli. L’’Autore pone la questione in modo tranchant fin dalle prime pagine del libro: «Chi di noi padri […...] può negare a se stesso la verità, e cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’’educazione (intesa in un senso molto più ampio della semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri ragazzi? E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?» (p. 16). Questa è la sfida. Come si documenta questa abdicazione dei padri alla loro funzione educativa? Sostanzialmente in due modi.
1) I genitori hanno voluto risparmiare ad ogni costo ai loro figli la fatica del vivere. «Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti dei nostri figli, sempre pronti a batterci affinché venga loro spianata la strada verso il nulla [parole forti], perché non c’’è meta ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più è un tratto del carattere nazionale […...]. Ed è un grande fattore di freno alla crescita non solo economica ma anche psicologica della nazione» (p. 21). Cioè, invece di lanciarli verso una meta ambiziosa corrispondente al loro bisogno, al loro cuore, anche se la strada è impervia, abbiamo preferito spianare loro la strada perché non dovessero impegnarsi troppo, per evitare la fatica della salita. Invece dello Stay hungry, Stay foolish (restate affamati, restate folli) di Steve Jobs, nel suo famoso discorso all’’Università di Standford, abbiamo preferito il «restate sazi, restate conformisti» (p. 12).
«La colpa è nostra. I veri bamboccioni siamo noi» (p. 23), scrive Polito. Abbiamo perseguito un modello sociale tutto teso a rendere facile la vita ai nostri ragazzi, senza accorgerci che così, in nome dei nostri figli, li abbiamo rovinati. «Affamati non vogliamo che siano nemmeno per un istante. Abbiamo anzi costruito le nostre vite e la nostra società in funzione del loro nutrimento. […...] In funzione della protezione dei figli dal bisogno, con conseguenze sociali rilevanti e non sempre positive» (pp. 12-13). Si è vissuto «un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce una sfiducia collettiva nei loro mezzi, la paura di lasciarli nuotare con le loro forze il prima possibile. E questa sfiducia loro la sentono, e ne deprime l’’autostima» (p. 20). Mi sembrano affermazioni acutissime di come noi, facendo così, diamo un giudizio sulle loro capacità, sulle loro possibilità di essere se stessi, di crescere, di svilupparsi. Non lo diciamo così esplicitamente, ma loro colgono comunque questo giudizio. In terzo luogo, abbiamo praticato un malefico paternalismo. «Società della pantofola», la chiama Antonio, tutta protesa a preservare i giovani da ogni sforzo. Mi colpisce la sintonia con quanto diceva don Giussani nel 1992, in una intervista al Corriere della Sera: «Mi spaventa […...] l’’Italia. […...] È una situazione civile dove non c’’è un ideale adeguato, dove non c’’è nulla che ecceda l’’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Questo non può durare. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine. […...] Perché è successo tutto questo? Lei lo può dire dopo aver visto crescere tante generazioni. Qual è stato il fattore scatenante di una simile caduta, di un simile peggioramento? A tutte queste generazioni di uomini non è stato proposto niente. Eccetto una cosa: l’’apprensione utilitaristica dei padri. Il
Sta parlando del dio denaro?  dio denaro o una sicurezza di vita agiata, di vita senza rischi. E fatta solamente di cose, senza rischio alcuno. […...] Chissà se questo desiderio di rendere meno difficile la vita dei propri figli, o di un dato gruppo di persone, sfondi a un certo punto l’’orizzonte. Cioè, se chi ha questo desiderio capisca che, per poterlo realizzare, ha bisogno di un ideale, di una speranza». I padri pensavano che, risparmiando loro lo sforzo e proteggendoli dal bisogno, stavano facendo il bene dei figli, quando in realtà stavano spianando loro la strada verso il nulla. Quando questa mentalità vince, il risultato è quello di cui parlava Pietro Citati in un articolo apparso qualche anno fa su la Repubblica e dedicato alla generazione dei giovani d’’oggi, dal titolo «Gli eterni adolescenti», in cui faceva un ritratto quasi spietato del risultato che produce la vittoria di questa mentalità. Scriveva Citati: «Un tempo, si diventava adulti prestissimo. Oggi c’’è una continua corsa all’’immaturità. Un tempo, […...] a tutti i costi, un ragazzo diventava maturo. […...] Conquistare la maturità era una rinuncia […...]. [Oggi i giovani] non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo: si chiedono sempre quale sia il loro io, […...] amano […...] l’’indecisione! Non dire mai sì e mai no: sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. […...] Non hanno volontà: non desiderano agire […...]. Preferiscono restare passivi. […...] Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia». A questo articolo aveva fatto seguito una risposta di Eugenio Scalfari, il quale sosteneva: «La ferita [in questi giovani] è stata la perdita dell’’identità e della memoria» forse perché qualcuno aveva tolto questa identità. È singolare: prima fanno di tutto per fare perdere loro l’’identità e poi si lamentano del fatto che hanno perso l’’identità. «La ferita è stata il silenzio dei padri troppo impegnati nella conquista del successo e del potere. […...] La ferita è stata la noia, l’’invincibile noia, la noia esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. […...] Non vedo quella profonda melanconia che c’’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti dal Lotto e dal Tiziano. […...] Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, solitari in mezzo alla folla che li contiene. Io vedo occhi disperati. […...] Eterni bambini. […...] La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione». 
Oggi ci troviamo di fronte a una profonda crisi dell’’umano, che si può riassumere in questo torpore misterioso, in questa invincibile noia, in questo venir meno dell’’umano in cui tante volte ci troviamo quando la mentalità denunciata nel libro stravince. Questa profonda crisi dell’’umano si documenta nella passività di tanti giovani, che sembrano quasi incapaci di interessarsi a qualcosa di veramente significativo, o nello scetticismo di tanti adulti che non mettono davanti a loro qualcosa per cui valga la pena muoversi per uscire da questa situazione. È come se non trovassero degli interessi con cui valesse la pena di coinvolgere fino in fondo la propria umanità. Sembra che niente sia in grado di interessare i giovani fino al punto di metterli in movimento, e allora «l’’impegno verso lo studio diviene minimo, e la noia massima». Ma proprio facendo così, i genitori hanno commesso un errore madornale. Dov’’è stato ed è l’’errore? Nella confusione sulla natura del cuore dell’’uomo. Pensiamo di risolvere noi il problema dei ragazzi, invece di sfidarli sulla loro natura. Quella natura originale, che Leopardi documenta in modo insuperabile: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’’universo infinito, e sentire che l’’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana». A questa natura dell’’uomo –– che è la natura dei nostri giovani, e la nostra –– non si può rispondere soltanto con una proposta facilona che non è in grado di interessare e di risvegliare tutta la capacità dell’’io.
2) Questo ci porta al secondo errore denunciato da Antonio Polito, che è riuscito così a identificare l’’altra radice dell’’impostazione educativa che critica nel suo libro, e su questo mi trova molto d’’accordo: l’’origine dei problemi è soprattutto culturale. E qual è l’’errore? Quello che «ha fatto di noi dei pessimi genitori è il pensiero del Novecento. La cui grande scoperta è stata l’’individuazione di forze superumane, fossero esse psichiche, sociali o biologiche, capaci di togliere dalle spalle dell’’uomo la responsabilità delle proprie azioni. Grandi filosofie consolatorie. Come il sistema di pensiero scaturito da Freud, nel quale l’’Io razionale e consapevole, la sede della responsabilità individuale, diventa un povero derelitto in balìa di forze più grandi di lui, [gettando] ““le basi per una riduzione dell’’etica alla psicologia””. (Valeria Egidi Morpurgo). […...] Oppure filosofie come il marxismo, che trasportano sul piano sociale lo stesso meccanismo a responsabilità zero. Ricordate uno dei più celebri assunti? È l’’essere sociale che determina la coscienza, non il contrario. Dunque la nostra coscienza è solo un’’ancella, che va dove la porta il conflitto di classe. E la liberazione dell’’uomo non può che essere il risultato di un processo collettivo che si svolge sopra di noi […...]. Ogni responsabilità individuale è finita, tutto è trasferito a processi e movimenti collettivi. Scrive l’’antropologo Robert Ardrey nel suo The Social Contract:
““Una filosofia che per decenni ci ha indotto a credere che le colpe dell’’uomo devono sempre caricarsi sulle spalle di qualcun’’altro; che la responsabilità di comportamenti dannosi alla società devono sempre attribuirsi alla società stessa; che gli esseri umani nascono non solo perfettibili ma anche identici, per cui qualsiasi grave conflitto tra di loro va addebitato alla gravità delle condizioni ambientali…...””. […...] E infine il darwinismo. […...] Che spiega tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui. Paura e coraggio, egoismo e altruismo, pigrizia e intraprendenza: niente di ciò che siamo si può più far risalire all’’educazione che abbiamo ricevuto, all’’esempio che ci è stato offerto, alla cultura in cui abbiamo vissuto. Ma tutto è Natura, tutto ci deriva dai nostri antenati e dagli istinti che si svilupparono nella lotta per la sopravvivenza del più forte» (pp. 26-28). Non so se capiamo la portata di questo errore: l’’uomo, ridotto ai suoi antecedenti biologici e sociologici, diventa un pupazzo, una marionetta in mano alle «forze superumane»; per cui l’’io non c’’è più, l’’io è come un sasso travolto dal torrente di queste forze. L’’«io» come realtà personale, autonoma, con capacità di libertà, in grado di porsi come soggetto nella storia e nelle circostanze non c’’è più, perché tutto è scaricato su antecedenti di ogni tipo, psichici, sociali o biologici. Polito lo chiama l’’oppio della deresponsabilizzazione. Non essendoci l’’io, non essendoci la libertà perché tutto è determinato da questi fattori, quale responsabilità è possibile davanti alle sfide? La conseguenza di questa mentalità è una certa concezione dell’’uomo: «Rousseau definì il bambino ““un perfetto idiota””. E nel 1890 William James descrisse la vita mentale di un neonato come ““una grande, dannata, ronzante confusione””. È a causa di questa presunzione che, convinti di essere in presenza di simpatici ““idioti””, parliamo e agiamo davanti a loro come se non ne fossimo ascoltati, e compresi, e giudicati. Non so voi, ma a me invece non è mai riuscito di stare in una stanza con uno dei miei figli fin dall’’età di sette-otto mesi senza avvertire distintamente addosso a me i suoi cinque sensi spalancati; senza provare l’’inquietante sensazione che dentro quei corpi ancora incapaci di muoversi e di nutrirsi con le loro forze ronzassero perfettamente oliati dei cervelli già funzionanti» (p. 67). Eppure, malgrado tutta la riduzione operata dal pensiero del Novecento, l’’esperienza elementare del rapporto con i nostri figli impedisce questa riduzione. Come se avessimo la percezione, perfino sensibile, di come non li possiamo ridurre a quello a cui di solito li riduciamo, cioè ai nostri pensieri. Continua Polito: «Voi capite bene che se così fosse, allora il nostro comportamento di genitori sarebbe radicalmente sbagliato, e dovrebbe radicalmente cambiare [perché se i ragazzi hanno cervelli funzionanti, qualche cosa deve cambiare]. Non più ““povero bimbo, è troppo piccolo per capire”” […...]. Il bambino capisce, comprende che c’’è una cosa giusta e una sbagliata» (p. 68). Provate a commettere una ingiustizia nei suoi confronti e vedrete se capisce! Provate a trattarlo nel modo sbagliato e vedrete se capisce! Altro che ridotto ai fattori antecedenti di tipo biologico, psicologico, eccetera! Se invece di questo riconoscimento della loro originalità, del fatto che hanno cervelli funzionanti, prevale il dominio di questa mentalità, questo annullamento dell’’io, si lascia campo libero a quelli che Polito chiama i ““cattivi maestri””, che non trovano così alcuna resistenza: «Ci sono in giro altri adulti che fanno danni non minori dei padri. Nel senso che li arrecano a un’’intera generazione di figli. Sono i cattivi maestri, intesi nel senso letterale e non metaforico del termine: gente che cioè insegna male, cose sbagliate, metodi approssimativi, idee perniciose. È il folto gruppo di quei reduci del Sessantotto i quali, invece che in politica o in azienda, hanno ottenuto il loro successo nell’’accademia o nella comunicazione, e che oggi dagli schermi televisivi, dalle edicole o dalle librerie disegnano davanti agli occhi dei nostri giovani il mondo come è e come sarà. È attraverso le loro parole e le loro immagini che i nostri figli apprendono a sperare o a disperare. Perciò il ruolo di questi padri-guru può essere anche più importante di quello dei padri biologici» (pp. 131-133). Antonio giunge a un’’amara conclusione: «Siamo la prima generazione di padri nella storia ad aver elaborato una complessa e altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio benevolentiae dei nostri figli. Fingiamo di farlo per il loro bene, ma in realtà lo facciamo per il nostro» (p. 143). E aggiunge: «La nostra società è dunque invecchiata nelle speranze e nelle aspettative, prima ancora che nell’’età anagrafica» (p. 144). Riducendo l’’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici o sociologici, abbiamo tolto all’’uomo e ai ragazzi la loro dignità, e questo lo esprimiamo nel modo di guardarli, questo giudizio lo leggono nel modo in cui li trattiamo, molto di più di quanto ce ne rendiamo conto. Ma basta un minimo di rapporto con loro perché scopriamo che l’’io c’’è. E che c’’è nell’’io qualcosa di irriducibile a questi fattori: don Giussani la chiamava «esperienza elementare», una esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, di felicità, di pienezza, che è il nocciolo dell’’io. E per questo i giovani capiscono, capiscono benissimo, non devono frequentare un corso per vedere quando è ingiusta una modalità di trattarli o quando non vogliamo loro bene o quando non diamo loro tempo. Togliere loro il criterio di giudizio è togliere loro la dignità, perché è come dire: «Tu sei scemo, ti spiego io come stanno le cose!». Ma loro capiscono benissimo che non è così, proprio perché hanno dentro di sé una esperienza elementare, che si esprime come esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, per cui non devono andare ad Harvard a fare un corso sulla giustizia per sapere quando sono trattati ingiustamente! Provate a farlo! Perché i nostri figli, i nostri ragazzi sono spietati su questo. Noi siamo dei dilettanti rispetto alla chiarezza del giudizio che hanno loro sulle cose. Ma noi pensiamo che siano scemi. Invece che differenza, che diversità quando li trattiamo per quello che sono! Ma, come dice il Papa, è successo [in molte persone molto capaci] uno «strano oscuramento del pensiero», quello che è elementare non lo vediamo più. E con questo oscuramento del pensiero riduciamo la loro dignità, la loro capacità di essere, il loro io con tutta la sua possibilità di evolvere e restringiamo allo stesso tempo il nostro concetto di amore, che non è soltanto cortesia e gentilezza, ma è amore nella verità. 
Se la situazione è questa, da dove ripartire? Dal «punto infiammato [dell’’animo], il locus di tutta la mia coscienza», di cui parlava Cesare Pavese. Da quei cervelli funzionanti, da quel cuore che non può essere ridotto ai fattori antecedenti, il cuore con le sue esigenze e con le sue attese. È questa attesa che deve trovare una riposta adeguata. È intorno a questo punto infiammato che può ruotare una proposta veramente corrispondente all’’umano. Ma questo punto infiammato (come abbiamo visto in tante occasioni) è sepolto da un torpore, da una noia: non trovando chi sfida i giovani con un rapporto all’’altezza della loro esigenza (che spesso si cerca di coprire con tante distrazioni), quel punto rimane sepolto. 
La questione, allora, è chi è in grado di risvegliare il punto infiammato, l’’io dei giovani; ma anche quello degli adulti. Questa è la sfida che abbiamo tutti davanti, la nostra generazione e le istituzione: la scuola, la famiglia, la Chiesa, i partiti, gli imprenditori, tutti. Per risvegliare l’’io dal suo torpore, dalla noia che sembra invincibile, non basta una lezione o soltanto un richiamo etico (che può essere utile), una predica; occorre un adulto che con la sua vita sia in grado di fare interessare il giovane alla sua esistenza, al suo destino. Ma è difficile trovare adulti che non siano scettici; quante volte mi trovo a dialogare con ragazzi in università i cui genitori, davanti al loro impeto ideale, dicono: «No, la vita ti sistemerà pian piano». È per questo che solo un testimone (diceva Paolo VI che abbiamo più bisogno di testimoni che di maestri), per cui chi lo incontra non possa sottrarsi al suo fascino, alla sfida che la sua presenza introduce nella vita, può risvegliare questo punto infiammato, questa esigenza nascosta. Uno che incarni un modo di vita in grado di attrarre il cuore, di sfidare la ragione, di mettere in moto la libertà. Insomma, occorre una proposta vivente. Un testimone o, con una parola che oggi non è politicamente corretto usare, ma se la svuotiamo delle connotazioni con cui a volte la percepiamo e se la diciamo nel suo senso originale risulta decisiva, un’’autorità, cioè qualcuno che mi fa crescere, che mi genera con la sua presenza. Occorre una autorità, una presenza che sfidi il «punto infiammato» per lanciarmi verso quella «meta impervia» a cui io, per la mia struttura umana, sono chiamato. Scriveva don Giussani: «L’’esperienza dell’’autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità, stupore, rispetto. C’’è in essa un’’attrattiva inevitabile, e in noi una inevitabile soggezione. L’’esperienza dell’’autorità richiama infatti l’’esperienza, più o meno chiara, della nostra indigenza e del nostro limite. Ciò porta a seguirla e a farci suoi ““discepoli””. […...] Per rispondere in modo adeguato alle esigenze educative [che oggi dobbiamo affrontare] dell’’adolescenza non basta proporre con chiarezza un significato delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre [allo stesso tempo] suscitare [nei giovani] dell’’adolescente [quel] personale impegno con la propria origine; [con loro stessi, perché senza questo non saranno loro stessi; e per questo non si può evitare la fatica]; occorre che l’’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. [Proposta di una ipotesi di significato da sottomettere alla verifica dei figli, della sua pertinenza alla vita, della sua capacità di rispondere alle sfide della vita. Senza questa educazione alla verifica di una proposta, non diventerà mai loro e quindi correranno il rischio di perdersi] La vera educazione deve essere un’’educazione alla critica». La critica è il paragone di quello che ci viene proposto con i desideri del suo cuore: «Il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. E il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. […...] Abbiamo avuto troppa paura di questa critica», di questa verifica, non abbiamo rischiato per poter generare un soggetto autonomo. Continuava don Giussani: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’’educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affronti l’’ambiente [le circostanze]. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’’ambiente, dall’’altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di ““far da sé”” di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidare l’’adolescente all’’incontro personale e sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto [altrimenti il risultato sarà che non cresce]. L’’equilibrio dell’’educatore svela qui la sua definitiva importanza. L’’evolversi infatti dell’’autonomia del ragazzo rappresenta per l’’intelligenza e il cuore e anche per l’’amor proprio dell’’educatore un ““rischio””. D’’altra parte è proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane una sua personalità nel rapporto con tutte le cose; la sua libertà cioè ““diviene””. […...] L’’esperienza deve farla il giovane stesso, perché questo rappresenta l’’avverarsi della sua libertà. E questo amore alla libertà fin nel rischio è soprattutto una direttiva che l’’educazione deve tenere presente. […...] Una educazione che accetti con vigilanza il rischio della libertà dell’’adolescente è reale sorgente di fedeltà e di devozione cosciente all’’ipotesi proposta e a chi la propone. La figura del ““maestro””, proprio per questa discrezione e rispetto, in un certo vero senso si ritira dietro la figura dominatrice della Verità Unica cui si ispira; il suo insegnamento e la sua direttiva diventano dono di testimonianza, e proprio per questo si iscrive nella memoria del discepolo con una simpatia acuta e sincera, indipendente nel suo livello più profondo dalle stesse sue doti. Per cui abbiamo una gratitudine e un legame ineliminabile al maestro, e pure una convinzione indipendentemente da esso». Il processo educativo non ha come scopo quello di ““convincere”” l’’altro di ciò in cui crediamo noi questo sarebbe un plagio , perché al centro ci sono due libertà in rapporto tra di loro. La libertà si muove a causa dell’’attrattiva del reale, perché il cuore dell’’uomo è assetato della verità; ciascuno cerca ciò che corrisponde alle sue esigenze originali di bene, di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità, che sono destate da tutto ciò che accade. L’’educazione è, perciò, un invito alla libertà dell’’uomo, per iniziare un cammino alla scoperta della verità delle cose. Se questo non accade, l’’affezione, che pure le cose destano, prima o poi viene meno, e la noia vince, perché solo il vero ha la forza per permanere nel tempo. La dinamica della libertà non è arbitraria, non è un fare ciò che pare e piace, perché un uomo è veramente libero quando riconosce e aderisce al significato della realtà; senza un significato, infatti, mancherebbe la ragione adeguata per vivere. L’’educazione è una grande sfida per il cuore dell’’uomo, senza di essa è impossibile lo sviluppo della persona, come ragione e libertà. Tanto è vero che quando i giovani sono sfidati nella loro ragione e libertà, si dimostrano entusiasti di partecipare a questa avventura; il problema è che, purtroppo, non trovano molti adulti che li sfidino e per questo decadono.
Vorrei terminare con un testo di Rabindranath Tagore, che dice tutto l’’amore che un padre deve avere; quando questo amore c’’è, la persona lo riconosce perché gli lascia lo spazio per crescere: «In questo mondo coloro che m’’amano / cercano con tutti i mezzi / di tenermi avvinto a loro. / Il tuo amore pi grande del loro, / eppure mi lasci libero». 
È solo l’’amore che rende liberi e che lascia spazio alla libertà, per crescere. Questa è sfida che noi adulti abbiamo il compito di accettare nei confronti dei giovani. Grazie.