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venerdì 29 dicembre 2017

La donna nel Medioevo: regina non solo del focolare

La donna nel Medioevo: regina non solo del focolare

Tradizione Famiglia Proprietà n. 76 Dicembre 2017

Tra le tante bufale sulla Cristianità medievale vi è quella di una supposta situazione d’inferiorità della donna. Niente di più lontano dalla realtà. La sottomissione della donna è cominciata con la modernità.
 di Raffaelle Citterio
Tra le tante bufale sulla Cristianità medievale vi è quella di una supposta situazione d’inferiorità della donna. La donna soggiogata dal marito, intenta esclusivamente ai lavori domestici e a fare figli, senza presenza sociale né, tantomeno, politica. Insomma, una cittadina di seconda classe in una società dominata dai maschi.
Ogni anno, in occasione della Giornata internazionale della donna (8 marzo), abbondano le esclamazioni del tipo: “Meno male che abbiamo ormai superato tutti quei preconcetti medievali! “. Ovviamente, attribuiscono alla modernità il merito di aver “liberato” la donna da una tale sudditanza.
Il fatto è che gli studi storici sulla situazione della donna nel Medioevo sono assai recenti. Fino agli anni Settanta, infatti, in assenza di studi autorevoli, il mito della modernità “liberatrice della donna” faceva da padrone, perfino in ambienti accademici. Una delle prime a studiare la situazione della donna nel Medioevo è stata la storica francese Régine Pernoud (1909-1998).
Curatrice degli Archives nationales e del Musée de l’Histoire de France, Pernoud ha potuto consultare i documenti originali, producendo nel corso della sua carriera ben cinquantatré libri e centinaia di testi accademici. Prendo spunto dal suo libro «Pour en finir avec le Moyen Age» (Éditions du Seuil, Paris 1977).
Pernoud apre, polemicamente, ricordando che nel Medioevo le regine di Francia erano incoronate a Reims, dalle mani dell’arcivescovo, nella stessa cerimonia del marito. Non venivano incoronate “Regina consorte”, bensì “Regina di Francia”. L’ultima a essere incoronata in questo modo fu Maria de’ Medici, nel 1610, e non a Reims.
Lungo il secolo XVII – scrive Pernoud – la figura della Regina man mano sparisce, sostituita con quella della favorita. Basti evocare il destino di Maria Teresa o di Maria Leszcynska. E quando l’ultima Regina ha voluto riprendere una parcella del potere, glielo hanno fatto pagare carissimo. Si chiamava, infatti, Maria Antonietta “.
Una società fondata sulla famiglia
La società medievale era fondata sull’istituzione della famiglia. “Per capire veramente la società medievale – afferma Pernoud – bisogna studiare l’organizzazione della famiglia: è questa la chiave del Medioevo, ed è la sua caratteristica più originale “.
Lungo il Medioevo, le varie funzioni famigliari sono man mano evolute fino a diventare cariche pubbliche. Per esempio, l’economia della famiglia era mantenuta dalla moglie, che faceva i conti su un tavolo diviso in riquadri, chiamato scacchiere: le linee per le entrate, le colonne per le uscite. L’economia della famiglia si identificava con quella del feudo. Era, dunque, spesso la donna a gestire le finanze feudali. Da qui proviene la figura del Ministro delle Finanze, che in Inghilterra si chiama tuttora Cancelliere dello Scacchiere (Chancellor of the Exchequer).
Così come in una famiglia, in assenza del marito è la moglie che tiene la casa, in assenza del signore feudale era la signora che governava il feudo. “Le nobildonne nel Medioevo – scrive Pernoud – esercitavano il potere senza contestazione. Molte avevano il proprio gabinetto di assistenti, il proprio cancelliere, il proprio segretario delle finanze e via dicendo“. Nel caso delle mogli di grandi feudatari, questo governo poteva assumere proporzioni molto importanti. Ecco perché donne come Eleonora d’Aquitania o Bianca di Castiglia hanno potuto dominare il proprio secolo.
E’ solo dal Cinquecento che le donne hanno cominciato a perdere il diritto a governare, riconquistato solo nel secolo XX. Oggi ci meravigliamo di una Theresa May o di una Angela Merkel. Nel Medioevo cristiano, ciò era assolutamente normale.
Diritto romano
La Pernoud attribuisce la perdita di rilevanza pubblica della donna, fra le altre cause, all’introduzione del Diritto romano con l’Umanesimo. Nel Diritto romano, la situazione della donna era limitata da una lunga serie di divieti. La supremazia maschile era totale: dalla gestione del patrimonio, all’educazione dei figli alla conduzione della res pubblica.
Era un diritto diverso da quello consuetudinario medievale, creatosi organicamente. “L’influenza della donna – secondo Pernoud – diminuisce parallelamente ali ‘introduzione del Diritto romano “. Non è coincidenza che le prime leggi che coartavano i diritti delle donne in Francia siano state emanate da un Re ritenuto precorritore della Modernità: Filippo il Bello. Quello che, con lo schiaffo di Anagni, ha distrutto l’ordine medievale.
La diffusione del Diritto romano ha anche modificato profondamente il concetto di proprietà. Nel Medioevo la proprietà era cumulativa e feudale. I giuristi, invece, hanno introdotto il concetto romano di ius utendi et abutendi, in contraddizione col diritto consuetudinario. Nel Medioevo, il genitore aveva l’amministrazione dei beni famigliari, non la proprietà, che restava sempre con la famiglia. Per esempio, egli non poteva diseredare i propri figli. Nel caso di morte senza eredi diretti, le proprietà passavano per parti uguali alla famiglia paterna e a quella materna.
Nel Medioevo, la maggior età era di dodici anni per le ragazze e quattordici per i ragazzi. Nel secolo XVI, in Francia la maggior età viene fissata ai venticinque anni, come nella Roma antica. “Ciò ha costituito una regressione – constata Pernoud – mentre che nel diritto consuetudinario i ragazzi e le ragazze acquisivano precocemente una certa autonomia, adesso restano sotto l’autorità paterna fino all’età adulta. La stessa gestione della proprietà diventa sempre più un monopolio del padre“. L’ultimo chiodo sulla bara lo mette il Codice Napoleonico.
Favorendo i proprietari, soprattutto terrieri, il Diritto romano facilitò anche la centralizzazione del potere. Il primo a introdurre lo studio del diritto romano fu l’imperatore Federico II, nell’Università di Napoli, l’unica che i suoi sudditi italiani fossero autorizzati a frequentare. In Francia il Diritto romano si diffonde soprattutto dal Meridione, precocemente influenzato dall’Umanesimo.
La Chiesa ostile alla donna?
Mentre che nel Medioevo la donna poteva scegliere il proprio nome, dal secolo XVII è costretta ad assumere quello del marito. Il consenso paterno per il matrimonio diventa obbligatorio dalla fine del secolo XVI. È vero che molti matrimoni erano combinati, specie nelle grandi famiglie, ma ciò per motivi superiori: sigillare un trattato di pace, unire due feudi, ravvicinare due famiglie e via dicendo.
In ogni caso, rileva Pernoud: Una potenza ha sempre lottato contro i matrimoni imposti: la Chiesa. Mentre moltiplicava i casi di nullità nel Diritto Canonico, richiamava la libertà di scelta per i matrimoni. E un fatto storico che la diffusione della libera scelta del proprio coniuge coincide con la diffusione del cristianesimo. Perfino oggi, i paesi di tradizione cristiana si vantano di tale libertà, mentre che essa manca totalmente nei paesi musulmani e orientali“.
La Chiesa ha onorato le donne sin dall’inizio. I primi martiri venerati non erano uomini bensì donne. Alcune sono menzionate perfino nel Canone della Messa tridentina. Risale all’inizio del III secolo la prima raffigurazione della Madonna col Bambino, nelle catacombe di Priscilla. Poi, se c’è una devozione che abbia caratterizzato il Medioevo, è proprio quella della Madonna, alla quale sono state dedicate molte chiese e cattedrali.
Régine Pernoud ricorda, poi, che nel Medioevo molte donne hanno esercitato un potere considerevole nella Chiesa. Per esempio, molte Badesse erano anche “signori” feudali. Alcune portavano il pastorale e la croce pettorale, come un vescovo. In alcuni ordini religiosi misti, cioè con rami maschili e femminili, a volte erano le badesse ad avere il potere anche sul ramo maschile. Cosa assolutamente impensabile ai giorni nostri.
A partire del secolo XVI, avanzando sulla strada della centralizzazione politica, i Re di Francia iniziano a prendere in mano la nomina degli abati e delle badesse, cancellando in pratica l’autonomia dei monasteri. Col risultato che, con l’eccezione delle Carmelitane e delle Clarisse, verso la fine dell’Ancien Regime, gli ordini femminili erano diventati luoghi di socializzazione.
Nel Medioevo non era diffusa la clausura, cioè la separazione dal mondo. I monaci e le monache intervenivano normalmente negli affari temporali. Fu solo alla fine del secolo XIII che papa Bonifacio VIII impose la clausura ad alcuni ordini femminili, come le cistercensi e le certosine.
Colpisce anche, secondo Pernoud, il numero di religiose altamente istruite, che avrebbero potuto rivaleggiare con le grandi intelligenze dell’epoca. In molte abbazie femminili si insegnava latino, greco ed ebraico. In altre si componevano opere di teatro o di letteratura. La badessa Hrotsvitha del monastero di Gandersheim, per esempio, ebbe una grande influenza sulla letteratura germanica medievale. I monasteri fungevano anche da scuole. Un decreto dell’imperatore Carlo Magno aveva, infatti, imposto che ogni chiesa e ogni monastero avesse una scuola pubblica e gratuita.
L’enciclopedia più consultata dagli eruditi nel Medioevo – l’Hortus deliciarum – è opera di una donna: la badessa Herrad di Landsberg. Altrettanto importante era l’opera di santa Hildegarda di Bingen. Notevole anche il numero di donne che, seguendo studi accademici, otteneva la laurea in teologia. Gertrude di Helfta, per esempio, celebrava in una lettera di essere passata da “grammarienne” a “théologienne“. “I monasteri femminili medievali – scrive la Pernoud – erano focolari di preghiera ma anche di scienza religiosa, di esegesi, di erudizione. Vi si studiavano tutte le materie del sapere religioso e profano“.
E conclude: “Durante il periodo feudale, il posto della donna nella Chiesa era diverso da quello degli uomini, ma era eminente “.
Donne del popolo

Règine Pernoud
La storica francese passa quindi a trattare la situazione della donna nelle classi più umili. Per questo si avvale dell’enorme massa di documenti di epoca che ha potuto consultare: memorie, lettere, atti notarili e giudiziari, ecc. E soprattutto le celebri Enquêtes ordinate da san Luigi IX, una sorta di censimento generale, che fornisce una “fotografia” assai fedele della società francese del secolo XIII: “E con documenti di questo tipo che, a mo’ di mosaico, possiamo ricostruire la vera storia “.
Il quadro che ne risulta è molto diverso dalla vulgata. Per esempio, i registri elettorali mostrano che le donne avevano diritto al voto, sia nelle assemblee cittadine sia nelle comunità rurali. Solo in pochissimi casi, secondo usanze locali, il voto era per “feu“, cioè per focolare, rappresentato dal padre di famiglia. Normalmente era nominale, comprendendo quindi le donne, dalla maggior età che, come abbiamo visto, avveniva a dodici anni. Ciao ciao, dunque, al mito che il voto femminile e giovanile sia una conquista della modernità.
Colpisce anche il numero di donne, anche sposate, che gestivano in proprio attività commerciali, senza obbligo di autorizzazione del padre o del marito. L’elenco delle professioni esercitate dalle donne è esteso: insegnante, farmacista, medico, sarta, copista, rilegatrice e via dicendo. Questo finisce nel 1593, quando un decreto del Parlamento proibisce alle donne la gestione di attività commerciali, nonché l’esercizio di qualsiasi funzione pubblica nello Stato. E ancora il Codice Napoleonico a mettere l’ultimo chiodo, togliendo loro anche il diritto di gestire il proprio patrimonio.
Mentre nel Medioevo alcuni testi scolastici erano opere di donne, come quello di Dhouda, scritto nell’841, dal secolo XVII tutti i trattati di educazione sono scritti da uomini: da Montaigne a Rousseau.
La celebre storica francese chiude affermando: “Potrei moltiplicare all’infinito i casi che attestano la degradazione della situazione della donna dalla fine della società feudale “. Solo ai tempi nostri le donne hanno riavuto alcuni diritti di cui godevano nel Medioevo. Ma anche in questo caso, dice la Pernoud, è triste vedere che debbano lottare per acquisire per vie legali “diritti” che dovrebbero provenire dall’ordine naturale e consuetudinario.
D’altronde – conclude – è lecito domandarsi se le donne oggi non siano mosse da un’ammirazione, forse subcosciente e certamente eccessiva, del mondo maschile, che vogliono imitare a ogni costo. (…) A quelle che si vantano di ‘essere finalmente uscite dal Medioevo io dico: avete ancora molto da riprendere prima di ritrovare il posto che avevate ai tempi della regina Eleonora o della regina Bianca “.

mercoledì 27 dicembre 2017

presepe storia

Il presepe





Pittura affrescata. Catacomba di Santa priscilla, III secolo d.C.
Lo spiega la parola stessa: un recinto, delimitato da una siepe. Usato per il ricovero del bestiame. “Praesepire”, il verbo latino, spiega l’atto: cingere, chiudere, sbarrare. Che è anche difendere, proteggere, abbracciare.
Gesù, riferisce l’evangelista Luca, nacque in una stalla. E fu posto nel luogo dove si sistema il fieno che serve agli animali: su una mangiatoia, in una greppia. “Cripia” in basso latino. Da cui, nelle altre lingue d’Europa, tutte le parole con cui si definisce il presepe: “crechè” in francese, “crib” in inglese, “krippe” in tedesco e “krubba” in svedese. Anche ““wertep” nella lingua russa e “szopka” in quella polacca, vogliono dire mangiatoia e indicano la rappresentazione natalizia della Natività.
La prima attestazione del Natale è contenuta nel più antico calendario della Chiesa di Roma, il Cronografo romano del 354, redatto sotto papa Liberio. Nel documento è scritto: “Il 25 dicembre nacque Cristo a Betlemme di Giudea”. Bisogna però tenere presente che la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma la Pasqua che ricorda la risurrezione di Cristo, motivo fondante della fede e base dell’annuncio stesso del Vangelo.
L’esatto giorno della nascita di Gesù non è tramandato in modo chiaro neppure dagli evangelisti. Così, i primi cristiani tendevano a festeggiare, a volte nello stesso giorno, soprattutto il Battesimo o l’Epifania, le date della rivelazione della divinità.


L’Adorazione dei Magi nella catacomba di Santa Priscilla
Come è noto, la maggior parte dei biblisti colloca l’anno della nascita di Cristo dopo il censimento di Augusto (8 a.C.) e prima della morte di Erode (4 a.C.). Dionigi il Piccolo, nel VI secolo, fissò la data per errore nell’anno 753 dalla fondazione di Roma. E da quella inesattezza decorre, in tutto l’occidente, la cosiddetta “era cristiana”.
Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre fu Ippolito di Roma, nel suo commento al libro del profeta Daniele, scritto intorno al 204.
In quel giorno, nel vecchio calendario giuliano, entrato in vigore nel 46 avanti Cristo e basato sul ciclo delle stagioni, cadeva il solstizio d’inverno: la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno. Le ore fondamentali della rinascita del mondo. Cristo emergeva dal buio del peccato e vinceva le tenebre del male e della morte.
Come un’altra divinità, nata lo stesso giorno, della quale la festa cristiana del Natale prese il posto, in forma pressoché definitiva soltanto a partire dal IV secolo: il Sol Invictus, il dio del sole “mai vinto”, venerato dai romani fin dall’anno 200, all’epoca del regno di Settimio Severo. L’imperatore Eliogabalo (203 – 222) tentò, con poco successo, di imporne il culto al posto di Giove. Ci riuscì Aureliano (214 –275) grato al dio amico che con un sogno premonitore nel 272 lo aiutò a sconfiggere la regina Zenobia del regno di Palmira, mortale nemica di Roma. Tanto che appena due anni dopo, il 25 dicembre 274, l’imperatore consacrò la data del solstizio d’inverno come il “giorno natale del sole invicto”. Proclamò la “festa della luce”. E inaugurò in modo solenne, sul colle del Quirinale, il tempio dedicato al dio, insieme ai “Pontifices Solis Invicti”, i sacerdoti preposti al culto.
Nella Roma cosmopolita, nella quale si mescolavano culti diversi, la nuova religione del dio del sole si propagò rapidamente. Del resto l’antico culto, in altre forme, era celebrato da secoli in tutto il mondo antico. Già nella notte dei tempi a Stonehenge, in Gran Bretagna, in Val Camonica, in Iran, in Francia e in Irlanda. Ma anche in Grecia attraverso simbologie achee e in tutto l’Oriente.






Mitra al centro e il Sol Invictus in alto a sinistra, Musei Vaticani
Il Sol Invictus si sovrappose al Sol Indigens dei primi popoli italici, dio primigenio a cui resero sacrificio anche Enea e Circe, come ricorda Esiodo. Il culto del sole fu istituito da Tito Tazio, leggendario re dei sabini. Secoli dopo, il Sol Invictus diventò addirittura il dio protettore degli imperatori. In suo onore, Vespasiano fece innalzare una statua gigantesca. Traiano e Adriano ne stamparono l’immagine sui solidi, le monete del potere. E con Commodo “invictus” divenne l’appellativo stesso degli imperatori.
Il Sol Invictus, l’invincibile dio della luce dei soldati di Roma, si fuse con l’altro culto orientale di Mitra, una divinità prima induista e persiana, poi ellenistica e romana, adorata nelle religioni misteriche dal I secolo avanti Cristo al V secolo dopo Cristo. Anche Mitra era nato il 25 dicembre. Il culto del dio, guerriero e allo stesso tempo dispensatore di luce, riservato solo agli uomini, conobbe una grande espansione. E nella religione pubblica si identificò rapidamente con il culto romano del Sole.
Nel III secolo Roma era il maggior centro della cristianità in Occidente.
Il passaggio dalla festività pagana a quella cristiana fu facilitato dalla tradizione biblica che parlava del Messia come di un sole e di una luce: “Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge” (Lc 1, 78).
I primi scrittori cristiani distinsero in modo chiaro il “vero Sol iustitiae da quello venerato dai pagani e dai manichei” (Agostino, Enarrationes in Psalmos, 25, 2, 3). L’editto di Tessalonica, emesso il 27 febbraio 380 dagli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II dichiarò il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero e proibì sia l’arianesimo che i culti pagani. Ma ottanta anni dopo, nel sermone di Natale del 460, papa Leone I scriveva: “È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto…”.
La parola “praesepe” comparve molto più tardi. Cominciò ad essere utilizzata per indicare una antichissima chiesa: la basilica romana di Santa Maria Maggiore. Papa Sisto III la fece costruire nel 432 dopo Cristo, un anno dopo il Concilio di Efeso. Nella città ionica era stato appena proclamato il dogma della “theotòkos”, ovvero della maternità divina di Maria. Poi, ai tempi di papa Teodoro I (VII secolo d.C) sull’Esquilino furono traslate anche le reliquie divine della Sacra Culla: i frammenti di legno, secondo la tradizione, provenivano dalla mangiatoia in cui Gesù fu posto subito dopo la nascita. La culla di Cristo è ancora lì, sotto l’altare papale, in una cripta voluta, secoli dopo, da Pio IX.
“Santa Maria Ad Praesepe”, la basilica legata in modo indissolubile al mistero della Natività, diventò così, per i cristiani, la chiesa “presso il presepe”.
I primi seguaci di Cristo scolpivano o dipingevano le scene della nascita del Redentore nei luoghi segreti nei quali solevano incontrarsi. L’immagine più antica della Madonna appare sul soffitto di una nicchia nella grande catacomba di Santa Priscilla, scavata nel tufo, per 13 chilometri, nelle viscere di Roma.
Lo stucco risale agli anni 30 o 40 del III secolo dopo Cristo. Nella pittura affrescata, la Vergine è seduta. Indossa una stola, il capo è coperto da un mantello. Maria accenna a un gesto, delicato e materno, verso il neonato che tiene sulle ginocchia. Vicino a lei appare un profeta: è Isaia o più probabilmente Balaam: nella mano destra stringe un rotolo; con la sinistra indica l’astro lontano che annuncia al mondo la nascita del Messia: “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17). San Giuseppe non è rappresentato: nell’iconografia della Natività comparirà soltanto duecento anni dopo, nella prima metà del V secolo.
Poco lontano, nella cosiddetta “Cappella greca”, spunta un’altra immagine: una adorazione dei Magi che risale allo stesso periodo storico. I tre personaggi che offrono i loro doni sono i primi pagani che rendono omaggio al Figlio di Dio. Camminano a passo spedito, fasciati dai loro vestiti orientali, dai colori accesi e diversi. E la Madonna che li attende, seduta, somiglia a una matrona di Roma. Le prime comunità cristiane ripeteranno la medesima scena in altri cimiteri dell’Urbe: i Magi erano il segno della universalità della salvezza e del messaggio di Dio, diretto a tutte le genti del mondo.
In Oriente, negli stessi anni, i seguaci di Cristo si attenevano ancora al divieto della dottrina ebraica, chiarito da un celebre passo dell’Antico Testamento: “Non ti fare nessuna scultura, né immagini delle cose che sono su nel cielo, o sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorare tali cose, né servir loro…” (Esodo 20, 4-5).


Particolare del sarcofago di Adelfia, Siracusa (330 dopo Cristo)
Il più antico presepio del mondo risale al 330 dopo Cristo. È scolpito sulle lastre di marmo del Sarcofago di Adelfia, a Siracusa. E ci colpisce ancora per la sua commovente bellezza.
Il Bambino è in fasce, scaldato dal fiato del bue e dall’asinello. È protetto da una tettoia ricoperta da tegole e ceppi. Poco lontano, un pastore ha appena ricevuto dall’angelo la notizia della nascita miracolosa. Accanto, Maria, siede su una roccia. E quasi avvolge e protegge tutta la scena con il suo sguardo sereno di madre.
Il prezioso reperto è conservato al centro del nuovo settore del museo archeologico regionale “Paolo Orsi”, dedicato all’arte cristiana. Fu scoperto in un pomeriggio del luglio del 1872, all’interno di un cubicolo delle Catacombe di San Giovanni, da Francesco Cavallari, allora direttore delle Antichità di Sicilia.
Le lastre di marmo bianco, un tempo decorate da molti colori, rappresentano scene del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Al centro del sarcofago, una valva di conchiglia racchiude i busti di due sposi: Adelfia, “clarissima femina”, unita per sempre a suo marito Valerio, che commissionò l’opera. Forse si tratta di quel Lucio Valerio Arcadio che fu console di Sicilia dal 325 al 330, proprietario anche della meravigliosa villa romana di Piazza Armerina, nei pressi di Enna.
Sotto il cartiglio che reca l’iscrizione “Qui giace Adelfia…”, il piccolo Gesù tende le mani verso i doni dei Magi, che ne bassorilievo preceduti da una stella a sette punte. Una corona sovrastata da una gemma simboleggia l’oro; una pisside, l’oggetto liturgico usato per conservare le ostie, custodisce l’incenso e la mirra.


Epitaffio di Severa, catacomba di Santa Priscilla, Roma
L’Adorazione dei Magi è replicata in altri cimiteri cristiani. Appare ancora a Roma nelle catacombe di Priscilla sulla lastra marmorea della tomba di Severa (300 circa dopo Cristo), nella catacomba dei SS. Pietro e Marcellino, nella fronte di un sarcofago risalente alla prima metà del IV secolo, conservato nelle sale del Museo Pio Cristiano della Città del Vaticano e in un altro sarcofago, dello stesso periodo, scoperto a S. Paolo fuori le mura.
E si può ammirare ancora a Milano, nel sarcofago esposto al Museo Ambrosiano. Ma soprattutto in quello di Stilicone, conservato nella basilica di S. Ambrogio e inglobato in un ambone costruito in epoca medievale.


Milano, Sant’Ambrogio. Sarcofago di Stilicone (foto Giovanni Dall’Orto)
Fu scolpito molto probabilmente nella seconda metà del IV secolo.
Sul lato che guarda verso l’altare è rappresentata la scena di una delle prime Natività di cui abbiamo conoscenza. Gesù, anche se è in fasce, ha il volto di un adulto. Lo vegliano un bue e un asino. Le due bestie, secondo la lettura di Sant’Ambrogio, rappresentano la moltitudine del mondo: il bue, portatore del giogo della Legge, evoca il popolo giudaico; l’asino costretto dai pesi dell’idolatria, rappresenta i Gentili. A fianco, due uccelli beccano un grappolo d’uva: uno con convinzione, l’altro esitando: sono i fedeli, pronti a nutrirsi della “fede” oppure restii ad accogliere il messaggio di Cristo.
Ma il bue e l’asino non erano nella stalla con Gesù. E i pastori non cantavano. Perché “nel Vangelo non si parla di animali”. Lo ha scritto papa Benedetto XVI nel suo saggio “L’infanzia di Gesù”, costato nove anni di studi. Joseph Ratzinger spiega che in ogni caso “nessuna raffigurazione del presepe rinuncerà al bue e all’asino”. E aggiunge: “La povertà è il vero segno di Dio”.
Il presepe, sotto l’onda della fede, si arricchì presto di altri personaggi e altri simboli. Con nuovi significati allegorici.
Nella rappresentazione, il bue e l’asino furono aggiunti da Origene, interprete delle profezie di Abacuc e di Isaia (1,3):“Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Gli animali vicino alla mangiatoia diventano i simboli del popolo ebreo e dei pagani. Davanti al Dio che nasce in una stalla tutti gli uomini, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Benedetto XVI scrive: “Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore”.
Gli angeli presenti nella scena toccante della Natività sono il modello di creature superiori, testimoni dell’evento straordinario.

Copertura dell’evangelario nel Duomo di Milano
Quanto alla grotta, nella iconografia orientale, simboleggia il ventre della terra. Nei Vangeli canonici non se ne fa menzione. Ne parlano invece due Vangeli apocrifi, il Protovangelo di Giacomo e il Vangelo dello pseudo Matteo che risalgono al II secolo dopo Cristo. La descrivono rifulgente di luce, “come se vi fosse il sole”.
Di una grotta parlò, per la prima volta San Giustino, filosofo e martire, nato in Palestina, che 150 anni dopo gli avvenimenti scrisse: “Al momento della nascita del bambino a Betlemme, poiché non aveva dove soggiornare in quel villaggio, Giuseppe si fermò in una grotta prossima all’abitato e, mentre si trovavano là, Maria partorì il Cristo e lo depose in una mangiatoia, dove i Magi, venuti dall’Arabia lo trovarono” (Dialogo con Trifone, 78). Sul luogo, dove fu edificata una basilica, già nel IV secolo accorrevano numerosi i pellegrini.
I primi ad adorare il Bambino furono i pastori, che all’epoca, nella scala sociale, erano visti come degli emarginati, persone che vagavano fuori dai centri abitati, senza una fissa dimora. Le loro figure furono aggiunte nei presepi in età medievale. Il numero variava, secondo le circostanze. Nella rappresentazione, ascoltano per primi, accanto alle loro greggi, l’annuncio dell’angelo . E l’adorazione del Bambino venuto al mondo in una mangiatoia è il passo iniziale per un cammino di conversione capace di allontanarli dai peccati del mondo.

Icona della Natività di Gesù, Cappella Palatina, Palermo
Gli ultimi ad apparire sulla scena del presepio furono i Re Magi. Il Vangelo di Matteo non fa i loro nomi e non dice quanti fossero. Nei testi non canonici il loro numero varia da due a dodici. San Leone Magno (390-461) stabilì che fossero tre, come le età dell’uomo (gioventù, maturità e vecchiaia) e le razze in cui, secondo il racconto biblico, è divisa l’umanità: semita, giapetica e camita.
L’europeo Melchiorre (“il signore della luce”) è inginocchiato oppure prostrato e porta l’oro al bambino nato in una grotta; l’orientale Gaspare (“il signore della forza-splendore”) e l’africano Baldassarre (“il prediletto del Signore”) portano a turno incenso e mirra, due piante che crescono sia in Africa che in Asia.
I doni parlano alla duplice natura di Gesù e alla sua regalità: l’oro è riservato ai re, l’incenso alla divinità e la mirra all’uomo, poiché veniva usata come unguento per i corpi dei morti. Ricorda ai fedeli il destino di Cristo, che si immola per la salvezza del mondo, senza passare dalla corruzione del sepolcro.
Con la Natività, il tema della luce entra nella liturgia cristiana. Il primo sermone sull’argomento fu quello di Papa Liberio, nella notte di Natale dell’anno 354. Nel giro di qualche anno, la festa passò da Roma all’Oriente. San Gregorio il Teologo la introdusse a Costantinopoli (380 d.C.) e San Gregorio di Nissa, qualche anno dopo, in Cappadocia. I cristiani che vivevano in Palestina, nei luoghi dove si svolsero i fatti, furono così gli ultimi a festeggiare il Natale.
Secondo la tradizione, la prima rappresentazione della nascita del Salvatore fu un affresco, voluto dall’imperatore Costantino e subito esposto a Betlemme, nella basilica della Natività. Forse fu proprio questa l’immagine che venne riprodotta, in un periodo imprecisato del VI secolo su una ampolla conservata a Monza e identica a una icona del Monte Sinai realizzata un centinaio di anni dopo.






Il presepe di Greccio dipinto da Giotto nella Basilica Superiore di Assisi
Quel che è certo è che a partire dal IV secolo la Natività divenne uno dei temi dominanti dell’arte religiosa. Rappresentata in migliaia di pitture, affreschi, sculture, bassorilievi, argenti, ceramiche, avori e vetrate. Capolavori realizzati, nel corso dei secoli per chiese, monasteri, nobili, facoltosi committenti e mecenati famosi da artisti immortali, come Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Durer, Rembrandt, Poussin, Correggio, Rubens, e centinaia di altri.
Opere raffinate, in ricordo di un giorno che ha segnato la storia dell’umanità. E che già nel Medioevo spiccavano per il loro valore artistico.
Come la copertina lignea di un Reliquiario del IV secolo, conservata al Museo Sacro Vaticano di Roma. Oppure il bassorilievo della Cappella dei SS. Quirino e Giulitta del Museo arcivescovile di Ravenna (V secolo).
Uno splendido dittico del V secolo, a cinque parti in avorio e pietre preziose che si aggiunge alla lunga lista di meraviglie del Duomo di Milano.
L’affresco della Chiesa di S. Maria Foris Portas a Varese (VII-VIII secolo) riecheggia una iconografia orientale, con la Madonna distesa su un grande cuscino, al centro della scena. Verrà mirabilmente ripresa, quasi ottocento anni dopo, nella Icona della Natività della Scuola di Rublëv (1410-1430), ora esposta presso la Galleria Tretjakov di Mosca, un’opera che in modo ambizioso e esemplare riassume in un dipinto l’intera storia della salvezza.
Immagini stupefacenti, dagli straordinari mosaici del XII secolo della Cappella Palatina di Palermo, ubicata al primo piano del Palazzo dei Normanni fino alle iconografie del Battistero di S. Maria a Venezia e delle Basiliche di S. Maria Maggiore e S. Maria in Trastevere a Roma.
Dallo sguardo all’anima il passo fu inevitabile. La prima rappresentazione statica della Natività, il primo presepe della storia, da vivere come un momento interiore di fede e meditazione, arrivò insieme al messaggio rivoluzionario di Francesco d’Assisi.
Il mistero dell’incarnazione e la Natività affascinavano il Poverello in modo particolare. La gioia del Natale lo pervadeva ogni volta.
Tommaso da Celano nella “Vita seconda”, riporta le parole di entusiasmo del santo: “Se potrò parlare all’imperatore lo supplicherò di emanare un editto generale per cui tutti quelli che ne abbiano la possibilità debbano spargere per le vie frumento e granaglie affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”.
Questa gioia, intima e profonda, negli ultimi mesi del 1223, tre anni prima della sua morte, mitigava appena una disperazione profonda. In quello stesso anno, i suoi confratelli avevano riscritto la Regola finale dell’Ordine francescano. E papa Onorio III l’aveva approvata. Francesco, nemico di ogni discordia, aggiunse la sua firma al documento che sopprimeva e censurava molte delle sue richieste, fino a stravolgere le sue indicazioni su temi come il rapporto dei frati con il denaro, il divieto di riconoscere gerarchie, l’aderenza stretta al messaggio evangelico e una vita meno aspra e più lontana da “madonna Povertà”.
Il santo visse tutta la vicenda delle nuove regole come una sconfitta. Nei mesi amari che i biografi definirono della “grande tentazione”, pensò anche di abbandonare tutto e di disinteressarsi completamente della comunità francescana, ormai cresciuta a dismisura e molto diversa da come l’aveva immaginata.
Francesco si ritirò sempre più negli eremi. E spesso fuggì anche la compagnia dei suoi fratelli più affezionati.
Greccio, nei pressi di Rieti, era uno dei luoghi che amava di più. Il paesaggio intorno al piccolo paese nascosto tra gli alberi, allora povero, paludoso e malsano, quasi appartato dal mondo, gli richiamava alla mente la sperduta Betlemme, la “culla di Cristo” che voleva visitare quattro anni prima, nel 1219, quando andò in Egitto durante la quinta crociata, per convincere i crociati a non uccidere per non tradire il messaggio cristiano. Allora predicò il suo messaggio d’amore anche tra gli “infedeli” e anche il sultano lo accolse con onore. Ma i suoi sforzi per la pace si rivelarono inutili. E Francesco non riuscì a visitare il luogo della Natività.
A Greccio, di passaggio dai suoi eremitaggi nella Valle Santa reatina, si ritirava sempre in una piccola cella scavata nella roccia. Lì, nel silenzio della natura, pensò di far rivivere la nascita di Gesù.
Mandò allora a chiamare Giovanni, il “dominus” del villaggio fortificato di Greccio. Era un amico fidato con il quale aveva rapporti familiari e frequenti. In quell’uomo, scrisse Tomaso da Celano, “stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne”. A lui chiese di organizzare per la notte di Natale, una “rappresentazione” vera della nascita di Gesù. Per meditare sul mistero della Natività. Tommaso da Celano riporta le parole che rivolse a Giovanni: “Vorrei rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia, e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Ma non voleva uno spettacolo. Anzi, temeva che la sua iniziativa venisse mal interpretata. Per questo, secondo S. Bonaventura, prima di mettere in atto il suo progetto, chiese anche il permesso del papa.
Che evidentemente arrivò in modo celere.


Il presepe del Maestro dei Mesi di Ferrara conservato a Venezia
Quella notte di vigilia del Natale 1223 entrò nella storia.
A Greccio accorsero gli abitanti dei paesi vicini, molti frati e numerosi pellegrini. Scrisse il Celano: “Arrivarono uomini, donne festanti, portando ciascuno, secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte”. Si preparò la scena della rievocazione con la greppia, il fieno, il bue e l’asinello.
Nessuno dei presenti prese il posto della Madonna, di San Giuseppe e del Bambino. Intorno al presepe si celebrò la messa, in una atmosfera di grande commozione. Francesco vi prese parte, rivestito dei paramenti diaconali. Era infatti entrato “per obbedienza” nel clero anche se si riteneva “indegno” del sacerdozio.
Cantò il Vangelo con voce “forte e dolce, limpida e sonora”. E predicò parlando del “Bimbo di Betlemme” nato povero in una stalla. Chiara Frugoni, eminente studiosa francescana, nel libro “Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini” (Laterza editore) scritto insieme a Alessandro Barbero, dà la sua lettura dello storico avvenimento: “Il presepio di Francesco voleva essere la sconfessione della crociata: Betlemme era dovunque, anche a Greccio, perché i cristiani dovevano ritrovarla dentro il loro cuore e non raggiungere quel luogo santo a prezzo di massacri”.
Non c’era bisogno di guerre per arrivare alla Terra Santa. A Greccio, attraverso una rappresentazione semplice e realistica, la storia di Natale fu resa accessibile a tutti, anche a chi non sapeva leggere.
Il tema iconografico venne sviluppato dalle arti plastiche. Come dimostrano altri capolavori scultorei.
Il più antico è un gruppo marmoreo di tre statue datato “ante 1240” e attribuito al Maestro dei Mesi di Ferrara. È conservato nel seminario patriarcale di Venezia. C’è un solo re magio, genuflesso davanti alla Madonna in trono con in braccio il Bambino. Accanto, il san Giuseppe che si appoggia a un bastone richiama la figura del pastore –profeta delle icone bizantine.
Lo stesso artista realizzò, nei primissimi anni del XIII secolo, “Sogno e Adorazione dei Magi”, il ciclo scultoreo che a Forlì adorna la lunetta del portale dell’Abbazia di San Mercuriale.


La Natività di Arnolfo di Cambio a Santa Maria Maggiore, Roma
Nel 1280, meno di cinquanta anni dopo la rappresentazione del presepe di Greccio Arnolfo di Cambio scolpì un presepe di eccezionale valore artistico. L’opera, conservata nella Cappella Sistina della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, per lungo tempo fu ritenuta la prima rappresentazione a tre dimensioni della Natività. E la sua fama oscurò i mosaici, gli affreschi e i bassorilievi realizzati in precedenza.
Le figure furono sistemate in un grande spazio, proprio all’ingresso del tempio. I fedeli che entravano nella grande chiesa si trovavano così subito coinvolti nella scena del presepe, al pari degli altri personaggi della rappresentazione. Solo tre statue originali sono giunte ai giorni nostri (San Giuseppe, il bue e uno dei Re Magi). Il pezzo marmoreo della Vergine fu sostituito nel ‘500 da un’altra scultura. Ma la posizione di un Magio in ginocchio e soprattutto la direzione del suo sguardo, ci fanno pensare che Arnolfo raffigurò la Madonna sdraiata sul fianco, secondo una tipologia altomedievale, con la testa rivolta verso il Bambino, adagiato sulla mangiatoia scolpita all’altezza del pavimento.
Un altro, antichissimo presepe, uno dei più grandi d’Italia, risalente all’ultimo decennio del XIII secolo, si può ancora ammirare a Bologna, nella Basilica di Santo Stefano. Le sculture in legno che compongono la “Adorazione dei Magi” sono a grandezza d’uomo. Furono scolpite da tronchi di tiglio e di olmo da un anonimo artista bolognese. Una teca a temperatura controllata elettronicamente, le protegge dall’umidità dopo un recente, ennesimo restauro. Rimasero prive di colore fino al 1370, quando il pittore bolognese Simone dei Crocefissi applicò il ritocco policromatico, in stile gotico. Il complesso di edifici di culto che comprende la chiesa, edificato in una delle più belle piazze della città, fu voluto da S.Petronio, ad imitazione del Santo Sepolcro. La ”Gerusalemme bolognese”, per secoli fu una tappa importante nei percorsi dei pellegrini che si recavano a Santiago de Compostela o che scendevano verso Roma per poi incamminarsi verso la Palestina. Così fecero fortuna le botteghe artigiane specializzate nell’arte sacra e molti scultori e ceramisti realizzarono le figure per i presepi nelle principali chiese cittadine.


Bologna, basilica di Santo Stefano. Adorazione dei Magi (1370) – (foto Giovanni Dall’Orto)
Dal secolo XIV la Natività è affidata all’estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell’ intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino,
Michael Pacher (1435–1498) pittore e scultore, indiscusso maestro del Quattrocento austriaco, ispirato dall’arte di Donatello ed Andrea Mantegna, realizzò uno straordinario altare gotico intagliato all’interno della chiesa di S. Wolfgang, nella regione di Salzkammergut: il suo “Trittico” che comprende una emozionante Natività, unisce la pittura e la scultura lignea con effetti sorprendenti.
L’arte presepiale abbandonò i simboli medievali. Ma trovò altri interpreti eccellenti.


Mantegna, Adorazione dei Magi, particolare. Galleria degli Uffizi, Firenze
Il presepe moderno ha una data e un luogo di nascita preciso: a Napoli, nel 1534, San Gaetano da Thiene allestì una grande rappresentazione con statuette lignee, abbigliate secondo la moda del tempo, presso l’Ospedale degli Incurabili. E nel 1627, nella stessa città, i padri Scolopi realizzarono il primo presepe mobile, a figure articolabili. La tradizione natalizia, in tutta Italia, passò presto dalle chiese alle case patrizie.
Nel Seicento, per le famiglie patrizie di Roma il presepe diventò un vero e proprio “status symbol”. Così anche Gian Lorenzo Bernini (1598 -1680) autore del colonnato e del baldacchino di San Pietro, del Palazzo di Montecitorio, delle splendide fontane del Tritone e di Piazza Navona, della statua di Apollo e Dafne e di decine di altri capolavori sparsi nella capitale, impiegò i suoi numerosi talenti per realizzare un presepe sfarzoso che gli era stato commissionato dai Barberini. Per l’occasione, ritrasse Antonio Emanuele, marchese di Funta nelle vesti di un Re Mago nero. Di quel presepe spettacolare si parlò a lungo.
Nell’età barocca, ricordava Giambattista Marino “È del poeta il fin la meraviglia…”. La massima si poteva trasferire anche a chi progettava nuovi e stupefacenti presepi. Diventati, nei secoli successivi, sempre più animati, fantasiosi e colorati. Ma sempre più lontani dalla umile e silenziosa Greccio di Francesco.
da: http://www.festivaldelmedioevo.it/portal/il-presepe/

martedì 26 dicembre 2017

Natale, "almeno oggi siamo buoni"

Natale, "almeno oggi siamo buoni"
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Natale, 'almeno oggi siamo buoni'

William Congdon, Natività 1965 (particolare)

"Almeno oggi siamo buoni!", diceva mia nonna il giorno di Natale, ogni volta rovinandomi il pranzo e facendomi andare su tutte le furie. Usare il Natale, alla fine, come pretesto per farmi il fervorino era davvero troppo. C'è voluta una vita per toccare con mano come la discesa di Dio tra gli uomini in forma umana ha, eccome, un nesso con la nostra capacità di amare. C'è voluta una vita, tante esperienze e tanti incontri. Come quello con il grande scrittore Giovannino Guareschi. Grazie al suo "Mondo Piccolo" ho tracciato nella mia mente un percorso che mi ha aiutato ad essere più consapevole di cosa significhi voler bene.
La prima tappa riguarda il contrario dell'amore. Che non è l'odio, ma è molto più frequentemente l'ideologia.
Nell'episodio "Il commissario", Guareschi racconta di come don Camillo si prodighi per distribuire ai poveri i pacchi alimentari portati dagli americani nell'ambito del piano Marshall. Per raggiungere anche i comunisti poveri coinvolge Peppone nell'iniziativa. Accade però che la federazione del PCI manda un commissario a controllare. Questi interviene in modo brutale, non solo strappando il pacco di viveri a uno dei più poveri comunisti, Stràziami, ma schiaffeggiandolo davanti al figlio. Così racconta Guareschi: «Il commissario federale attese per qualche istante una risposta che non venne. Poi, con estrema calma, sollevò i quattro lembi della tovaglia, li riunì, tolse il fagotto dalla tavola e, aperta la finestra, buttò tutto nel fosso. Il bambino tremava e si era messe tutt'e due le mani davanti alla bocca e guardava atterrito il commissario federale. La donna si era rifugiata contro il muro e Stràziami, lì in mezzo alla stanza con le braccia ciondoloni, pareva impietrito. Il commissario federale richiuse la finestra, si appressò lento a Stràziami, lo fissò qualche istante negli occhi, poi lo schiaffeggiò due volte. Un filo di sangue scese dall'angolo della bocca di Stràziami».
Che importa se la cosa più preziosa di Straziàmi, la sua dignità, è stata umiliata davanti a suo figlio? Non conta la persona, conta il destino collettivo deciso dall'ideologia, un sistema di pensiero astratto e contro l'uomo reale, in carne e ossa. 
Ma Giovannino mostra che questa stortura alberga in tutti, anche in don Camillo, il quale, in realtà, ha distribuito i pacchi alimentari più per propaganda che per amore al prossimo. E' il Cristo del crocefisso che mette don Camillo con le spalle al muro: «E anche quando dividi il tuo unico pane con l'affamato tu non devi gettarglielo come si getta un osso a un cane… Tu oggi hai fatto soltanto della beneficenza e neppure il superfluo tuo, ma il superfluo degli altri hai distribuito ai bisognosi e non c'è stato nessun merito nella tua azione. Eppure non eri umilissimo come avresti dovuto essere, ma il tuo cuore era pieno di veleno».
Straziàmi non accetta di perdere la sua dignità per un'ideologia astratta e disumana. In lui prevale la dignità e l'amore per suo figlio. Nel racconto successivo, dal titolo "Caso di coscienza", restituisce la tessera del partito in cui pur aveva tanto creduto: «"Questa non è più una tessera di partito ma un tesserino da vigilato speciale… La mia libertà me la sono pagata rischiando la pelle. Non sono disposto a rinunciarvi". "Tu tradisci la causa" disse Peppone. "La causa è quella della libertà. Se rinuncio alla mia libertà, allora sì tradisco la causa"».
E' il cuore di Straziàmi a suggerirgli in modo infallibile ciò che è vero e giusto. Alla fine, anche Peppone e i suoi scagnozzi si ribellano all'ideologia e scoprono che obbedire a ciò che la coscienza indica, è più giusto che obbedire al partito.
Un cuore umano che ritrova se stesso ha un sussulto inconfondibile. Come si vede ancora ne "Il commissario", Stràziami si commuove per il fatto che suo figlio può finalmente avere qualcosa da mangiare: «Ora il bambino di Stràziami, seduto alla tavola di cucina, stava contemplando con gli occhi sbarrati suo padre che, cupo e accigliato, apriva con un coltello la scatola di marmellata. "Dopo" disse la madre. "Prima la pastasciutta, poi il latte condensato con la polenta e poi la marmellata". La donna portò in tavola la zuppiera e cominciò a rimestare la pasta fumante. Stràziami andò a sedersi vicino al muro, tra la credenza e il camino e stette a rimirarsi come uno spettacolo il ragazzo che, con i grandi occhi, ora seguiva le mani della madre, ora guardava la scatola della marmellata, ora la scatola del latte condensato, come sperduto in mezzo a tutta quella allegria».
E così, da un cuore cambiato perché ha ritrovato se stesso, nasce, quasi spontaneamente, un impeto di amore puro, un gesto concreto, grande o piccolo non importa, fatto per contribuire al bene dell'altro. Come è diverso dal doverismo distratto! Non c'è amore vero senza l'impeto a donare sé, commossi, all'altro, come si vede in un altro racconto, "Il voto". Il figlio di Peppone è malato in modo serio e il padre lo porta segretamente in pellegrinaggio alla Madonna dei Prati. Don Camillo, colpito dal suo bisogno, non vuole lasciarlo solo in un momento così difficile, e così, commosso dal dramma dell'amico, lo accompagna: «Don Camillo scosse il capo: "Quo vadis, Peppone?". "Quo vadis dove voglio io e 'quo vienis' un accidente a voi e a tutti i clericali dell'universo!" ruggì Peppone. "Vado in un posto dove devo andare!". "Sta bene: e non ci puoi andare per la strada?". "No! No! Devo andarci per i campi. Per la strada non posso andarci. Io posso umiliarmi davanti al Padreterno ma non davanti ai preti e ai loro complici!". Don Camillo guardò la faccia sconvolta di Peppone. "Non parlo più", borbottò. "Andiamo". "Il bambino lo devo portare io". "Non occorre; piglia su in spalla quel ciocco: è più pesante del bambino e, anche se caschi, non si fa male. Io ho gli stivaloni e il bambino è al sicuro". Dovettero contarne quindici di chilometri, prima di arrivare».
Il cuore dell'uomo che ritrova se stesso e impara ad amare ha bisogno di una fonte che non si esaurisce per continuare il suo percorso, ha bisogno di essere oggetto di un amore infinito e senza condizioni, l'amore di un Dio che si fa uomo ed entra nella nostra umanità, "contagiandoci" l'uno con l'altro. Quello che riscoprono Peppone e don Camillo al termine dell'episodio citato: «Peppone entrò col suo bambino in groppa. La chiesa era fredda e semibuia e non c'era anima viva. Soltanto la Madonna dei Campi c'era, di vivo, e i suoi occhi guardavano dolci dall'alto dell'altare. Don Camillo rimase a far la guardia fuori dalla porta. Poi, per star più comodo, si inginocchiò su un sasso e disse alla Madonna dei Campi le cose che Peppone non avrebbe saputo dirle».

Le cose che hanno a che fare con l'unica vera bontà.


"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale"



"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale"

Intervista HuffPost a Massimo Cacciari: "Le omelie di molti preti, spesso, sono delle lezioni di anti religione"





ANSA
La parola del Vangelo l'ha ascoltata fuori dal tempio: "Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l'opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: 'Chi credete che io sia?'". Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: "Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione".
Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d'elefante, Marcuse, l'eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: "Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – "Quaderni Rossi", "Contropiano" – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche". Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: "Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto". Nel suo libro, "Generare Dio" (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell'incarnazione di Dio c'è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l'Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento.
Invece?
Quando l'Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall'angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull'ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina.
Nessuno se n'era accorto prima?
Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Baltasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio.
Cosa riesce a mostrare?
Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l'incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all'ascolto è in realtà un'iper libertà.
Perché iper?
Quando – nel giardino dell'Eden – Adamo mangia il frutto dell'albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s'interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell'altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall'amor proprio?
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l'oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?
Possiamo riuscirci?
Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s'incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l'anti cristiano Nietzsche: nell'impossibile.
Ma se è impossibile, perché provarci?
Perché l'impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L'impossibile è l'estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità.
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: "È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché dovremmo farlo?
Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo.
Come lo definirebbe?
Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d'Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell'ombra?
È tutto davvero così esposto?
Al contrario. Quella della trasparenza è solo un'ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell'apparenza, la nostra è l'epoca dell'occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d'ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l'oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell'anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato.
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c'è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere.
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo.
Anche il Papa?
Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l'etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l'assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti.
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
Perché anche loro – benché protagoniste dell'ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell'incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c'è oltre